Esperienza e rappresentazione
IN MORTE DELL'ARCHIVIO
Annelise D'Egidio
Cambia qualcosa il
fatto che Freud
non abbia conosciuto il
computer?
(Mal d’archivio, J. Derrida)
L’accetto, perché tu
non pensi
di aver trascurato
qualcosa.
Premessa
Seguendo il tentativo freudiano di
rilettura del romanzo di Jensen, Gradiva, vorremmo provare a decifrare il significato implicito che
si cela in Davanti alla legge
di Kafka. L’ipotesi da cui partiamo è l’idea che tale novella possa
rappresentare allegoricamente il meccanismo di funzionamento dell’archivio, così come lo ha descritto Derrida in Mal d’archivio. Evidentemente, ne condividiamo la tesi di fondo e
cioè che il problema dell’archiviazione è una questione di memoria e,
dunque, di potere; ancor più urgente, al giorno d’oggi, l’epoca
indiscussa della virtualità e dell’Alta Definizione. Che rapporto e
quali conseguenze vi sono per l’archivio? Che tipo d’archivio sarà mai
un archivio web? Più sicuro o più libero? Proprio perché «la
questione dell’archivio è la questione dell’avvenire», i suddetti
interrogativi riguardano tutti e ciascuno di noi: «si vive come si
archivia e si archivia come si vive»[1].
1. Archivio e Modernità
In quanto problema della memoria,
riflessione sulle modalità di ritenzione del ricordo e di catalogazione
della Storia, l’archivio costituisce un punto di interesse per la
psicanalisi. Normalmente, si archivia ciò che è stato, dunque quanto
specificatamente afferisce al passato, e Husserl ha insegnato che esso
può essere riportato alla coscienza mediante
ripresentazione. Tuttavia, gli studi psicanalitici hanno dimostrato
la fallacità che sovente contraddistingue l’atto della
rimemorazione: i traumi d’infanzia, per esempio, tendono ad essere
rimossi e collocati nell’inconscio. Ciò avviene non senza conseguenze
per l’identità del soggetto e per la sua stessa salute psichica. Eppure,
il ricordo doloroso sovraccarica emotivamente gli equilibri interiori,
così da essere percepito come una minaccia
perturbante. Pertanto, la
rimozione è da ritenersi un meccanismo di difesa interiore – l’omologo
della fuga dinnanzi al pericolo di aggressione fisica – volto alla
conservazione della vita. Dato che, comunque, nella vita psichica nulla
si perde, ma muta solo d’aspetto, il ricordo traumatico confinato
nell’inconscio sviluppa un sintomo. Fissazioni, ossessioni, anche i
lapsus, sono le tracce tangibili di un processo morboso in atto: la
rimozione è in sé un contro-investimento nervoso, l’esercizio di una
forza che finisce per intrappolare l’Io in una pericolosissima coazione
a ripetere. Essendo, in effetti, un sistema di organizzazione di
energie, la psiche mira primariamente alla stabilizzazione di sé stessa.
Sotto quest’aspetto, opera dunque come opera un archivio. Ai fini della
sopravvivenza le è indispensabile serbar traccia delle esperienze
acquisite: la “modernità filosofica”, che ha il merito di secolarizzare
la nozione di “soggetto” e prepararlo alla conquista dell’America, era
stata aperta – e non è un caso
– dalle riflessioni sul metodo,
con Cartesio e Bacone. È chiaro, allora, che il problema della memoria è
il problema dell’identità: chi detiene l’archivio ha il potere di
decidere sull’origine (l’arché), di fondare i fondamenti e
stendere le leggi (nòmos). Come indica la radice etimologica
comune, origine (arché) e archivio (archèion) si
co-appartengono: senza l’una non si dà l’altro e viceversa. Mantenendo
l’archivio, i patriarchi conservavano la memoria, la tradizione e
l’identità del popolo. La loro persona era perciò inviolabile e la loro
abitazione, dove i documenti erano custoditi, sacra. Per come ce lo ha
consegnato la psicanalisi, l’archivio può essere sempre e solo inciso su
supporto fisico (il cervello, il corpo nel caso della circoncisione tra
gli ebrei, esempio cui Derrida si riferisce in
Mal d’archivio). La fissazione
della norma garantisce dall’abuso della legge, oltre a impedirne la
dispersione; cioè, quindi, l’archivio interviene lì dove la memoria cede
e si fa labile. Pulsione di vita contro pulsione di morte, dunque,
giacché a ricordare ogni istante vissuto, ogni episodio occorsogli, il
soggetto rischierebbe non solo la pazzia, ma l’annichilimento: la
voluminosità dell’opera proustiana ne offre una schiacciante riprova.
