banner verdone
08
Ottobre 2012

home - indice

Esperienza e rappresentazione

SE LA STORIA PUò FINIRE

Uno studio a partire da Hegel e Bataille (Parte I)

Mariano Mazzullo

 

Seminario di Storia del pensiero politico, G. Bataille “Hegel, l’uomo e la storia”, sul tema “fine della storia”.

(vedi anche parte II)

 

1. Bataille, la dialettica e la fine della storia

L’analisi che Bataille propone della dialettica hegeliana si colloca in un preciso dibattito filosofico intorno a quello che è il capitolo più dibattuto della Fenomenologia. Essa tocca pertanto alcuni degli aspetti più importanti del pensiero storico-politico di Hegel, come l’origine dell’individualità e della libertà umana dal regno della natura, il sorgere dei rapporti di forza all’interno della società e le dinamiche con cui la coscienza compie questa fase epocale del suo sviluppo, per poi affrontare infine l’ipotesi pesudo-hegeliana della “fine della storia”.

L’acutezza del discorso di Bataille è immediatamente evidente, il progredire dell’analisi è da subito così conciso e profondo da disorientare il lettore più avvezzo al linguaggio hegeliano. Tuttavia lo spessore del suo discorso non deriva dalla lettura intelligente con cui commenta la lezione del filosofo tedesco e ne arricchisce la bibliografia, quanto dal focalizzare quegli aspetti che gli appaiono incerti e nel metterli radicalmente in dubbio. Il suo intento non è di fare un’esegesi, bensì di portare avanti la teoria di Hegel fin dove è possibile, accrescendola di ipotesi alternative o confutazioni originali, revocandola senza sconti dove presta il fianco alla critica. Lo studio hegeliano di Bataille nasce all’interno di un intenso confronto con l’interpretazione che di questi diede A. Kojeve, considerato uno dei maggiori interpreti di sempre del filosofo tedesco, di cui Bataille aveva potuto seguire le celebri Lezioni[1], insieme praticamente alle menti più brillanti dell’intero mondo filosofico francese: Sartre, Queneau, Merleau-Ponty, Lacan, e molti altri. L’incontro con Hegel si mostra da subito uno stimolo fortissimo per lui, a partire dalle lezioni di Kojeve avvierà con questi un intenso dibattito, una brillante querelle che assumerà non di rado i toni dello scontro personale, ma che alla fine si rivelerà fonte di numerose intuizioni. «Tutta l’opera di Bataille sembra un fare e disfare la Fenomenologia di Hegel»[2], e a dire il vero non manca chi attribuisce il sorgere del tema “fine della storia” nella lettura kojeviana di Hegel proprio alla corrispondenza con Bataille.

