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08
Ottobre 2012

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Esperienza e rappresentazione

NOTE QUANTO MAI DISTRATTE SUL DISINCANTO VIRTUALE DEL MONDO

NerioJamil Palumbo 

 

Il seguente stralcio dalla celebre opera di Max Weber, L'etica protestante e lo spirito del capitalismo, ha costituito oggetto di riflessione per il gruppo di ricerca legato alla rubrica «Esperienza e rappresentazione». Oltre che per la sua significatività, lo riportiamo in apertura dell'articolo di Palumbo perché ne costituisce una premessa necessaria. [N.d.R.]

 

Il puritano volle essere un professionista, noi lo dobbiamo essere. Infatti quando l’ascesi passò dalle celle conventuali alla vita professionale e cominciò a dominare sull’eticità intramondana, contribuì, per parte sua, a edificare quel possente cosmo dell’ordine dell’economia moderna – legato ai presupposti tecnici ed economici della produzione meccanica – che oggi determina, con una forza coattiva invincibile, lo stile di vita di tutti gli individui che sono nati entro questo grande ingranaggio (non solo di coloro che svolgono direttamente un’attività economica), e forse continuerà a farlo finché non sia stato bruciato l’ultimo carbon fossile. Solo come “un leggero mantello che si potrebbe sempre deporre”, la preoccupazione per i beni esteriori doveva avvolgere le spalle dei suoi santi, secondo l’opinione di Baxter. Ma il destino ha voluto che il mantello si trasformasse in una gabbia di durissimo acciaio. In quanto l’ascesi imprendeva a trasformare il mondo e a influire nel mondo, i beni esteriori di questo mondo acquistavano un potere sugli uomini crescente e infine ineluttabile – quale non c’era mai stato prima nella storia. Oggi il suo spirito è fuggito da questa gabbia – chissà se definitivamente? In ogni caso il capitalismo vittorioso non ha più bisogno di questo sostegno, da quando poggia su una base meccanica. Sembra che impallidisca definitivamente anche la rosea psicologia della sua ridente erede – della cultura illuministica – e, come uno spettro di contenuti religiosi di una fede passata si aggira, nella nostra vita, il pensiero del dovere professionale. Dove l’adempimento del dovere professionale non può essere messo direttamente in rapporto con i sommi valori spirituali della civiltà e della cultura – o viceversa: anche sul piano soggettivo non deve essere sentito semplicemente come una coazione economica – oggi per lo più l’individuo rinuncia comunque a interpretarlo. Nel paese dove si è sommamente scatenata, negli Stati Uniti, la ricerca del profitto si è spogliata del suo senso etico – religioso, e oggi tende ad associarsi con passioni puramente agonali, competitive, che non di rado le conferiscono addirittura il carattere dello sport. Nessuno sa ancora chi in futuro, abiterà in quella gabbia, e se alla fine di tale sviluppo immane ci saranno profezie nuovissime o una possente rinascita di antichi pensieri o ideali, o se invece (qualora non accadesse nessuna delle due cose) avrà luogo una sorta di pietrificazione meccanizzata, adorna di una specie di importanza convulsamente, spasmodicamente autoattribuitasi. Poiché in vero per gli “ultimi uomini” dello svolgimento di questa civiltà potrebbero diventare vere le parole: “Specialisti senza spirito, edonisti senza cuore: questo nulla si immagina di essere asceso a un grado di umanità mai prima raggiunto”

(M. Weber, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, Rizzoli, Milano 1998)

 

1. Gli ultimissimi uomini

A volte si ha la sensazione che certe penne desiderino nascondere il senso di quello che pensano nel senso di quello che scrivono. Ci si spaventa al pensiero che “la cosa” possa essere riuscita ai migliori scrittori degli ultimi due secoli. “La cosa” darebbe il via ad almeno due possibili percorsi di interpretazione dei loro testi e delle loro vite e in effetti, considerati i secoli e gli autori di cui ci stiamo occupando, potrebbe esserne in molti casi la cifra essenziale.

Quel che di rado ci si abitua a cogliere è invece quanto i segnali di un percorso di interpretazione differente siano spesso ampiamente visibili, tanto credibili da dar adito al sospetto che il passaggio dal primo al secondo senso avvenisse nella sensibilità dell’autore in un’immediatezza irripetibile, in un automatismo.