La memoria che cancella e dimentica è
infatti pulsione di morte, cupio
dissolvi. In sé, l’archivio è connotabile come la violenza di un
potere, Gewalt, ma,
d’altronde, senza violenza – Benjamin vi ha insistito spesso – non c’è
diritto. Parimenti, si potrebbe dire che senza rimozione non c’è salute
psichica né identità di coscienza per il soggetto. Tale assunto vale per
tutti gli esseri viventi, dai più complessi (l’uomo) ai più semplici
(batteri e funghi). La complicazione sorge quando la rimozione non è
interna, ma indotta dall’esterno, cioè quando le norme del vivere in
società impongono il differimento del soddisfacimento pulsionale. Anche
di questo aspetto Freud si è occupato[2], inaugurando un ambito
di ricerche prolifico ed interessantissimo, i cui maggiori frutti ci
sembra di poter rintracciare nella Scuola critica di Francoforte
(Adorno, Marcuse, Horkheimer). Detto filone, adoperando congiuntamente
la critica marxista e i precetti psicanalitici,
realizza una disamina attenta delle condizioni socio-culturali
delle società di massa formatesi dal secondo dopoguerra. L’attenta
pianificazione scientifica, che scandisce i ritmi di produzione e di
vita all’interno delle società industriali, assume l’aspetto di un vero
e proprio “furto del tempo”. Non si tratta più, cioè, di realizzare
plusvalore monetario sottopagando i proletari, ma di irreggimentare i
corpi e le coscienze entro un totalitarismo invisibile e, proprio per
questo, più vigoroso. Dice bene Baudrillard[3] quando parla di
«anedonia generalizzata». Il trionfo della meccanizzazione applicata ai
sistemi di produzione e alle catene di montaggio rende disponibile una
quantità sconfinata di merci, diverse per prezzo e qualità; in tal modo,
affogato tra gli oggetti, l’individuo-compratore crede di realizzare il
massimo della sua liberà di scelta, selezionando il bene che più
risponde alle sue qualità: la società dei consumi ha sempre qualcosa da
offrire ad ognuno! Invece, egli sta solamente assecondando gli istinti
suscitatigli dalla pubblicità, la cui invasiva presenza è un’altra
caratteristica dei “Tempi Moderni”. Quando tutto si fa superfluo, nulla
più ha valore in sé: l’acquisto di beni è in realtà scambio simbolico.
Non certo il simbolico dell’arte, ma il simbolico “usa e getta” dello spettacolo:
icone di bellezza o giovinezza (artefatte), promesse di un miglioramento
nei rapporti individuali (attraverso un’automobile che fa presa sulle
donne o mediante il paio di occhiali da sole dell’ultima star
hollywoodiana). Ad assicurare l’estasi del godimento, la fine della
Storia e, verosimilmente – ma è una ipotesi ancora da verificare –
l’indebolimento dell’archivio. Archivio e Storia, in quanto prodotti
della memoria, sono organizzazioni temporalmente strutturate. Che ne è
dell’archivio dopo che la Storia si è andata assottigliandosi, fino a
scomparire del tutto, a causa dell’avvento del
tempo reale[4]?
Verrebbe subito da pensare che la debolezza archiviale sancisce
l’affermazione della pulsione di vita. È così? Davvero la
contemporaneità è talmente tanto ricca, sviluppata e potente da poter
fare a meno di ricordare?