Quando esce per la rivista “Monde nouveau-paru” l’articolo Hegel, l’uomo e la storia[3], i temi del confronto sono ormai maturi in Bataille e la questione-Hegel è già stata affrontata sotto diversi aspetti. Questo breve saggio perciò non intende ricapitolare tutti gli argomenti di distacco dal filosofo tedesco e dalla sua interpretazione canonica, né «risolvere difficoltà per le quali non è bastato un secolo intero»[4], esso si propone invece lo scopo ben più interessante di seguire il filo rosso delle varie possibilità accampate dal celebre capitolo sulla nascita dell’autocoscienza, le parzialità, le ipotesi inesplorate, andando da una parte oltre il testo, dall’altra però seguendo una lettura fedele, che si avvale dei testi di Kojeve, citati spesso e quasi senza intenti polemici. Prima di entrare nel merito è opportuno precisare che Bataille mira ad inquadrare l’ipotesi della “fine della storia” nella logica della dialettica servo-padrone – cioè a partire dal momento in cui Hegel sembra collocare l’origine della storia, ossia l’insorgere dei rapporti di forza, dei ruoli, all’interno della società – per poi applicare e verificare la tenuta dello schema hegeliano all’evoluzione dei rapporti sociali nell’epoca della tecnica, del primato dell’economia e del benessere allargato. Vedremo più avanti quale sia il ragionamento condotto da Bataille in proposito, ma forse ancor più necessario di questa avvertenza è chiarire i termini generalissimi in cui il concetto di “fine della storia” si ritrova in Hegel, così da comprendere la reale entità del tema all’interno del suo pensiero, riservandoci più avanti di chiarirne i diversi significati. A livello meramente quantitativo i passi in cui Hegel menziona il tema della fine della storia sono pochi e brevi, per essere più chiari: lo si ritrova nell’ultimo paragrafo della Fenomenologia[5], dove il filosofo adopera esplicitamente il termine Ende che, dei tre diversi sostantivi tedeschi (Ziel, Zweck, Ende) maggiormente usati per le diverse accezioni del concetto di fine (la/il), è quello meno filosofico e anche meno usato nella Fenomenologia. Viene inoltre accennato nell’ultimo capitolo delle Lezioni sulla filosofia della Storia capitolo dedicato al Cristianesimo come religione del “compimento” – e implicitamente nel capitolo dell’Enciclopedia dedicato alla Weltgeschichte, dove tuttavia il termine fine non è mai pronunciato. Si parla piuttosto della liberazione (Befreiung) dello Spirito (realizzata nell’identità di un popolo tra la sua volontà e le sue leggi: lo Stato) nel §550, o della forma/realtà dello Spirito quale identità col sapere assoluto nel §553[6]. Sono comunque passi importanti perché riassumono concetti che non possono ridursi all’uso di una parola, ma la loro entità ci permette quanto meno di distinguere Hegel dall’hegelismo. Il seguente tema, infatti, marginalmente e implicitamente presente in Hegel, in realtà è sorto più all’attenzione dei suoi interpreti, come Löwith e Kojeve, che ne hanno certamente amplificato la portata originaria. In ogni caso questo concetto tanto dibattuto, seppur non tematizzato esplicitamente, è un assunto logico di fondo nella filosofia di Hegel, un corollario della sua teleologia dello Spirito Assoluto. Azzardando una sintesi coerente possiamo dire che emerge dalla concezione finalistica dell’Uomo come unità che deve farsi o meglio riconquistarsi/riappropriarsi di sé, attraversando nella storia tutte le contraddizioni che lo separano dalla sua vera essenza. La storia assume in questa prospettiva il senso univoco di un’esperienza di ricongiunzione, il ritorno in sé di un’umanità che si riavvolge fino a ricompattarsi nel proprio concetto, è la realizzazione progressiva e inarrestabile di un’idea di uomo, di una sua natura precisa, che informa, struttura, dà il senso complessivo della Storia. Essa è perciò una traiettoria lineare se vista da quell’uomo che con la sua esperienza fa la Storia, ma ha la forma del cerchio vista dall’occhio del Sapere assoluto, cioè dall’uomo che ha fatto esperienza della sua storia con un’interiorizzazione rammemorante.