Gli “ultimi uomini”, significativamente virgolettati nell’ultimo periodo del passo di Weber che apre queste nostre riflessioni, non sono del tutto un’eccezione.

Cosa significa in questo contesto gli ultimi uomini? Chi sono?

Troviamo le virgolette perché gli ultimi uomini non sono mai davvero ultimi o perché, da ultimi, non sono più davvero uomini?

Dietro questo tipo di accorgimento c’è un ventaglio di riflessioni e domande di questo tipo, o c’è più semplicemente la volontà di isolare un elemento del testo poiché estraneo al suo registro?

Oppure ancora, utilizza Weber un virgolettato per citare l’espressione in quanto tipica di un’epoca, di una temperie?

Proviamo a cercare la nostra soluzione in una lettura più attenta del passo.

Essi sono gli «“ultimi uomini” dello svolgimento di questa civiltà» e, senza errore per quanto riguarda il senso di quello che Weber ha scritto, sono gli uomini che avrebbero vissuto la fine della civiltà capitalistica.

Inutile dire che, molto lontano dall’essere così semplificato, il problema dell’identità e della collocazione di questi uomini si fa ancora più complesso. Già ai suoi tempi, non bisognava essere straordinari studiosi e storici del capitalismo come lui per capire quanto la dinamica di una sua eventuale fine non fosse proprio un affare da retori sfaccendati[1] – e Max Weber, notoriamente poco entusiasta dei millenarismi da filosofia della storia come del profetismo «senza parole»  dei suoi tempi[2], non si arrischiò mai in veri e propri vaticini. Tuttavia, anche solo servendoci delle espressioni contenute nel piccolo passo che abbiamo a disposizione, potremmo far emergere una stringata ricostruzione del suo pensiero e la collocazione, quantomeno concettuale, di questi ultimi uomini dell’era del capitale potrebbe iniziare a prendere forma: la progressiva perdita di significatività etica della «preoccupazione per i beni esteriori» (e del Beruf cui era inscindibilmente legata), come la correlata perdita di un reale interesse per “l’interpretazione del dovere professionale”, avrebbero orientato l’agire del ceto borghese al di fuori della sua terra spirituale d’origine e, in un certo senso, avrebbero potuto condurre il capitalismo “al di là della borghesia”, al di là del lavoro stesso, liberandolo dal «bisogno di questo sostegno» grazie al nuovo sostegno della «base meccanizzata» (sic!); ma su questo torneremo.

Poco più d’un secolo è passato dall’uscita del poderoso saggio di Weber e le riflessioni che seguono non ambiscono certo ad un approfondimento degli eruditi meandri dei suoi testi, né ad una loro possibile attualizzazione e rilettura in senso “pragmatico”... esse fissano lo sguardo su quelle virgolette, rimangono ad esse e si approprierebbero volentieri del senso di apertura e d’inesattezza che trasmettono.

Pur non sapendo se siamo davvero alla fine del capitalismo, se siamo davvero gli “ultimi uomini” e se dopo di noi ci possa essere anche solo un accenno di “magnifiche sorti” ormai consunte, abbiamo però tangibile e triste contezza di cosa significhi vedere «specialisti senza spirito ed edonisti senza cuore» ai vertici di una civiltà; per privilegio d’anagrafe, abbiamo tutti un rapporto strettissimo con «questo nulla che si immagina di essere asceso ad un grado di umanità mai prima raggiunto» e, a dire il vero, non solo con questo nulla.

Il Novecento fu un secolo smarrito nei suoi nulla, ma anche un secolo di straordinari speleologi, di trasfiguratori del nulla.

Qualcuno pensò di poterlo comprendere e spiegare grazie ad un’epistemologia, una logica ed una fisica rinnovate, provando così ad esorcizzarne l’immediato effetto annichilente o quantomeno ad attenuarne l’effetto spaesante con un semplice espediente teorico o tecnico.

Qualcun altro tentò la via della maschera, ed ecco comparire per il mondo le infinite bramosie d’assurdo, d’abissale e d’esotico, come le disperate ricerche di un Urtext (o peggio di un Urvolk) da salvare, di un temps perdu grazie a cui salvarsi da questo indicibile smarrimento.

