Esperienza e rappresentazione
NOTE QUANTO MAI DISTRATTE SUL DISINCANTO VIRTUALE DEL MONDO
Il seguente stralcio dalla celebre opera di Max Weber,
L'etica protestante e lo spirito
del capitalismo, ha costituito oggetto di riflessione per il gruppo
di ricerca legato alla rubrica «Esperienza e rappresentazione». Oltre
che per la sua significatività, lo riportiamo in apertura dell'articolo
di Palumbo perché ne costituisce una premessa necessaria. [N.d.R.]
Il
puritano volle essere un professionista, noi lo dobbiamo essere. Infatti
quando l’ascesi passò dalle celle conventuali alla vita professionale e
cominciò a dominare sull’eticità intramondana, contribuì, per parte sua,
a edificare quel possente cosmo dell’ordine dell’economia moderna –
legato ai presupposti tecnici ed economici della produzione meccanica –
che oggi determina, con una forza coattiva invincibile, lo stile di vita
di tutti gli individui che sono nati entro questo grande ingranaggio
(non solo di coloro che svolgono direttamente un’attività economica), e
forse continuerà a farlo finché non sia stato bruciato l’ultimo carbon
fossile. Solo come “un leggero mantello che si potrebbe sempre deporre”,
la preoccupazione per i beni esteriori doveva avvolgere le spalle dei
suoi santi, secondo l’opinione di Baxter. Ma il destino ha voluto che il
mantello si trasformasse in una gabbia di durissimo acciaio. In quanto
l’ascesi imprendeva a trasformare il mondo e a influire nel mondo, i
beni esteriori di questo mondo acquistavano un potere sugli uomini
crescente e infine ineluttabile – quale non c’era mai stato prima nella
storia. Oggi il suo spirito è fuggito da questa gabbia – chissà se
definitivamente? In ogni caso il capitalismo vittorioso non ha più
bisogno di questo sostegno, da quando poggia su una base meccanica.
Sembra che impallidisca definitivamente anche la rosea psicologia della
sua ridente erede – della cultura illuministica – e, come uno spettro di
contenuti religiosi di una fede passata si aggira, nella nostra vita, il
pensiero del dovere professionale. Dove l’adempimento del dovere
professionale non può essere messo direttamente in rapporto con i sommi
valori spirituali della civiltà e della cultura – o viceversa: anche sul
piano soggettivo non deve essere sentito semplicemente come una coazione
economica – oggi per lo più l’individuo rinuncia comunque a
interpretarlo. Nel paese dove si è sommamente scatenata, negli Stati
Uniti, la ricerca del profitto si è spogliata del suo senso etico –
religioso, e oggi tende ad associarsi con passioni puramente agonali,
competitive, che non di rado le conferiscono addirittura il carattere
dello sport. Nessuno sa ancora chi in futuro, abiterà in quella gabbia,
e se alla fine di tale sviluppo immane ci saranno profezie nuovissime o
una possente rinascita di antichi pensieri o ideali, o se invece
(qualora non accadesse nessuna delle due cose) avrà luogo una sorta di
pietrificazione meccanizzata, adorna di una specie di importanza
convulsamente, spasmodicamente autoattribuitasi. Poiché in vero per gli
“ultimi uomini” dello svolgimento di questa civiltà potrebbero diventare
vere le parole: “Specialisti senza spirito, edonisti senza cuore: questo
nulla si immagina di essere asceso a un grado di umanità mai prima
raggiunto”
(M. Weber, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo,
Rizzoli, Milano 1998)
1. Gli ultimissimi uomini
A volte si ha la sensazione che certe penne desiderino
nascondere il senso di quello che pensano nel senso di quello che
scrivono. Ci si spaventa al pensiero che “la cosa” possa essere riuscita
ai migliori scrittori degli ultimi due secoli. “La cosa” darebbe il via
ad almeno due possibili percorsi di interpretazione dei loro testi e
delle loro vite e in effetti, considerati i secoli e gli autori di cui
ci stiamo occupando, potrebbe esserne in molti casi la cifra essenziale.
