Transizione
AMBURGO 2012: ALTERNATIVE CURDE ALLA «MODERNITà CAPITALISTA» E ALLO STATO NAZIONE
Domenico Musella, Alessandro Paolo
Questo
articolo
costituisce
una
rielaborazione
della
relazione
presentata
nell’aprile 2012
nell’ambito
del
Seminario di
Storia
e
Cultura
del Popolo
Curdo
che
si
tiene
annualmente
presso l’Università
degli
Studi
di
Napoli “L’Orientale”.
Era Amburgo,
ma ai
nostri
occhi
è
sembrata una
piccola
Diyarbakır[1].
L’aula
magna
della
“Universität
Hamburg”
che ha
ospitato
dal
3 al 5
febbraio 2012
la
conferenza
internazionale
Sfidare la
modernità
capitalista.
Concetti
alternativi
e
la
questione
curda
era
stracolma
di uomini
e donne
di origine
curda (prevalentemente del
Curdistan
del
nord,
la porzione
che rientra nei
confini
turchi),
trapiantati o
meno in
Germania,
nonché di
numerosi
ospiti giunti
dalle
parti
più
disparate del
globo.
Si
respirava
aria di
Curdistan
già
nell’atrio
dell’ateneo
anseatico, in
cui trovava
spazio
una
miriade
di stand
che offrivano
libri
sulla
Mesopotamia,
ritratti
di
Öcalan,
foulard
giallo-rosso-verdi
e
report
sulla
resistenza dei
guerriglieri
delle
montagne,
oltre
a
cd
di musica
popolare,
foto,
riviste.
In più
gli strilloni
del quotidiano
tedesco
in
lingua
curda
Yeni Özgür
Politika,
che
all’ingresso invitavano
a comprare
il loro
giornale,
come pure le
pietanze
servite nelle
pause
pranzo da
simpatiche
signore,
contribuivano
a rendere
l’atmosfera
tutt’altro che
teutonica. Ciò
che più
spingeva
la
mente
ed il
cuore
verso
il
Curdistan erano
però le
sensazioni
che
si
percepivano: di
sofferenza
tramutata in
voglia
di
cambiamento;
di dignità
umana
che
mai
si
presta
alla
rassegnazione,
anzi cerca
alternative
per
un
futuro migliore
che siano
esempio per
tutti.
Curiosi
e
appassionati,
abbiamo
sfidato i
13 gradi
sotto
zero
della
colonnina di
mercurio
e
siamo
partiti
da
Napoli
per partecipare
a questa
intensa
tre
giorni
ricca
di
spunti
interessanti,
racconti di
esperienze
d’alternativa,
interventi stimolanti
accompagnati da
chiacchierate
interculturali
ed umanamente
arricchenti.
Il
tema
principale:
come
superare
il capitalismo
in tutte
le forme
con cui
esso si
è manifestato
finora,
dallo
stato-nazione
al
razzismo,
dal sessismo
al positivismo
scientifico,
dal
militarismo
al «genocidio»
culturale
ed
ambientale.
Una riflessione
non nuova
ma allo
stesso
tempo
quanto
mai attuale
in tempo
di «crisi»,
condotta
mantenendo come
costante
riferimento l’esperienza
del
popolo
curdo
e
l’evoluzione della
teoria
e
della
prassi
politica di
una parte
non irrilevante
del suo
movimento
politico, quella
più
strettamente
legata
ad
Abdullah
Öcalan
ed
al
Partito dei
Lavoratori
del
Kurdistan (pkk). Ma
perché
proprio i
curdi?
Il
popolo
mesopotamico
con
la
sua
particolare
storia
rappresenta in
maniera
emblematica un
punto
di
vista «diverso»
rispetto alla
questione
della
modernità
figlia
del
sistema
capitalista.
Senza
stato,
senza
un
sistema
economico
pienamente sviluppato
in senso
capitalista (ma
in
presenza di
un’annosa
e frustrante
tensione, nonché di
un forte
condizionamento
verso di essi), ed
invece
con
una
questione feudale
mai
compiutamente
risolta
ed
un
consistente peso
dell’islam,
i curdi
incarnano
le
contraddizioni
che da
molto
tempo
vive
il Medio
Oriente,
e
con
esso
l’intero pianeta.
Tuttavia,
pur
in
una
situazione
di perdite,
sofferenze
e
discriminazioni, hanno
cominciato
a
rivalutare
la loro
diversità
per
costruire
più liberamente
un’alternativa
possibile.
Sfruttando proprio
l’assenza
di alcune
strutture
del
sistema (come
sarebbe
ad esempio
uno stato
nazionale
curdo)
per
rifondare un
nuovo
modello di
società,
su
basi
diverse.
Non
a
caso
infatti
il dibattito
curdo,
seppur nella
penombra,
è
tra
i
più
fertili per
quanto
riguarda le
possibili
direzioni da
seguire
per
trasformare
la crisi
del sistema
in un’opportunità
di
cambiamento
radicale.
Ciò
è
vero
soprattutto
per la
sinistra
curda,
che
è
giunta
a livelli
di discussione
intellettuale
molto
raffinati
e a
realizzazioni
effettive di
piccoli
sistemi di
democrazia
e
di
economia sostenibile
molto
interessanti. Il
passaggio
dalla
visione
marxista
tradizionale all’anarchismo
e
poi
al
municipalismo
ed al
«confederalismo
democratico»,
evidenziabile
soprattutto
dagli
scritti
più recenti
di Öcalan,
è una
testimonianza
di
quanto
appena
affermato. Si
sia o
meno d’accordo
con
tali
posizioni,
pensiamo sia
fondamentale
tenerle in
considerazione
ed
apprezzare
lo sforzo
teoretico
e
pratico
che sta
portando
avanti una
parte
non
irrilevante
del popolo
curdo,
in
Curdistan
come nella
diaspora,
per
trovare
nuove
forme
di
convivenza politica
e sociale,
alternative
allo
sfruttamento
e più
compatibili
con
l’uomo
ed
il
territorio.
Così come
quelli
di
altri
popoli
privi
del
diritto all’autodeterminazione
ed in
lotta
per
il
riconoscimento della
propria
esistenza (dai
palestinesi,
ai
baschi,
alle comunità
zapatiste
del
Chiapas
etc.), il
contributo
curdo
è
importante anche
per consentire
all’Europa
ed all’Occidente
di
pensare
a qualcosa
di alternativo
a questo
sistema,
la
cui
fine
appare
sempre
più
prossima
e definitiva,
ma rispetto
alla quale
non siamo
ancora
pronti a
fornire
una
risposta
adeguata.
