Cosa sognano i ragazzi?
Un
dialogo con alcuni giovani professori
A cura di Giulio Trapanese
Napoli, Luglio 2012.
Una conversazione con Mario Autieri, Pia Pucci e Giovanna
Callegari, insegnanti, a diverso titolo, di ragazzi di scuole
superiori di Napoli e provincia.
Giulio:
Come redazione della rivista nutriamo il desiderio di
approfondire il tema della condizione di vita dei giovani di
questi ultimi anni. E per questo abbiamo creduto di poter
contare sul vostro aiuto, dal momento che negli ultimi anni
avete insegnato a scuola e siete stati a stretto contatto con
almeno alcuni di questi. Quello che crediamo è che osservare i
giovani significhi in un certo senso osservare il futuro che si
sta venendo a creare. Le persone giovani della fascia di età
scolastica assorbono in un modo incredibile i tratti del
presente che stiamo vivendo. In verità questa riflessione è
sulla scia di una più ampia che stiamo compiendo come rivista, e
che riguarda, più in generale, la rivoluzione antropologica
avutasi con l’insediarsi delle nuove tecnologie nella nostra
vita, in particolare con quella della rete di internet. Noi
siamo in qualche modo convinti che il cambiamento sia stato
tanto rapido, quanto complicato da provare ad essere compreso.
Se è vero, infatti, che ci sono tanti studi critici relativi a
quello che sta avvenendo, e alla trasformazione di tanti aspetti
della vita a causa dei nuovi mezzi di comunicazione fra gli
uomini, è però vero che, essendo un processo in cui siamo
dentro, ci risulta difficile determinare la portata del
cambiamento in atto. Noi abbiamo una rubrica sulla rivista che
si intitola Esperienza e
rappresentazione, che è l’espressione di un piccolo gruppo
di ricerca, che sta tematizzando la trasformazione
dell’esperienza in conseguenza dell’accelerazione impressa alla
vita negli ultimi anni, e del tratto di smaterializzazione delle
relazioni umane in genere.
Per quanto non
sappiamo bene cosa stia accadendo, ci teniamo, tuttavia, a
segnalare la profondità del cambiamento. Dunque, alla luce di
ciò, porre domande ai giovani, parlare con loro, e, al tempo
stesso, confrontarsi con chi quotidianamente dialoga con loro, è
per noi modo di ricercare attorno a questo tema. Porci delle
domande, andare alla ricerca dei significati che si stanno
andando formando oggi, significa operare una ricerca sul mondo,
ricerca che è, d’altra parte, un passo necessario alla
trasformazione di questo.
Ho creduto di
intitolare questo nostro incontro “Cosa sognano i ragazzi?”…
Pia: Ah è cosa sognano? Non “Cosa sono i ragazzi?”
Giulio: Beh, quello che sognano è quello che sono. No, comunque quando vi ho
scritto per convocarvi, ho intitolato l’incontro “Cosa sognano?”
Giovanna: Io addirittura avevo letto “Che cosa pensano?”
Giulio: Ah quindi nessuno aveva letto il titolo giusto fra voi?
Mario: No io avevo letto “Cosa sognano i ragazzi?”
Giulio:
In ogni modo l’abbiamo intitolato “Cosa sognano i ragazzi?” per
tagliarlo di più sull’aspetto dell’immaginazione e
dell’immaginazione intesa come soggettivazione. L’ultima cosa
che vi dico per introdurre riguarda un ulteriore elemento. La
riduzione dell’esperienza del sogno, come indice
dell’aspettativa e della speranza, mi sembra un tema chiave per
l’oggi. Lo possiamo declinare in tanti modi diversi, perché
possiamo coglierlo rispetto al momento contingente della crisi e
della perdita di fiducia nel futuro, ma io ritengo abbia un
significato antropologico ben più complesso. Oggi evidentemente
la frattura dei livelli di appartenenza procura anche la
riduzione della proiezione di sé nel futuro. E quindi
l’appiattimento sull’esperienza quotidiana, presente, riflette
questo assottigliamento.
Io quindi
comincerei direttamente da quest’aspetto del sogno. Pur non
insegnando a scuola, infatti, ho fatto diverse lezioni a dei
ragazzi, così come in genere provo ad osservarli quando ne ho
l’opportunità. Ad esempio, quindi, sul sogno, mi sembra ci sia
un cambiamento qualitativo decisivo negli ultimi dieci-quindici anni...
Pia: A questo proposito ti chiederei quando credi che ci sia stato questo
cambiamento? Hai un’idea temporale di questo cambiamento? Perché
io credo che quello che riguarda gli adolescenti riguardi
assolutamente anche quelli più grandi; per certi aspetti non
ritrovo siano grandi le differenze. Come se all’improvviso fosse
successo qualcosa che ha riguardato gli individui dai quindici
anni ai cinquanta, per quanto, chiaramente, con delle
specificità.
Giulio: Per quanto individuerei una fase di cambiamento lunga, risalente almeno
ad un mezzo secolo, in cui farei rientrare pienamente la
televisione, per la nostra discussione mi concentrerei
soprattutto sugli ultimi quindici anni, che sono stati
caratterizzati dal passaggio ulteriore di internet e delle nuove
forme di condivisione costituite dai
social network, dalle
chat, dagli spazi
virtuali, insomma dell’istantaneità introdottasi nella
comunicazione a distanza fra le persone.
Pia: Certo, credo che questa istantaneità delle cose le abbia cambiate…
Giulio: Le ha cambiate magari solo accelerando un processo già in atto... Direi
dunque di concentrarsi sugli ultimi dieci anni. Un ragazzo che
oggi ha quindici anni, infatti, è completamente dentro questa
nuova fase; ad esempio, il suo apprendimento della scrittura è
stato già mediato dalle nuove forme di comunicazione
informatica.
Pia: Ma il sogno? In che senso lo poni in relazione a queste trasformazioni?
Giulio:
Questa associazione è tutta da dimostrare. Tuttavia io proverei
a stabilire questo tipo di associazione. Aggiungo un ultimo
elemento. Nel gruppo di ricerca
Esperienza e rappresentazione, c’è chi, da laureato in psicologia,
ha stabilito una connessione fra sogno in quanto elemento
fisiologico (il sogno della fase rem, per intenderci) ed
esperienza dello schermo. Si è posto il problema, cioè, di
considerare come cambi il modo in cui sogniamo in relazione ad
un’esperienza dello schermo e del videogioco, in particolare,
nelle ore che precedono il nostro sonno notturno. Sembrerebbe,
infatti, che il sogno, in questi casi, presenti una
sovrapposizione confusa di immaginazione interna ed immagine
esterna, mostrandoci una sovrapposizione fra l’esperienza
percettiva esterna e quella relativa al sogno. In un certo
senso, la prima tenderebbe a soppiantare la seconda. Sognare di
essere parte del video gioco, ad esempio, e di continuare a
giocare sognando, costituirebbe un’esperienza tipica per molti
soggetti che in tal modo vivono una certa identificazione
inconscia con quello che percepiscono nello schermi. Tutto
questo è interessante perché rivela in modo chiaro una parte
della nostra mente che non è sempre visibile, vale a dire la
nostra parte inconsapevole o quella che io chiamerei di
identificazione percettiva inconsapevole con il mondo.
Mi sembra
questa una suggestione assai interessante.
Tuttavia,
quando io, invece, vi chiedo del sogno, mi riferisco ad esso in
quanto aspettativa, chiaramente non in quanto sogno fisiologico.
Pia: Io credo sicuramente ci potremmo trovare tutti sul fatto che
l’aspettativa e il sogno sono ridotti oggi ormai, più o meno, ad
un mutuo o all’aspettativa di un lavoro fisso,
Giulio: Cioè alla speranza di trovare una sistemazione?
Pia: Sì parliamo della paura di non sapere cosa accadrà, e quindi della
necessità di inserirsi in qualche modo nella società, la qual
cosa poi certamente determina tutta una serie di fatti e paure.
E poi direi un gran bisogno di sicurezza
Giulio: E questo lo vedi come una condizione che interessa un po’ tutta le
scuola in cui sei stata ed è quindi trasversale alla provenienza
dei ragazzi?