Quel che di rado ci si abitua a cogliere è invece quanto i
segnali di un percorso di interpretazione differente siano spesso
ampiamente visibili, tanto credibili da dar adito al sospetto che il
passaggio dal primo al secondo senso avvenisse nella sensibilità
dell’autore in un’immediatezza irripetibile, in un automatismo.
Gli “ultimi uomini”, significativamente virgolettati
nell’ultimo periodo del passo di Weber che apre queste nostre
riflessioni, non sono del tutto un’eccezione.
Cosa significa in questo contesto gli ultimi uomini? Chi
sono?
Troviamo le virgolette perché gli ultimi uomini non sono
mai davvero ultimi o perché, da ultimi, non sono più davvero uomini?
Dietro questo tipo di accorgimento c’è un ventaglio di
riflessioni e domande di questo tipo, o c’è più semplicemente la volontà
di isolare un elemento del testo poiché estraneo al suo registro?
Oppure ancora, utilizza Weber un virgolettato per citare
l’espressione in quanto tipica di un’epoca, di una temperie?
Proviamo a cercare la nostra soluzione in una lettura più
attenta del passo.
Essi sono gli «“ultimi uomini” dello svolgimento di questa
civiltà» e, senza errore per quanto riguarda il senso di quello che
Weber ha scritto, sono gli uomini che avrebbero vissuto la fine della
civiltà capitalistica
Inutile dire che, molto lontano dall’essere così
semplificato, il problema dell’identità e della collocazione di questi
uomini si fa ancora più complesso. Già ai suoi tempi, non bisognava
essere straordinari studiosi e storici del capitalismo come lui per
capire quanto la dinamica di una sua eventuale fine non fosse proprio un
affare da retori sfaccendati[1] – e Max Weber,
notoriamente poco entusiasta dei millenarismi da filosofia della storia
come del profetismo «senza parole»
dei suoi tempi[2],
non si arrischiò mai in veri e propri vaticini. Tuttavia, anche solo
servendoci delle espressioni contenute nel piccolo passo che abbiamo a
disposizione, potremmo far emergere una stringata ricostruzione del suo
pensiero e la collocazione, quantomeno concettuale, di questi ultimi
uomini dell’era del capitale potrebbe iniziare a prendere forma: la
progressiva perdita di significatività etica della «preoccupazione per i
beni esteriori» (e del Beruf cui era inscindibilmente legata),
come la correlata perdita di un reale interesse per “l’interpretazione
del dovere professionale”, avrebbero orientato l’agire del ceto borghese
al di fuori della sua terra spirituale d’origine e, in un certo senso,
avrebbero potuto condurre il capitalismo “al di là della borghesia”, al
di là del lavoro stesso, liberandolo dal «bisogno di questo sostegno»
grazie al nuovo sostegno della «base meccanizzata» (sic!); ma su questo
torneremo.
Poco più d’un secolo è passato dall’uscita del poderoso
saggio di Weber e le riflessioni che seguono non ambiscono certo ad un
approfondimento degli eruditi meandri dei suoi testi, né ad una loro
possibile attualizzazione e rilettura in senso “pragmatico”... esse
fissano lo sguardo su quelle virgolette, rimangono ad esse e si
approprierebbero volentieri del senso di apertura e d’inesattezza che
trasmettono.
Pur non sapendo se siamo davvero alla fine del
capitalismo, se siamo davvero gli “ultimi uomini” e se dopo di noi ci
possa essere anche solo un accenno di “magnifiche sorti” ormai consunte,
abbiamo però tangibile e triste contezza di cosa significhi vedere
«specialisti senza spirito ed edonisti senza cuore» ai vertici di una
civiltà; per privilegio d’anagrafe, abbiamo tutti un rapporto
strettissimo con «questo nulla che si immagina di essere asceso ad un
grado di umanità mai prima raggiunto» e, a dire il vero, non solo con
questo nulla.