A
tal
fine
abbiamo
pensato
di
proporre
qui di
seguito
alcuni tra
i moltissimi
spunti
emersi alla
conferenza
di
Amburgo,
senza
alcuna pretesa
di esaustività,
non prima
di alcuni
brevi
cenni
che
aiutano a
comprendere
ed
a
contestualizzare tale
evento
internazionale all’interno
dello
sviluppo
storico
del
pensiero
politico
curdo,
nella «nazione-senza-Stato»
così
come
nel complesso
spazio
dell’emigrazione
curda
all’estero, in
particolar
modo
in
Germania.
Il
contesto: cenni
sul
movimento
politico curdo e sulla
diaspora curda in
Europa
Passando
brevemente in
rassegna
l’evoluzione
del
movimento
politico
curdo
in Turchia
(per quanto
riguarda
i
curdi
in Iran,
Iraq, Siria
ed altri
Paesi
i
percorsi
sono differenti
e ci
è impossibile
renderli
in
questa
sede), i
primi
gruppi
intellettuali
e politici
che sostengono
apertamente
in
epoca
contemporanea
la
causa
dell’autonomia
del popolo
mesopotamico
vedono la
luce negli
anni ‘60[2].
Siamo
nel campo
alquanto
sfaccettato della
sinistra
turca,
e
le
diverse
soluzioni
proposte per
la questione
curda
ricalcano appunto
la varietà
delle
posizioni in
gioco.
Tuttavia, il
leitmotiv
dei
discorsi
sul «Curdistan
turco»
riguarda in
generale
la
critica
alla condizione
di
sottosviluppo
delle
zone
a
maggioranza curda
ed alla
condizione
di
subalternità
delle
stesse regioni
orientali,
e
di
conseguenza le
rivendicazioni
del
popolo
curdo
vengono fatte
coincidere
con
quelle
più generali
del
proletariato
(industriale
ed
agricolo)
in una
prospettiva
marxista. La
cornice
dello
stato-nazione
turco,
centralizzato
e con
forti
pretese di
omogeneità,
non
è
messa
tanto
in discussione
in queste
fasi. Negli
anni ‘70 il
carismatico
Abdullah “Apo”
Öcalan
raccoglie attorno
a sé
un gruppo
di studenti
di origine
curda
dell’università
di
Ankara,
vicini
a
varie
correnti
marxiste turche,
il primo
nucleo
di
quello
che nel
1978 diverrà
il
pkk (Partiya
Karkerên
Kurdistan –
Partito dei
Lavoratori
del
Curdistan).
Tale formazione
ha come
obiettivo
un
cambiamento
radicale
e
rivoluzionario
della
società, all’interno
del
quale
è prevista
la formazione
graduale
di
uno
stato
indipendente
del Curdistan
di stampo
socialista.
In
questi
anni la
lotta
intestina
circoscritta
allo stesso
schieramento
filo-curdo
si
mostra
molto
aspra:
le
varie
correnti
con visioni
politiche
anche
radicalmente
diverse
si
contendono
il monopolio
della
rappresentanza degli
interessi
del
popolo
curdo,
e
la
violenza non
è lesinata.
Il 1980 vede
in Turchia
un colpo
di stato
militare
che
dà
il
via
ad
una
repressione statale
nei confronti
degli
autonomisti curdi
più pesante
del solito.
Agli arresti
brevi
e
occasionali
(che creavano
nelle
carceri anche
momenti
di
formazione
politico-culturale dei
militanti
di
provenienza
rurale
ad
opera
dell’élite
istruita
del
movimento)
si
sostituiscono
arresti
generalizzati cui
seguono
lunghe detenzioni
e perfino
assassinii.
L’élite
intellettuale del
movimento
viene
decimata
ed il
profilo
dei
militanti
curdi
cambia, mostrando
sempre
più
attivisti
privi
di
una
profonda
preparazione
politica
ed
intellettuale.
Ciò è
dovuto
anche
ai
numerosi ostacoli
loro imposti
nella
formazione e nella
partecipazione
alla
sfera
pubblica:
ne
è
un
esempio
il divieto
di parlare
in pubblico
la lingua
curda
datato 1983[3].
Progressivamente
si fa
spazio
la
lotta
armata,
prima
diretta
contro quei
curdi
che appoggiano
il regime
autoritario
turco,
poi
contro i
militari
turchi che
rafforzano
la
loro
presenza
nelle
regioni
sudorientali
del
paese.
É l’inizio
della
guerriglia,
prevalentemente
targata pkk,
contro
una
repressione
sempre
crescente dello
stato
turco
in
questi territori.
Lo stesso
pkk
di
Öcalan
monopolizza
a
partire
dal 1990 le
rivendicazioni
autonomiste del
popolo
curdo,
che
da
allora
anche
nell’opinione
pubblica
internazionale
vengono
esattamente sovrapposte
a quelle
di tale
formazione (che
pur
essendo la
più ampia
e influente
non rende
giustizia
alla
pluralità
di posizioni
in seno
al movimento
curdo).
Il
governo
di Ankara
sembra
mostrare con
Özal timidi
segni
di
apertura,
in poco
tempo
però
smentiti
da una
nuova
ondata repressiva
e dall’escalation
del
conflitto
armato.
Parallelamente
alla
lotta
armata
il
movimento
curdo
sceglie però
di seguire
anche
una
via «legale» e
democratica»
di
opposizione
al centralismo
dello
stato
turco.
Si susseguono
così una
serie
di
partiti,
sette
sigle
dall’hep (Partito
del Lavoro
del Popolo)
del 1990 fino
al bdp (Partito
della
Pace
e della
Democrazia)
del
2008, tuttora
attivo,
che
si
presentano apertamente
sulla
scena
politica
turca
come
sostenitori
delle
ragioni dei
curdi.
Nessuno di
questi
partiti riesce
a
sopravvivere
più di
qualche
anno
a
causa
dei
continui
scioglimenti
messi
in
atto
dalle
autorità statali,
che li
contrastano
con ogni
mezzo. Ciononostante tali forze
politiche ottengono
importanti
successi elettorali:
molti sono,
infatti, gli attivisti
delle
regioni
sudorientali
che riescono
ad ottenere
dei seggi
in Parlamento
come
indipendenti,
per aggirare
l’ostacolo
della
forte
soglia
di sbarramento
(10%). Il 1999 è
un anno
chiave:
il
15 febbraio
dopo una
lunga
odissea diplomatica Abdullah
Öcalan
viene
arrestato
ed
imprigionato
nell’isola-carcere
di
İmralı
nel mar
di Marmara.