A noi, ultimissimi figli del Novecento, è stato dato il peso della leggerezza. Siamo diventati ormai fin troppo esperti nel confondere lo smarrimento con l’abbandono, l’abbandono con l’estasi e l’estasi con la gioia; con l’ovvia conseguenza che quell’originario sentore di smarrimento ci è in molti casi irreversibilmente estraneo e che la voglia di esplorare o di trasfigurare dei nostri padri sembra essersi fatalmente trasformata in quel torpore digitale, in quella «pietrificazione meccanizzata» che risuona così severa e accigliata dalla pagina di Weber.

Esperienza e rappresentazione nel mondo senza tempo... i diversi scritti di questo gruppo di ricerca restituiranno versioni e aspetti molto differenti del problema di cui ci stiamo occupando, ma sembrano condividere una grande preoccupazione di fondo per questa «pietrificazione», per questa plastificazione del genere umano che sembra avanzare invincibile “clic dopo clic”, anno dopo anno.

Nelle distratte riflessioni che seguono non si cerca di delineare un preciso scenario storico-politico, né di delimitare rigorosamente una precisa dinamica cognitiva legata ai mezzi informatici di comunicazione, piuttosto si cerca di rileggere il concetto weberiano di disincanto del mondo a partire dai nuovissimi dispositivi di disincanto che la virtualità mette a disposizione. In questo senso, il tentativo è quello di delineare lo strano trofismo per cui un certo disincanto ha storicamente consentito ed alimentato la virtualità, mentre quest’ultima alimenta e provoca un nuovo ed inedito livello di disincanto in cui è proprio il concetto classico di esperienza a cadere nell’oblio.

Se è vero che, come ebbe a scrivere Thomas Mann nel suo piccolo saggio su Schopenhauer del 1938, «anche l’anti-umanità dei nostri giorni è un esperimento umano» e se è d’altra parte possibile che la semplice definizione di umanità possa ancora addirsi al nostro tempo (cosa sulla quale chi scrive non scommetterebbe) dovremmo poterci ancora orientare in questo ultimissimo esperimento faustiano di sospensione virtuale del tempo, cercando magari di cogliere fino a che punto esso somigli ai suoi precedenti novecenteschi.

Sorge chiaramente il sospetto che l’esperimento sia intanto sfuggito di mano all’umano e che quella sorta di residuale conatus interpretandi, riconosciuto da Weber nei penultimi uomini prima della «grande siccità», abbia qualche legame con questo attraversamento, con questo approdo all’informatizzazione totale, attentamente definita da G. Trapanese come l’«ultimo tassello di quel particolare fenomeno storico che è il processo di razionalizzazione della vita alla base della nascita del capitalismo»[3].

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2. Il disincanto virtuale. Ipotesi genealogiche

Quando ci si interroga sulle ragioni dell’esistenza di un mezzo di comunicazione come Internet, si finisce quasi sempre col dare risposte ovvie a domande ovvie.

Entrammo con il secolo scorso in un’epoca che non pochi storici e studiosi definiscono come epoca od era della comunicazione, dando per scontato che, per sommi capi, la comunicazione sia un aspetto dell’umano sempre uguale a se stesso, sempre riproducibile, sempre tecnicamente ottimizzabile. La banale definizione dei nostri storici poggia però su di un rilievo non banale: mai come oggi la comunicazione ha mosso le redini di una certa storia, in nessuna epoca la comunicazione ha svolto un ruolo tanto importante nella determinazione di quello che accade, di quando e di come esso accade.

Se si considera questa distinzione storiografica come valida - e se allo stesso tempo si riconosce ad Internet la sua oggettiva capacità di potenziare l’umana facoltà di comunicazione – non ci si potrà però ingannare sul fatto che, in effetti, questa facoltà necessita di un continuo potenziamento solo da quando (ben prima dell’avvento della cosiddetta era della comunicazione) le si è affidato il monopolio quasi totale sulla creazione di importanti centri di potere. Ça va sans dire solo da quando l’uomo occidentale ha affidato al “politico” la parola ultima su quanto, da quel momento in poi, avrebbe potuto tener per vero. Quanto segue è semplicemente un tentativo di approfondire questi nessi distratti.

Hannah Arendt, che di certo non può essere tacciata di heideggeriana apologia del silenzio né tantomeno di condivisione delle già citate (e meno heideggeriane) «idee senza parole», ebbe a scrivere una volta nella Vita Activa che:

 

Mentre la forza è qualità naturale di un individuo separatamente preso, il potere scaturisce tra gli individui quando agiscono assieme, e svanisce appena si disperdono.