2. Vite precarie davanti alla legge
Nella società dello spettacolo – enorme
produzione ed accumulazione di immagini[5]– tutto fa notizia, le
notizie fanno il giro del mondo e si dissolvono, con la stessa velocità
con cui si sono diffuse[6]. Manca, per
l’archiviazione, la materia prima, cioè il ricordo. Un altro modo, la
descrizione sotto il profilo archiviale, di definire la contemporaneità
potrebbe essere: l’epoca dell’oblio istituzionalizzato, al cui interno –
secondo la lezione di Heidegger – impera la regola dell’oblio più
originario del ricordo. Niente di più e niente di meno rispetto a quanto
insegna la saggezza popolare nell’antico adagio che recita così: «Per
vivere bisogna dimenticare». Freud stesso lo aveva riconosciuto nei suoi
studi sulla rimozione: la coscienza si mette al riparo da ciò che più la
preoccupa (o spaventa) fingendo che il trauma non sia mai avvenuto,
rimuovendolo e orientando verso il sintomo la pulsione inibita.
Avvalendosi degli studi psicoanalitici, Butler[7] sviluppa alcune
importanti considerazioni circa il modo d’operare del sistema politico e
giuridico negli Usa, a seguito dell’attacco contro le Twin Towers.
Soffermandovisi brevemente, sarà possibile ricavare delle impressioni
preliminari utili ad intraprendere la lettura di Kafka.
Il dramma dell’11 Settembre ha portato
all’attenzione dell’opinione pubblica statunitense la questione della
sicurezza nazionale, evidenziando i limiti del sistema di difesa
militare. Dall’orrore successivo a tale presa d’atto, ne è scaturito un
rafforzamento dei controlli di polizia e la sospensione delle garanzie
costituzionali, che ha interessato maggiormente le minoranze e, per
“ovvie” ragioni, gli arabi e i seguaci della religione islamica.
L’intensificazione di ispezioni e controlli ha potuto essere
giustificata mediante una robusta campagna di sensibilizzazione
costruita attorno alla (presunta) cospirazione contro gli Stati Uniti
dagli “Stati canaglia”. Oltre ad evidenziare come i mass media incidano
nella formazione dell’opinione pubblica, creando allarmismi e
diffondendo ingiustificate paure (Wells docet), sono altre e di
ben altro tenore le inferenze da trarne. Butler, anche seguendo
Foucault, lo evidenzia con grande fermezza. Nel clima di isteria
generalizzata, il potere politico ha provveduto a rafforzare se stesso,
concedendosi, autonomamente, deroghe e proroghe: lo stato d’eccezione.
Quest’ultimo, se visto sotto l’aspetto psicanalitico, è nient’altro che
un meccanismo violento di rimozione. Per salvarsi da una minaccia (il
più delle volte orchestrata), si provvedono a rafforzare i confini, a
irrobustire le barriere e ad espellere i corpi estranei presenti
all’interno. La necessità di fare ricorso alla
forclusione – termine molto
caro a Butler – nasce dal bisogno di affermare una identità persa o non
interamente definita. I moderni Stati-nazione si sono strutturati sul
senso di appartenenza, fin dall’enunciazione del principio del «Cuius regius, eius religius» nel lontano 1555. È altamente
probabile, allora, che ci troviamo dinnanzi al sintomo evidente di un
malessere che riguarda proprio il modo in cui l’Occidente ha organizzato
la vita pubblica al suo interno. Nel silenzio e nella segretezza si
compiono annualmente, da quando è finito l’ultimo conflitto mondiale,
stermini e genocidi, volti a preservare l’identità nazionale: Bosnia,
Cecenia, Iran, Somalia, Armenia – solo per fare qualche esempio tra i
più noti. La straordinarietà di Guantanamo, centro cubano di detenzione
per i sospetti terroristi in attesa di giudizio, è la sua collocazione
geografica: la prigione è lontana da Washington ma sottoposta alla sua
giurisdizione. Un segno dei tempi: la smaterializzazione dell’archivio,
instrumentum regni, conduce e acconsente alla dislocazione della
governamentalità. Tuttavia, il
principio al fondo resta sempre lo stesso: annullare le tracce di una
diversità che fin dalla notte dei tempi disturba e perturba le comunità
umane, rette da una certa solidarietà tra i suoi membri, derivata, a sua
volta, dal riconoscersi in valori condivisi. Non ci sembra per niente
fuori luogo connettere a tale constatazione uno dei convincimenti di
fondo dell’intera speculazione di Emmanuel Lévinas[8]: il sapere occidentale
è sempre stato un sapere di appropriazione violenta, l’epopea del Cogito
che ha ragione dell’alterità introiettandola; accusa che coinvolge la
stessa filosofia, da Socrate in poi, null’altro che una infinita
“egologia”. La medesima tendenza sottesa al funzionamento dell’archivio:
-
l’Uno si
guarda dall’Altro per proteggersi:
«Si protegge contro l’Altro, ma nel movimento di questa gelosa violenza,
porta con sé in sé, conservandola anche, l’alterità o la differenza a sé
(la differenza del con sé) che lo rende
Uno»[9].