A tutt’oggi è
il solo
detenuto
dell’isola,
e
dal 27
luglio 2011 si
trova
in
isolamento
totale,
sia
dai
suoi
avvocati (36
dei quali
arrestati
nel
novembre
dello
stesso anno)
che dal
resto
del
mondo.
Öcalan
riesce a
produrre
durante il
suo periodo
di prigionia
una serie
considerevole
di
scritti
e riflessioni,
che lo
conducono
ad
un
riposizionamento politico
di non
poco conto.
Da una
visione
marxista piuttosto
ortodossa
egli
transita,
passando
attraverso l’anarchismo,
verso
le
prospettive teoriche
del «municipalismo»
e del
«confederalismo
democratico». Quello
che nella
sostanza
cambia a
seguito
di
questi
sviluppi
teorici è
l’abbandono
dell’idea
di creare
uno stato-nazione
dei
curdi.
Lo stato
e l’idea di
nazione
vengono visti,
in tutte
le loro
possibili
forme,
come
strumenti
fondamentali del
sistema
capitalista per
perpetuare
la
sua
opera
di
sfruttamento. Scopo
è ora
costruire
una
nuova
società
e
nuove
forme
di
partecipazione
politica
e
di
gestione del
vivere
sociale che
non abbiano
come vittime
le popolazioni,
inaugurando
l’era della
«modernità
democratica». Una
«liberazione»
della
società
che consenta
ad ogni popolo mediorientale di
vivere
senza
repressioni
o
condizionamenti
e in
un contesto
di pace.
Un cambiamento
che riguardi
non solo
il sistema
politico,
ma
la
vita
umana
a 360 gradi,
dalle
scienze alle
arti, dall’economia
al
rapporto
con l’ambiente,
dalle
problematiche
di genere
alla convivenza
interculturale.
Tutte
queste
idee sono
sintetizzate
nella
raccolta
di scritti
di Öcalan
Confederalismo
democratico,
una
sorta
di pamphlet
da cui
ha preso
le
mosse
la stessa
conferenza
di
Amburgo[4].
Tale
riposizionamento
ideologico «post-İmralı»
ha
però
causato
una
sorta
di
spaccatura
in seno al
movimento politico
curdo,
tra
chi
propende per
la guerriglia
sulle
montagne (una
posizione
difesa soprattutto
dai sostenitori
europei
e
dai
veterani del
pkk)
e
chi
invece spinge
per la
via dell’opposizione
legale e
democratica (il
bdp
e
la
società civile
del Curdistan
turco
riunita dal
2010 nel dtk,
il
Congresso
della
Società
Democratica).
Il
tutto
in una
Turchia
che
si
vuole
alla
guida
del
Medio
Oriente,
governata da
Erdoğan
e
dal
suo
partito
di ispirazione
islamica
akp
che
ha
inaugurato
una nuova
fase di
forte
repressione del
dissenso
su
più
fronti e
che non
ha risposto
con aperture
significative
né
al
cessate il
fuoco
unilaterale del
pkk
dell’estate 2010,
né alle
proposte
di
Road map
per
la
democratizzazione della
Turchia
presentate da
Öcalan,
né
alla
dichiarazione
unilaterale dell’«autonomia
democratica» del
Curdistan
del
luglio 2011.
Va precisato
che una
storia
speculare a
quella
delle
rivendicazioni
dei curdi
in Turchia
ha avuto
luogo
parallelamente in
Germania,
meta
favorita
dell’immigrazione
anatolica.
Lo
scontro
tra il
regime
di
Ankara
e gli
attivisti
curdi
si
è
riproposto
in ambito
tedesco
tra
la
comunità turca
più
nazionalista,
sostenuta
dalle
rappresentanze
diplomatiche,
e
i
curdi
della
diaspora.
Ancora oggi
in Germania,
ma anche
in altri
paesi
europei con
una cospicua
popolazione curda come
la Francia
o la
Gran Bretagna,
si ripropone
con una
certa
frequenza questo
tipo di
contrasti.
Anche
parlando
con
partecipanti e
organizzatori
della
conferenza
di Amburgo
emergevano
ricordi di
tali conflitti,
oltre
all’aneddoto
per cui la
città
anseatica non
è stata
scelta
casualmente, ma
in ragione
dell’ostilità
incontrata
in
altre
città
della
Bundesrepublik
dove la componente
nazionalista
turca
è più
influente. I limiti alla
mobilitazione di qualsiasi diaspora dipendono, infatti, anche dalle
strutture di opportunità politica che i paesi ospitanti mettono a
disposizione. Per farci
un’idea
della
realtà della
diaspora
curda
in
Europa, nonostante
l’impossibilità
di avere
dati
completamente
attendibili (non
essendo
il Curdistan
un’entità
statale,
gli
immigrati
regolari
risultano alle
autorità
europee come
cittadini
con
passaporto
turco,
iracheno, siriano,
iraniano),
possiamo usare
le statistiche
dell’Institut
Kurde
de
Paris
e del
Consiglio
d’Europa,
che
parlano di un numero che oscilla
tra 700.000 e
un milione
di persone
in tutto
il continente,
di cui circa metà nella sola Germania. Ben l’85%
di esse proverrebbe
dalla
Turchia. Il contributo teorico[5]
di Bahar Baser offre interessanti spunti di riflessione sull’attivismo
politico della diaspora curda in Europa. Dominata sin dai tardi anni ‘80
dai sostenitori del
pkk, suoi
principali finanziatori in esilio, gli orientamenti politici al suo
interno, da sempre declinati in una pluralità di posizioni[6],
sono stati ulteriormente polarizzati non solo dalla cattura di Öcalan,
ma soprattutto dall’inserimento del
pkk
nell’elenco delle organizzazioni terroristiche stilato dall’Unione
Europea nel 2002. Questa criminalizzazione ufficiale ha chiaramente
inibito ogni esplicita affiliazione all’organizzazione, determinando,
sia all’estero che in patria, tanto un’ondata di condanne e
persecuzioni, quanto l’adozione da parte di attivisti e associazioni
curde e filo-curde di una strategia incentrata sulla retorica dei
movimenti sociali e dei diritti umani.
