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08
Ottobre 2012

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Esperienza e rappresentazione

IN MORTE DELL'ARCHIVIO

Annelise D'Egidio

Cambia qualcosa il fatto che Freud

non abbia conosciuto il computer?

(Mal d’archivio, J. Derrida)

 

L’accetto, perché tu non pensi

di aver trascurato qualcosa.

(Davanti alla legge, F. Kafka)

Premessa

Seguendo il tentativo freudiano di rilettura del romanzo di Jensen, Gradiva, vorremmo provare a decifrare il significato implicito che si cela in Davanti alla legge di Kafka. L’ipotesi da cui partiamo è l’idea che tale novella possa rappresentare allegoricamente il meccanismo di funzionamento dell’archivio, così come lo ha descritto Derrida in Mal d’archivio. Evidentemente, ne condividiamo la tesi di fondo e cioè che il problema dell’archiviazione è una questione di memoria e, dunque, di potere; ancor più urgente, al giorno d’oggi, l’epoca indiscussa della virtualità e dell’Alta Definizione. Che rapporto e quali conseguenze vi sono per l’archivio? Che tipo d’archivio sarà mai un archivio web? Più sicuro o più libero? Proprio perché «la questione dell’archivio è la questione dell’avvenire», i suddetti interrogativi riguardano tutti e ciascuno di noi: «si vive come si archivia e si archivia come si vive»[1].

 

1. Archivio e Modernità

In quanto problema della memoria, riflessione sulle modalità di ritenzione del ricordo e di catalogazione della Storia, l’archivio costituisce un punto di interesse per la psicanalisi. Normalmente, si archivia ciò che è stato, dunque quanto specificatamente afferisce al passato, e Husserl ha insegnato che esso può essere riportato alla coscienza mediante ripresentazione. Tuttavia, gli studi psicanalitici hanno dimostrato la fallacità che sovente contraddistingue l’atto della rimemorazione: i traumi d’infanzia, per esempio, tendono ad essere rimossi e collocati nell’inconscio. Ciò avviene non senza conseguenze per l’identità del soggetto e per la sua stessa salute psichica. Eppure, il ricordo doloroso sovraccarica emotivamente gli equilibri interiori, così da essere percepito come una minaccia perturbante. Pertanto, la rimozione è da ritenersi un meccanismo di difesa interiore – l’omologo della fuga dinnanzi al pericolo di aggressione fisica – volto alla conservazione della vita. Dato che, comunque, nella vita psichica nulla si perde, ma muta solo d’aspetto, il ricordo traumatico confinato nell’inconscio sviluppa un sintomo. Fissazioni, ossessioni, anche i lapsus, sono le tracce tangibili di un processo morboso in atto: la rimozione è in sé un contro-investimento nervoso, l’esercizio di una forza che finisce per intrappolare l’Io in una pericolosissima coazione a ripetere. Essendo, in effetti, un sistema di organizzazione di energie, la psiche mira primariamente alla stabilizzazione di sé stessa. Sotto quest’aspetto, opera dunque come opera un archivio. Ai fini della sopravvivenza le è indispensabile serbar traccia delle esperienze acquisite: la “modernità filosofica”, che ha il merito di secolarizzare la nozione di “soggetto” e prepararlo alla conquista dell’America, era stata aperta – e non è un caso – dalle riflessioni sul metodo, con Cartesio e Bacone. È chiaro, allora, che il problema della memoria è il problema dell’identità: chi detiene l’archivio ha il potere di decidere sull’origine (l’arché), di fondare i fondamenti e stendere le leggi (nòmos). Come indica la radice etimologica comune, origine (arché) e archivio (archèion) si co-appartengono: senza l’una non si dà l’altro e viceversa. Mantenendo l’archivio, i patriarchi conservavano la memoria, la tradizione e l’identità del popolo. La loro persona era perciò inviolabile e la loro abitazione, dove i documenti erano custoditi, sacra. Per come ce lo ha consegnato la psicanalisi, l’archivio può essere sempre e solo inciso su supporto fisico (il cervello, il corpo nel caso della circoncisione tra gli ebrei, esempio cui Derrida si riferisce in Mal d’archivio). La fissazione della norma garantisce dall’abuso della legge, oltre a impedirne la dispersione; cioè, quindi, l’archivio interviene lì dove la memoria cede e si fa labile. Pulsione di vita contro pulsione di morte, dunque, giacché a ricordare ogni istante vissuto, ogni episodio occorsogli, il soggetto rischierebbe non solo la pazzia, ma l’annichilimento: la voluminosità dell’opera proustiana ne offre una schiacciante riprova.