Pia: Sì, assolutamente sì. Non credo certo che i ragazzi non sognino proprio
più. Questo ovviamente no, però la prima cosa che viene in
mente, almeno a me, è sicuramente questo appiattimento verso il
discorso della sicurezza. Trovare un cantuccio nel mondo.
D’altra parte anche la maggior parte delle battaglie che fanno i
ragazzi, si pongono tutte su di un piano di rivendicazione di
diritto.
Giulio: Nel senso del diritto al lavoro, il diritto all’istruzione, etc.?
Pia: Sì, io sento molto questa cosa; sicuramente è una riduzione notevole
della capacità di rischiare qualcosa della propria esistenza.
Come se in qualche modo ci si trovasse già in una condizione di
rischio. I ragazzi sono già a rischio, a rischio di non avere
lavoro; dunque, se non ho alcuna sicurezza, non metto in conto
di dare qualcosa in più per tentare di raggiungere qualcosa di
completamente altro. Per questo si privilegia l’inserimento in
canali che possano portarti in qualche posto già conosciuto.
Questo è l’elemento trasversale. Solo forse qualcuno della
nostra generazione si pone in modo un po’ critico, e magari fa
della precarietà anche una possibilità e non solo una condanna
esistenziale.
Mario: Io, in verità, come dato di esperienza diretta posso notare che nella
fascia generazionale con cui vengo a contatto la cosa che balza
agli occhi è un’enorme frattura tra il breve tempo in cui loro
sono a contatto con loro come professore e il resto della loro
vita. C‘è un grande scollamento fra quelli che loro pensano sia
la vita e quello che sono obbligati a fare nel sistema in cui si
trovano: la scuola. Scollamento fra sistema dei saperi
istituzionali e quelle che credono sia le vere esperienze della
vita. Già questa costituisce un’enorme frattura. All’interno di
questa viene fuori il fatto che loro si sono trovati a crescere
in un sistema che li ha posti da subito in un mondo di
comunicazione generalizzata, e questa comunicazione ha influito
sul modo in cui loro si pongono nella vita. Ad esempio, questa
comunicazione generalizzata che li coinvolge fuori e dentro la
scuola, questa comunicazione, è appiattita su di una
quotidianità di massa molto ben definita. Nei modelli dei media
tu hai a che fare con una serie di identità molto ben
strutturate. Intendo dire che il loro bagaglio di esperienza è
chiaramente filtrato da internet e dalla
tv. Si trovano di
fronte a tutta una serie di identità professionali o
esistenziali ben strutturate. Quando parli con loro di quelle
che sono le loro aspettative del futuro, i ragazzi si
riferiscono alla figura scientifica, per come è stata filtrata
dalla televisione. Ma il modello può essere anche il medico di
una serie televisiva, così come l’imprenditore apparso in
televisione. Questo comporta che avendo identità già ben
strutturate, i ragazzi non riescono a capire come si arriva a
costruire questa identità, non arrivano a capire come fare per
arrivare a quel punto.
Giulio: Tu dici che i modelli si impongono direttamente sulla loro coscienza…
Mario: Esattamente, quello che a loro manca completamente è la percezione di
cosa ci sia dietro questa identità. Noi che proveniamo da un
altro tipo di esperienze e che proviamo a fare loro capire cosa
può significare costruirsi un’identità e cioè la fatica del
lavoro e della propria formazione personale per arrivare a
costruirsela. Questo tipo di lavoro non viene percepito da loro.
Allora proprio perché c’è questa frattura dei saperi, i ragazzi
non s’immaginano che quello che sono obbligati a fare tutti i
giorni sia funzionale esattamente a questo obiettivo. Credono
piuttosto di avere dei modelli già pronti e questi non hanno
nulla a che vedere con quello che loro fanno a scuola.
Pia: Fammi capire meglio, secondo te c’è un collegamento fra le due cose? Io
non credo che però possiamo imputare loro questa colpa...
Mario: Anche io non credo che sia colpa loro, però c’è da impostare una
riflessione su quello che il sistema dei saperi offre a questi
ragazzi. Non imputo a loro una responsabilità particolare per il
fatto che avvertono estraneo questo sistema dei saperi.
Giulio: Io credo che questo rifletta una realtà oggettiva.
Mario: Esattamente, secondo me riflette questo. Allora questo tipo di
scollamento è da imputare non alla loro superficialità, ma al
fatto che noi non siamo più in grado, come sistema, di formare
il loro modo di rapportarsi alla realtà. Quindi non esistono più
mediazioni. Ognuno sta abbarbicato sulla propria esperienza, per
cui io continuo a lamentarmi del fatto che nessuno sa più
tradurre dal greco, e non mi interrogo se deve ancora essere
veicolato in questo modo il loro rapporto con questo tipo di
tradizione istituzionale.
Giulio: Mario, tu mi porti subito ad un tema che avrei voluto introdurre dopo,
ma credo ne possiamo benissimo parlare adesso. Perché oggi
insegnare a scuola significa svolgere della formazione in un
luogo necessariamente marginale rispetto al sistema che
realmente oggi forma i valori su scala di massa. Oggi come
professore trascorri alcune ore in una classe, però poi dopo le
forze che agiscono sulla coscienza di queste persone come
modelli e, dunque, come formazione di senso, sono decisamente
più grandi e potenti di quanto possa fare tu in classe.
Mario: Sì io penso che effettivamente le cose stiano così…
Giulio: Sì, diciamo allora che rispetto agli anni sessanta in cui il professore
era, nel bene e nel male, il tramite tra te ed un sistema
culturale, la differenza è qualitativamente significativa.
All’epoca magari potevi anche rifiutare quel modello
dottrinario, ma comunque quello incarnava una figura non
ignorabile.
Mario: La mediazione funzionava ancora allora…
Giulio: Ho l’impressione che oggi il professore venga considerato dai ragazzi in
modo simile ad un funzionario delle poste, cioè come un semplice
lavoratore che offre un servizio, ad esempio, spiega, fa la sua
lezione, mette i voti. Quando poi tu studente esci dall’aula, la
vita vera ed anche la cultura del mondo è tutt’un’altra cosa.
Perché tu, invece, Pia fai cenno con la testa che non sei
d’accordo?
Pia: Quello su cui credo di non essere d’accordo è la marginalità di cui
parli rispetto alla scuola oggi. Però forse avrei bisogno di
capire meglio cosa intendi. Io vedo la scuola oggi, come mai,
una fabbrica di consenso. Quello che è oggettivamente cambiato
negli ultimi anni riguarda l’organizzazione del sistema
scolastico, perché le ultime riforme vanno nella direzione della
determinazione per numeri, crediti e debiti.
Giulio: Ti riferisci al criterio della misurabilità…
Pia: Sì, la misurabilità, l’efficienza, insomma interessa tutto, fuorché
quello che effettivamente accade in classe. Fondamentalmente ciò
che conta oggi in una scuola è quanti
pof o
pon hai fatto, o
quante altre attività collaterali fai. Quello che fai in classe,
a meno che non sia quantificabile, invece, non interessa a
nessuno.
Giulio: Non interessa più il significato dell’esperienza dell’apprendimento e
quella dello stare in una classe.
Pia: In questo quadro generale di efficienza, il sistema scuola non è
marginale rispetto al resto, la scuola va esattamente nella
direzione in cui sta andando la società. In questo senso direi
che non è affatto marginale, la scuola fa quello che deve fare.
Ha un ruolo ben preciso e, da questo punto di vista, lo compie
nel migliore dei modi.
Giulio: Sì io però non intendevo marginale nel senso di essere in opposizione al
tipo di sistema entro cui si trova, marginale in quanto non è il
più centro di trasmissione della cultura...
Mario: Sì in effetti credo che le cose che dite non sono in contraddizione.
State dicendo in pratica la stessa cosa, prendendola da punti
diversi.
Giulio: Sì è vero, credo anche io che sia così…
Mario: Cioè, la scuola è marginale rispetto alla produzione di significati,
cosa che ancora faceva la scuola del passato. Oggi la scuola si
è appiattita su un ingranaggio che funziona esattamente come il
sistema esterno alla scuola. Si collega con quello che dice
Giulio perché non è più un luogo di produzione di significati,
ma veicola dei significati che vengono strutturati al di fuori
della scuola, e di cui la scuola è un tramite di diffusione.