È in questo quadro di cauto fermento,
quindi, che si inserisce la conferenza di Amburgo. Tra gli
organizzatori, oltre al Network
for an Alternative Quest, figuravano anche il
Network of Kurdish Academics (kurd-akad),
la Association of Students from
Kurdistan (yxk), il
Kurdish Women’s Bureau for Peace (Cenî) e la rivista
Kurdistan Report. Venti
interventi di professori, giornalisti, ricercatori, esponenti politici e
intellettuali provenienti da Turchia, Iraq, Gran Bretagna, India, Sud
Africa, Stati Uniti, Norvegia, Spagna e Germania hanno animato quattro
sessioni:
1)
Alla ricerca di una nuova scienza sociale;
2)
Il capitalismo come crisi della civiltà;
3)
Il Medio Oriente oltre gli stati-nazione;
4)
Verso un nuovo paradigma: la modernità democratica[7].
Alla ricerca di una nuova scienza sociale
La conferenza, coerentemente con la sede
che la ospita, si apre con un dibattito incentrato sul ruolo della
conoscenza in funzione del cambiamento sociale e sulla ricerca di
paradigmi per una nuova scienza sociale non-established. Punto di
partenza è stato la constatazione che il modello di conoscenza finora
più sostenuto ed incoraggiato dal mainstream e dagli
stati-nazione capitalisti, basato sul cosiddetto positivismo
scientifico, ha una grossa responsabilità nel mantenimento dello stato
di cose presente. Ciò è vero soprattutto da quando il sapere è divenuto
monopolio quasi esclusivo di ristrette élite di scienziati strettamente
legati alle istituzioni statali e al sistema capitalista. Non a caso la
prima a presentare un paper sul tema non è un’accademica, ma una
ricercatrice indipendente che lavora per varie associazioni femministe e
antirazziste tedesche:
Ann-Kristin Kowarsch. Quest’ultima, riprendendo anche concetti
presenti nel succitato Democratic Confederalism di Öcalan nel
capitolo sul positivismo scientifico, ha proposto delle basi alternative
per rifondare le scienze sociali. Innanzitutto, per la Kowarsch, è
necessaria una nuova epistemologia che non consideri il razionalismo ed
il ragionamento analitico come unici ed assoluti riferimenti per la
comprensione del reale. Il focalizzarsi sulla sola ragione e la fiducia
nella sola osservazione della realtà (ritenuta oggettiva) hanno portato
a idolatrare una mera apparenza, che attraverso un procedimento di
astrazione assurge però al rango di «realtà» e di «verità assoluta».
Tutto ciò ha conseguenze nella vita reale non indifferenti: il dualismo
che scaturisce da questo tipo di ragionamenti basati sulla sola
esistenza di una verità e della negazione della stessa (il suo
contrario), unito al procedere per contrasti tra un «bianco» ed un
«nero» senza sfumature, non ha impiegato molto a diventare razzismo,
rifiuto di tutto quanto è diverso, violenza contro di esso (specie se
trattasi di esseri umani). I genocidi degli ultimi secoli in ultima
analisi hanno a che fare con tale tipo di sguardo sul mondo,
perfettamente in linea con le esigenze di omogeneità e di dominio dei
vari poteri costituiti. Una nuova scienza dovrebbe perciò dare spazio a
modi alternativi di conoscenza: alle intuizioni, ai sentimenti, ma anche
all’etica ed alla filosofia, dalle quali il sapere è stato nel corso
della storia progressivamente e forzatamente allontanato, al fine di
asservirlo ad un sistema, quello capitalista, che si contraddistingue
per il non essere etico. Alla comprensione ed alla spiegazione della
realtà una rinnovata scienza sociale più affine all’uomo ed alla natura
dovrebbe affiancare il compito di agire attivamente per far (con)vivere
meglio le persone. Il metodo scientifico non dovrebbe essere separato da
un’ideologia soggiacente di cambiamento radicale. Dall’illusione di una
scienza neutra, ma che nella realtà è asservita ad un’ideologia che
distrugge i legami tra le persone e sacrifica l’ambiente, bisognerebbe
passare ad una scienza sociale consapevolmente orientata verso rapporti
sociali e stili di vita liberi e alternativi a quelli attuali. La
scienza sociale dovrebbe traghettare verso uno stato di cose in cui, ad
esempio, oltre al razzismo ed alla discriminazione siano bandite anche
le gerarchie ed il sessismo legato alla società patriarcale. In tutto
quanto fin qui detto non sfugge l’eco della teoria critica di Adorno e
della scuola di Francoforte, importanti riferimenti per una riflessione
non convenzionale in questi ambiti. Tra gli spunti emersi rispetto ad
una rifondazione della conoscenza di cui si è discusso in questa
sessione segnaliamo inoltre: la necessità che i centri del sapere come
le scuole e le università divengano indipendenti sia dallo stato
nazionale che dai gangli del potere economico; la propensione verso una
società aperta che non distingua in maniera dualistica l’interesse
pubblico da quello privato; l’assenza della rigida divisione dei ruoli
in ambito scientifico, con studenti da un lato e docenti dall’altro, in
favore invece di un maggiore dialogo ed interscambio tra le due parti,
dando spazio anche a metodi creativi e non convenzionali di
insegnamento. Proposta generale emersa dal dibattito è stata quella di
predisporre una nuova mentalità (mindset) per una società che sia
finalmente libera. E questo non può che passare attraverso una scienza
sociale rimessa a nuovo, caratterizzata da un legame diretto e
performante in senso positivo rispetto alla vita quotidiana degli esseri
umani e del pianeta.
All’interno di questa sessione è emerso
l’interessante esempio, fornito questa volta invece dal dottorando in
scienza politica dell’Università di Boğazici (Istanbul)
Ahmet Alıs, di come
teorie convenzionali come quelle che girano intorno al concetto di
nazionalismo siano inadatte a spiegare realtà quali quella del movimento
curdo, che ancora una volta risulta intrinsecamente fuori dagli schemi.
In un intervento alquanto tecnico e per certi versi accademico il
ricercatore ha spiegato come in realtà gli intellettuali e attivisti
curdi, nella terra d’origine come nella diaspora, abbiano seguito un
percorso diverso da quello tradizionale dei movimenti nazionalisti.
Nella sua complessità, la questione curda avrebbe come perno più che
altro rivendicazioni «etnoregionaliste», come il riconoscimento della
propria esistenza e della propria cultura, la partecipazione alla vita
civile e politica, l’autonomia: ancora una volta distanti dal modello di
stato nazionale moderno che ad esempio ha difficoltà nell’accettazione
di quelle che chiama con un termine poco appropriato «minoranze».
