SU SCUOLA E CULTURA
Giuseppe Genovese
C’est que la culture n’est, ni simplement juxtaposée, ni simplement superposée à la vie.
En un
sens, elle se substitue à la vie, en un autre elle l’utilise et la
transforme, pour réaliser une synthès d’un ordre nouveau[1].
(Claude Lévi-Strauss,
Les structures élémenataire de la
parenté)
Tutte le volte che si parla di scuola,
almeno ad un livello non tecnico, come vuole e non vuole essere questa
trattazione, si finisce per fermarsi all’istanza storica, determinata
dalle continue, imminenti e tragicomiche riforme (o presunte tali) che
si sono succedute con ritmo spasmodico nel nostro paese negli ultimi
quindici anni. È utile ricordare come nella storia dell’Italia
repubblicana vi siano state tre grandi riforme del sistema scolastico,
dovute ai ministri Berlinguer (1997), Moratti (2003), Gelmini (2008).
Prima d’allora il sistema scolastico era fondato essenzialmente sui
principi della vecchia riforma Gentile (1923, la più fascista di tutte
le riforme, secondo Benito Mussolini), che, seppur modificata e adattata
nel corso dei tempi ai tempi stessi, aveva un carattere tanto marcato e
saldo da aver determinato la formazione degli italiani per circa
settanta anni. Ad ogni modo il problema centrale dell’istruzione
pubblica, ancora probabilmente irrisolto, rimane immutato, ovvero la
conciliazione della formazione scolastica con il mondo del lavoro e
l’inserimento nella società produttiva. È proprio qui, se si vuole, la
principale motivazione di tanta mobilitazione negli ultimi anni, dopo
decenni di immobilismo: il cambiamento nell’assetto socio-economico a
livello globale, così accelerato dopo lo sfaldamento del blocco
comunista, il nuovo ruolo dei paesi europei e dell’Italia tra questi in
tale scenario, la de-nazionalizzazione della cultura imposta dalla
globalizzazione; tutte concause atte ad abbandonare l’idea di fondo del
vetusto impianto scolastico italiano (che comunque conserva ancora, con
qualche fatica, l’impronta neoidealista di Giovanni Gentile), per cui la
cultura, intesa peraltro come cultura classica, era un bene primario, a
fondamento della società, che dovesse in qualche modo distinguere anche
le classi sociali, identificandole con classi socio-culturali (da qui la
critica di Gramsci, che preveggendo l’inasprimento perverso di tali
distinzioni, sosteneva che «la riforma Gentile separa la scienza dalla
tecnica, il lavoro intellettuale da quello manuale»). Pare evidente come
difatti i cambiamenti introdotti mirino ad una sostanziale inversione di
tendenza nella scuola italiana, riavvicinando la cultura trasmessa dallo
stato ai giovani al mondo del lavoro; che poi oggi tutto ciò significhi
impresa, e non più fabbrica o terra, che siano le stesse aziende a voler
investire in programmi formativi a partire dagli Istituti Tecnici,
piuttosto che aspettare i diplomati come avveniva trent’anni fa, poco
interessa, sono i tempi, e si rischierebbe di divagare tremendamente
(quanto infruttuosamente) volendo affrontare il problema da questa
prospettiva. Il punto è che il ben noto argomento che vuole un
asservimento della scuola all’economia capitalista e globalizzata è
carente su due fronti: il primo è che non tiene in conto i concetti di
carattere teorico che stanno dietro certe scelte fatte negli ultimi
anni, motivandole soltanto con le esigenze dell’istanza storica; il
secondo è che spesso si assume una visione idilliaca della scuola di una
volta (senza ben precisare di quando), come se davvero l’istruzione
italiana avesse attraversato un’età dell’oro e soltanto poi (di nuovo,
quando?) fosse decaduta dal punto di vista economico, sociale e
strutturale, per infine andare in pasto ai voraci appetiti del nuovo
capitalismo. È chiaro che un’analisi più attenta vuole mettere l’accento