La Storia per Hegel è esattamente questo progressivo apprendersi dell’uomo nelle vicende del suo tempo, è il suo divenire, l’accadere della sua auto-comprensione, o meglio «il movimento del suo essere divenuto»[7]. Che tale storia termini una volta conclusa la riappropriazione di sé da parte della Coscienza, è la naturale conseguenza di un inseguimento che si conclude con la cattura, e non la fine di una corsa in avanti senza “meta”. Non c’è e non ci può essere un altrove o un al di là della Storia in questa prospettiva hegeliana, poiché essa è vista nel’ottica di una realizzazione dello Spirito assoluto, che come ogni realizzazione implica la chiusura di un cerchio, in questo caso il rispecchiamento del Sé stesso dell’Uomo che finalmente è completamente perché si sa completamente. Per essere sintetici, usando le stesse parole di Hegel, date queste premesse possiamo concludere che la fine è piuttosto l’autotrasparenza di sé o la rivelazione (Offenbarung),è la situazione in cui l’umanità si sa per come è (divenuta), auto comprensione che è come non avere niente altro da divenire, cioè niente altro da negare per affermarsi. Vediamo qualche istante un po’ più da vicino questi concetti che appaiono, così, quasi niente di più che posizioni di principio: se la coscienza tende al pieno sviluppo di sé attraverso l’esperienza e quindi nella storia (poiché non vi sarebbe sviluppo nell’assenza di divenire) culminando esattamente in questa acquisizione, una volta colmata l’apparente disuguaglianza tra il fine e l’inizio[8], all’uomo che si è auto-compreso non resta che la ripetizione del sapere, egli può continuare a fare esperienza, ma sempre e solo di sé in quanto già accaduto[9], come fosse “saturo di storia” perché ha “riempito” l’assenza di sé con il tempo che gli era necessario a divenire completamente sé stesso. Certamente egli può ricominciare da capo e rifare una storia diversa, ma in quanto la sua storia è stata il processo che l’ha portato alla comprensione di sé, nessun’altra storia gli è possibile. Quest’impossibilità gli si pone davanti precisamente perché dal momento che la coscienza si è sviluppata fino al punto di comprendere il suo completo sviluppo, ogni altra possibile fase storica non potrebbe che essere già stata attraversata e compresa. È palese la duplice accezione con cui Hegel adopera il concetto di comprensione: ossia nel senso di conoscenza acquisita e nel frattempo di inclusione di esperienza, fenomeni che si implicano a vicenda nel corso della Storia. Naturalmente la fine, intesa come l’impossibilità di generare una storia nuova, non si risolve pienamente in una ripetizione o nell’esteriorizzazione della profondità della coscienza[10], altrimenti fine della storia sarebbe in realtà più una ripetizione che una fine, sarebbe la parola The end in fondo al libro dell’Uomo, che questi rilegge con le proprie azioni inconsapevoli, generando sempre il medesimo film. In tal senso, se l’ideale hegeliano di compimento fosse solo una vetta conoscitiva, il termine di un libro, un punto di vista panoramico da cui solo si può cogliere la totalità di sé stessi senza residui, allora l’uomo, scalata la montagna della Storia, vivrebbe davvero i suoi giorni come un remake, un recycling della sua identità ormai acquisita, in un’eterna immobilità inconsapevole, in un attimo senza tempo e senza libertà, dove tutto è già compiuto: e ciò forse sarebbe davvero una fine ma ancora senza conclusione. Dal punto di vista della Storia dei fatti, invece, il succedersi degli eventi, con la loro crudezza e oggettività, sarebbe altrettanto indifferente poiché si dia una qualche storia? La comparsa di nuove guerre e rivoluzioni, rivolgimenti inaspettati, evoluzioni senza precedenti; forse per questa storia scritta col sangue ben poco cambierebbe se la coscienza di sé avesse completato il proprio cammino spirituale, il buon senso, infatti, e anche una discreta osservazione, ci suggerisce di credere che questa storia continuerebbe anche senza la coscienza. D’altra parte è pur vero che la fine, sia conoscitiva o fattiva, qualora esista davvero, si può svelare solo ad un analista, a un soggetto esterno e postumo che guardi indietro al fenomeno compiuto, non certo agli autori inconsapevoli coinvolti nel turbine dei fatti. Anche rispetto a questa impossibilità di scorgere la fine dall’interno, risulta difficile non considerare la concretezza di una tale eventualità qualcosa di più di un’analisi intellettuale. Ma è davvero così? Il fatto che la storia si possa comprendere solo dall’esterno implica necessariamente che essa continui ed abbia un suo autonomo scorrimento? Senza dubbio se fine della Storia in Hegel fosse solo questa comprensione giornalistica dell’epoca dell’homo sapiens, non sarebbe altro che la fine del sapere, che continuerebbe solo come conservazione, la sua passività, il suo non oltre, il non expedit della coscienza. Infatti, come ben riassume Kojeve, in una simile totalizzante tirannia di un sapere che è racchiuso nel cerchio della sua storia, «la parola abbandona di fatto il Logos e la Filosofia, per continuare ad esistere solo come libro»[11]. Qualunque sia questa stagnazione dell’uomo o del sapere, essa forse ci persuade maggiormente di una presunta fine dei fatti, siamo spinti da ogni parte che il mondo della vita continuerebbe a scrivere le sue contraddizioni anche se già comprese e vissute; non si può negare, infatti, che la storia sia un ripetersi di situazioni del tutto simili e a volte identiche, se non regressive, ma la loro somiglianza esaurisce il loro significato, la loro storicità? Forse davvero tutto è identico a qualcosa e «non c’è niente da dire (o fare) che non sia già stato detto», ma anche qualora fosse valido questo paradigma, in che modo si realizza un tale impedimento, qual è il copione che si recita alla fine dello spettacolo, se non si tratta semplicemente di un esaurimento dei contenuti dell’uomo, arrivato al margine di sé stesso dopo aver messo a segno le tappe principali del suo divenire? Proprio questo aspetto “politico” è in questione nella discussione sull’ipotesi della fine della storia, al di là dell’ideale teorico di compimento come acquisizione del sapere di sé, che in Hegel è esplicitamente definitivo, e al di là dell’ipotesi eternalista del mutamento come ripetizione, Bataille (e/con Kojeve) si interroga su quale aspetto abbia la fine, su quale sistema si instauri laddove non si dà più mutamento e trasformazione, quale sia l’uomo della fine, a cui non spetta altro che la conservazione-ripetizione della propria storia, se vogliamo quell’uomo che nello Zarathustra Nietzsche chiama emblematicamente ultimo uomo, l’uomo della decadenza. Quell’uomo che «campa più a lungo» per via di una mancanza di identità che per Nietzsche lo pone alla fine della storia. Vedremo quanto sia simile la posizione di Bataille a questa visione, posizione che però viene brillantemente ricavata e giustificata da una lettura del tutto originale della dialettica hegeliana. Per riuscire a comprendere e centrare il punto dobbiamo però addentrarci di più all’interno di alcuni concetti fondamentali dalla stessa dialettica hegeliana sul tema della storia.