Per questa peculiarità (…) il potere è straordinariamente indipendente da fattori materiali. […] Il solo fattore materiale indispensabile alla generazione di potere è il vivere insieme delle persone. […] E la fondazione di città (…) è quindi il requisito materiale più importante perché vi sia potere[4].

 

Ma soprattutto, concluse che:

 

Chiunque, per qualsiasi ragione, si isola e non partecipa a questo essere-insieme perde potere e rimane impotente, per grande che sia la sua forza e per quanto valide le sue ragioni[5].

 

Volendo provare direttamente una prima attualizzazione delle parole della Arendt nel senso che qui ci interessa, dovremmo poter dire che, ormai definitivamente inibiti nella vera, carnale coralità delle nostre azioni dal progressivo isolamento cui porta Internet (dal nostro attualissimo deperimento del “politico”), stiamo perdendo la nostra capacità di formare centri di potere, vedendoci così risospinti verso quella finta e indotta necessità di forza individuale (si legga individualismo), che in questo modo assume subito il sapore di una legittimazione senza speranza dell’egotismo più narcisistico e monadico. Una forza che sa di solipsismo. Eppure potrebbe non essere proprio così.

La «straordinaria indipendenza dai fattori materiali» del potere - che in Arendt era immediatamente (ancora?!) una «rivolta popolare contro governanti materialmente forti» - potrebbe oggi essere riletta secondo un concetto di svincolamento dal “materiale” che, per forza di cose, la Arendt del ‘58 non poteva immaginare: in questo senso Internet, e nello specifico Facebook, si trasformerebbero nella nuova città, ovvero nel più grande strumento mai ideato per il sorgere di nuclei di potere periferici, alternativi e indipendenti; e stando anche solo alle narrazioni della “primavera araba” di cui disponiamo ed alle migliaia di esperienze di mediattivismo che vanno fiorendo in giro per il mondo, questa trasformazione potrebbe risultare estremamente credibile.

Alcuni scrittori, però, celano il senso di quello che pensano nel senso di quello che scrivono e lo fanno senza accorgersene: così Arendt probabilmente, nelle cui pagine l’opposizione all’originario imprinting heideggeriano è spesso solo nominale. La filosofa di Linden, insomma, sa bene che a questo tripudio plebiscitario, all’interno del quale vedremo un pragmatico e disincantato consenso sulle cose prendere il posto di una comprensione delle cose, potrebbero sfuggire una grande forza e persino delle «valide ragioni».

Ora, il linguaggio ed il precipuo interesse teoretico di Heidegger rendono difficile l’applicazione del suo pensiero a tematiche etiche, politiche e storiografiche di questo tipo[6]. Eppure, volendo continuare ad inoltrarci in questo gioco prospettico di sensi che si nascondono l’uno nell’altro, troveremmo un luogo di Sein und Zeit in cui sembra chiaramente delineata la differenza tra una verità «che ha la sua forza e magari le sue valide ragioni» ma che, opponendosi al tipo di disvelamento avvenuto nel “Si”, rimane sprovvista di un potere comunitario che la convalidi – ed un’altra che, pur mancando (o proprio perché manca) di «una comprensione originaria di ciò sopra cui il discorso discorre», detiene una sua legittimità politica in quanto ritenuta vera da una comunità.

Negli straordinari paragrafi di Essere e tempo cui stiamo accennando, Heidegger fa infatti esplicito riferimento alla «comprensione media», ovvero quella in cui

 

il discorso comunicato può essere in gran parte compreso anche senza che colui che ascolta arrivi ad essere in una comprensione originaria di ciò sopra cui il discorso discorre. […] Ciò che è compreso è il discorso, il sopra-che-cosa lo è solo superficialmente ed approssimativamente. Si intendono le medesime cose, perché ciò che è detto è compreso da tutti nella medesima maniera[7].

 

E poco più avanti:

 

poiché il discorso ha perso, o non ha mai raggiunto, il rapporto ontologico originario con l’ente di cui si discorre, ciò che esso comunica non è l’appropriazione originaria di questo ente, ma la diffusione e la ripetizione del discorso[8].

 

I corsivi inquietantemente profetici di questi passi sembrano quasi anticipare quella dinamica di progressiva virtualizzazione del reale di cui ci stiamo occupando: da questo punto di vista Internet diventa la chiacchiera al quadrato, la chiacchiera della chiacchiera, il regno della chiacchiera.