Il Novecento fu un secolo smarrito nei suoi nulla, ma
anche un secolo di straordinari speleologi, di trasfiguratori del nulla.
Qualcuno pensò di poterlo comprendere e spiegare grazie ad
un’epistemologia, una logica ed una fisica rinnovate, provando così ad
esorcizzarne l’immediato effetto annichilente o quantomeno ad attenuarne
l’effetto spaesante con un semplice espediente teorico o tecnico.
Qualcun altro tentò la via della maschera, ed ecco
comparire per il mondo le infinite bramosie d’assurdo, d’abissale e
d’esotico, come le disperate ricerche di un Urtext (o peggio di
un Urvolk) da salvare, di un temps perdu grazie a cui
salvarsi da questo indicibile smarrimento.
A noi, ultimissimi figli del Novecento, è stato dato il
peso della leggerezza. Siamo diventati ormai fin troppo esperti nel
confondere lo smarrimento con l’abbandono, l’abbandono con l’estasi e
l’estasi con la gioia; con l’ovvia conseguenza che quell’originario
sentore di smarrimento ci è in molti casi irreversibilmente estraneo e
che la voglia di esplorare o di trasfigurare dei nostri padri sembra
essersi fatalmente trasformata in quel torpore digitale, in quella
«pietrificazione meccanizzata» che risuona così severa e accigliata
dalla pagina di Weber.
Esperienza e rappresentazione nel mondo senza tempo... i
diversi scritti di questo gruppo di ricerca restituiranno versioni e
aspetti molto differenti del problema di cui ci stiamo occupando, ma
sembrano condividere una grande preoccupazione di fondo per questa
«pietrificazione», per questa plastificazione del genere umano che
sembra avanzare invincibile “clic dopo clic”, anno dopo anno.
Nelle distratte riflessioni che seguono non si cerca di
delineare un preciso scenario storico-politico, né di delimitare
rigorosamente una precisa dinamica cognitiva legata ai mezzi informatici
di comunicazione, piuttosto si cerca di rileggere il concetto weberiano
di disincanto del mondo a partire dai nuovissimi dispositivi
di disincanto che la virtualità mette a disposizione. In questo
senso, il tentativo è quello di delineare lo strano trofismo per cui un
certo disincanto ha storicamente consentito ed alimentato la virtualità,
mentre quest’ultima alimenta e provoca un nuovo ed inedito
livello di disincanto in cui è proprio il concetto classico di
esperienza a cadere nell’oblio.
Se è vero che, come ebbe a scrivere Thomas Mann nel suo
piccolo saggio su Schopenhauer del 1938, «anche l’anti-umanità dei
nostri giorni è un esperimento umano»
– e se è d’altra parte possibile
che la semplice definizione di umanità possa ancora addirsi al
nostro tempo (cosa sulla quale chi scrive non scommetterebbe)
– dovremmo
poterci ancora orientare in questo ultimissimo esperimento faustiano di
sospensione virtuale del tempo, cercando magari di cogliere fino a che
punto esso somigli ai suoi precedenti novecenteschi.
Sorge chiaramente il sospetto che l’esperimento sia
intanto sfuggito di mano all’umano e che quella sorta di residuale
conatus interpretandi, riconosciuto da Weber nei penultimi uomini
prima della «grande siccità», abbia qualche legame con questo
attraversamento, con questo approdo all’informatizzazione totale,
attentamente definita da G. Trapanese come l’«ultimo tassello di quel
particolare fenomeno storico che è il processo di razionalizzazione
della vita alla base della nascita del capitalismo»[3].
2. Il disincanto virtuale. Ipotesi genealogiche
Quando ci si interroga sulle ragioni dell’esistenza di un
mezzo di comunicazione come Internet, si finisce quasi sempre col dare
risposte ovvie a domande ovvie.