La memoria che cancella e dimentica è infatti pulsione di morte, cupio dissolvi. In sé, l’archivio è connotabile come la violenza di un potere, Gewalt, ma, d’altronde, senza violenza – Benjamin vi ha insistito spesso – non c’è diritto. Parimenti, si potrebbe dire che senza rimozione non c’è salute psichica né identità di coscienza per il soggetto. Tale assunto vale per tutti gli esseri viventi, dai più complessi (l’uomo) ai più semplici (batteri e funghi). La complicazione sorge quando la rimozione non è interna, ma indotta dall’esterno, cioè quando le norme del vivere in società impongono il differimento del soddisfacimento pulsionale. Anche di questo aspetto Freud si è occupato[2], inaugurando un ambito di ricerche prolifico ed interessantissimo, i cui maggiori frutti ci sembra di poter rintracciare nella Scuola critica di Francoforte (Adorno, Marcuse, Horkheimer). Detto filone, adoperando congiuntamente la critica marxista e i precetti psicanalitici,  realizza una disamina attenta delle condizioni socio-culturali delle società di massa formatesi dal secondo dopoguerra. L’attenta pianificazione scientifica, che scandisce i ritmi di produzione e di vita all’interno delle società industriali, assume l’aspetto di un vero e proprio “furto del tempo”. Non si tratta più, cioè, di realizzare plusvalore monetario sottopagando i proletari, ma di irreggimentare i corpi e le coscienze entro un totalitarismo invisibile e, proprio per questo, più vigoroso. Dice bene Baudrillard[3] quando parla di «anedonia generalizzata». Il trionfo della meccanizzazione applicata ai sistemi di produzione e alle catene di montaggio rende disponibile una quantità sconfinata di merci, diverse per prezzo e qualità; in tal modo, affogato tra gli oggetti, l’individuo-compratore crede di realizzare il massimo della sua liberà di scelta, selezionando il bene che più risponde alle sue qualità: la società dei consumi ha sempre qualcosa da offrire ad ognuno! Invece, egli sta solamente assecondando gli istinti suscitatigli dalla pubblicità, la cui invasiva presenza è un’altra caratteristica dei “Tempi Moderni”. Quando tutto si fa superfluo, nulla più ha valore in sé: l’acquisto di beni è in realtà scambio simbolico. Non certo il simbolico dell’arte, ma il simbolico “usa e getta” dello spettacolo: icone di bellezza o giovinezza (artefatte), promesse di un miglioramento nei rapporti individuali (attraverso un’automobile che fa presa sulle donne o mediante il paio di occhiali da sole dell’ultima star hollywoodiana). Ad assicurare l’estasi del godimento, la fine della Storia e, verosimilmente – ma è una ipotesi ancora da verificare – l’indebolimento dell’archivio. Archivio e Storia, in quanto prodotti della memoria, sono organizzazioni temporalmente strutturate. Che ne è dell’archivio dopo che la Storia si è andata assottigliandosi, fino a scomparire del tutto, a causa dell’avvento del tempo reale[4]? Verrebbe subito da pensare che la debolezza archiviale sancisce l’affermazione della pulsione di vita. È così? Davvero la contemporaneità è talmente tanto ricca, sviluppata e potente da poter fare a meno di ricordare?