Pia: Direi allora che lo scollamento che esiste, esiste non nel senso che la
scuola produce qualcosa di diverso. D’altra parte, per diventare
medico basta la funzionalità del sistema, serve essere veloce,
efficiente e produttivo; vale a dire laurearti con 100 e andare
avanti dritto per la tua strada senza perderti e senza perdere
tempo. In questo senso la scuola ti insegna l’efficienza, il
criterio del successo.
Giulio: D’altra parte è vero che nel metodo dell’insegnamento e in quello della
didattica, ci sono elementi in grado potenzialmente di fare
attrito con il regime impostosi all’esterno della scuola, i
quali, tuttavia, per via della marginalità dell’esperienza della
scuola sono poca cosa, e non riescono a costituire una
resistenza effettiva. Oggi, ad esempio, se tu vai a chiedere di
fare una ricerca in una classe, cosa che si faceva anche
quaranta anni fa, oggi ciò significa spingere i ragazzi ad
andare su internet e, dunque, situarsi all’interno di una rete,
quella di internet, che di per sé incarna un certo determinato
modello di intelligenza e di funzionamento mentale.
Mario: Il motivo per cui sono d’accordo con te quando dici che la scuola è
marginale, è che la scuola si limita ormai a seguire a ruota i
cambiamenti che accadono e le identità che ne conseguono. Essa
veicola qualcosa che non le appartiene più direttamente. E
questo è il motivo per cui la scuola non ti fa più capire come
si arriva a costruire un’identità, che, in soldoni, vuol dire
che quando tu chiedi di fare una ricerca, lo studente si trova
praticamente abbandonato di fronte al mezzo, mentre, d’altra
parte, nel suo spazio scolastico non acquisisce alcun tipo di
competenza che gli permette di fruire in maniera critica di
tutto il sistema comunicativo che ha di fronte. Così lo studente
riesce ad impacchettare il prodotto, perché lui è a conoscenza
di quale sia l’aspetto finale del lavoro, ma non ha più idea
tuttavia, di quale siano i contenuti presenti all’interno di
questo prodotto. La scuola viene meno su questo piano, proprio
perché funziona troppo bene per il sistema. Non ti dà, infatti,
ormai alcun tipo di strumento per capire cosa significa
strutturare un’identità.
Giulio: Questo è vero.
Pia: Io tuttavia su questo non vedo una grande differenza rispetto al
passato. Non penso che rispetto al passato la scuola sia molto
diversa…
Giulio: Io credo, ed è quello che avrei voluto dirti già prima, che la
differenza di oggi rispetto a ieri, riguarda il ruolo e la presa
del simbolico, la quale oggi è di gran lunga inferiore rispetto
al passato.
Pia: Beh, il simbolico in effetti non esiste più. Sicuramente c’è un
cambiamento rispetto al passato nel senso che oggi abbiamo
raggiunto livelli estremi. Oggi la scuola ha perso completamente
un suo senso storico.
Giulio: In che senso dici così? Avevo infatti intenzioni di farvi una domanda su
questo…
Pia: Credo che ci siano sempre, a scuola, come ovunque, delle possibilità.
Anzi, la scuola oggi lascia a noi insegnati effettivamente spazi
di libertà grandissima. Tuttavia quello che voglio dire è che un
sistema, come quello della scuola, che si pone esplicitamente
come obiettivo quello dell’efficienza, e se lo pone assumendo lo
studente come cliente da assecondare, è un sistema che ormai ha
perso il suo senso originario. Detto questo, vorrei anche
aggiungere che il problema della scuola non riguarda forse i
ragazzi, ma, piuttosto, la qualità degli insegnanti. Non è una
cosa secondaria. C’è nella scuola un concentrato di tutte le
sfaccettature possibili della disperazione. La disperazione di
chi lavora in queste strutture scolastiche senza avere la
preparazione, o la volontà necessarie. I ragazzi, pur volendo,
non potrebbero cambiare molto. Per questo, secondo me, è
difficile fare un discorso sui ragazzi della scuola non
considerando l’altro piano del discorso, quello che riguarda la
preparazione e la motivazione dei professori. Che cosa è
diventata, infatti, la scuola oggi? La scuola è un luogo di
frustrazione generalizzata, abitata da persone che non potevano
probabilmente fare altro, e che dunque si sono “accontentate” di
questo tipo di lavoro. Non possiamo dimenticarcelo, soprattutto
se parliamo di una scuola come quella italiana. Perché questa si
è fondata sulle mogli dei professionisti che non potevano
dedicarsi nel lavoro che a questo. Se incontro ancora la
speranza nelle scuole che frequento, la incontro proprio nei
professori di vecchia generazione, quelli che stanno alle soglie
della pensione. Per la maggior parte dei professori, infatti, i
ragazzi stessi sono trasparenti. La scuola è un luogo per loro
di deresponsabilizzazione totale. Perché alla fine tu a chi devi
dare conto?
Giulio: Ma d’altra parte a chi potresti mai dare conto?
Pia: Sì, aspetta, non sto dicendo questo, infatti. Per me non dovresti dare
conto a nessuno, perché è chiaro che sarebbe gravissimo il
contrario, cioè il sistema di controllo sui docenti. Però sta di
fatto che non dai conto a nessuno del modo in cui agisci, anche
tu professore ti trovi in uno stato di eterna adolescenza.
Questo, tuttavia, non inficia il fatto che puoi riuscire anche a
fare delle cose meravigliose, per cui la scuola comunque è per
me un posto meraviglioso. Certe volte ti chiedi se possa
esistere un lavoro più bello. Forse soprattutto per i precari,
no; quelli di ruolo mi sembrano già tutti più inquadrati e
stanchi.
Giulio: Ma quanto si riesce a vedere, al di là dell’alunno che si ha davanti, il
ragazzo, cioè il giovane adolescente che vive una condizione
complessa, impegnato a crescere? Loro stessi riescono ad aprirsi
a farsi vedere da voi in classe?
Mario: Si sì ci riescono. Secondo me riescono molto in questo. Io credo di
avere un confronto molto esplicito con i ragazzi, che riesco a
costruire anche per via del mio carattere. Collegandomi a quello
che dice Pia, io aggiungerei che io vivo la mia condizione di
precario, proprio in questo senso, cioè nel senso di
interpretare controcorrente la condizione di insegnante. Non
sentendomi, infatti, parte di questo sistema, trovandomene al
limite, mi permetto di fare del lavoro qualcosa di poco
funzionale all’idea dominante di scuola. Questa condizione mi
consente ...
Giulio: ...di stare fuori dalla classica contrapposizione fra insegnante e
studenti.
Mario: Sì, è come se pretendessi di avere un occhio dentro ed uno fuori, perché
in fondo non mi sento parte integrante del “sistema scuola”.
Forse anche per questa ragione i ragazzi arrivano a confidarmi
di sentire un profondo senso di estraneità rispetto ai miei
colleghi all’interno della scuola, e nei confronti di quello che
loro sanno che è il loro dovere imposto dalle famiglie, dalle
leggi, dalla routine della quotidianità. Lo scollamento, di cui
dicevo prima, è una cosa che io vivo proprio attraverso la
manifestazione dei loro sentimenti…
Giulio: Ascolta, ma tu, al di là dell’età che hai, quanto riesci a sentirti
vicino alla loro condizione generazionale? Alla loro età, quanto
eravate come loro? Io ad esempio, dai ragazzi, a cui ho fatto
lezione, mi sento molto lontano, per quanto non abbia più di
dieci anni di differenza.
Mario: Io, ad esempio, mi sento molto lontano, perché io ho fruito di un
sistema completamente diverso.
Giulio: Cioè, in che senso?
Mario: Io ho vissuto una scuola che mi ha insegnato esattamente quello che
dicevo prima, cioè come si costruisce un ‘identità, e la fatica
che c’è dietro la ricerca di una identità. Io ho vissuto un
modello di scuola estremamente positivo.
Giulio: In che senso positivo?