Entrammo con il secolo scorso in un’epoca che non pochi
storici e studiosi definiscono come epoca od era della comunicazione,
dando per scontato che, per sommi capi, la comunicazione sia un aspetto
dell’umano sempre uguale a se stesso, sempre riproducibile, sempre
tecnicamente ottimizzabile. La banale definizione dei nostri storici
poggia però su di un rilievo non banale: mai come oggi la comunicazione
ha mosso le redini di una certa storia, in nessuna epoca la
comunicazione ha svolto un ruolo tanto importante nella determinazione
di quello che accade, di quando e di come esso accade.
Se si considera questa distinzione storiografica come
valida - e se allo stesso tempo si riconosce ad Internet la sua
oggettiva capacità di potenziare l’umana facoltà di comunicazione
– non ci si potrà però ingannare sul fatto che, in effetti, questa
facoltà necessita di un continuo potenziamento solo da quando (ben
prima dell’avvento della cosiddetta era della comunicazione) le si è
affidato il monopolio quasi totale sulla creazione di importanti
centri di potere. Ça va sans dire solo da
quando l’uomo occidentale ha affidato al “politico” la parola ultima su
quanto, da quel momento in poi, avrebbe potuto tener per vero. Quanto
segue è semplicemente un tentativo di approfondire questi nessi
distratti.
Hannah Arendt, che di certo non può essere tacciata di
heideggeriana apologia del silenzio né tantomeno di condivisione delle
già citate (e meno heideggeriane) «idee senza parole», ebbe a scrivere
una volta nella Vita Activa che:
Mentre la forza è qualità naturale di un individuo separatamente preso,
il potere scaturisce tra gli individui quando agiscono assieme, e
svanisce appena si disperdono.
Per questa peculiarità (…) il potere è straordinariamente indipendente
da fattori materiali. […] Il solo fattore materiale indispensabile alla
generazione di potere è il vivere insieme delle persone. […] E la
fondazione di città (…) è quindi il requisito materiale più importante
perché vi sia potere[4].
Ma soprattutto, concluse che:
Chiunque, per qualsiasi ragione, si isola e non partecipa a questo
essere-insieme perde potere e rimane impotente, per grande che sia la
sua forza e per quanto valide le sue ragioni[5]
Volendo provare direttamente una prima attualizzazione
delle parole della Arendt nel senso che qui ci interessa, dovremmo poter
dire che, ormai definitivamente inibiti nella vera, carnale coralità
delle nostre azioni dal progressivo isolamento cui porta Internet (dal
nostro attualissimo deperimento del “politico”), stiamo perdendo la
nostra capacità di formare centri di potere, vedendoci così risospinti
verso quella finta e indotta necessità di forza individuale (si legga
individualismo), che in questo modo assume subito il sapore di una
legittimazione senza speranza dell’egotismo più narcisistico e monadico.
Una forza che sa di solipsismo. Eppure potrebbe non essere proprio così.
La «straordinaria indipendenza dai fattori materiali» del
potere - che in Arendt era immediatamente (ancora?!) una «rivolta
popolare contro governanti materialmente forti» - potrebbe oggi essere
riletta secondo un concetto di svincolamento dal “materiale” che, per
forza di cose, la Arendt del ‘58 non poteva immaginare: in questo senso
Internet, e nello specifico Facebook, si trasformerebbero nella
nuova città, ovvero nel più grande strumento mai ideato per il
sorgere di nuclei di potere periferici, alternativi e indipendenti; e
stando anche solo alle narrazioni della “primavera araba” di cui
disponiamo ed alle migliaia di esperienze di mediattivismo che vanno
fiorendo in giro per il mondo, questa trasformazione potrebbe risultare
estremamente credibile.
Alcuni scrittori, però, celano il senso di quello che
pensano nel senso di quello che scrivono e lo fanno senza accorgersene:
così Arendt probabilmente, nelle cui pagine l’opposizione all’originario
imprinting heideggeriano è spesso solo nominale. La filosofa di Linden,
insomma, sa bene che a questo tripudio plebiscitario, all’interno del
quale vedremo un pragmatico e disincantato consenso sulle cose
prendere il posto di una comprensione delle cose,
potrebbero sfuggire una grande forza e persino delle «valide ragioni».