Peculiare è poi la triade che sarebbe alla base dell’ideologia di larga
parte del movimento «giallo-verde-rosso»: la «curdicità» (kurdishness),
il socialismo/marxismo e l’islam sunnita e alevita.
Il capitalismo come crisi della civiltà
Ricca di riflessioni interessanti e
punti di vista differenti è stata la seconda serie di interventi della
conferenza amburghese, moderata dal rappresentante della sinistra basca
Jon Andoni Lekue, volta a sviscerare i vari aspetti attraverso i
quali il sistema capitalista è riuscito a condurre la civiltà umana in
una fase piuttosto discendente della propria storia. Un paper del noto
teorico Toni Negri
(impossibilitato all’ultimo minuto ad intervenire di persona nel
dibattito) dà il la alla discussione tracciando un po’ le linee guida
per un’interpretazione del capitalismo così come si presenta nel 2012.
In un contesto di globalizzazione, Negri utilizza il concetto di
«impero» (il piccolo nucleo del potere capitalista) contrapposto a
quello di «moltitudine» (la miriade di soggetti subalterni), tenendo
presente che nel tempo si è giunti ad una vera e propria
neutralizzazione del «politico». Tale fondamentale spazio è stato ora
surclassato da una sorta di «estremismo di centro» che ha messo al bando
le ideologie, in una situazione in cui tra l’altro il costituzionalismo
e gli stati sovrani, arene nelle quali precedentemente si affrontavano
visioni contrapposte della società, sono ormai logori ed esausti,
distanti dal concreto e dalle necessità degli esseri umani. Proposta
dell’intellettuale italiano è quella che i movimenti dell’alternativa
(subalterni) si affidino al concetto di «comune» per recuperare uno
spazio di azione sociale, che permetta di cambiare le cose in un sistema
dominato dall’atomismo e dall’alienazione. Ragionare basandosi sul
«comune» permetterebbe di andare oltre la dicotomia alienante delle
categorie pubblico/privato, fondata sulla proprietà, per creare una
nuova socialità. A complesse elucubrazioni su lavoro e potere Negri ha
infine fatto seguire un cenno agli zapatisti e ai curdi come casi di
resistenza intrinseca e costitutiva del sistema, da cui prendere esempio
e ripartire.
Si è passati poi all’intervento deciso e
appassionato della femminista curda
Fadile Yıldırım, reduce
da 10 anni di prigionia, che ha discusso del sessismo visto come
elemento costante delle società «statuali». Passando in rassegna la
subordinazione femminile nelle diverse epoche storiche, Yıldırım giunge
alla conclusione che il sessismo è più radicale e radicato della
divisione di classe. Da cinquemila anni, sostiene, è in atto la più
grande delle guerre: quella che vede come vittima le donne. In
particolare il sistema capitalista, con l’ausilio del suo più importante
strumento, lo stato-nazione, segna il massimo grado di sfruttamento
della donna, sotto vari aspetti, non ultimo quello della mercificazione
del corpo delle donne cui l’attivista curda ha dedicato delle stimolanti
congetture. Le religioni monoteiste, per Yıldırım, non sono esenti da
responsabilità rispetto alla subalternità femminile: in esse spesso la
donna risulta essere tabù e oggetto di oppressione. Detto ciò, le
proposte lanciate dall’attivista per creare una nuova società che serva
a quelli che finora sono stati oppressi, e non agli oppressori, vedono
un nuovo modello di democrazia reale da realizzare con una forte
partecipazione della donna, ma senza la cornice statuale che finora si è
dimostrata foriera di ingiustizie.
Il professore emerito di relazioni
internazionali Achin Vanaik,
indiano trapiantato in Gran Bretagna e attivista di sinistra fortemente
impegnato sul tema del disarmo nucleare, è stato protagonista di un
incoraggiante e speranzoso intervento che ha preso le mosse dagli
strumenti da lui definiti di «saccheggio» del sistema capitalista:
l’industrialismo e lo stato-nazione. La mentalità classica
dell’industria, caratterizzata da una disparità tra le classi in campo,
ha contribuito tra le altre cose a diffondere una logica della
competizione portata ai massimi livelli. Tale logica si riflette anche
nel sistema internazionale e nelle logiche di politica globale. Il
capitalismo nella sua storia è stato inoltre capace di essere flessibile
e di rigenerarsi, arrivando fino allo stato attuale in cui domina su
tutto il pianeta. Tuttavia esso, per esistere, ha profondamente bisogno
del sistema degli stati tipico della modernità, il quale sta dimostrando
però il suo ineluttabile fallimento e la sua incapacità a gestire le
questioni globali: in questo, trascendere il capitalismo risulta più che
mai possibile se inteso come abbandono di un suo strumento basilare, lo
stato nazionale. L’aumento sempre maggiore delle disuguaglianze; la
questione della transizione ecologica; l’esclusivismo culturale ed i
razzismi (che si manifestano in maniera progressivamente inquietante
attraverso l’islamofobia e la repulsione contro i migranti); il
nuclearismo ed il militarismo sono temi rispetto ai quali l’attuale
sistema mondiale non è in grado di fornire risposte. Rispetto ai due
possibili scenari che egli ipotizza per l’uscita da quest’impasse,
ossia un radicalismo progressista o il suo contraltare di un radicalismo
autoritario, Vanaik crede fermamente nella possibilità che il primo
prevalga sul secondo. Condizioni necessarie all’avanzata di una
concezione di cambiamento radicale in ottica progressista sono però
l’audacia e la forza di volontà, soprattutto delle giovani generazioni,
e l’impegno a connettere tutte le lotte globali (da quelle della
resistenza curda o palestinese a quelle sui grandi temi) avendo come
orizzonte la realizzazione di una vera democrazia partecipativa.
Felix Padel,
che all’opposto del relatore che lo precedeva è un inglese trapiantato
in India per il suo mestiere di antropologo sociale, ha inquadrato il
sistema capitalista sotto il suo aspetto di acerrimo nemico delle
«società ecologiche», questione quanto mai stringente. Partendo
dall’esempio da lui meglio conosciuto, quello della comunità tribale
indiana degli Adivasi, privati dell’acqua delle loro montagne per la
produzione di metallo destinato all’industria bellica, Padel accusa il
capitalismo di distruggere gli stili di vita originari e tradizionali.