Mario: Positivo nel senso che mi ha permesso di sviluppare un rapporto molto
critico con la realtà. Io ho vissuto con gente che era
consapevole della criticità del proprio ruolo educativo, e che,
anche se mi ha insegnato una criticità ben determinata (ad
esempio il mio vecchio professore marxista), io sono stato in
grado di fare di quel tipo di identità quello che ne volevo,
avendomi fornito un certo numero di strumenti di interpretazione
del mondo.
Giulio: Invece, rispetto all’identità che riesci ad esercitare su di loro come
professore, credi ci sia ancora un’autorità che sei in grado di
esercitare?
Mario: No, su questo devo ammettere che io stesso faccia fatica ad esercitarla.
Ammetto che da questo punto di vista le cose ti sfuggono da
molte parti, perché d’altra parte hai a che fare con qualcosa
che è molto più grande di te. Cioè, tu non pensi di poter
cambiare molto il modo in cui un ragazzo sta venendo su. Questo
l’avverto con chiarezza, e questo è legato ad un profondo senso
di impotenza. Non riesci più veramente ad avere un ruolo attivo
nella loro formazione.
Giulio: E questo lo legheresti anche al discorso di prima, relativa a quanta
parte ha la scuola oggi nella formazione di un ragazzo di oggi
rispetto a quanta ne ha invece tutto il resto?
Mario: Sì credo di sì.
Giovanna: Io volevo intervenire su una cosa, per quanto io viva
un’esperienza un po’ diversa, non avendo mai insegnato a scuola,
ma avendo seguito degli alunni solo privatamente. E infatti io
ho una prospettiva molto diversa, rispetto a quella che stavate
raccontando. Io mi trovo ad andare nelle famiglie di questa
persone, e così facendo mi accorgo che c’è stato un cambiamento
profondo nella scuola. Ma parallelamente osservo anche un enorme
cambiamento relativo alla famiglia. Io che vado a fare lezione a
casa dei ragazzi, paradossalmente mi sento invece molto vicina a
loro, perché avverto che ci sono delle dinamiche che non sono
poi così cambiate, rispetto a tutto quello che questi vivono nel
periodo dell’adolescenza: l’amore, l’amicizia, e tutto il resto
delle cose che vivevamo anche noi. Quello che, invece, sento
come differenza è la separazione molto netta tra la questione
del sogno e quella del contesto formativo. Quando si parla di
sogno l’elemento fondamentale che resta tuttora è la differenza
sociale che sussiste fra le diverse famiglie. Sì è vero che c’è
una corsa da parte di chi vuole realizzare un sogno, ma è pur
vero che per me quello non si può chiamare più sogno. Il sogno
ha piuttosto il senso di attrezzarsi per riuscire in quello che
i ragazzi vorrebbero fare da grandi, secondo un modello magari
veicolato dai media. Ad esempio vogliono diventare medico? Non
considerano proprio l’importanza della formazione che stanno
ricevendo a scuola. Vanno su internet, si industriano nel vedere
le università migliori dove potranno andare, o addirittura si
vanno a vedere i video su
You Tube. Io, ad esempio, vado a fare lezione da una ragazza
che vuole diventare medico e lei ha già cominciato ancor prima
di finire la scuola, almeno due anni prima, a prepararsi per i
test d’ingresso a medicina, partecipando, inoltre, agli incontri
organizzati dall’università di medicina un anno prima per la
visione dei test. Oppure si connette su internet e si vede i
video su You Tube
delle operazioni in diretta. Altro esempio, invece, un’altra
ragazzina vuole diventare nutrizionista, e non gliene frega
proprio di quello che a scuola le stanno passando. Si va ad
informare su tutt’altri canali. Se vogliono realizzare un sogno,
le persone a cui faccio lezione io, si attrezzano in modo
completamente diverso per realizzare quello che, tuttavia, non è
più un sogno. Non è un sogno perché non è un qualcosa che
tenteranno di fare comunque. Se ci provano è su basi molto
solide, su basi che però loro ritengono non sia la scuola a
dargli. Un altro discorso parallelo invece riguarda tutti quelli
che ambiscono a realizzare qualcosa che va completamene
controcorrente dell’immaginario dei propri genitori. Molti dei
genitori di questi ragazzi credono ancora che si possa diventare
avvocati, medici, professori.
Giulio: ...Che si possa, insomma, trovare un lavoro stabile.
Giovanna:
...e quindi spingono il ragazzo o la ragazza a fare questa o
quell’altra cosa. I ragazzi, invece, vorrebbero realizzare dei
sogni molto più semplici, vorrebbero fare delle cose che, in
realtà, sono semplicemente poter fare qualcosa per disegnare, o
scrivere o avere un posto per stare tranquilli e farsi una
famiglia. C’è quindi anche un dislivello fortissimo fra i sogni
della famiglia e quello che i ragazzi vorrebbero fare e che
considerano possibile per via, anche, dei nuovi mezzi di
comunicazione. Loro, ad esempio, sanno che potrebbero diventare
anche disegnatori in qualche studio di architetto o di moda, la
qual cosa, però, contrasta con l’immaginario sociale che ancora
dice: ”No tu devi puntare al master in questa cosa, proseguire
il tuo percorso di iper-specializzazione”. Questo riguardo alla
questione del sogno e alla differenza fra le due prospettive ben
presenti nella condizione sociale della famiglia. Oltre a
questi, non vorrei dimenticare quei ragazzi che il problema del
sogno non se lo pongono proprio, perché si sentono completamente
tutelati dalla famiglia di provenienza, la quale gli garantisce
di andare alla scuola dove conseguiranno un diploma più
importante degli altri, o l’eredità dell’attività di famiglia
per il futuro. Per cui, anche se sbandano durante la loro
crescita, poi possono sempre recuperare e tornare all’ovile
della famiglia. Insomma rispetto al tema del sogno, credo ci sia
davvero una molteplicità di prospettive da considerare.
Quanto invece
ai contenuti della formazione, da tutto quello che e vedo e da
quello che i ragazzi mi raccontano, il discorso è diverso.
Essendo la loro insegnante privata, i ragazzi entrano con me in
una relazione molto confidenziale. Mi raccontano molto dei loro
professori. Dal loro punto di vista quello che passano i
professori, è quasi pari a zero; c’è una frammentazione totale
di quello che apprendono e i ragazzi sono molto critici nei
confronti del sistema. Si sentono come il dipendente messo a
lavorare nel posto dove non c’è la fotocopiatrice, non ci sono
le sedie. Per loro cosa rappresenta questo? Non solo il disagio
legato alla condizione materiale (non avere i banchi ad esempio,
o cose simili), ma quello relativo al fatto che i professori con
cui loro cominciano un percorso, l’anno prossimo non saranno
quasi sicuramente più quelli. La maggior parte dei professori di
scuola dei miei alunni, infatti, l’anno dopo non avrà gli stessi
professori. Allora loro si pongono la domanda: che linea devo
seguire a scuola? In questo modo la scuola diventa semplicemente
un luogo di relazione. Cioè, se sei un ragazzo, esci da casa,
vai a scuola ed incontri gli amici. Avendo fatto esperienza
nelle scuole di Ponticelli e Barra, dove ho svolto progetti
formativi extra scolastici, credevo che il senso della scuola
potesse essere almeno quello di non far stare i ragazzi per la
strada e dare loro un contesto per la socializzazione. Invece i
ragazzi che fanno? Vanno a scuola per avere una relazione tra di
loro, poi il contenuto lo assumono e lo creano fuori dalla
scuola e molto spesso attraverso i nuovi mezzi di virtualità.
Quante volte mi sono trovata a casa di questi ragazzi che non
conoscevano l’assegno, e si dovevano connettere al gruppo di
amici su facebook dove
c’erano tutti i loro scambi di informazioni, giochi, scherzi,
insomma il contenuto della loro relazione? I ragazzi sono ancora
interessati ad essere in un gruppo, a riuscire ad avere qualche
relazione, ma il gruppo scuola gli serve sostanzialmente per
avere una relazione durante le interminabili ore di scuole, o in
quei momenti eccezionali che si creano quando un professore ogni
tanto non c’è, o si creano dei buchi o hanno supplenza. Per
questo loro si mettono in relazione in classe. Ma il contenuto
poi se lo passano, se sono interessati a passarselo, (molte
volte finisce coll’essere solo relativo al compito,
all’interrogazione e a cose specifiche di scuola) con un tipo
diverso di comunicazione, la comunicazione, cioè, tramite
internet. In questo modo avviene la loro comunicazione. Non c’è
un sogno coltivato in relazione alla formazione, il loro sogno è
coltivato fuori e spesso in opposizione alla famiglia.