(torna su)

2. La dialettica nei suoi termini essenziali

Nel capitolo sulla lotta servo-padrone, Hegel ha voluto descrivere l’uscita dell’uomo dal regno della semplice percezione immediata, la conquista da parte di un essere completamente opposto all’altro – privo cioè di relazioni poiché ancora privo della coscienza della propria libertà – della certezza di essere sé stesso, fondamento dell’Io, risultato che segue solo da una dimostrazione a sé stesso e perciò soprattutto all’altro. Il punto di arrivo di questo processo è il riconoscimento reciproco dell’autocoscienza[12], la creazione di un’identità individuale concepita mediante uno scontro estremo. Se infatti si può giungere al confronto, e di qui al riconoscimento dell’autocoscienza, solo compiendo un’azione reciproca con l’altro termine in gioco, ovvero solo nella circostanza in cui il fare dell’altro è identico al mio[13], per questa necessaria specularità il rapporto tra le due autocoscienze «si determina come un dar prova di sé, a sé stesso e all’altro, mediante la lotta per la vita e per la morte»[14]. Tra le molteplici implicazioni racchiuse in questa lettura hegeliana, è inevitabile notare la presenza di una coloritura morale a caratteri forti, espressa nella clausola dello scontro necessario. L’inevitabilità dello scontro, quale momento in cui si situa il passaggio dal semplice mondo immediato e generico al mondo trasformato e mediato dall’uomo, deve far riflettere su cosa significhi per Hegel “origine dell’umanità”. Quel momento di liberazione della coscienza dal suo solipsismo asfittico, la fuga dal mutismo immediato dell’in-sè, senza memoria e senza storia, verso una realtà individuale e perciò duale con il mondo e con l’altro, non è descritto da Hegel come una “relazione etica”, un riconoscimento di uguaglianza e di identità tra gli uomini, o una qualche riconciliazione con il totalmente altro, ma al contrario come una lotta spietata per il sopravvento, con la creazione di differenze profonde, con il rischio della vita in una dimostrazione di forza. Il dissidio tutto interno di una coscienza senza riflessione del mondo e dell’altro, la sua totale assenza di comunicazione, storicamente non viene superata per Hegel con un’assunzione delle differenze, con il rigetto della bestiale chiusura in sé stessi, ma col portare all’extrema ratio questa bestialità nello scontro diretto, dunque un’opposizione che non viene scavalcata ma sovrapposta ad un’altra: l’opposizione naturale, storica e impersonale della coscienza al mondo e all’uomo viene colmata con uno scontro personale[15].

Impressioni a parte, un tale presunto darwinismo o illuminismo della forza alla fine non è quello che sembra, anche se è chiaro che vuole sembrarlo, per due motivi:

1.Perchè il superamento degli opposti attraverso la loro “sintesi” è infatti niente di più che il processo logico della Storia in Hegel.

2. Soprattutto perché non si tratta di uno scontro che plaude il forte, ma anzi porta a vincere l’apparente perdente, lo schiavo[16].