-
l’Uno si
fa violenza.
«Si viola e si violenta ma si istituisce anche in violenza. Diviene ciò
che è, la violenza stessa che egli si fa»[10].
Non è ciò che mostrano le foto che
ritraggono i soldati americani in atteggiamenti offensivi della dignità
dei detenuti “invisibili” di Guatanamo?
3. Intermezzo: l’archivio tra metafisica e
différance
La “Modernità liquida” ha un qualche
rapporto con «la fine delle grandi narrazioni»? E se Kafka fosse vissuto
ai nostri giorni, avrebbe scritto comunque
Davanti alla legge? Per
rispondervi, è necessario procedere gradatamente.
A nostro parere, vi è un legame molto
stretto tra la crisi della metafisica e la
revenance, la “melanconia
postcoloniale”. Il punto di vista è ovviamente quello di un osservatore
interno, dunque, già da sempre compromesso (in quanto complice) con
l’oblio dell’alterità. Ciò non significa però che il tentativo di
operare una rilettura dall’interno, attraverso l’approccio mutuato dagli
studi post-coloniali, sia destinato necessariamente al fallimento. Come
propone Vattimo[11], il nichilismo può
anche rappresentare un’occasione: venuti meno gli schemi gnoseologici
classici, per quanto trascendenti pur sempre una
Weltanschauung, l’Altro della
storia – per secoli e secoli bersaglio del superomismo occidentale –
riemerge. Riemerge dal mare di Lampedusa, quello stesso mare
solcato millenni addietro, dai suoi progenitori, messi in moto dal
bisogno o forse solo dalla curiosità. La storia dunque si ripete come
differimento temporale: la
dif-ferance ne è l’essenza. Mantenerne la memoria sotto forma di
registrazione archiviale è proceduralmente scorretto, ma tant’è: alla
civiltà della metafisica, la civiltà basata sulla cultura dell’Identico,
è sempre stato indispensabile ricordare chi fosse, secondo regole e
principi ben precisi e sempre uguali. L’archivio era, sotto questo
profilo, una garanzia rassicurante: la garanzia con cui si
istituzionalizzava il delirio di una sincronia sempre possibile, sempre
conseguibile. È qui il cuore del mal d’archivio: ritenere che il suo
tempo è il tempo di un passato sempre “a portata di mano”, che è perciò
superfluo problematizzare; un passato che va semplicemente riportato
alla coscienza. Una domanda è lecita e si fa strada con forza: che ne è
allora della rimozione e del problema dell’inconscio? Che fine ha fatto
Freud? Lo abbiamo forse rimosso?
Da un futuro che è sempre anche passato,
l’archivio non cessa di insistere e di parlarci. Per quanto lo si possa
o voglia negare, è l’ultimo messia della Modernità: una trascendenza
numinosa che nel richiamare al passato schiude il futuro. Promessa
dell’a-venire, avvenire della promessa.
L’unico assunto che abbiamo deciso di
adottare come principio della nostra riflessione è che dopo Auschwitz è
possibile concepire il soggetto solo come «soggetto di frontiera»[12].