Chiaramente anche in opposizione al sistema, per cui in quei
pochi casi dove ci sono dei sistemi scolastici più solidi, non
so se, invece, lì riescono ancora a formare dei sogni. Sogni del
tipo “Voglio diventare un professore di lettere, un biologo, uno
studioso”.
Giulio: C’è una cosa a cui pensavo anche prima, ascoltando Mario. Molti ragazzi
dicono di voler diventare qualcuno o entrare in quella
particolare professione. Ma direi che il sogno non ha mai a che
fare con un’idea, perché ha sempre a che fare con l’idea di
diventare qualcosa, cioè di fare qualcosa, ma il sogno in un
senso più ampio ha a che fare anche soltanto con un’idea o con
un’immaginazione…
Pia: …e poi loro hanno l’idea che il sogno è qualcosa che si deve realizzare,
e già questo…
Giulio:
Infatti, e già questo cambia molto la natura del sogno. Non
voglio neanche tradurre sogno per forza in un senso ideologico,
ma sogno anche solo come aspettativa. Un’aspettativa non di
assumere una certa posizione nel mondo, ma aspettativa di
sentire, di ritrovare un certo senso nelle cose.
Mario:
Io direi che oggi manca il provare ad essere all’altezza di
qualcosa…
Giulio:
Non solo questo, manca proprio il sogno di una vita, nel senso
l’idea di una vita. Non diventare questo o quello, ma riuscire
ad esprimere qualcosa nella propria vita, indipendentemente poi
da cosa si faccia. Il sogno di un scrittore non è mai quello di
scrivere, come se la scrittura fosse l’unica forma in cui si
riconosce, ma quello di riuscire ad esprimersi, ed essere se
stesso, per via della scrittura o meno. Questa tratto di
professionalizzazione e divisione del lavoro già nella
dimensione del sogno è la vera follia
Pia:
Io in questo senso dicevo prima che a diciassette anni se una
ragazza mi dice “io sogno di diventare nutrizionista”, già mi
viene il dubbio che si tratti di un sogno. Se un alunna mi viene
a dire questo, già io provo a capire come mettere in discussione
questa cosa.
Giulio:
Ma voi riuscite a parlare di questo con loro in classe?
Mario:
Sì, si riesce…
Pia:
Sì, ci puoi riuscire.
Giulio:
E i ragazzi come lo vivono questo?
Pia:
Spesso mi è capitato che da questi discorsi venissero fuori
altre cose; in questo senso dico che non si può credere ad un
annientamento completo del sogno. In un certo senso i ragazzi
sognano ancora, nonostante ti dicano che al massimo desiderano
diventare medici, avvocati, e cose di questo tipo. Ma a chi lo
vai a raccontare? È raro che un ragazzo realmente senta questa
cosa. Lo dice ma non è detto che lo senta. A volte se scavi un
po’ escono fuori altre cose. A volte c’è, ad esempio, l’idea che
la realizzazione è riservata all’hobby, o al tempo libero. E lì vedi anche l’incapacità di
contrapporsi che oggi caratterizza i ragazzi. Io su questo sono
molto dura. La mia conflittualità con loro è soprattutto su
questo. Sulla loro incapacità di contrapporsi, e in particolare
alle loro famiglie. In questo, tra l’altro, vedo una grande
diversità rispetto al passato. Le dinamiche e le relazioni sono
sicuramente cambiate. D’altra parte cosa è la scuola? La scuola
non è che un luogo di relazioni. Solo che prima si incontravano
a scuola persone migliori rispetto ad oggi… ecco, forse è solo
questo! Oggi forse il problema è che non incontri vere diversità
nelle scuole dove ti trovi ad andare. Probabilmente in questo
senso c’erano opportunità maggiori prima rispetto ad adesso. Ma
soltanto perché il caso ti metteva di fronte a persone più
differenti, variegate, quindi interessanti; adesso, invece, ti
confronti solo con l’identico.
Giulio:
A questo proposito, vi domanderei se voi sentite di aver a che
fare con delle classi o se, invece, con singoli individui che
raramente si sentono uniti nella loro condizione di gruppo?
Mario:
Da questo punto di vista devo ammettere che non noto una
grandissima differenza rispetto alla mia condizione di studente.
Giulio:
Cioè cosa avverti?
Mario:
Rispetto a questo punto io ho a che fare sia con gruppi che
hanno una loro identità di gruppo, sia con accorpamenti più
innaturali. Ma non noto un grande stacco rispetto alla mia
esperienza di allora.
Giulio:
Tu non noti l’affermarsi di una certa prospettiva
individualista, ad esempio?
Mario:
No, sinceramente no. Su questo non accentuerei le differenze,
almeno sulla base della mia l’esperienza.
Giulio:
Con o senza facebook quindi?
Mario:
Sì, con o senza facebook.
Ciò che emerge è quello che diceva lei prima, e cioè che,
rispetto alla mia esperienza di sedicenne o diciassettenne, vi è
sicuramente una riduzione del carattere molteplice dei rapporti
sociali, cioè c’è un maggiore senso di omologazione. La
comunicazione generalizzata ti porta al fatto che circolino
sempre gli stessi elementi. Non c’è più quello che approfondisce
e scambia con gli altri le proprie esperienze d’approfondimento.
Ormai, proprio perché tu hai a che fare con una comunicazione
che avviene attraverso il mezzo, o stai di fronte al mezzo o
approfondisci. Se sei sempre di fronte al mezzo, circolano
sempre le stesse notizie. Allora quello che noto è un
appiattimento di questo tipo, tanto è che nelle classi in cui io
trovo l’elemento strano, la ragazza, ad esempio, che oltre alla
scuola suona anche al conservatorio, questo è spesso il soggetto
isolato. Invece io mi ricordo che ai nostri tempi era molto ben
visto il ragazzo che metteva su il gruppo, quello a cui piaceva
dipingere. Adesso, invece, queste esperienze sono marginali e
così vengono avvertite. Il resto è appiattito su un livello
molto più commerciale e facilmente riconoscibile. Questi sono
ancora settori di nicchia, i quali vengono considerati qualcosa
di completamente diverso. Il ragazzo, ad esempio che sta a casa
a provare cinque ore pianoforte viene visto come un marziano.
Come si fa a fare uno sforzo - addirittura di cinque ore! - che
sottrai alle relazioni con gli altri, a internet e tutto il
resto? E questo che loro considerano quanto di più anormale
possa esserci.
Giulio:
D’altra parte io direi che entrare in una classe oggi il primo
giorno e avere la possibilità di inserire fin dal primo giorno
tutti i propri compagni di classe su
facebook, costituisce un’esperienza diversa della classe, rispetto a
quella che si poteva fare ancora dieci anni fa. Apparentemente
ti lega di più, però ti manca la mediazione di conoscere prima
alcuni, poi altri, seguire un percorso anche nella tua
conoscenza degli altri. Fai tutto talmente subito, che finisci
con il non fare nulla...
Pia:
Secondo me, invece, rispetto all’esclusione, oggi ce ne è meno
che prima.
Giulio:
Forse anche perché ci sono meno contrapposizioni nette?
Pia:
Mah, quello che dicevo prima è che è decisiva, per capire
l’assenza di conflittualità con i genitori, l’assenza di
conflittualità con gli insegnanti. Questi non litigano con
nessuno, non si prendono una questione con nessuno. Lo fanno
sempre fino ad un certo punto, lo fanno solo se schermati, se
poi alla fine possono pararsi.