Ora, il linguaggio ed il precipuo interesse teoretico di Heidegger rendono
difficile l’applicazione del suo pensiero a tematiche etiche, politiche
e storiografiche di questo tipo[6].
Eppure, volendo continuare ad inoltrarci in questo gioco prospettico di
sensi che si nascondono l’uno nell’altro, troveremmo un luogo di Sein
und Zeit in cui sembra chiaramente delineata la differenza tra una
verità «che ha la sua forza e magari le sue valide ragioni»
– ma che,
opponendosi al tipo di disvelamento avvenuto nel “Si”, rimane sprovvista
di un potere comunitario che la convalidi – ed un’altra che, pur
mancando (o proprio perché manca) di «una comprensione originaria di ciò
sopra cui il discorso discorre», detiene una sua legittimità politica
in quanto ritenuta vera da una comunità.
Negli straordinari paragrafi di Essere e tempo cui stiamo accennando,
Heidegger fa infatti esplicito riferimento alla «comprensione media»,
ovvero quella in cui
il discorso comunicato può essere in gran parte compreso anche senza che
colui che ascolta arrivi ad essere in una comprensione originaria di ciò
sopra cui il discorso discorre. […] Ciò che è compreso è il discorso, il
sopra-che-cosa lo è solo superficialmente ed approssimativamente. Si
intendono le medesime cose, perché ciò che è detto è compreso da
tutti nella medesima maniera[7]
E poco più avanti:
poiché il discorso ha perso, o non ha mai raggiunto, il rapporto ontologico originario con l’ente di cui si discorre, ciò che esso comunica non è l’appropriazione originaria di questo ente, ma la diffusione e la ripetizione del discorso[8].
I corsivi inquietantemente profetici di questi passi sembrano quasi
anticipare quella dinamica di progressiva virtualizzazione del reale di
cui ci stiamo occupando: da questo punto di vista Internet diventa la
chiacchiera al quadrato, la chiacchiera della chiacchiera, il regno
della chiacchiera.
Il modo in cui Heidegger descrive la «comprensione media»[9]
(media è per lui «l’apertura dell’essere-nel-mondo che si mantiene, in
quanto quotidiana, nel modo di essere del Si», la comprensione in certo
senso compromissoria, politica delle cose) sembra infatti restituirci
precisamente, sembra spiegarci ed illuminarci ante litteram
sull’ambiguità che avevamo trovato nel nostro tentativo di attualizzare
quelle pagine della Vita Activa: se il potere è nella
comunicazione, e quindi da un lato Internet rappresenta il massimo
strumento di creazione di potere «indipendente dai fattori materiali»
mai creato, dall’altro questa comunicazione, come il potere politico che
naturalmente sorge per suo tramite, saranno sempre meno interessati a
quella faticosa «appropriazione originaria dell’ente» che tanto disturba
i velocissimi ed efficientissimi creatori di verità virtuali, ed è
proprio in questo frenetico disinteresse che si nasconde il pericolo di
smarrire forza, autenticità, «valide ragioni».
Nell’ambito di questa modalità di disvelamento, l’esperienza
dell’ente perde completamente il suo significato e la sua importanza,
mentre grande rilievo assume la capacità di diffonderlo capillarmente e
rapidamente su di un piano puramente rappresentativo, nel quale
la nostra interazione con esso può ridursi ad un mero e meccanico
assenso. Il celeberrimo tasto Like della piattaforma Facebook
ne è solo l’ultimo e più eminente esempio.