Insistendo su esso, crediamo di poter sviluppare un’analisi quanto meno
sincera – non viziata almeno nelle premesse – di ciò che noi siamo. Ecco
perché, dopo Auschwitz, ove pur non si condividesse l’idea di Adorno –
dopo i lager, agli uomini è rimasta solamente la poesia – la Storia o
ciò che ne resta, non è più affare esclusivo dell’Occidente: il suo
“soggetto” si è rivelata essere una costruzione debole, inconsistente,
proprio in forza dell’ingenita
volontà di potenza – cieca spirale di violenza, conatus essendi
fine a se stesso, che, dopo aver conseguito il dominio completo sulla
realtà, si è rivolto contro il suo
pastore, l’uomo, per trasformarlo nel luogotenente del nulla.
4. Tentativo di ermeneutica kafkiana
La sensazione di straniamento che domina
su tutti gli scritti di Kafka è l’inequivocabile respiro di una società,
la società europea, in via di rapida ristrutturazione a causa della
Seconda Rivoluzione Industriale. L’incremento produttivo – dovuto
all’impiego di nuove materie prime e nuove tecniche di sfruttamento
delle stesse – con la conseguente trasformazione del mercato del lavoro
– che depauperava il mondo agricolo, ingrossando le fila di proletari
nei sobborghi squallidi delle periferie industriali – venivano
preparando lo scenario mefistofelico dell’imperialismo di fine
Ottocento. All’accrescimento del potere economico e militare degli Stati
nazionali faceva seguito una sempre più accurata organizzazione
burocratica. L’attenzione per la codificazione delle norme, in cui è
implicato anche il compimento del processo di unità nazionale vissuto
nello stesso periodo da due dei maggiori Paesi europei (Germania e
Italia), i quali si doteranno quindi delle rispettive Costituzioni, è
percepita dalla sensibilità dello scrittore di Praga come un
insopportabile tirannia del potere. Seguendo l’interpretazione di
Kundera[13], l’essenza della
kafkianità sarebbe riconducibile a quattro aspetti salienti, da cui
estrapoleremo qui il solo che interessa ai fini del nostro discorso: il
castigo cerca la colpa e non viceversa. In
Davanti alla legge, un
campagnolo, topos letterario della bontà e della semplicità,
decide di andare a mettersi davanti alla legge. In sé, lo spostamento
fisico del dirigersi verso la legge sanziona l’assurdo: la legge non ha
luogo, è il non-luogo per eccellenza. Naturalmente, qui intendiamo
riferirci alla legge astratta, alle Leggi. Perché il campagnolo è spinto
ad andare davanti alla legge? Il racconto non lo spiega, ma noi possiamo
provare comunque a immaginarne le ragioni. Il campagnolo potrebbe
desiderare di vedere la legge o il legislatore, di farsi identificare da
esso, magari per accattivarsene la simpatia. Ad ogni modo, è molto
determinato ad entrare, per lo meno all’inizio: egli ha portato con sé,
dice Kafka, molte cose, anche preziose, gioielli. Forse, prefigurandosi
che sarebbe stato necessario “oliare i meccanismi” della legge, almeno
un po’. A prescindere dalle ragioni (consce e inconsce) che lo abbiano
spinto lì, il protagonista compie un atto di assoggettamento volontario,
giacché, come sostenuto da Althusser, il potere della legge chiede
obbedienza, ma contraccambia dando a colui che obbedisce una identità.