Lo sviluppo in senso capitalistico ha così attuato un vero e proprio
«genocidio culturale», un termine molto caro ad Abdullah Öcalan ed
esteso dall’antropologo britannico all’eliminazione della «cultura» in
senso lato, anche nelle accezioni legate all’«agricoltura» ed al «culto»
insite nel vocabolo. Ad un’economia reale, pienamente rispettosa
dell’ambiente e legata alla condivisione, alla democrazia, alla
riduzione dello spreco e ad un ruolo determinante della donna, la
tensione verso il profitto ha sostituito uno stile di vita consumista,
razzista e sessista tutt’altro che sostenibile dall’umanità e dalla
Terra. A ciò si aggiungano i processi di «invenzione del nemico» (il
musulmano per gli occidentali, così come il maoista o l’indigeno per gli
indiani) che non hanno altro scopo se non quello di reprimere gli stili
di vita alternativi. La soluzione? Felix Padel preferisce non affidarla
alle parole, bensì alla musica! E tirando fuori dalla custodia un
violino comincia a sorpresa a suonare e intonare un canto tradizionale
indiano, etichettando in più l’eccessivo uso delle parole come qualcosa
di maschilista e invitando invece a recuperare l’arte e l’azione,
decisamente più «femminili».
Dal simpatico e inaspettato intervento
di Padel si passa alla comunicazione più combattiva e impegnata di
Solly Mapaila, quadro del Partito Comunista del Sudafrica. La sua
presenza si inserisce nel solco della collaborazione storica tra
l’African National Congress (anc)
ed il
pkk e della vicinanza più in
generale tra il movimento sudafricano contro l’apartheid e quello per
l’autonomia del Curdistan. Riferendo della sua esperienza militante,
Mapaila accenna anzitutto alle difficoltà che i movimenti che propugnano
un’alternativa di società possono incontrare sulla loro strada:
dall’infiltrazione del nemico a fini di sabotaggio dall’interno, fino
alle accuse ufficiali di terrorismo mosse dalle istituzioni[8]. Egli prosegue poi
discutendo dei problemi riscontrati anche a seguito della vittoria del
movimento anti-apartheid e dell’ottenimento dell’indipendenza. Si è
passati, dice l’attivista, da un potere «bianco» ad un potere «nero», ma
la sostanza dei rapporti di sfruttamento e di subordinazione non é
cambiata, né si è realizzata una democrazia reale scevra dai
condizionamenti dei mercati finanziari e delle gerarchie statali. Il
problema sta nella riproposizione della forma statuale con i suoi
meccanismi di potere intrinseci, che non possono non restare dei modelli
di riferimento se prima non si cambia la società che è alla base di
essi, con nuove forme di convivenza sociale e di democrazia diretta.
A chiudere la sessione giunge il paper
di uno degli organizzatori della conferenza di Amburgo, l’attivista
tedesco pro-curdi Reimar Heider.
Egli individua nell’anticapitalismo la costante fondamentale del
movimento di liberazione del Curdistan. Nato come anticolonialista con
il socialismo reale come stella polare, e trasformatosi sempre più in
chiave anarchica fino a diventare piuttosto municipalista e
confederalista, l’attivismo curdo è perennemente rimasto fedele alla
lotta contro il capitale. Questo si traduce, negli ultimi sviluppi
ideologici e teorici, nell’obiettivo dichiarato di liberare la società e
trasformare lo stile di vita, e non più di creare uno stato-nazione
curdo. «Colonia del capitale», per citare Öcalan, un’amministrazione
politica di tipo statuale creerebbe dei problemi che finora hanno solo
relativamente sfiorato la popolazione curda, anziché risolverne. Heider,
in linea con una consistente parte degli attivisti filocurdi, sostiene
che uno stato aumenterebbe la discriminazione femminile; sostituirebbe
la violenza e l’oppressione dell’attuale stato turco con quelle,
identiche, di un apparato statuale curdo; propugnerebbe l’individualismo
e la competizione come nuovi modelli di vita e cancellerebbe qualsiasi
specificità culturale. In antitesi a tutto questo, il modello proposto è
quello di una nuova fase, la «modernità democratica» curda: una società
morale e politica; una società ecologica, in solida connessione con la
storica vocazione agricola dei territori curdi; una società amministrata
su base confederale, avente come capisaldi la responsabilità e la
partecipazione costante alla vita politica e sociale. Una dichiarazione
di intenti, ma che non potrà che restare tale, per l’attivista tedesco,
se non si è disposti a ricostruire le proprie vite su basi «altre» e se
non si è pronti a liberare da ogni vincolo le nostre capacità
immaginative.
Il Medio Oriente oltre gli stati-nazione
Nel corso della terza sessione, moderata
dal giornalista turco Murat Çakır, membro del partito Die Linke,
i relatori hanno affrontato la politica mediorientale da una prospettiva
ideologica e religiosa. Lo scrittore Ayhan Bilgen, in particolare, ha
esordito sollevando un interrogativo tanto attuale, quanto complesso:
per quali motivi la teologia della liberazione non ha attecchito nella
regione? Poiché l’Islam, rispondeva poco dopo Muzaffer Ayata[9],
costituirebbe una forza politica prettamente conservatrice, colpevole
nei fatti di moderare movimenti inizialmente rivoluzionari.
Affermazioni, a nostro avviso, quanto meno opinabili data la presenza
nella storia del pensiero politico islamico contemporaneo di
intellettuali quali l’iraniano Ali Shari’ati o il sudanese Mahmoud
Muhammad Taha, latori di un’interpretazione dell’Islam con una chiara
impronta socialista ed emancipatoria. Sta di fatto, comunque, che pur
riscuotendo iniziale successo come salvatori, diversi movimenti islamici
e islamisti hanno finito spesso per sostituirsi o affiancarsi ai vecchi
oppressori, puntualizzava il professor Sadik Hassan Itaimish. Il caso
odierno della Fratellanza Musulmana in Egitto ne è un esempio lampante.
Ciononostante l’etichetta arbitraria ed eurocentrica di “Islam moderato”
è stata sistematicamente apposta nel corso dell’ultimo decennio su
governi, partiti e movimenti d’ispirazione islamica in linea con i
canoni e gli interessi delle liberal-democrazie occidentali. A detta del
giornalista Ferda Çetin, l’akp e il movimento Gülen[10]
in Turchia rappresentano, in particolare, due evidenti manifestazioni di
questo pericoloso mascheramento globale: dietro le mentite spoglie di
civil society organizations
dai dichiarati intenti progressisti si celerebbero in realtà movimenti
profondamente oscurantisti.