Vediamo in sintesi i passaggi fondamentali della lotta per il riconoscimento. In breve: quell’individuo che, non temendo per la propria vita, affronterà e rischierà la morte, colui che si scontrerà con il “negativo” senza anteporre la propria conservazione al cambiamento, costui uscirà dapprima vincente dal confronto con l’altro, dimostrando nella lotta di essere libero. Ma proprio elevandosi al di là dell’altro, che viene superato per non aver negato sé stesso nel rischio estremo della morte, egli produrrà una distanza e frapporrà una barriera tra sé e la cosa, creerà cioè una differenza tra la propria libertà e la realtà. Questo iato sottile, questa crepa invisibile che si apre all’interno della sovranità, può essere colmata solo dal servo. Questi, perdente per come si è comportato di fronte alla morte, costretto a lavorare per soddisfare il suo Signore, si ritrova ad avere una prerogativa di cui il Signore è sprovvisto. Il suo lavoro, sintomo di sottomissione all’altrui sovranità, diviene espressione della sua libertà nella trasformazione della realtà. Lavorando metterà in moto quel processo di negazione del dato, di trasformazione della mera esistenza delle cose con il proprio lavoro; si creerà così un mondo umano attorno a sé diventando con ciò stesso uomo libero, padrone di sé e del mondo[17]. Trasformando la realtà trasformerà sé stesso, giungendo a quel riconoscimento di sé che il Signore, apparentemente vincente, non è stato in grado di compiere, “paralizzato” dalla sua sovranità[18].

Lo scontro presupposto dal riconoscimento, clausola che ci era apparsa violenta lotta personale, in realtà si mostra adesso per quello che è, e cioè come ribaltamento e capovolgimento inaspettato, per cui lo schiavo, il lavoratore, colui che deve sopperire alle necessità pratiche e biologiche di un altro, conquista la piena autonomia sul suo signore, perché nelle sue mani e nel suo lavoro si concentra adesso il potere di trasformare la realtà[19]. In ciò egli agisce verso l’altro nel modo in cui agisce verso di sé, trasformando il mondo trasforma sé stesso, reciprocità essenziale al riconoscimento, di cui il signore si è mostrato privo[20]. Ecco a ragion veduta perché senza lotta non si produce il riconoscimento, perché nella lotta si generano quelle differenze che possono poi venire superate. Questo capitolo della Fenomenologia è una descrizione esemplare del movimento di progressiva negazione e superamento che per Hegel muove la Storia: l’inarrestabile capovolgimento delle posizioni per cui i significati assunti si mostrano essere «l’inverso e il contrario di ciò che erano inizialmente»[21], e con ciò si comprende soprattutto perché questa lotta sia essenzialmente dialettica. Fatto questo chiarimento, adesso è possibile focalizzare meglio il tema della storia all’interno della dialettica hegeliana, e così soltanto cogliere gli argomenti sottilissimi che Bataille propone.

Innanzitutto per Bataille è in gioco nella rappresentazione di Hegel in sostanza: (1) chi detenga il primato di aver innescato la ruota della storia, in secondo luogo (2) il modo in cui si configurano i rapporti di forza emergenti, e da ultimo (3) l’ipotesi di una fine della storia con l’instaurazione di un modello su un altro.

 (torna su)

3. Il primato dell’origine

L’uomo storico per Hegel è l’individuo che nega se stesso continuamente, è la propria in-esistenza, auto-trasformazione inarrestabile, auto-differenza; per questo motivo nella dialettica servo-padrone pare situarsi l’origine della storia, in quanto momento in cui l’uomo nega la sua “semplice presenza” naturale, per avviare il ciclo dei suoi cambiamenti. All’origine di questa inarrestabile auto-differenza relativa e graduale si pone il momento di una differenza assoluta e originaria, la nascita dell’autocoscienza nella lotta: l’uomo si distingue dalla semplice natura, da tutti gli altri uomini e infine da sé stesso, con cui entra in dialogo cosciente. È chiaro leggere in questa descrizione una raffigurazione dell’origine dell’uomo e quindi della sua storia, ma è altrettanto evidente come questo meccanismo, sebbene non si spenga con il suo primo grande prodotto, implichi già il rapporto con una fine, in quanto rappresenta un fondamento che precede e pertanto sorregge i significati della storia, le dinamiche dell’animo e del corpo umano.