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2. Vite precarie davanti alla legge

Nella società dello spettacolo – enorme produzione ed accumulazione di immagini[5]– tutto fa notizia, le notizie fanno il giro del mondo e si dissolvono, con la stessa velocità con cui si sono diffuse[6]. Manca, per l’archiviazione, la materia prima, cioè il ricordo. Un altro modo, la descrizione sotto il profilo archiviale, di definire la contemporaneità potrebbe essere: l’epoca dell’oblio istituzionalizzato, al cui interno – secondo la lezione di Heidegger – impera la regola dell’oblio più originario del ricordo. Niente di più e niente di meno rispetto a quanto insegna la saggezza popolare nell’antico adagio che recita così: «Per vivere bisogna dimenticare». Freud stesso lo aveva riconosciuto nei suoi studi sulla rimozione: la coscienza si mette al riparo da ciò che più la preoccupa (o spaventa) fingendo che il trauma non sia mai avvenuto, rimuovendolo e orientando verso il sintomo la pulsione inibita. Avvalendosi degli studi psicoanalitici, Butler[7] sviluppa alcune importanti considerazioni circa il modo d’operare del sistema politico e giuridico negli Usa, a seguito dell’attacco contro le Twin Towers. Soffermandovisi brevemente, sarà possibile ricavare delle impressioni preliminari utili ad intraprendere la lettura di Kafka.

Il dramma dell’11 Settembre ha portato all’attenzione dell’opinione pubblica statunitense la questione della sicurezza nazionale, evidenziando i limiti del sistema di difesa militare. Dall’orrore successivo a tale presa d’atto, ne è scaturito un rafforzamento dei controlli di polizia e la sospensione delle garanzie costituzionali, che ha interessato maggiormente le minoranze e, per “ovvie” ragioni, gli arabi e i seguaci della religione islamica. L’intensificazione di ispezioni e controlli ha potuto essere giustificata mediante una robusta campagna di sensibilizzazione costruita attorno alla (presunta) cospirazione contro gli Stati Uniti dagli “Stati canaglia”. Oltre ad evidenziare come i mass media incidano nella formazione dell’opinione pubblica, creando allarmismi e diffondendo ingiustificate paure (Wells docet), sono altre e di ben altro tenore le inferenze da trarne. Butler, anche seguendo Foucault, lo evidenzia con grande fermezza. Nel clima di isteria generalizzata, il potere politico ha provveduto a rafforzare se stesso, concedendosi, autonomamente, deroghe e proroghe: lo stato d’eccezione. Quest’ultimo, se visto sotto l’aspetto psicanalitico, è nient’altro che un meccanismo violento di rimozione. Per salvarsi da una minaccia (il più delle volte orchestrata), si provvedono a rafforzare i confini, a irrobustire le barriere e ad espellere i corpi estranei presenti all’interno. La necessità di fare ricorso alla forclusione – termine molto caro a Butler – nasce dal bisogno di affermare una identità persa o non interamente definita. I moderni Stati-nazione si sono strutturati sul senso di appartenenza, fin dall’enunciazione del principio del «Cuius regius, eius religius» nel lontano 1555. È altamente probabile, allora, che ci troviamo dinnanzi al sintomo evidente di un malessere che riguarda proprio il modo in cui l’Occidente ha organizzato la vita pubblica al suo interno. Nel silenzio e nella segretezza si compiono annualmente, da quando è finito l’ultimo conflitto mondiale, stermini e genocidi, volti a preservare l’identità nazionale: Bosnia, Cecenia, Iran, Somalia, Armenia – solo per fare qualche esempio tra i più noti. La straordinarietà di Guantanamo, centro cubano di detenzione per i sospetti terroristi in attesa di giudizio, è la sua collocazione geografica: la prigione è lontana da Washington ma sottoposta alla sua giurisdizione. Un segno dei tempi: la smaterializzazione dell’archivio, instrumentum regni, conduce e acconsente alla dislocazione della governamentalità. Tuttavia, il principio al fondo resta sempre lo stesso: annullare le tracce di una diversità che fin dalla notte dei tempi disturba e perturba le comunità umane, rette da una certa solidarietà tra i suoi membri, derivata, a sua volta, dal riconoscersi in valori condivisi. Non ci sembra per niente fuori luogo connettere a tale constatazione uno dei convincimenti di fondo dell’intera speculazione di Emmanuel Lévinas[8]: il sapere occidentale è sempre stato un sapere di appropriazione violenta, l’epopea del Cogito che ha ragione dell’alterità introiettandola; accusa che coinvolge la stessa filosofia, da Socrate in poi, null’altro che una infinita “egologia”. La medesima tendenza sottesa al funzionamento dell’archivio:

 

- l’Uno si guarda dall’Altro per proteggersi:

«Si protegge contro l’Altro, ma nel movimento di questa gelosa violenza, porta con sé in sé, conservandola anche, l’alterità o la differenza a sé (la differenza del con sé) che lo rende Uno»[9].

- l’Uno si fa violenza.

«Si viola e si violenta ma si istituisce anche in violenza. Diviene ciò che è, la violenza stessa che egli si fa»[10].

 

Non è ciò che mostrano le foto che ritraggono i soldati americani in atteggiamenti offensivi della dignità dei detenuti “invisibili” di Guatanamo?

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3. Intermezzo: l’archivio tra metafisica e différance

La “Modernità liquida” ha un qualche rapporto con «la fine delle grandi narrazioni»? E se Kafka fosse vissuto ai nostri giorni, avrebbe scritto comunque Davanti alla legge? Per rispondervi, è necessario procedere gradatamente.

A nostro parere, vi è un legame molto stretto tra la crisi della metafisica e la revenance, la “melanconia postcoloniale”. Il punto di vista è ovviamente quello di un osservatore interno, dunque, già da sempre compromesso (in quanto complice) con l’oblio dell’alterità. Ciò non significa però che il tentativo di operare una rilettura dall’interno, attraverso l’approccio mutuato dagli studi post-coloniali, sia destinato necessariamente al fallimento. Come propone Vattimo[11], il nichilismo può anche rappresentare un’occasione: venuti meno gli schemi gnoseologici classici, per quanto trascendenti pur sempre una Weltanschauung, l’Altro della storia – per secoli e secoli bersaglio del superomismo occidentale –  riemerge. Riemerge dal mare di Lampedusa, quello stesso mare solcato millenni addietro, dai suoi progenitori, messi in moto dal bisogno o forse solo dalla curiosità. La storia dunque si ripete come differimento temporale: la dif-ferance ne è l’essenza. Mantenerne la memoria sotto forma di registrazione archiviale è proceduralmente scorretto, ma tant’è: alla civiltà della metafisica, la civiltà basata sulla cultura dell’Identico, è sempre stato indispensabile ricordare chi fosse, secondo regole e principi ben precisi e sempre uguali. L’archivio era, sotto questo profilo, una garanzia rassicurante: la garanzia con cui si istituzionalizzava il delirio di una sincronia sempre possibile, sempre conseguibile. È qui il cuore del mal d’archivio: ritenere che il suo tempo è il tempo di un passato sempre “a portata di mano”, che è perciò superfluo problematizzare; un passato che va semplicemente riportato alla coscienza. Una domanda è lecita e si fa strada con forza: che ne è allora della rimozione e del problema dell’inconscio? Che fine ha fatto Freud? Lo abbiamo forse rimosso? 

Da un futuro che è sempre anche passato, l’archivio non cessa di insistere e di parlarci. Per quanto lo si possa o voglia negare, è l’ultimo messia della Modernità: una trascendenza numinosa che nel richiamare al passato schiude il futuro. Promessa dell’a-venire, avvenire della promessa.