Ma la faccenda si rivela più complicata del previsto per il campagnolo:
ha la sfortuna di incappare in un guardaportone burbero e inflessibile,
il quale comunque lo avverte che se pure fosse riuscito ad evadere la
sua sorveglianza, avrebbe incontrato ai cancelli successivi guardiani
ben più severi e temibili. È interessante notare che la legge è
simbolicamente associata ai cancelli, il limite di una proprietà privata
non del tutto invalicabile per chi ne ha le chiavi. Va altresì rilevato
il ruolo determinante dei guardaportone, rappresentati solo da uno, il
primo e il meno importante, oltre che il meno severo. Egli è trasandato
nell’aspetto e pavido di cuore, dato che non esita a dichiarare che gli
altri colleghi atterriscono perfino lui. Chi custodisce la legge perciò
non sempre si distingue per particolari doti morali, anche se, va detto,
il primo guardaportone non si lascia corrompere, almeno non con
l’intento di arricchirsi. Nell’accettare le profferte del campagnolo è
mosso da un impulso di umanità, se così lo si può chiamare. «Accetto –
egli dice – solo perché tu abbia la coscienza serena e non possa pensare
in futuro d’aver lasciato qualcosa di intentato per riuscire a valicare
i cancelli della legge». La situazione resta immutata: il campagnolo
staziona per anni davanti al cancello ed ogni tanto suscita la curiosità
dell’antagonista che lo interroga su inezie e futilità. Fatto sta che il
campagnolo, occupato dalla visione del guardaportone, si dimentica degli
altri e si adatta a vivere nell’attesa. Kafka dice infatti che se
all’inizio borbotta e impreca a voce alta, poi smette e si limita a
protestare sottovoce. Passano gli anni, invecchia e, in punto di morte,
formula la domanda più importante, cioè: «Perché solo io aspetto a
questo varco? Perché non ci sono altri con me?». Siccome sta per morire,
il guardaporte può rispondere e la risposta riassume il senso di tutto
il racconto. «Nessuno può accedere alla legge dal cancello che non è
destinato a lui. Ora che stai per morire, io vado via. Chiudo il varco e
il mio lavoro è terminato».
Interpretare Kafka è notoriamente
difficile, ma, se è vero che nessuna opera appartiene al suo autore, il
quale nel momento stesso in cui l’ha conclusa se ne distacca e la
consegna alla Storia, all’Arte, alla sensibilità del fruitore, allora
qualunque rilettura è lecita, ha una sua intrinseca validità.
L’impressione generale è che il racconto
voglia sanzionare l’impossibilità del cittadino comune ad accedere alla
legge, ad avvalersene per difendere i propri diritti. Kafka lo
esemplifica molto bene, ricorrendo all’immagine dei cancelli e dei
guardiani dei cancelli. L’unico di essi cui dà voce, peraltro, appare
cinico e sembra non sapere la ragione del suo lavoro di sorveglianza.
Ogni tanto si interessa al campagnolo, ma solo per rompere la monotonia
della mansione che svolge. Tra chi amministra e chi subisce la legge
difficilmente si creano legami di solidarietà e di amicizia: ciò è
necessario ai fini di una corretta ed imparziale amministrazione della
legge. Questa, da Antigone in poi, non avrà mai un volto umano.
Il vero protagonista del racconto, il
grande assente, è la legge, oltre ai più alti in grado tra i guardiani.
Alla fine del racconto essa però si manifesta, come una luce prorompente
e ininterrotta, abbagliante; inversamente proporzionale alla luce nello
sguardo del campagnolo, che dopo una vita d’attesa e sacrificio, sta per
abbandonarsi alla morte, ma prima, con un ultimo, eroico, sussulto porge
la fatidica domanda. Per ricevere l’altrettanto fatidica risposta. In
questo tono surreale, più di quanto il racconto già non fosse, Kafka
conclude. L’intera esistenza di un uomo si spegne dinnanzi ad un
cancello spalancato ed immediatamente richiuso. Come se la morte solo
potesse porre rimedio alla tragica assurdità delle vita, anche quella
retta, osservante. Il campagnolo che spira sapendo che esisteva un
cancello destinato solo a lui non sarà di certo, perciò, più felice. Né
il guardaporte, terminato il suo lavoro, si sarà sentito sollevato. A
trionfare, nonostante tutto e comunque, è la legge: impersonale,
immateriale, ma luminosa. Perché Kafka la descrive così? Perché la legge
resiste al tempo e alla morte? Ma è poi vero che vi resiste? E se è così
forte da vincere sul tempo, perché tanti cancelli e tanti saloni? Che ne
è della legge quando anche l’ultimo uomo sarà morto? I guardaportoni
muoiono?