Verso un nuovo paradigma: la modernità democratica
Filo conduttore della quarta ed ultima
sessione, moderata dal giornalista britannico Mark Campbell[11],
è stata l’esplorazione di alternative pratiche e teoriche alle forme
accademiche, economiche e socio-politiche dominanti. Nel suo preambolo,
la professoressa Kariane Westrheim sottolineava come le ragioni per cui
esiste una letteratura specialistica così vasta sulla questione curda
sono di natura chiaramente politica, anche se molti di questi studi si
limitano a descrivere lo status quo, senza basi di ricerca sul campo.
Troppe di queste analisi vengono calate dall’alto e dall’esterno,
ammutolendo di fatto le popolazioni che ne sono oggetto. Pertanto, non
solo l’establishment accademico internazionale analizza spesso la realtà
tenendosene a debita distanza, ma lo stato turco ha sempre ostacolato
ricerche indipendenti al riguardo, effettuando spesso arresti ed
espulsioni di personae non gratae.
La questione curda, pertanto, ci ricorda che è impossibile studiare
situazioni di conflitto senza prendere posizione: detto altrimenti, in
quanto ricercatore devi necessariamente schierarti, altrimenti nulla
potrà mai cambiare.
L’appassionato intervento di Eirik
Eiglad si concentrava, invece, sui punti fondamentali del programma
municipalista. La costituzione di comunità autogovernantesi, un progetto
tanto vasto e antico quanto la stessa rivoluzione urbana, dovrebbe
essere oggetto di un processo di riscoperta e apprendimento infinito:
1) Rafforzamento e democratizzazione dei
comuni esistenti (collettivi di cittadini).
2) Creazione di confederazioni di
comuni.
3) Convergenza (senza appiattimento del
dissenso) dei movimenti sociali progressisti.
4) Costruzione delle condizioni
materiali per la liberazione (es. proprietà collettiva, assemblee,
decentramento decisionale).
Eppure, uno dei più grandi ostacoli per
l’applicazione di tale progetto nel Curdistan turco sta nella
repressione del movimento politico curdo da parte delle autorità di
Ankara. Altra debolezza, aggiungeva Gönül Kaya, giornalista e femminista
curda, consiste nella struttura patriarcale e maschilista ancora
fortemente radicata tra le comunità curde. Un approccio che impregnava
inizialmente la stessa guerriglia, con atteggiamenti protettivi verso le
donne combattenti ormai superati. Sin dai primi anni ‘90, infatti,
centinaia di donne hanno aderito alla lotta armata, fondando persino un
folto Esercito di Liberazione Femminile. La lotta per l’emancipazione
della donna, incarnazione dei principi di armonia e cooperazione
esistenti in natura, del legame con la terra, con il suolo,
rappresenterebbe, quindi, al contempo una lotta sociale, culturale ed
ecologica.
Una tematica, questa, ripresa e
approfondita nel corso dell’accorato intervento di Janet Biehl, compagna
di vita del filosofo anarchico statunitense Murray Bookchin, padre
dell’ecologia sociale. Ogni prospettiva ecologica dovrebbe mirare,
secondo il pensatore del Vermont, ad una trasformazione radicale delle
relazioni sociali; qualsiasi forma di oppressione tra esseri umani
(dell’uomo sulla donna, degli anziani sui giovani, dei genitori sui
figli, degli imprenditori sui lavoratori, della burocrazia sui
cittadini, delle élite sulle masse, dei colonizzatori sui colonizzati,
degli eterosessuali sugli omosessuali, della maggioranza sulle minoranze
etniche e religiose) è la fonte primaria dell’umana dominazione sulla
natura, entità benigna cui apparteniamo, ma troppo a lungo trattata come
oggetto da soggiogare. Senza modificare le relazioni “molecolari” del
vivere sociale, scremate da manifestazioni gerarchiche ed elitarie, il
dominio sulla natura continuerà a perpetuarsi fino all’irrimediabile
estinzione ecologica. È a questo punto che il municipalismo di Bookchin
incontra il confederalismo democratico di Öcalan, due personalità che,
pur distanti, hanno conosciuto un’evoluzione intellettuale dal marxismo
al comunitarismo, passando per l’anarchismo, sorprendentemente analoga.
Appunti per uno studio di vite parallele, quindi, che attende soltanto
un ulteriore sviluppo.
Militante nel movimento Occupy Wall
Street e co-fondatore dell’Organization for a Free Society,
tra le poche realtà apertamente socialiste esistenti negli Stati Uniti,
John Cronan Jr. ha focalizzato l’attenzione su alcune forme alternative
di economia partecipativa, dal sindacalismo di base ai gruppi di
acquisto solidale, dalle imprese collettive alle casse di mutuo
soccorso, dai meccanismi di autogestione della produzione al baratto.
Esperienze di questo genere sarebbero in atto, secondo Gülbahar Örmek,
presso la piccola municipalità di Sur nella città di Diyarbakır, dove la
donna ricopre la carica di vice-sindaco. Consacrando il proprio mandato
all’affrancamento della donna da mariti, fratelli e padri che la
vogliono ancora sottomessa, l’energica esponente politica del
bdp ha esposto[12]
conquiste e ambizioni della propria amministrazione, a partire dalla
costituzione di cooperative femminili che forniscono servizi alimentari,
artigianali e sociali essenziali per l’intera comunità. In segno di
tacita polemica contro la controversa politica di apertura alle
minoranze più volte annunciata da Erdoğan, la relatrice ha accennato,
inoltre, con orgoglio alla traduzione di tutti i testi scolastici
disponibili a Sur in armeno, in segno di solidarietà con la sola
famiglia armena insediatavi. Toni velatamente propagandistici si
percepivano anche durante l’intervento/comizio di Gültan Kişanak,
co-presidente del bdp e
parlamentare, tra i personaggi politici curdi più rinomati e rispettati.
Incoraggiando da sempre l’inclusione della società civile, delle
minoranze (lazi, roma, alevi, cristiani, armeni, circassi, curdi) e di
movimenti dal basso, il bdp
costituirebbe un’alternativa potente all’ideologia ufficiale dello stato
turco. Un’ideologia efficacemente ridicolizzata da un aneddoto
emblematico del clima diffuso di ironia che circonda ormai le vessazioni
della polizia turca. Nel corso di una manifestazione, una donna anziana
era stata arrestata nell’atto di sventolare il tricolore curdo. «Perché
aveva quella bandiera tra le mani, non lo sa che è illegale?» avevano
chiesto i poliziotti durante l’interrogatorio; «L’avevo appena raccolta
da terra, pensavo qualcuno l’avesse persa» era stata la risposta
coraggiosa della signora. «Ma allora perché l’agitava?» avevano
incalzato i poliziotti, perplessi; «Stavo soltanto chiedendo in giro di
chi fosse» aveva replicato la donna. Gli applausi e le ovazioni che le
parole della Kişanak suscitavano nella platea gremita testimoniavano,
tra l’altro, il sostegno di cui gode il
bdp tra gli stessi curdi in diaspora.