L’unico assunto che abbiamo deciso di adottare come principio della nostra riflessione è che dopo Auschwitz è possibile concepire il soggetto solo come «soggetto di frontiera»[12]. Insistendo su esso, crediamo di poter sviluppare un’analisi quanto meno sincera – non viziata almeno nelle premesse – di ciò che noi siamo. Ecco perché, dopo Auschwitz, ove pur non si condividesse l’idea di Adorno – dopo i lager, agli uomini è rimasta solamente la poesia – la Storia o ciò che ne resta, non è più affare esclusivo dell’Occidente: il suo “soggetto” si è rivelata essere una costruzione debole, inconsistente, proprio in forza dell’ingenita volontà di potenza – cieca spirale di violenza, conatus essendi fine a se stesso, che, dopo aver conseguito il dominio completo sulla realtà, si è rivolto contro il suo pastore, l’uomo, per trasformarlo nel luogotenente del nulla.

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4. Tentativo di ermeneutica kafkiana

La sensazione di straniamento che domina su tutti gli scritti di Kafka è l’inequivocabile respiro di una società, la società europea, in via di rapida ristrutturazione a causa della Seconda Rivoluzione Industriale. L’incremento produttivo – dovuto all’impiego di nuove materie prime e nuove tecniche di sfruttamento delle stesse – con la conseguente trasformazione del mercato del lavoro – che depauperava il mondo agricolo, ingrossando le fila di proletari nei sobborghi squallidi delle periferie industriali – venivano preparando lo scenario mefistofelico dell’imperialismo di fine Ottocento. All’accrescimento del potere economico e militare degli Stati nazionali faceva seguito una sempre più accurata organizzazione burocratica. L’attenzione per la codificazione delle norme, in cui è implicato anche il compimento del processo di unità nazionale vissuto nello stesso periodo da due dei maggiori Paesi europei (Germania e Italia), i quali si doteranno quindi delle rispettive Costituzioni, è percepita dalla sensibilità dello scrittore di Praga come un insopportabile tirannia del potere. Seguendo l’interpretazione di Kundera[13], l’essenza della kafkianità sarebbe riconducibile a quattro aspetti salienti, da cui estrapoleremo qui il solo che interessa ai fini del nostro discorso: il castigo cerca la colpa e non viceversa. In Davanti alla legge, un campagnolo, topos letterario della bontà e della semplicità, decide di andare a mettersi davanti alla legge. In sé, lo spostamento fisico del dirigersi verso la legge sanziona l’assurdo: la legge non ha luogo, è il non-luogo per eccellenza. Naturalmente, qui intendiamo riferirci alla legge astratta, alle Leggi. Perché il campagnolo è spinto ad andare davanti alla legge? Il racconto non lo spiega, ma noi possiamo provare comunque a immaginarne le ragioni. Il campagnolo potrebbe desiderare di vedere la legge o il legislatore, di farsi identificare da esso, magari per accattivarsene la simpatia. Ad ogni modo, è molto determinato ad entrare, per lo meno all’inizio: egli ha portato con sé, dice Kafka, molte cose, anche preziose, gioielli. Forse, prefigurandosi che sarebbe stato necessario “oliare i meccanismi” della legge, almeno un po’. A prescindere dalle ragioni (consce e inconsce) che lo abbiano spinto lì, il protagonista compie un atto di assoggettamento volontario, giacché, come sostenuto da Althusser, il potere della legge chiede obbedienza, ma contraccambia dando a colui che obbedisce una identità. Ma la faccenda si rivela più complicata del previsto per il campagnolo: ha la sfortuna di incappare in un guardaportone burbero e inflessibile, il quale comunque lo avverte che se pure fosse riuscito ad evadere la sua sorveglianza, avrebbe incontrato ai cancelli successivi guardiani ben più severi e temibili. È interessante notare che la legge è simbolicamente associata ai cancelli, il limite di una proprietà privata non del tutto invalicabile per chi ne ha le chiavi. Va altresì rilevato il ruolo determinante dei guardaportone, rappresentati solo da uno, il primo e il meno importante, oltre che il meno severo. Egli è trasandato nell’aspetto e pavido di cuore, dato che non esita a dichiarare che gli altri colleghi atterriscono perfino lui. Chi custodisce la legge perciò non sempre si distingue per particolari doti morali, anche se, va detto, il primo guardaportone non si lascia corrompere, almeno non con l’intento di arricchirsi. Nell’accettare le profferte del campagnolo è mosso da un impulso di umanità, se così lo si può chiamare. «Accetto – egli dice – solo perché tu abbia la coscienza serena e non possa pensare in futuro d’aver lasciato qualcosa di intentato per riuscire a valicare i cancelli della legge». La situazione resta immutata: il campagnolo staziona per anni davanti al cancello ed ogni tanto suscita la curiosità dell’antagonista che lo interroga su inezie e futilità. Fatto sta che il campagnolo, occupato dalla visione del guardaportone, si dimentica degli altri e si adatta a vivere nell’attesa. Kafka dice infatti che se all’inizio borbotta e impreca a voce alta, poi smette e si limita a protestare sottovoce. Passano gli anni, invecchia e, in punto di morte, formula la domanda più importante, cioè: «Perché solo io aspetto a questo varco? Perché non ci sono altri con me?». Siccome sta per morire, il guardaporte può rispondere e la risposta riassume il senso di tutto il racconto. «Nessuno può accedere alla legge dal cancello che non è destinato a lui. Ora che stai per morire, io vado via. Chiudo il varco e il mio lavoro è terminato».