sulle incompletezze del modello sinora adottato, come su quelle proprie
di quello a cui si va, inesorabilmente, oramai incontro. Il ruolo
subalterno del lavoro rispetto alla cultura, oppure la preponderanza
pratica delle esigenze economiche che portano verso il primo rispetto
alla seconda, sono i concetti su cui si fondano le scelte fatte o non
fatte negli anni passati, ma non sono, da un punto di vista filosofico,
i principi a partire dai quali costruire il sistema dell’istruzione
statale: e questo è insieme il cuore ed il punto di partenza di tutto il
ragionamento che qui si vuole sviluppare. La dicotomia da risolvere al
fine di trovare un sentiero per costruire una sana istruzione di stato,
è senza dubbio quella tra teoria e pratica, tra scienza e tecnica. Si
può da un lato promuovere un sistema che crei insieme con il valore
astratto della cultura i suoi adepti. Ovvero che getti le basi per una
differenza sostanziale tra chi possiede la cultura e chi non la
possiede, e, più in basso, tra chi la possiede di più e chi la possiede
di meno. Questo modello è patologico, sostanzialmente perché tale
divisione scontenta tutti i membri della società: la parte che resta
incolta, assimilando però il valore della cultura finisce per provare la
frustrazione della privazione, e della susseguente subalternità,
inseguendo un ideale irrealizzato, con il peso della colpa della sua
irrealizzazione, il ché sancisce una divisione sociale; del resto non è
detto che la ricchezza si debba concentrare nelle mani di questa casta
dirigente privilegiata (di fatto non è così), che dunque accumula
frustrazione a sua volta, in quanto il presuntuoso pregiudizio di
superiorità sarebbe contraddetto violentemente dalla subordinazione
economica. Abbiamo dunque da un lato un gruppo sociale di detentori
della cultura borghese, ma economicamente sempre meno rilevante,
dall’altra quel gruppo formato da coloro che, abbandonata in parte o del
tutto la radice della cultura popolare, si incipriano falsamente di una
cultura borghese che non gl’appartiene, subita, mai posseduta; e costoro
di fatto costituiscono sempre più preponderantemente il ceto dirigente
(guardiamo come esempio a quel che vediamo in
tv: giornalisti, esponenti
della classe politica e dirigente del paese, non brillano spesso in
cultura; eppure, in virtù di ciò, si offendono l'un l'altro dandosi, pur
giustamente, dell'ignorante: la cultura assume valore totemico, sempre
irrealizzato). Questo è il frutto maturato nei tempi, la cui paura
muoveva le critiche previdenti di Gramsci, prima, e di Pasolini, poi.
Del resto il modello di istruzione che gli si oppone al momento è
effettivamente un asservimento della educazione dello stato alla
formazione dell’azienda, laddove il valore della cultura è soppiantato
da quello della produzione, e si perde se si vuole la struttura fine
della separazione tra classi sociali culturale ed economica, in quanto
la prima è relegata ai margini della società, conservata (male) più per
una sorta di rispetto verso l’ideologia passata che per un reale
convincimento teorico. Allo stato moderno interessa oggi formare
individui che bene si inseriscano nelle dinamiche produttive
dell’economia (ed è forse questo, paradossalmente, anche l’inizio del
disfacimento della struttura statale, proprio a partire dalla scuola,
dalla formazione dei giovani). Ora la domanda è se esiste una terza via,
alternativa all’asservimento di un aspetto della vita rispetto
all’altro, che invece li concili, creando una struttura sociale ed
economica, prima ancora che culturale, tale da supportare ed incentivare
la coesistenza di individui con diverse abilità, ma pari dignità. È
chiaro che tale problema è in realtà equivalente al trovare una
definizione stessa di cultura, o cultura di stato, come un insieme di
valori davvero condivisi.