Giulio:
Non c’è più quindi l’assunzione del rischio... ma a proposito,
invece, del rapporto con i genitori di questi ragazzi... Io per
un certo periodo ho creduto che l’istituzione della famiglia,
per varie ragioni si stesse disgregando, e che si andassero
allentando un certo tipo di imposizioni e repressioni. D’altra
parte, nell’ultimo periodo mi vado convincendo che questa
disgregazione c’è, dal punto di vista della famiglia come
contenitore, ma che anzi, paradossalmente, proprio questa crisi
produce un maggiore appiattimento dei figli sul punto di vista
dei genitori. I ragazzi si aggrappano ai pezzi in frantumi del
contenitore che si è rotto. Così però si elimina lo scarto, la
differenza ideologica fra sé e i propri genitori…
Pia:
La crescita, d’altra parte, c’è solo se c’è lo scarto. Secondo
me se nella famiglia non c’è una conflittualità interna, vuol
dire che la famiglia non ha senso. La famiglia ha potuto avere
storicamente un senso perché aveva la conflittualità dentro. La
nuova generazione, rispetto alla condizione dei propri genitori,
presenta una grandissima differenza quanto ai mezzi che ha a
disposizione e c’è da questo punto di vista una mutazione anche,
se vogliamo, antropologica, però poi dal punto di vista del
simbolico e culturale, lo scarto si è ridotto.
Giovanna:
Il punto è che i genitori hanno una paura incredibile…
Giulio:
In che senso?
Giovanna:
Nel senso che i genitori hanno paura che tutto quello che
possono fare possa ledere, dal punto di vista psicologico, i
figli. Fanno gestire le lezioni private ai loro figli, se i
figli hanno bisogno di qualcosa, subito li accontentano, e se
questi hanno qualche problema immediatamente li mandano dallo
psicologo. Insomma i figli di oggi sono endemicamente viziati. I
genitori hanno paura. Io ho incontrato molto famiglie abbastanza
classiche, dove comune denominatore era la preoccupazione.
Quando ad esempio tu ti lamenti con il genitore di come il
figlio si comporta, spesso il genitore ha paura di dirlo al
figlio. Molto spesso, anche per cose che non riguardano
strettamente la scuola, chiedono a te di capire cosa abbia il
ragazzo, quale sia il problema. Prima se non c’era il padre come
figura autoritaria, almeno la madre suppliva. Oggi, invece, o
sono preoccupati ai massimi livelli perché temono che il ragazzo
si possa perdere in qualche modo, o magari andare in depressione
o avere una delle 350 malattie che si possono avere, dai
problemi alimentari alle questioni legate al bullismo o alle
violenze. I genitori sono profondamente impauriti e quindi
condizionati da ciò che può succedere ai figli. Hanno un
atteggiamento nei confronti dei figli che è di paura, non
riescono ad imporre un percorso o un certo modo di fare. Ad
esempio non riescono quasi mai a dire ai loro figli: “Devi
essere in un certo modo, a scuola devi andarci tutti i giorni,
devi farti interrogare”. D’altro canto anche i professori a
scuola ci mettono il loro. E quindi i ragazzi vivono una
condizione di psicologizzazione da entrambi i lati, sia da parte
della famiglia, che da parte della scuola. I ragazzi avvertono
questo e dov’è che giocano? Giocano sul minore impegno possibile
nel lavoro a scuola. Ma è proprio perché c’è intorno un livello
esasperato di paura, rispetto al fatto di dire anche un solo no
da parte dei genitori.
Giulio:
C’è un problema nel vivere il conflitto anche da parte dei
genitori…
Giovanna:
Esattamente perché oggi comunemente, ad esempio, se dico che se
non vai bene a scuola non esci, io genitore non riesco quasi mai
a mantenere questa norma. Perché non ce la faccio a non farti
uscire. Oppure la punizione classica degli ultimi anni. “Non usi
facebook per una
settimana”. Ma alla fine la norma dura due o tre giorni, perché
alla fine la ragazza o il ragazzo va in confusione e fa la parte
di quello un po’ depresso, e il genitore non ce la fa. I
professori a scuola non insegnano più delle cose, ma raccontano
la loro vita personale; d’altra parte, in famiglia, i genitori
non riescono mai a tenere il punto.
Giulio:
Sembra quasi che i ragazzi non abbiano più paura di alcuna
autorità…
Giovanna:
Loro fanno leva sul fatto, addirittura, che ci sono equilibri
nella scuola per cui non possono esserci troppi bocciati in una
certa scuola o in una certa classe, altrimenti i professori
perderebbero il lavoro. Loro sono molto attenti a questo tipo di
dinamiche, e ne approfittano, sia in senso negativo che
positivo. Sono in generale molto astuti, anche nel modo in cui
si formano le loro relazioni, anche nella loro classe. Tuttavia
le loro relazioni sono molto frammentate, e
facebook ne è la
prova. I ragazzi oggi hanno ormai un altro modo di avere
relazioni.
Giulio:
Ma il loro senso di appartenenza qual è? In cosa risiede? È
ancora presente? Secondo me questo è un tema chiave, e per
questa ragione quest’estate faremo un breve documentario ponendo
al centro proprio questo tema, il tema dell’appartenenza.
Tenendo insieme infatti una serie di cose che ci stiamo dicendo
adesso, forse un comune denominatore è proprio che la persone
singola oggi si sente slegata idealmente, materialmente, dai
contesti pubblici e contesti simbolici. Secondo me questo è un
tema chiave.
Mario:
C’è un senso di appartenenza che secondo me è molto meno rigido…
Giulio:
ma si tratta comunque di appartenenza?
Mario:
Sì è comunque appartenenza, anche se un’appartenenza più di
superficie, un’appartenenza che si disfa continuamente. Un
appartenenza molto più precaria...
Giulio:
Liquida…
Mario:
Sì non volevo dire questa cosa perché non volevo riprendere
Bauman. Questo tipo nuovo di appartenenza in superficie può
avere un effetto vantaggioso. È difficile, ormai, infatti, che
io mi trovi effettivamente da solo. Dall’altro lato, però,
l’aspetto drammatico è che questi ragazzi, poiché non sono
scemi, e quindi un momento di crisi vera capita anche nella loro
vita, prima o poi se ne rendono conto. In questa circostanza
diviene chiaro anche per loro il carattere effimero della
costruzione della loro appartenenza fino a quel momento. Certo
se poi ti vai a domandare se questi ragazzi hanno la forza di
costruirsi qualcosa di diverso da quello che si ritrovano, la
risposta nella stragrande maggioranza dei casi è negativa.
Giulio:
che valori ti dà questo tipo di appartenenza?
Mario:
È una condivisione immediata della socialità.
Giulio:
Sì ma che valori ti dà quest’appartenenza più disorganica,
liquida?
Mario:
Secondo me ti dà una riconoscibilità molto più semplice, alla
fine è quel tipo di socialità spicciola, quotidiana che ti serve
per andare avanti.
Giulio:
Ma questa socialità forma dei valori?
Mario:
No, perciò dico che anche loro capiscono da soli, senza che
glielo devi insegnare tu, la qualità di quello che vivono. La
ragazza che vive un momento particolare della sua vita, perché
ha subito un tradimento nell’amicizia, o sta vivendo una
situazione di crisi familiare si rende conto di aver costruito
una rete molto effimera. Non è che glielo devi spiegare tu,
emerge dalla discussione stessa con i ragazzi. Quanta forza
abbia poi di costruire qualcosa di completamente diverso, è un
altro discorso. Non ce l’ha, perché non è attrezzato ed è molto
più spaventato, perché, nella maggior parte dei casi, non ha
proprio elementi a cui aggrapparsi.
Giulio:
Ma tu invidi qualcosa a loro, rispetto a quello che tu, nella
tua esperienza formativa, hai vissuto?
Mario:
No.
Giulio:
E voi?
Pia:
Sì, la possibilità di viaggiare con molti meno soldi! A parte
questo non molto altro...