Interpretare Kafka è notoriamente difficile, ma, se è vero che nessuna opera appartiene al suo autore, il quale nel momento stesso in cui l’ha conclusa se ne distacca e la consegna alla Storia, all’Arte, alla sensibilità del fruitore, allora qualunque rilettura è lecita, ha una sua intrinseca validità.

L’impressione generale è che il racconto voglia sanzionare l’impossibilità del cittadino comune ad accedere alla legge, ad avvalersene per difendere i propri diritti. Kafka lo esemplifica molto bene, ricorrendo all’immagine dei cancelli e dei guardiani dei cancelli. L’unico di essi cui dà voce, peraltro, appare cinico e sembra non sapere la ragione del suo lavoro di sorveglianza. Ogni tanto si interessa al campagnolo, ma solo per rompere la monotonia della mansione che svolge. Tra chi amministra e chi subisce la legge difficilmente si creano legami di solidarietà e di amicizia: ciò è necessario ai fini di una corretta ed imparziale amministrazione della legge. Questa, da Antigone in poi, non avrà mai un volto umano.

Il vero protagonista del racconto, il grande assente, è la legge, oltre ai più alti in grado tra i guardiani. Alla fine del racconto essa però si manifesta, come una luce prorompente e ininterrotta, abbagliante; inversamente proporzionale alla luce nello sguardo del campagnolo, che dopo una vita d’attesa e sacrificio, sta per abbandonarsi alla morte, ma prima, con un ultimo, eroico, sussulto porge la fatidica domanda. Per ricevere l’altrettanto fatidica risposta. In questo tono surreale, più di quanto il racconto già non fosse, Kafka conclude. L’intera esistenza di un uomo si spegne dinnanzi ad un cancello spalancato ed immediatamente richiuso. Come se la morte solo potesse porre rimedio alla tragica assurdità delle vita, anche quella retta, osservante. Il campagnolo che spira sapendo che esisteva un cancello destinato solo a lui non sarà di certo, perciò, più felice. Né il guardaporte, terminato il suo lavoro, si sarà sentito sollevato. A trionfare, nonostante tutto e comunque, è la legge: impersonale, immateriale, ma luminosa. Perché Kafka la descrive così? Perché la legge resiste al tempo e alla morte? Ma è poi vero che vi resiste? E se è così forte da vincere sul tempo, perché tanti cancelli e tanti saloni? Che ne è della legge quando anche l’ultimo uomo sarà morto? I guardaportoni muoiono?