È questa genesi della storia, determinata nel senso di un evento scatenante e quindi già custode di una qualche fine (poiché ogni senso esclude l’altro)[22], che Bataille mette al centro della sua analisi. Durante il boom storicista ottocentesco, già Nietzsche avvertiva come l’esigenza del suo tempo di rintracciare/dare un’origine della storia, fosse in realtà il tentativo implicito di sopprimerla, non solo perché riconoscersi un’origine è sempre negarne un’altra, ma soprattutto perché «non c’è un’origine che non sia già persa nel suo divenire»[23]. Nello storicismo del suo secolo, «patria delle mescolanze e degli imbastardimenti, epoca dell’uomo-mistura»[24], Nietzsche intuiva chiaramente la ricerca di un’identità, di un’espressione comune che superasse l’assenza di un’unità di espressione (Stillosigkeit)[25]. Quell’unità mancante alla cultura e all’individuo del suo tempo veniva sopperita con una narrazione monologica del tempo, un richiamo ad una storia antica – fenomeno che si ripete sempre identico ogniqualvolta un popolo o una nazione nascente (o rinascente) si imbatta nella necessità di costruirsi una tradizione[26] – che in quanto originaria è identitaria e legittimante, soprattutto per quanto riguarda i popoli e a maggior ragione le nazioni e i nazionalismi che si andavano formando all’epoca di Nietzsche[27]. Di fronte a questa volontà di richiamarsi ad un proteron, Nietzsche intuiva chiaramente la negazione delle fratture e delle inconciliabili differenze del tempo, la riduzione del tutto ad un’unica piatta successione di eventi – rassicurante narrazione dei valori fondanti dell’umanità – la tendenza nascosta ad un telos e uno scorrimento identico da cui venivano l’inerzia, l’epigonismo[28], e più in generale l’allineamento in una traiettoria deduttiva, “edipica”, del tempo, che ci classifica come figli della storia più che come artefici[29]. Nietzsche metterà al centro della sua diagnosi della decadence il rapporto degenere, metafisico, trascendente, dell’uomo con il tempo. Ma anche solo ad uno sguardo comune appare evidente che una storia con un evento, un movimento o una peculiarità originaria a monte, è una storia uniforme, per quanti cambiamenti possano incorrere al suo interno essa resta chiusa in un orizzonte di senso, orientata e determinata da una tendenza evolutiva iniziata col sorgere della sua parabola e tendente alla propria realizzazione. Un cambiamento il cui protagonista sia un concetto da raggiungere, un individuo da realizzare, è la storia di un piano da compiere, «storia che ci permetterebbe di riconoscerci dovunque e di dare a tutte le trasformazioni del passato la forma della riconciliazione, una storia che getterebbe dietro di sé uno sguardo da fine del mondo»[30]. Proprio quello di cui va in cerca l’epoca di Nietzsche, che è al contempo proprio quella storia-riconoscimento dell’uomo proposta dell’hegelismo. Bataille pone in questione proprio la presunta originarietà della lotta servo-padrone, evidenziando due aspetti poco chiari della descrizione di Hegel. Innanzitutto: se la storia dell’uomo comincia con il riconoscimento dell’autocoscienza attraverso il lavoro, di conseguenza sembra proprio che la storia – come afferma lo stesso Kojeve – sia essenzialmente la storia del servo lavoratore[31]. In secondo luogo, se l’umanità si realizza nel lavoro sancito attraverso la lotta, e solo con ciò pone le basi di un suo sviluppo storico, allora prima della lotta non si dava né la storia propriamente detta né dunque il lavoro che trasforma? Posto che la successione logica delle figure nella Fenomenologia non corrisponde strettamente alla loro successione cronologica – perché la descrizione della storia dell’esperienza della coscienza è pur sempre una ricostruzione attraverso l’interiorizzazione della sua profondità – Bataille tuttavia si chiede se la successione dei momenti sia “soddisfacente”, dato che «mi sembra difficile [afferma] dimenticare che il lavoro abbia dovuto precedere la schiavitù»[32].