3. Facebook. Gestell e imitazione
Il piano della comprensione media di Sein und Zeit, oltretutto, non è
il solo luogo heideggeriano in cui emerge questa sorta di falsificazione
sistematica e sistemica delle cose: i diversi, più o meno originari,
«modi dell’alethèuein» che Heidegger provò a riconoscere furono
in effetti il fulcro costante delle sue preoccupazioni e, come noteremo
a breve, nella celeberrima conferenza sull’essenza della tecnica del
1953 ve n’è uno che non possiamo assolutamente tralasciare nell’ambito
di queste riflessioni[10].
Quando si vuole pensare o percepire la capacità spersonalizzante e
falsificante di Internet come attenuata, si ricorre di solito
all’argomento della strumentalità. Internet è uno strumento, si
dice, siam sempre e comunque noi a scegliere quando, per cosa e perché
attivarlo, ed è dunque solo un’esasperazione apocalittica quella di
volerlo vedere o immaginare vivente, autonomo e tutto sommato resistente
alla nostra capacità di spegnerlo. Argomenti vecchi.
Ogni strumento tecnico, ci suggerisce Heidegger in una
delle primissime riflessioni del saggio accennato, supera immediatamente
(pur conservandolo) il suo carattere di mera strumentalità se viene
inquadrato nella sua oggettiva capacità di produrre, di
far-avvenire, di disvelare qualcosa. Per la tecnica moderna, il
sorgere della quale è historisch collocato nel saggio in
concomitanza con la rivoluzione industriale di fine Ottocento, il
discorso è oltremodo valido, nonché reso più complesso dal fatto che il
suo modo di disvelare non avviene più in un semplice pro-durre
qualcosa - affidando, ad esempio, «le sementi alla forza di crescita
della natura» - ma in un pro-vocare qualcosa tramite un preciso
processo produttivo che richiede alla natura le suddette forze,
che le accumula e le «ripone in scaffali»[11]
come suoi meri elementi di lavoro e che dunque finisce per snaturarle,
per togliere ad esse, potremmo dire, l’incanto misterioso del
loro rimanere natura.
La natura intera, nel mondo disvelato dalla «tecnica
moderna», diventa così «fondo», un incommensurabile archivio di
elementi che mutano la loro stessa identità ed essenza a seconda della
caratteristica di essi che rientra in un determinato processo produttivo.
E l’uomo? Qual è la posizione dell’uomo in questo
pericoloso quadro delineato da Heidegger?
Potremmo descriverla utilizzando l’immagine del
dominatore, di colui che attivando questa pro-vocazione (als
Beruf?) e determinando quindi almeno in primis questo
«fondo», non diventa mai puro «fondo».
Nonostante questo, non sfuggì però ad Heidegger il sentore
della fragilità storica di questo ruolo, ed è infatti allo stesso saggio
che risale l’accenno d’un sospetto:
Se però l’uomo è in tal modo pro-vocato ed impiegato, non farà parte
anche lui, in modo ancor più originario, del «fondo»? Il parlare comune
di «materiale umano», di «contingente di malati» di una clinica, lo fa
pensare[12]
Quanto più comune e meno cacofonico è diventato il parlar
di «materiale umano» negli ultimi cinquant’anni!
Quanto la nostra civiltà ha spostato il suo fulcro verso
processi ed ambiti di produzione in cui l’inserimento degli
esseri umani come attivatori e dominatori perde il suo senso?
Vorremmo provare a considerare l’eminente esempio della
pubblicità: se la gran parte degli investimenti attuali è
finalizzata al processo di produzione della pubblicità, e se possiamo
considerare il feedback, la capacità umana di esprimere
preferenze, come una parte integrante, una vera e propria componente
essenziale di questo processo, va da sé che il discorso heideggeriano
sul ruolo dell’uomo nella «tecnica moderna» perde progressivamente la
sua applicabilità e che quindi nello strumento tecnico-ludico
Facebook, ma anche nello strumento tecnico-ludico Youtube col
suo conteggio di visualizzazioni, la maggioranza degli uomini non vi
entra come dominatrice, ma come semplice componente della produzione,
come parte del «fondo»[13].