Si capisce che poi la cultura deve
essere trasmessa in modo ponderato durante l'intero ciclo di istruzione,
che deve essere pensato in modo tale da adattarsi alle esigenze delle
diverse classi sociali, ovvero di chi è destinato alla prosecuzione
degli studi in modo sempre più approfondito e specialistico, e di chi
invece entrerà subito nel mondo del lavoro (e che invece siamo abituati,
da nord a sud, a etichettare come incolto). Basta del resto guardare i
programmi ministeriali della scuola dell'obbligo od anche del liceo e
degli istituti tecnici, per accorgersi di come ciò non sia realizzato
neanche per il sistema culturale vigente, e criticato. Avviene infatti
che l'istruzione delle scuole elementari e medie, anche se trasmessa nel
modo ideale, non supplisce in nessun modo a quelle che sono le esigenze
minime dei nostri standard culturali. Ovvero la scuola dell'obbligo
forma individui che siamo portati a considerare non solo culturalmente
inferiori, ma quasi privi di cultura, ed irrimediabilmente tendiamo a
relegare ai margini della società (o almeno vorremmo). Dopodiché i licei
fanno il resto: in particolare il liceo scientifico è pensato in modo da
non approfondire il tratto culturale umanistico al fine di trasmettere
un educazione scientifica velleitaria e inesistente. Basti pensare che
comunque il totale delle ore di materie scientifiche nel corso del
quinquennio è inferiore a quello delle umanistiche; è previsto poco
l'uso del laboratorio (al di là della eventuale fatiscenza delle
strutture), i programmi di matematica, fisica e biologia sono mal
strutturati, approssimativi (sono pensati, ancora in ottica
“Gentiliana”, come se si potesse insegnare la fisica come si insegna la
storia). In definitiva il liceo scientifico non trasmette la cultura
scientifica, che per l'impostazione vigente non è considerata cultura,
ma non trasmette neanche quella umanistica, chiaramente. Migliore è la
situazione degli istituti tecnici e professionali, i quali sembrano
essere in linea di principio più formativi, eppure sono soggetti (alunni
e professori) alla classificazione di rango inferiore, come scuole
facili, per coloro che non hanno voglia di studiare. Vale il principio
che tradurre dal greco un classico è un arte più fine per l'uomo che
misurare l'acidità di un terreno, capire come funziona un telefono, o un
computer, risolvere un problema di matematica, et cetera. Questo
principio è pericoloso e va combattuto in quanto tale.
Dunque i passi principali al fine di una
riforma strutturale del sistema di formazione sono un riequilibrio del
valore morale della cultura del lavoro, della scienza, della tecnica,
rispetto alla cultura tradizionale, per fornire poi una trasmissione
uniforme e completa al fine di educare il cittadino, già ai livelli
minimi previsti dal programma di istruzione. Ovvero il livello di base,
la scuola dell'obbligo, deve avere la funzione primaria di formare la
coscienza culturale dell’individuo, dandogli le conoscenze chiave che da
un lato lo inseriscano a pieno nella società che vive, dall'altro gli
permettano di poter approfondire gli aspetti che egli stesso riterrà
importanti da autodidatta, rendendolo libero di intraprendere un
percorso culturale proprio, a partire dalla cultura condivisa della
comunità. Allo stesso modo, agli studi superiori, che siano umanistici,
tecnici o scientifici, lo stato affida la formazione della coscienza
critica di chi sceglie, attraverso il proprio operato nella società, non
solo di vivere come parte della cultura condivisa, ma agire di
attivamente e direttamente in prima persona al fine primario di
cambiarla, svilupparla, arricchirla.
Tutto ciò resta ancora indefinito:
riorganizzare i cicli di istruzione, alzare l'età dell'obbligo, cambiare
i programmi, incentivare le strutture, valorizzare il ruolo
dell’insegnante, sono tutti problemi concreti, irrisolti, ma, dal punto
di vista che si adotta qui, secondari. Il primo passo è di natura più
ideologica: trovare un'identità culturale unitaria, condivisa, reale,
una sintesi tra le diverse anime di cui è composta la nostra comunità,
che poi possa esser trasmessa in un modo nuovo, che potremmo poi
discutere in un secondo momento.
La valorizzazione del lavoro da un punto
di vista culturale è di fatto equivalente ad una valorizzazione sociale
e civile della cultura in sé, una rivoluzione nel nostro modo di
pensare, radicale, non marginale, il principio di un cambiamento reale,
dal basso, della società.
LUGLIO 2012
[1] «La cultura non è semplicemente giustapposta o sovrapporta alla vita. In un senso, essa si sostituisce alla vita, ma, in un altro, essa l'utilizza e la trasforma, per realizzare una sintesi di livello diverso».Trad. della Redazione