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5. Conclusioni finali

L’idea che la legge sia tale, a prescindere da chi la interpreti, è una idea specificatamente occidentale e di un certo Occidente, la sua declinazione moderna. È comunque raro osservare nella storia dell’Occidente, salvo poche eccezioni, sovrani che si presentino come divinità, dunque investiti di un potere divino. Ma tale idea non ha certo mai potuto garantire che a dominare la vita delle comunità occidentali in epoca moderna fosse la giustizia, anzi… Il racconto di Kafka, un racconto tra i più kafkiani, evidenzia il conflitto tragico tra legge e carne, tra norma e vita. Ogni società funziona se, dal di sopra, un apparato di esecutori imparziali applica le regole e sanziona i trasgressori. Tale apparato è lo Stato sovrano, cui solo è riconosciuto di ricorrere legittimamente alla forza. La legge dello Stato, la legge che fa lo Stato, è una legge forte, cioè imposta. Tanto più forte se scritta, fissata su un supporto e conservata a memoria dei posteri. Allo Stato si accompagna sempre l’archivio e, siccome l’archivio conserva le leggi, esso stesso, per la proprietà transitiva, diventa forte, violento. L’archivio, come la legge, ha il potere della morte, non in senso letterale, anche se innumerevoli volte è stato così. In senso più teoretico, l’archivio si accompagna alla morte, la esercita e la amministra, pur andando contro la pulsione di morte, cioè pur adoperandosi alla conservazione delle tracce. L’archivio infatti gioca per la reductio ad unum, cioè per la riduzione delle differenze, la loro cancellazione, preludio per una omologazione che consentirà poi l’assimilazione di ciò che fu l’alterità. Ecco perché è mortifero. Sebbene, conservi traccia della legge e mantenga la memoria, si scinde: non conserva mai traccia riflessiva di sé, cioè l’archivio non ricorda mai di sé che opera, che compie e amministra la violenza. Anche l’archivio in fondo è dimenticanza, un oblio di sé. Anche l’archivio perciò rimuove, traslando nell’inconscio collettivo – l’archivio è memoria generale – le tracce del male arrecato. Il male d’archivio è dunque anche il male compiuto dall’archivio, che si sente portatore dei valori della Legge, ovvero Giustizia, Eguaglianza e Pace. Nel suo essere origine e centro di potere, apparato e supporto di memoria, l’archivio ha necessità di dimenticare come funziona, di forcludersi. L’archivio è contro se stesso, lo ricorda anche Derrida. Specie se è l’archivio della modernità post-coloniale, che ha da fare i conti con la melanconia: la scoperta di un lutto mai davvero superato, che assume le fattezze del rimosso che ritorna e che riviene dal Terzo o del Quarto Mondo.

La fine della metafisica (e la morte di Dio), in fondo, conduce alla morte dell’uomo, schiacciato e oppresso nel perimetro ristretto del villaggio globale, dove si è consumato il più perfetto dei delitti – l’uccisione della realtà. Inchiodato ad un tempo senza tempo, quel che ne resta dell’umano si muove tra gli spettri di merci senz’anima, sempre in esubero, sempre superflue. Nel «mondo-senza-mondo» di Internet, nulla occorre, non esistono bisogni né lutti veri, solo desideri effimeri e felicità a buon mercato, miracoli e traumi. Il tempo è il ritmo scandito dalla produzione economica, capace di trasformare perfino il tempo libero in consumo. L’essenza di una vita intera si concentra attorno all’acquisto, cosicché dal «Cogito ergo sum» si passa al «Spreco ergo sum»: attività prevalente diviene non il pensiero, ma lo spreco. Che ne è dell’archivio allora? A chi serve l’archivio? È ancora funzionale al potere politico? Non ci sentiamo di escluderlo totalmente, ma non crediamo che si potrà conservare nelle forme classiche com’è stato finora. Il destino dell’archivio, proprio in quanto destino della Memoria, è una questione relativa all’a-venire. Eppure: che possibilità di a-venire vi sono dopo la fine della Storia? La fine delle grandi narrazioni rende problematica la sopravvivenza dell’archivio, la reificazione della pretesa idealistica di dominio incondizionato della coscienza sul tempo. Ma, appunto il tempo non esiste più: morte dell’uomo =  fine della Storia = fine del tempo. Cosa resta se non archivi liquidi? Archivi che non richiedono supporti fisici, archivi evanescenti. Archivi privi di cancelli, dunque, e senza guardaporte in quanto virtuali, immateriali, non localizzabili. Quella luce con cui Kafka designa la legge nel suo racconto, risalente all’epoca dell’archivio-con-supporto, si tramuterebbe, in una ipotetica trasposizione contemporanea, nella pulsazione intermittente del monitor di un calcolatore. Il campagnolo sarebbe un hacker (stile Assange) e i guardaporte gli addetti informatici alla sicurezza nazionale.