Facebook stesso è, potremmo dire, lo strumento tecnico che
consente l’utilizzazione del «fondo umano» nella produzione di
pubblicità e di consenso (M5S über alles!), definizione che tra
l’altro sembra anche suggerirci qualcosa riguardo le ragioni di quel
bizzarro processo per cui il nostro bisogno di comunicare sembra
aumentare proporzionalmente alle nostre effettive capacità di farlo.
Esperienza e rappresentazione nel mondo senza tempo...
viene da pensare al canettiano Mondo senza testa di Auto da fè,
un mondo che in effetti ben poco poteva capire il solitario e noioso
Beruf del professor Kien, proverbialmente poco interessato alle
rappresentazioni più o meno volgari che l’acefalo mondo a lui
contemporaneo gli metteva davanti.
E in effetti, una volta inquadrato il concetto di
disincanto del mondo attraverso uno sguardo differente alla politica
e alla tecnica moderne, la testimonianza weberiana che abbiamo posto in
apertura si rivela nel suo incomparabile valore: sia il voler
considerare Internet un mero strumento, che il volerlo nobilitare
considerandolo come uno strumento politico, conducono infatti nella
necessità di riconoscerne i presupposti nella tecnica e nella politica
della nostra modernità occidentale. All’interno di quest’ultima, come
abbiamo potuto constatare, questo esperimento di disincanto era già
perfettamente delineato, ma probabilmente non era perfettamente
riconosciuto nella sua ormai tangibile capacità di «sfuggire di mano
all’umano», di
generare quella pochezza e quel conformismo globali, quella «pietrificazione
meccanizzata» che, come Weber aveva ben capito, non impediscono affatto
il “politico” tout court, ma lo rendono invece semplicemente
disincantato e spersonalizzante fino al nichilistico, senza vera forza,
«senza spirito e senza cuore».
Esperienza o rappresentazioni! Qui non si cerca la facile e ridicola
boutade evoliana contro il mondo moderno, ma mi si dica quale
Bürger, o più semplicemente, quale lavoratore potrebbe avere
oggi la velleità di «interpretare il proprio dovere professionale»
creativamente, se già prima di cominciare ad espletarlo può avere
accesso a duecentomila testimonianze di come lo si potrebbe
interpretare? Ma soprattutto, mi si dica cosa può sfuggire oggi più
radicalmente ed intimamente alla umiliante richiesta globale di
flessibilità se non una serena, sentita ed appassionata dedizione ad un
mestiere, ad un’attività che libera dal funzionalismo spersonalizzante
che oramai la caratterizza, provi consapevolmente a recuperare il
duplice senso della bella parola Beruf: in tedesco lavoro, ma
anche e soprattutto vocazione.
Il lavoratore attuale non sente l’importanza della sua vocazione, l’hanno
educato a misconoscerla in virtù di una letteraria, non meglio
identificata, ma molto comoda complessità grazie alla quale egli potrà
consegnarsi sine ira et studio ad una di queste interpretazioni
preconfezionate, come altrettanto stolidamente sceglierà la chiacchiera
del politico più visibile e conforme alla «comprensione media» quando va
a votare... meccanicamente, in un automatismo.
Abbiamo già utilizzato questa parola, ma in un senso del tutto differente.
Adesso non ci stiamo più riferendo a quell’automatismo in cui i grandi
scrittori duplicano e triplicano i possibili piani di lettura delle loro
opere nell’atto stesso di partorirle.
Quest’automatismo è proprio il risvolto più sinistro di quella «base
meccanica» cui accennava Weber, quell’irreggimentazione attraverso la
quale, come già Valéry notò nelle veloci battute della sua
Idée fixe,
L’imitazione è la legge del mondo odierno. Le sue connessioni diventano
eccessivamente ricche. Tutti i popoli si imitano. Ormai soltanto i resti
del passato distinguono una capitale dall’altra... E d’altronde c’è una
potenza invincibile che agisce, e che agirà sempre più in questo stesso
senso[14].