5. Conclusioni finali
L’idea che la legge sia tale, a
prescindere da chi la interpreti, è una idea specificatamente
occidentale e di un certo Occidente, la sua declinazione moderna. È
comunque raro osservare nella storia dell’Occidente, salvo poche
eccezioni, sovrani che si presentino come divinità, dunque investiti di
un potere divino. Ma tale idea non ha certo mai potuto garantire che a
dominare la vita delle comunità occidentali in epoca moderna fosse la
giustizia, anzi… Il racconto di Kafka, un racconto tra i più kafkiani,
evidenzia il conflitto tragico tra legge e carne, tra norma e vita. Ogni
società funziona se, dal di sopra, un apparato di esecutori imparziali
applica le regole e sanziona i trasgressori. Tale apparato è lo Stato
sovrano, cui solo è riconosciuto di ricorrere legittimamente alla forza.
La legge dello Stato, la legge che fa lo Stato, è una legge forte, cioè
imposta. Tanto più forte se scritta, fissata su un supporto e conservata
a memoria dei posteri. Allo Stato si accompagna sempre l’archivio e,
siccome l’archivio conserva le leggi, esso stesso, per la proprietà
transitiva, diventa forte, violento. L’archivio, come la legge, ha il
potere della morte, non in senso letterale, anche se innumerevoli volte
è stato così. In senso più teoretico, l’archivio si accompagna alla
morte, la esercita e la amministra, pur andando contro la pulsione di
morte, cioè pur adoperandosi alla conservazione delle tracce. L’archivio
infatti gioca per la reductio ad
unum, cioè per la riduzione delle differenze, la loro cancellazione,
preludio per una omologazione che consentirà poi l’assimilazione di ciò
che fu l’alterità. Ecco perché è mortifero. Sebbene, conservi traccia
della legge e mantenga la memoria, si scinde: non conserva mai traccia
riflessiva di sé, cioè l’archivio non ricorda mai di sé che opera, che
compie e amministra la violenza. Anche l’archivio in fondo è
dimenticanza, un oblio di sé. Anche l’archivio perciò rimuove, traslando
nell’inconscio collettivo – l’archivio è memoria generale – le tracce
del male arrecato. Il male d’archivio è dunque anche il male compiuto
dall’archivio, che si sente portatore dei valori della Legge, ovvero
Giustizia, Eguaglianza e Pace. Nel suo essere origine e centro di
potere, apparato e supporto di memoria, l’archivio ha necessità di
dimenticare come funziona, di forcludersi. L’archivio è contro se
stesso, lo ricorda anche Derrida. Specie se è l’archivio della modernità
post-coloniale, che ha da fare i conti con la melanconia: la scoperta di
un lutto mai davvero superato, che assume le fattezze del rimosso che
ritorna e che riviene dal Terzo o del Quarto Mondo.
La fine della metafisica (e la morte di
Dio), in fondo, conduce alla morte dell’uomo, schiacciato e oppresso nel
perimetro ristretto del villaggio globale, dove si è consumato il più
perfetto dei delitti – l’uccisione della realtà. Inchiodato ad un tempo
senza tempo, quel che ne resta dell’umano
si muove tra gli spettri di merci senz’anima, sempre in esubero,
sempre superflue. Nel «mondo-senza-mondo» di Internet, nulla occorre,
non esistono bisogni né lutti veri, solo desideri effimeri e felicità a
buon mercato, miracoli e traumi.
Il tempo è il ritmo scandito dalla produzione economica, capace di
trasformare perfino il tempo libero in consumo. L’essenza di una vita
intera si concentra attorno all’acquisto, cosicché dal «Cogito ergo
sum» si passa al «Spreco ergo sum»: attività prevalente
diviene non il pensiero, ma lo spreco. Che ne è dell’archivio allora? A
chi serve l’archivio? È ancora funzionale al potere politico? Non ci
sentiamo di escluderlo totalmente, ma non crediamo che si potrà
conservare nelle forme classiche com’è stato finora. Il destino
dell’archivio, proprio in quanto destino della Memoria, è una questione
relativa all’a-venire. Eppure: che possibilità di a-venire vi sono dopo
la fine della Storia? La fine delle grandi narrazioni rende problematica
la sopravvivenza dell’archivio, la reificazione della pretesa
idealistica di dominio incondizionato della coscienza sul tempo. Ma,
appunto il tempo non esiste più: morte dell’uomo =
fine della Storia = fine
del tempo. Cosa resta se non archivi liquidi? Archivi che non richiedono supporti fisici, archivi
evanescenti. Archivi privi di cancelli, dunque, e senza guardaporte in
quanto virtuali, immateriali, non localizzabili. Quella luce con cui
Kafka designa la legge nel suo racconto, risalente all’epoca
dell’archivio-con-supporto, si tramuterebbe, in una ipotetica
trasposizione contemporanea, nella pulsazione intermittente del monitor
di un calcolatore. Il campagnolo sarebbe un hacker (stile
Assange) e i guardaporte gli addetti informatici alla sicurezza
nazionale.