Gli interventi di Ana Mezo, esponente di
spicco della sinistra abertzale basca, e di Tom Waibel, antropologo
vissuto per anni tra le comunità zapatiste in Chiapas, tracciavano,
infine, affascinanti parallelismi con altre storiche esperienze di lotta
e resistenza per l’autodeterminazione. La guerriglia dell’ezln
presenta, in particolare, diverse analogie rispetto alle dinamiche
interne al
pkk. Se da un lato, infatti,
ci troviamo dinnanzi a due movimenti armati che, nascosti tra i monti,
si difendono dagli attacchi dell’esercito, dall’altro la leadership
collegiale e a rotazione, l’alto grado di solidarietà internazionale,
l’avanzato autogoverno in ambito educativo, sanitario e alimentare e la
convergenza con i teologi della liberazione latino-americani, fanno
dell’esperienza zapatista un unicum eterogeneo a cui ispirarsi, una tra
le infinite utopie reali che possono guidare i movimenti di lotta verso
il superamento del capitalismo e dello stato-nazione.
LUGLIO 2012
[1]
Grande
città
dell’Anatolia,
secondo i
confini
ufficiali è
situata
nella
parte
sudorientale
dello
stato
turco,
ma
viene
considerata
simbolicamente la
capitale
del
Curdistan
settentrionale.
[2]
Per
approfondire
l’argomento,
si veda
L. Nocera,
La
Turchia
Contemporanea,
Carocci,
Roma
2011 e, ad
es., i
vari scritti
di
Hamit
Bozarslan
e
Martin
van
Bruinessen
relativi
al
movimento
politico
curdo.
[3]
Tale
divieto è
stato
eliminato nel
1991, ma
esclusivamente
per quanto
riguarda
fini
“non
politici”.
[4] La versione inglese dell’opera, Democratic Confederalism, è disponibile gratuitamente online: http://www.freedom-for-ocalan.com/english/download/Ocalan-Democratic-Confederalism.pdf, così come quella francese: http://www.freedom-for-ocalan.com/francais/Abdullah-Ocalan-Confederalisme-democratique.pdf
[5]
Baser,
Bahar.
Kurdish Diaspora Political
Activism in Europe with a Particular Focus on
http://www.berghof-peacesupport.org/publications/SL_Diaspora_Papers_Baser.pdf.
[6]
Stando alla letteratura specialistica in materia, lo spettro di
tendenze politiche tra i curdi in diaspora risulta estremamente
eterogeneo. Si va dagli acritici difensori del
PKK (anche detti
“Apocular”) a quei sostenitori in disaccordo con le affermazioni
post-İmralı di Öcalan, dagli ex-quadri ormai sospettosi verso
l’organizzazione a quei nazionalisti contrari ai metodi del
pkk, che simpatizzano con
la linea non-violenta del
komkar (federazione fondata in Germania e Svezia per
salvaguardare i diritti dei lavoratori curdi in Europa), dagli
attivisti ancora fedeli all’idea di uno Stato curdo indipendente
ai curdi che sostengono apertamente l’apk.
[7] I video ed i testi degli interventi della conferenza sono disponibili al sito http://networkaq.net/videos.html
[8]
A ulteriore conferma di quanto detto, ricordiamo che il
pkk è enumerato
all’interno delle formazioni di natura terroristica dallo stato
turco come dall’Unione Europea, gli
usa ed altri.
[9]
Politico e giornalista curdo, ha scontato venti anni di prigione
in Turchia dal 1980 al 2000 per affiliazione al
pkk. Rifugiatosi in Germania
a causa di continue vessazioni da parte delle forze di polizia
turche, collabora oggi con diversi quotidiani in lingua curda
pubblicati in Europa. Nel corso della conferenza, denunciò come
in precedenza fosse stato più volte soggetto a censura
accademica in varie università tedesche.
[10]
Sinistro groviglio di criminalità e massoneria per alcuni,
cerchia eletta di menti illuminate per altri, la
neoconfraternita nurcu,
guidata da uno dei leader spirituali più potenti e influenti
della Turchia contemporanea, Fethullah Gülen, cominciò a far
presa in territorio nazionale dopo il golpe del 1980, quando le
idee anticomuniste e nazionaliste divulgate dal predicatore
trovarono terreno fertile nella “sintesi turco-islamica” imposta
dalla giunta militare come ideologia di Stato. A partire da quel
momento, i Fethullahci compresero che l’unico modo per
contrastare l’élite laica in Turchia era accumulare potere
attraverso l’educazione, la ricchezza economica e i mass media,
acquisendo posizioni influenti nelle alte sfere
dell’establishment statale. L’impero imprenditoriale,
finanziario e mediatico controllato da politici e imprenditori
affiliati alla comunità, ingigantitosi con l’ascesa dell’akp,
ha raggiunto ormai dimensioni colossali. Lo sterminato capitale
materiale e immateriale di cui oggi dispone il movimento sia
all’interno che all’esterno del paese deriva, a ben vedere,
dall’enorme potenziale attrattivo generato da insegnamenti che
si propongono di armonizzare l’Islam non soltanto con la
modernità laica, il pensiero scientifico e il dialogo
interreligioso, ma soprattutto con l’etica capitalista, la
democrazia rappresentativa e il nazionalismo turco. Nel corso
degli anni ‘90, le autorità turche si avvalsero di questa
straordinaria leva di soft
power per facilitare la loro politica di espansione verso
l’Asia Centrale, il Caucaso e i Balcani, gettando le basi per
una vastissima rete di scuole private estesasi col tempo a più
di novanta paesi in quattro continenti.
[11]
Curatore del blog “Hevallo. Turkey and the Kurdish Question”,
http://hevallo.blogspot.it/,
ha partecipato all’organizzazione del Kurdish Social Media
Gathering nel Gennaio 2012 per evidenziare il ruolo cruciale
che i media indipendenti curdi e filo-curdi possono giocare nel
contenere la guerra psicologica e la disinformazione in atto in
Turchia in merito alla questione curda.
[12] Quello di Gülbahar Örmek è stato l’unico intervento pronunciato in lingua kurmanji. Occorre ricordare, a questo proposito, che l’intera conferenza è stata tradotta simultaneamente in quattro lingue: inglese, tedesco, turco e curdo kurmanji.