Giovanna:
Io vorrei aggiungere una cosa rispetto a questo nuovo tipo di
socializzazione e di consumo. Una delle cause di questo è che io
non riesco a credere che tutto il tempo che questi vivono su
internet e su facebook
(e torno su questo perché loro oggi si collegano tantissimo, ci
sono sul telefonino, o da casa) non influenzi il modo in cui
sono. Il punto chiave è che tu puoi creare tranquillamente delle
relazioni basate sull’interesse. Ma non dico solo interesse
personale. Ad esempio, se mi piace suonare il sax, allora posso
facilmente trovare un gruppo su
facebook di gente che
s’interessa anch’essa al sax, persone che magari non
s’incontreranno mai dal vivo, ma che sulla rete si scambiano
informazioni. D’altra parte però, se mi piace il cinema, posso
al tempo stesso iscrivermi ad un altro gruppo, quello che ha il
cinema come tema. Allora che succede, qual è la differenza
rispetto alla mia esperienza di ragazza? Tu prima cercavi
l’amica, o il gruppetto con cui ti vivevi tutta una serie di
cose diverse, con cui alla fine ti piaceva stare pure senza fare
qualcosa in particolare. Oggi, invece, tutto è molto, molto più…
Giulio:
...focalizzato ad uno scopo specifico…
Giovanna:
Il gruppo di classe ad esempio, è il gruppo di classe. È quello
con cui posso avere una certa relazione, legata ad un certo
momento e ad una certa cosa. Poi ci sta il gruppo dell’interesse
specifico, e il gruppo delle cugine, e il gruppo della piscina.
Quindi alla fine tu vivi una frammentazione, che chiaramente non
ti mette più a contatto con il diverso. In questo modo io posso
scegliere di non stare mai con il diverso, perché ogni volta
posso scegliere qualcuno che mi corrisponda in qualche cosa e
averci a che fare solo rispetto a quella cosa specifica.
Giulio:
Certo, è vero. Cercare qualcuno che mi sia simile e stare con
questo soltanto rispetto a quella cosa particolare.
Giovanna:
Sì, dopo di che, cosa succede alla fine?...
Pia:
D’altra parte questa è una situazione assolutamente
generalizzata, è una dinamica che è piombata addosso a tutti,
indipendentemente dall’età.
Giulio:
E pensa però alla capacità di un quindicenne di affrontare
questo cambiamento culturale…
Mario:
Io direi soprattutto che ha preso il ragazzo e il genitore del
ragazzo insieme.
Pia:
Certo, i genitori poi sono i peggiori. E d’altra parte a questo
punto bisognerebbe dire che la vera responsabilità è quella
della scuola di trenta anni fa. Perché voglio dire, se poi
girando intorno vediamo che un certo tipo di modello di
psicologizzazione è quello dell’insegnante così come è quello
del genitore allora il problema è capire cosa è successo trenta
anni fa nella scuola e nella società.
Mario:
Quello che dice Pia è vero.
Giulio:
Io credo che il modello europeo o il modello occidentale di
questa settorializzazione degli interessi della vita è
fortissimo. Tu ormai gestisci la tua giornata in modo da andare
in alcuni luoghi solo con alcune persone e solo per un certo
tempo; dopo di che quelle persone poi non le vedi più fuori da
quei luoghi. La tua vita è organizzata non più in base agli
spazi della tua giornata. Faccio l’esempio del condominio, che è
familiare a tutti. Nel condominio ci sta chi è simile a me e con
cui riesco a parlare, e chi vive tutt’un’altra esperienza di
vita, con cui non saprei cosa dirmi. Però vivono tutti il tuo
stesso luogo. E prima nei condomini si organizzavano le serate.
I condomini per dire le case, come le strade, i quartieri,
riuscivano, nel bene e nel male, a mettere in comunicazione
anche persone differenti. Oggi se fai un gruppo su internet per
interessi e ti vedi solo con loro, confermi sempre e solo una
certa parte di te. Più che svilupparti ti dai continue confermi
di quello che credi di essere. Quello che si perde
inevitabilmente è una conoscenza più variegata della realtà
sociale in cui vivi.
Giovanna:
E questo ha a che fare sicuramente con la riduzione di quella
capacità di vivere la conflittualità, di cui dicevamo prima.
Giulio:
Infatti…
Giovanna:
Ad esempio, avendo ormai tutti un telefonino, anche quando sono
in classe loro non sempre ci sono. Se ad esempio nasce un
problema con il compagno di banco, loro sul telefonino mandano
il messaggio all’amico o all’amica che si trova altrove. Allora,
non riesci ovviamente a vivere in modo individuale, ed hai
bisogno della relazione. Soltanto che ormai la cerchi laddove è
più facile; il fuggire da una situazione conflittuale può essere
fatto rifugiandoti nei messaggi del telefonino. Oppure, hai
litigato con i tuoi genitori, ma poi vai su internet e ti trovi
la via di fuga. Dove la risolvi la tua conflittualità? Non hai
ormai il problema di rimanere solo, cioè al momento il problema
non lo avverti più. Lo avverti magari in alcuni momenti
significativi della tua vita, in cui poi ti rendi conto di certe
cose.
Giulio:
La solitudine non è più un’esperienza percepita…
Giovanna:
Sì, ma perché vedi, la domanda che tu facevi sul senso di
appartenenza, secondo me è interessante tanto quanto: qual è
invece il tuo senso di fuga? Cosa significa oggi fuggire? Per me
ad esempio, quando andavo a scuola, fuggire poteva significare
anche fare un filone.
Giulio:
Certo…
Giovanna:
C’era un senso di fuga, un senso di evasione, anche magari dalla
noia della giornata scolastica. Del tipo sono dovuto stare tante
ore a scuola, ma poi magari me ne vado a suonare con il mio
gruppo il pomeriggio perché è un momento di fuga. Qual è il tuo
senso di fuga adesso? Se è così normale, tanto che non è più
chiamata fuga, allora qual è la fuga, dov’è l’immaginazione del
fuori?
Giulio:
L’istituzionalizzazione della fuga…
Pia:
e del tempo libero!
Giovanna:
Tu puoi fuggire ormai tranquillamente anche dalle
interrogazioni, perché ormai i professori hanno le
interrogazioni programmate (cosa che può essere anche
bellissima), d’altra parte, ogni professore ti concede due
giustifiche al mese o al quadrimestre.
Pia:
Poi hai l’appoggio della scuola ad entrare dopo o uscire prima,
e se neanche quello hai, il genitore ti viene a prendere.
Quindi… non c’è problema!
Giulio:
Io avrei soltanto un‘ultima cosa da domandarvi. Forse è una
domanda un po’ estranea a quello che stavamo dicendo fino a
questo punto... Ma quanto credete che un giovane di oggi di
sedici anni si interessi al passato? Intendo il passato come una
dimensione generale, il passato della sua scuola, o quello della
sua città, o il passato in generale. Io personalmente, ad
esempio, credo che il problema del sogno riguardi anche il
problema della memoria. La memoria oggi non è più una necessità.
Il computer ricorda al posto tuo. Io ricordo - a proposito di
memoria! - questa intuizione di Pasolini quando scriveva
dell’inutilità di far studiare ormai la storia, quando ormai
nessuno si pone di fronte a sé e al mondo da una prospettiva
storica. Storica, nel senso che le cose oggi sono così, ieri
erano diverse, e domani ancora andranno diversamente. Ad
esempio, se è vero come diceva un noto storico, che nessuno è
soddisfatto di come si studia la storia, è ancora più vero oggi
che nessuno riesce ormai più a studiare storia. Perché nessuno
riesce più a capire che senso reale possa avere.
Pia:
E infatti è la cosa più difficile da insegnare…
Giulio:
La cosa più difficile è insegnare la propria materia dal punto
di vista della storia.
Pia:
La prospettiva storica è stata completamente annullata, insieme
alla prospettiva dell’irreversibilità. Il fatto cioè che ci
siano delle conseguenze per le tue azioni, che ciò che fai ha
comunque sempre una ricaduta. Fai delle cose e le cose hanno una
ricaduta su di te.
Giulio:
Cioè anche che le cose si possano perdere…
Pia:
Sì che le cose si possono perdere, che ci siano delle
conseguenze rispetto a delle tue azioni. Come se tutto fosse
cancellabile, ripetibile, e non ci fosse nessun evento oggettivo
che sta là rispetto alla loro esperienza. A tutto si può porre
rimedio, così sembra loro il più delle volte.
Giulio:
Come se sempre si potesse tornare indietro.
Pia:
Come se sempre…
Giulio:
…insomma una grande rimozione della morte...