La potenza in questione, nemmeno a farlo a posta, era nelle battute a
seguire proprio quella della tecnica scientifica moderna e, volendo
effettivamente inquadrare l’informatizzazione come «l’ultimo tassello di
quel particolare fenomeno storico che è il processo di razionalizzazione
della vita alla base della nascita del capitalismo» - in una
“concessione” al “pensiero di destra” che fu già di certo
(straordinario) Pasolini come di alcuni scritti della Scuola di
Francoforte, non ultimo quello di Benjamin sulla riproducibilità
dell’arte, con la singolare vaghezza della sua «aura» - potremmo
effettivamente pensare di guardare ad essa come ad un decisiva spia per
il riconoscimento di nodi della modernità spesso trascurati, ma
probabilmente mai sciolti e, visibilmente, sempre più decisivi. D’altra
parte, come è scritto nei celeberrimi versi di Hölderlin spesso citati
da Heidegger:
Là dove c’è il pericolo, cresce
anche ciò che salva[15]
[1]
La cosmopolita ed avvincente storia del marxismo è
probabilmente lo specchio più fedele di questa complessità. In
questo senso, leggendo con un po’ di malizia, queste virgolette
potrebbero valere anche da simbolo del controverso rapporto di
Weber con questa storia (già fittissima al cadere del suo primo
cinquantenario).
[2]
Il riferimento è chiaramente alle «idee senza parole» con cui
Spengler, nei suoi Anni decisivi di circa trent’anni
dopo, avrebbe sedotto tanti uomini di cultura tedeschi alla
risolutezza pragmatica che ben conosciamo.
[3] Si veda a riguardo la trascrizione di quella decisiva parte del seminario “Esperienza e rappresentazione nel mondo senza tempo” intitolata Rappresentazione, in Città Future, 2012, n. 7. http://www.cittafuture.org/07/04-Rappresentazione.html
[4]
H. Arendt, Vita Activa, Bompiani, Milano 2008, p.147.
[5]
Ivi, pp.147-148.
[6] In Heidegger la difficoltà di questa applicazione è
invero manifestamente cercata: egli stesso smentì in vita
qualsiasi tentativo di applicazione del suo pensiero a tematiche
diverse da quella definibile a fortiori come originaria
(a riguardo, si veda il caso eminente della polemica con
l’esistenzialismo sartriano).
[7]
M. Heidegger, Essere e Tempo, Longanesi, Milano 2010,
p.207.
[8]
Ibidem.
[9]
Nonostante il fatto che i caratteri messi in evidenza potrebbero
indurre a pensarlo, «chiacchiera» e «comprensione media» non
hanno nell’Heidegger dell’Analitica dell’Esserci un significato
dispregiativo. Come tutte le “modalità deiettive” di cui egli
parla, esse non hanno oltretutto una vera e propria
collocabilità storica ma sono in un certo senso connaturate
all’“essere-assieme” degli uomini.
[10]
Accenniamo chiaramente alla trascrizione della conferenza
intitolata La Questione della Tecnica. Per i passi che ne
citeremo si farà riferimento all’edizione italiana contenuta in
Saggi e discorsi, Mursia, Milano 1978, pp. 4-25.
[11]
La scelta dell’espressione “riporre in scaffali” deriva dalla
parola che Heidegger stesso sceglie per definire l’essenza della
«tecnica moderna», cioè imposizione. Nel testo originale
la parola in questione è Gestell, traducibile
letteralmente con «scaffale».
[12]
M. Heidegger, La questione della tecnica,
cit., p.13.
[13]
Anche e soprattutto in questo dovremmo imparare a percepire la
pericolosa e ipnotica seduttività del controllo bio-politico del
tempo libero.
[14]
P.
Valéry, L’Idea fissa, Adelphi, Milano 2008, p.96.
[15]
I
versi compaiono nell’"inno” hölderliniano intitolato Patmos,
ma ne riportiamo la trascrizione presente in M. Heidegger, La
questione della tecnica, cit., p.22.