Il modo in cui Heidegger descrive la «comprensione media»[9] (media è per lui «l’apertura dell’essere-nel-mondo che si mantiene, in quanto quotidiana, nel modo di essere del Si», la comprensione in certo senso compromissoria, politica delle cose) sembra infatti restituirci precisamente, sembra spiegarci ed illuminarci ante litteram sull’ambiguità che avevamo trovato nel nostro tentativo di attualizzare quelle pagine della Vita Activa: se il potere è nella comunicazione, e quindi da un lato Internet rappresenta il massimo strumento di creazione di potere «indipendente dai fattori materiali» mai creato, dall’altro questa comunicazione, come il potere politico che naturalmente sorge per suo tramite, saranno sempre meno interessati a quella faticosa «appropriazione originaria dell’ente» che tanto disturba i velocissimi ed efficientissimi creatori di verità virtuali, ed è proprio in questo frenetico disinteresse che si nasconde il pericolo di smarrire forza, autenticità, «valide ragioni».

Nell’ambito di questa modalità di disvelamento, l’esperienza dell’ente perde completamente il suo significato e la sua importanza, mentre grande rilievo assume la capacità di diffonderlo capillarmente e rapidamente su di un piano puramente rappresentativo, nel quale la nostra interazione con esso può ridursi ad un mero e meccanico assenso. Il celeberrimo tasto Like della piattaforma Facebook ne è solo l’ultimo e più eminente esempio.

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3. Facebook. Gestell e imitazione

Il piano della comprensione media di Sein und Zeit, oltretutto, non è il solo luogo heideggeriano in cui emerge questa sorta di falsificazione sistematica e sistemica delle cose: i diversi, più o meno originari, «modi dell’alethèuein» che Heidegger provò a riconoscere furono in effetti il fulcro costante delle sue preoccupazioni e, come noteremo a breve, nella celeberrima conferenza sull’essenza della tecnica del 1953 ve n’è uno che non possiamo assolutamente tralasciare nell’ambito di queste riflessioni[10].

Quando si vuole pensare o percepire la capacità spersonalizzante e falsificante di Internet come attenuata, si ricorre di solito all’argomento della strumentalità. Internet è uno strumento, si dice, siam sempre e comunque noi a scegliere quando, per cosa e perché attivarlo, ed è dunque solo un’esasperazione apocalittica quella di volerlo vedere o immaginare vivente, autonomo e tutto sommato resistente alla nostra capacità di spegnerlo. Argomenti vecchi.

Ogni strumento tecnico, ci suggerisce Heidegger in una delle primissime riflessioni del saggio accennato, supera immediatamente (pur conservandolo) il suo carattere di mera strumentalità se viene inquadrato nella sua oggettiva capacità di produrre, di far-avvenire, di disvelare qualcosa. Per la tecnica moderna, il sorgere della quale è historisch collocato nel saggio in concomitanza con la rivoluzione industriale di fine Ottocento, il discorso è oltremodo valido, nonché reso più complesso dal fatto che il suo modo di disvelare non avviene più in un semplice pro-durre qualcosa - affidando, ad esempio, «le sementi alla forza di crescita della natura» - ma in un pro-vocare qualcosa tramite un preciso processo produttivo che richiede alla natura le suddette forze, che le accumula e le «ripone in scaffali»[11] come suoi meri elementi di lavoro e che dunque finisce per snaturarle, per togliere ad esse, potremmo dire, l’incanto misterioso del loro rimanere natura.

La natura intera, nel mondo disvelato dalla «tecnica moderna», diventa così «fondo», un incommensurabile archivio di elementi che mutano la loro stessa identità ed essenza a seconda della caratteristica di essi che rientra in un determinato processo produttivo.

E l’uomo? Qual è la posizione dell’uomo in questo pericoloso quadro delineato da Heidegger?

Potremmo descriverla utilizzando l’immagine del dominatore, di colui che attivando questa pro-vocazione (als Beruf?) e determinando quindi almeno in primis questo «fondo», non diventa mai puro «fondo».

Nonostante questo, non sfuggì però ad Heidegger il sentore della fragilità storica di questo ruolo, ed è infatti allo stesso saggio che risale l’accenno d’un sospetto:

 

Se però l’uomo è in tal modo pro-vocato ed impiegato, non farà parte anche lui, in modo ancor più originario, del «fondo»? Il parlare comune di «materiale umano», di «contingente di malati» di una clinica, lo fa pensare[12].