La morte dell’archivio – nella forma a
noi nota – ovvero la sua smaterializzazione, dovrebbe dare avvio ad un
inteso dibattito circa le prospettive future del nostro vivere
associato. Non sembra però che siano in tanti a darsene pena. Forse
perché anche l’archivio ha finito per essere rimosso! Da chi? Le
infinite possibilità di acquisizione e scambio di notizie assicurato da
Internet e dai social network appaiono un buon surrogato, in
termini psicoanalitici: un contro investimento. Tuttavia, come spesso ha
ricordato Freud, il rimosso affiora, riportato alla luce da un evento
esterno imprevisto; che lo si voglia identificare con l’11 Settembre,
con la lotta al terrorismo, con la “Primavera araba”. Oltre il nostro
Occidente, si muove, respira, vive un mondo
altro, capace di esprimersi in
inglese, pilotare aerei, rivendicare diritti politici. Insomma, non più
disposto a lasciarsi sfruttare, colonizzare, dominare. Che
ci ricorda, nelle persone
dei wop, gli
statless, che al di fuori dei nostri confini, delle nostre
Costituzioni, esiste altra vita. Che, dunque, nella sua foga
archiviatrice, l’Occidente ha tralasciato, per arroganza e faciloneria,
altre storie, altre culture. Il nostro dubbio è che non poteva che
essere così, dal momento che ogni civiltà ed ogni cultura ha il suo modo
di custodire la memoria e, pertanto, il campagnolo di Kafka incarna il
prototipo dell’uomo occidentale. Egli, meravigliato, si domanda perché
mai c’è solo lui davanti ai cancelli della legge, perché solo lui ha
avvertito la necessità di recarsi all’archivio. L’unica risposta
possibile è appunto quella che gli dà il guardaporte: «Ci sei solo tu
perché solo l’accesso è riservato solo a te». Aggiungeremmo, a
completamento, che l’archivio si dà sempre come archivio dell’Occidente.
GIUGNO 2012
[1]
J.
Derrida,
Mal d’archivio,
Filema, Napoli 2005, p. 30
[2] Cfr. S. Freud, Il disagio della civiltà in Il disagio della civiltà e altri saggi, Bollati Boringhieri, Torino 1975.
[3]
Cfr. J. Baudrillard, La società dei consumi
i suoi miti e le strutture,
Il Mulino, Bologna 1976
[4]
Ne parla Baudrillard in Il delitto perfetto: chi ha ucciso la realtà?, edito da Raffaello
Cortina, Milano 1996
[5]
Cfr. G. Debord, La società
dello spettacolo, Dalai, Roma 2008
[6]
Cfr. M. Perniola, Miracoli e traumi della comunicazione, Einaudi, Torino 2009
[7]
Cfr. J. Butler, Vite
precarie, Meltemi, Roma 2004
[8]
Cfr. E. Lévinas, Etica e
infinito, Città aperta, Roma 1984
[9]
J. Derrida J,
cit., p. 96
[10]
Iidem
[11]
G. Vattimo, Nichilismo ed
emancipazione, Garzanti, Torino 2003
[12]
Cfr. J. Chambers, Paesaggi migratori, Meltemi, Roma 2003
[13] Cfr. il saggio di presentazione di Giulio Raio, Antinomia e allegoria, nell’edizione completa degli scritti di Kafka della Newton Compton, pp. 175-178.