La morte dell’archivio – nella forma a noi nota – ovvero la sua smaterializzazione, dovrebbe dare avvio ad un inteso dibattito circa le prospettive future del nostro vivere associato. Non sembra però che siano in tanti a darsene pena. Forse perché anche l’archivio ha finito per essere rimosso! Da chi? Le infinite possibilità di acquisizione e scambio di notizie assicurato da Internet e dai social network appaiono un buon surrogato, in termini psicoanalitici: un contro investimento. Tuttavia, come spesso ha ricordato Freud, il rimosso affiora, riportato alla luce da un evento esterno imprevisto; che lo si voglia identificare con l’11 Settembre, con la lotta al terrorismo, con la “Primavera araba”. Oltre il nostro Occidente, si muove, respira, vive un mondo altro, capace di esprimersi in inglese, pilotare aerei, rivendicare diritti politici. Insomma, non più disposto a lasciarsi sfruttare, colonizzare, dominare. Che ci ricorda, nelle persone dei wop, gli statless, che al di fuori dei nostri confini, delle nostre Costituzioni, esiste altra vita. Che, dunque, nella sua foga archiviatrice, l’Occidente ha tralasciato, per arroganza e faciloneria, altre storie, altre culture. Il nostro dubbio è che non poteva che essere così, dal momento che ogni civiltà ed ogni cultura ha il suo modo di custodire la memoria e, pertanto, il campagnolo di Kafka incarna il prototipo dell’uomo occidentale. Egli, meravigliato, si domanda perché mai c’è solo lui davanti ai cancelli della legge, perché solo lui ha avvertito la necessità di recarsi all’archivio. L’unica risposta possibile è appunto quella che gli dà il guardaporte: «Ci sei solo tu perché solo l’accesso è riservato solo a te». Aggiungeremmo, a completamento, che l’archivio si dà sempre come archivio dell’Occidente.

 

GIUGNO 2012

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[1]  J. Derrida, Mal d’archivio, Filema, Napoli 2005, p. 30.

[2] Cfr. S. Freud, Il disagio della civiltà in Il disagio della civiltà e altri saggi, Bollati Boringhieri, Torino 1975.

[3] Cfr. J. Baudrillard, La società dei consumi i suoi miti e le strutture, Il Mulino, Bologna 1976.

[4] Ne parla Baudrillard in Il delitto perfetto: chi ha ucciso la realtà?, edito da Raffaello Cortina, Milano 1996. Si veda anche infra, G. Trapanese, Baudrillard, Il delitto perfetto. Un invito alla lettura, [N.d.R].

[5] Cfr. G. Debord, La società dello spettacolo, Dalai, Roma 2008.

[6] Cfr. M. Perniola, Miracoli e traumi della comunicazione, Einaudi, Torino 2009.

[7] Cfr. J. Butler, Vite precarie, Meltemi, Roma 2004.

[8] Cfr. E. Lévinas, Etica e infinito, Città aperta, Roma 1984.

[9] J. Derrida J, cit., p. 96.

[10] Iidem.

[11] G. Vattimo, Nichilismo ed emancipazione, Garzanti, Torino 2003.

[12] Cfr. J. Chambers, Paesaggi migratori, Meltemi, Roma 2003.

[13] Cfr. il saggio di presentazione di Giulio Raio, Antinomia e allegoria, nell’edizione completa degli scritti di Kafka della Newton Compton, pp. 175-178.