 

Quanto più comune e meno cacofonico è diventato il parlar di «materiale umano» negli ultimi cinquant’anni!

Quanto la nostra civiltà ha spostato il suo fulcro verso processi ed ambiti di produzione in cui l’inserimento degli esseri umani come attivatori e dominatori perde il suo senso?

Vorremmo provare a considerare l’eminente esempio della pubblicità: se la gran parte degli investimenti attuali è finalizzata al processo di produzione della pubblicità, e se possiamo considerare il feedback, la capacità umana di esprimere preferenze, come una parte integrante, una vera e propria componente essenziale di questo processo, va da sé che il discorso heideggeriano sul ruolo dell’uomo nella «tecnica moderna» perde progressivamente la sua applicabilità e che quindi nello strumento tecnico-ludico Facebook, ma anche nello strumento tecnico-ludico Youtube col suo conteggio di visualizzazioni, la maggioranza degli uomini non vi entra come dominatrice, ma come semplice componente della produzione, come parte del «fondo»[13].

Facebook stesso è, potremmo dire, lo strumento tecnico che consente l’utilizzazione del «fondo umano» nella produzione di pubblicità e di consenso (M5S über alles!), definizione che tra l’altro sembra anche suggerirci qualcosa riguardo le ragioni di quel bizzarro processo per cui il nostro bisogno di comunicare sembra aumentare proporzionalmente alle nostre effettive capacità di farlo.

Esperienza e rappresentazione nel mondo senza tempo... viene da pensare al canettiano Mondo senza testa di Auto da fè, un mondo che in effetti ben poco poteva capire il solitario e noioso Beruf del professor Kien, proverbialmente poco interessato alle rappresentazioni più o meno volgari che l’acefalo mondo a lui contemporaneo gli metteva davanti.

E in effetti, una volta inquadrato il concetto di disincanto del mondo attraverso uno sguardo differente alla politica e alla tecnica moderne, la testimonianza weberiana che abbiamo posto in apertura si rivela nel suo incomparabile valore: sia il voler considerare Internet un mero strumento, che il volerlo nobilitare considerandolo come uno strumento politico, conducono infatti nella necessità di riconoscerne i presupposti nella tecnica e nella politica della nostra modernità occidentale. All’interno di quest’ultima, come abbiamo potuto constatare, questo esperimento di disincanto era già perfettamente delineato, ma probabilmente non era perfettamente riconosciuto nella sua ormai tangibile capacità di «sfuggire di mano all’umano», di generare quella pochezza e quel conformismo globali, quella «pietrificazione meccanizzata» che, come Weber aveva ben capito, non impediscono affatto il “politico” tout court, ma lo rendono invece semplicemente disincantato e spersonalizzante fino al nichilistico, senza vera forza, «senza spirito e senza cuore».

Esperienza o rappresentazioni! Qui non si cerca la facile e ridicola boutade evoliana contro il mondo moderno, ma mi si dica quale Bürger, o più semplicemente, quale lavoratore potrebbe avere oggi la velleità di «interpretare il proprio dovere professionale» creativamente, se già prima di cominciare ad espletarlo può avere accesso a duecentomila testimonianze di come lo si potrebbe interpretare? Ma soprattutto, mi si dica cosa può sfuggire oggi più radicalmente ed intimamente alla umiliante richiesta globale di flessibilità se non una serena, sentita ed appassionata dedizione ad un mestiere, ad un’attività che libera dal funzionalismo spersonalizzante che oramai la caratterizza, provi consapevolmente a recuperare il duplice senso della bella parola Beruf: in tedesco lavoro, ma anche e soprattutto vocazione.

Il lavoratore attuale non sente l’importanza della sua vocazione, l’hanno educato a misconoscerla in virtù di una letteraria, non meglio identificata, ma molto comoda complessità grazie alla quale egli potrà consegnarsi sine ira et studio ad una di queste interpretazioni preconfezionate, come altrettanto stolidamente sceglierà la chiacchiera del politico più visibile e conforme alla «comprensione media» quando va a votare... meccanicamente, in un automatismo.

Abbiamo già utilizzato questa parola, ma in un senso del tutto differente. Adesso non ci stiamo più riferendo a quell’automatismo in cui i grandi scrittori duplicano e triplicano i possibili piani di lettura delle loro opere nell’atto stesso di partorirle.