Pia:
Sicuramente, sì, sicuramente. Qualunque cosa accada sembra ci
sia sempre una possibilità del rimedio, dalla cosa più semplice
a quella più significativa. Non c’è mai definitività nella loro
percezione.
Giulio:
D’altra parte se tu ti formi da quindici anni con l’idea che
scrivi una frase e dopo ci inserisci un emoticon per confermare
o smentire quello che hai appena scritto, vuol dire che la frase
stessa ha ormai perso qualunque serietà. Devi subito aggiungerle
qualcosa d’altro, una pseudo espressione emotiva relativa a
quello che hai scritto o detto, cosa che in realtà esprime la
tua scissione.
Pia:
Lo avverti, ad esempio, moltissimo nelle relazioni. Il senso di
rimedi abilità a tutto, come se non ci fosse più alcuna forma di
perdita definitiva...
Giulio:
D’altra parte cosa è la virtualità, se non questo? E
l’esperienza dell’irrimediabilità non è un’esperienza che si
impara fondamentalmente dal proprio corpo? Il nostro corpo è
qualcosa che non si ricostruisce, il corpo invecchia. Perdere il
contatto con la relazione corporea, se il tuo corpo non è più
una parte così importante nella relazione che hai con l’altro
(dove corpo vuol dire essenzialmente comunicazione corporea) la
tua parte finita viene tralasciata rispetto all’illusione di
stare vivendo in un’eterea astrazione di parole. Oggi, d’altra
parte, la maggior parte delle persone si forma nelle relazioni
sociali un’idea dell’altro completamente astratta dal contatto
corporeo. Non ci sono più né amori né relazioni che non nascano,
fra chi oggi ha quindici anni, anche e soprattutto attraverso
internet.
Pia:
Ma anche quando nascono al di fuori, la virtualità è presente
comunque... credo si tratti di fenomeni anche più intimi e
profondi.
Giulio:
Infatti però è vero che internet lo riflette molto bene; è vero,
internet non è soltanto il produttore di questo fenomeno, lo
riflette anche. Ovviamente, però, riflettendolo, lo incentiva.
Per cui oggi la relazione ha un'altra natura, nasce e si
sviluppa su altre basi. Parlavamo di queste cose nel gruppo di
cui vi dicevo prima, su
Esperienza e rappresentazione. Dicevamo l’altra volta, due
persone sedute ad un tavolo oggi rispetto a due persone sedute
allo stesso tavolo alcuni decenni fa, hanno una forma di
comunicazione del tutto diversa. Nel passato, la comunicazione
avveniva, nel bene o nel male, in un modo più globale. Le parole
non erano gli elementi essenziali della comunicazione. Si
usavano meno parole, anche perché lo stesso vocabolario era
molto più limitato rispetto a quello medio di oggi. Però il
corpo risuonava di più, la comunicazione era senz’altro una
comunicazione più diretta, immediata. Oggi tutto viene
mentalizzato di più, è portato più in alto, verso l’intelletto e
l’espressione verbale; la comunicazione di oggi ha un carattere
molto più rappresentativo di prima. Cioè io, se devo dirti una
cosa, te la scrivo per mail, o per messaggio. Mentre prima se ti
dicevo una cosa, l’espressione e il modo in cui te la dicevo
condizionavano tutto il senso della comunicazione. Il contenuto
della comunicazione lo si vedeva al di là di ciò che si
esprimeva nelle parole. La comunicazione quindi avveniva al di
là del cosciente, al di là della rappresentazione. Oggi secondo
me la virtualità seziona molto questa parte della comunicazione
e la fa diventare la comunicazione. Per cui anche noi qui che
non stiamo utilizzando adesso internet, abbiamo, tuttavia, un
modo di comunicare intrecciato a questa forma rappresentativa
del comunicare, che dà in effetti più valore all’astratto del
dire che alla semplice presenza espressiva umana. Oggi secondo
me un ragazzo di quindici anni ha difficoltà a stare fermo qui
in silenzio, se gli poni delle domande o se ti deve dire delle
cose. Il ragazzo dice delle cose comunque, senza porsi neanche
il problema di cosa dice o non dice. Ha tante carte da potersi
giocare. Quando si dice che i ragazzi oggi maturano meno e più
tardi, si deve intendere che crescono meno proprio dal punto di
vista dell’esperienza. Dal punto di vista, infatti, della
conoscenza dei fatti, essi hanno internet, da un certo punto di
vista, hanno tutto il mondo a disposizione. In effetti molti
ragazzi sanno un sacco di cose, cose pure che in teoria non li
riguardano affatto, perché s’informano. Le sanno perché ne hanno
letto comodamente seduti sulla loro poltrona. Credendo che
averle lette o averle viste su
google maps o
you tube sia la stessa
cosa che averle vissute da vicino. Secondo me questo è un
aspetto molto forte di frattura, di cambiamento rispetto al
passato. La differenza costituita da tutti gli ultimi eccessi
della comunicazione/informazione in tempo reale.
Giovanna:
Infatti forse rispetto al problema della storia, il problema
principale è che non si riesce proprio più a veicolare un senso
critico. Quando devi fare storia in un certo modo, tu devi
assumere l’idea che è un qualcosa che è distante da te, che è un
altro tempo, e che, a sua volta, ha avuto, anche delle
evoluzioni.
Giulio:
Sì è un altro da te…
Giovanna:
Bisogna però assolutamente assumere una distanza. Chiaramente
però se tu non hai questo tipo di percezione, allora tu non
sviluppi un senso critico neppure rispetto a quello che ti
succede nella contemporaneità. In realtà loro – se assumiamo il
punto della storia anche in base alle relazioni che loro hanno –
non hanno più la misura della distanza d’età delle persone che
si trovano di fronte. Ad esempio se io faccio loro lezione ed ho
trentaquattro anni, e loro non ne hanno più di quindici sedici,
non è che avvertono quella distanza che potrebbe porsi anche con
il professore; e lo dico indipendentemente poi da quale sia la
differenza d’età. Lo dico rispetto al rapporto con una persona
diversa, distante da te. L’idea è che siamo tutti comunque in
una relazione che si mischia, un puzzle, ma che però si
sovrappone pure. Allora come facciamo a dire che quell’immagine
che io sto vedendo anche su internet sia vera? Cioè se mi dicono
che si tratta di riprese interne al corpo di una persona, io
credo che quello effettivamente lo sia. Io non mi pongo più
criticamente riflettendo sul fatto che potrebbe anche non essere
vero. E non è un mero fatto storico questo. Però deriva da
quell’esigenza di dover valutare e scegliere ogni volta se una
cosa è vera o non è vera, se mi riguarda o non mi riguarda.
Ormai non si percepisce più questa possibilità, questo scarto.
Giulio:
Senza distanza non c’è critica…
Giovanna:
Non c’è tempo d’altra parte, se la comunicazione è in tempo
reale, è tutto così veloce, e tutto sembra poter esserci quando
vuoi, come puoi sviluppare l’idea del possibile? Tutto è così
reale sempre. Ti posso chiamare in qualsiasi momento. Ad
esempio, oggi è molto difficile affrontare una discussione, mica
qualcuno spegne il telefonino? Questo vale anche per loro
ovviamente. Tu contemporaneamente sei connesso, e se mi chiamano
o mi mandano un messaggio, certo che rispondo. Quindi non poni,
anche rispetto a questo, una qualche distanza. La distanza con
ciò che non è qui e non è presente.
Giulio:
Cioè non dai quel valore pieno all’esperienza che stai facendo
in un momento particolare. C’è sempre una porta aperta verso un
altro indefinito, cioè la possibilità della fuga è permanente.
Giovanna:
Sì che era quello che dicevo rispetto al fatto specifico
dell’esperienza della classe. I ragazzi, ad esempio, mi inviano
sempre messaggi mentre fanno lezione. Se loro sono in difficoltà
su una cosa, loro il messaggio me lo inviano, per chiedermi di
aiutarli. Tutte le cose ormai avvengono in contemporanea.
Giulio:
Direi che possiamo fermarci qui, perché questo aprirebbe tutto
un altro discorso…
LUGLIO 2012