Quest’automatismo è proprio il risvolto più sinistro di quella «base meccanica» cui accennava Weber, quell’irreggimentazione attraverso la quale, come già Valéry notò nelle veloci battute della sua Idée fixe,

 

L’imitazione è la legge del mondo odierno. Le sue connessioni diventano eccessivamente ricche. Tutti i popoli si imitano. Ormai soltanto i resti del passato distinguono una capitale dall’altra... E d’altronde c’è una potenza invincibile che agisce, e che agirà sempre più in questo stesso senso[14].

 

La potenza in questione, nemmeno a farlo a posta, era nelle battute a seguire proprio quella della tecnica scientifica moderna e, volendo effettivamente inquadrare l’informatizzazione come «l’ultimo tassello di quel particolare fenomeno storico che è il processo di razionalizzazione della vita alla base della nascita del capitalismo» - in una “concessione” al “pensiero di destra” che fu già di certo (straordinario) Pasolini come di alcuni scritti della Scuola di Francoforte, non ultimo quello di Benjamin sulla riproducibilità dell’arte, con la singolare vaghezza della sua «aura» - potremmo effettivamente pensare di guardare ad essa come ad un decisiva spia per il riconoscimento di nodi della modernità spesso trascurati, ma probabilmente mai sciolti e, visibilmente, sempre più decisivi. D’altra parte, come è scritto nei celeberrimi versi di Hölderlin spesso citati da Heidegger:

 

Là dove c’è il pericolo, cresce

anche ciò che salva[15].

 

AGOSTO 2012

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[1] La cosmopolita ed avvincente storia del marxismo è probabilmente lo specchio più fedele di questa complessità. In questo senso, leggendo con un po’ di malizia, queste virgolette potrebbero valere anche da simbolo del controverso rapporto di Weber con questa storia (già fittissima al cadere del suo primo cinquantenario).

[2] Il riferimento è chiaramente alle «idee senza parole» con cui Spengler, nei suoi Anni decisivi di circa trent’anni dopo, avrebbe sedotto tanti uomini di cultura tedeschi alla risolutezza pragmatica che ben conosciamo.

[3] Si veda a riguardo la trascrizione di quella decisiva parte del seminario “Esperienza e rappresentazione nel mondo senza tempo” intitolata Rappresentazione, in Città Future, 2012, n. 7. http://www.cittafuture.org/07/04-Rappresentazione.html

[4] H. Arendt, Vita Activa, Bompiani, Milano 2008, p.147.

[5] Ivi, pp.147-148.

[6] In Heidegger la difficoltà di questa applicazione è invero manifestamente cercata: egli stesso smentì in vita qualsiasi tentativo di applicazione del suo pensiero a tematiche diverse da quella definibile a fortiori come originaria (a riguardo, si veda il caso eminente della polemica con l’esistenzialismo sartriano).

[7] M. Heidegger, Essere e Tempo, Longanesi, Milano 2010, p.207.

[8] Ibidem.

[9] Nonostante il fatto che i caratteri messi in evidenza potrebbero indurre a pensarlo, «chiacchiera» e «comprensione media» non hanno nell’Heidegger dell’Analitica dell’Esserci un significato dispregiativo. Come tutte le “modalità deiettive” di cui egli parla, esse non hanno oltretutto una vera e propria collocabilità storica ma sono in un certo senso connaturate all’“essere-assieme” degli uomini.

[10] Accenniamo chiaramente alla trascrizione della conferenza intitolata La Questione della Tecnica. Per i passi che ne citeremo si farà riferimento all’edizione italiana contenuta in Saggi e discorsi, Mursia, Milano 1978, pp. 4-25.

[11] La scelta dell’espressione “riporre in scaffali” deriva dalla parola che Heidegger stesso sceglie per definire l’essenza della «tecnica moderna», cioè imposizione. Nel testo originale la parola in questione è Gestell, traducibile letteralmente con «scaffale».

[12]  M. Heidegger, La questione della tecnica, cit., p.13.

[13] Anche e soprattutto in questo dovremmo imparare a percepire la pericolosa e ipnotica seduttività del controllo bio-politico del tempo libero.

[14] P. Valéry, L’Idea fissa, Adelphi, Milano 2008, p.96.

[15] I versi compaiono nell’"inno” hölderliniano intitolato Patmos, ma ne riportiamo la trascrizione presente in M. Heidegger, La questione della tecnica, cit., p.22.