Pur continuando a riconoscere al lavoro una prerogativa unica nella scansione e divisione del tempo e dei ruoli, Bataille sostiene che a “disalienare” l’uomo dalla sua in-seità, e cioè a determinare la storicità stessa dell’uomo siano stai, prima ancora della relazione con la morte e dell’imposizione di un Signore, i divieti religiosi, precetti nati dal rapporto umano col sacro e realizzatisi innanzitutto nella divisione del tempo. «Hegel avrebbe messo in luce nello spazio, ciò che – secondo Bataille – si è compiuto innanzitutto nel tempo»[33], nel senso di un’opposizione classica tra “tempo sacro” e “tempo profano”. Bataille vuole ricondurre la storicità dell’uomo, con la sua conseguente organizzazione della società in ruoli e contrapposizioni, ad un fattore più antropologico che dialettico, benché qui non sia in questione la logica dello sviluppo dialettico della storia, bensì la sua origine dalla dialettica. L’organizzazione della vita in base alla divisione del tempo è una forma primitiva di società in cui il lavoro e la differenza dei ruoli sono coevi e non riconducibili ad uno scontro dialettico. L’intera comunità si divide nel tempo di un lavoro profano dedito alla produzione e rivolto al tempo del consumo nella festa sacra. In questi termini la proposta di Bataille non sembra molto persuasiva, sembra piuttosto che la sua critica all’originarietà della dialettica si risolva semplicemente con la proposta di uno schema alternativo, ma anch’esso originario. La lettura di Hegel dunque ha solo sbagliato sui tempi e sui modi dell’origine della storia, oppure questa antica divisione del tempo non possiede alcuna originarietà ed è un’effettiva obiezione alla dialettica? Bataille non vuole sostituire alla dialettica alcunché, afferma infatti che l’organizzazione della società nella divisione del tempo non accede affatto alla storicità degli eventi, essendo una divisione netta e senza scambi di ruoli, ma riconoscendo in questa struttura ancestrale dell’umanità una divisione, organizzazione etico-economica della società in ruoli e funzioni vuole affermare che l’uomo sia stato presente anche al di qua di una storia umana, iniziata con le contrapposizioni dialettiche hegeliane. Con l’esteriorizzazione, la configurazione di quel primitivo solco tra gli uomini e i loro ruoli, tracciato dalla divisione del tempo, con il suo prendere corpo nello spazio attraverso lo scontro dialettico tra servo e padrone si avrà, infatti, la perdita della monotonia e della stabilità del tempo, la chiarezza dell’opposizione temporale tra sacro e profano lascia il posto all’instabilità della Storia, dove vige un perpetuo sistema di «duplicità e capovolgimento dei significati»[34]. Con questa prima sottile ma significativa obiezione antropologica Bataille avanza già decisamente la critica all’esistenza di un’origine, ma soprattutto sembra voler precisare che la banale distinzione tra un tempo “animale” o “naturale” e una storia umana nata con la lotta per il riconoscimento è insensata, che la storia è senz’altro nel tempo e non al di fuori, che il tempo pur senza identificarsi con essa la implica già poiché l’uomo è già presente nella sua natura “non storica”, animale, così come l’animale sarà sempre presente nel corso dell’esistenza storica dell’uomo, perciò anche oltre una presunta fine della storia. È il caso di ribadire comunque che la recondita dialettica del sacro-profano sembra pur sempre una specie di riconduzione ad una dinamica, una struttura, un’identità preistorica, ma laddove lavoro, scontro e signoria non hanno alcuna precedenza l’uno sull’altro non vi può essere neppure alcuna differenza dialettica che scandisca il loro manifestarsi, nel registro di Hegel figurerebbero come semplici attività che regolano monotonamente il tempo e la vita degli uomini, che si mostrano prive di storia poiché prive di uno spazio di rapporti e confini cangianti. A dimostrazione del fatto che non è la dialettica in sé l’obiettivo critico di Bataille, ma il significato che essa attribuisce al concetto di uomo e di storia, egli afferma che se anche le cose fossero andate come ipotizza non ci sarebbe nulla da cambiare nella dialettica hegeliana, che rimarrebbe una logica del cambiamento pur rinunciando alla pretesa originarietà della lotta[35]. Ciò che Bataille cerca esplicitamente di screditare è l’idea che all’alba della storia ci sia la notte di un’identità vagante, infondata, ancora indistinta dalla natura, svegliata e spronata a sé stessa e al suo mondo con lo scontro e il tracciato di una differenza improvvisamente insorta. L’origine dell’uomo, il momento di “trapasso della specie”, l’insorgere dell’umano nell’animale appare al nostro filosofo un ideale umanistico e spiritualista, che individua e separa una volta per tutte l’uomo dal mondo. Bataille gli oppone l’idea di un’umanità molto meno originaria, un umano presente ancor prima del suo cominciamento storico, e in questo rifiuto della dialettica hegeliana sono già presenti i tratti della critica al concetto hegelo-kojeviano che individua nella fine della storia la fine dell’uomo. Sia prima che dopo la storia Hegel e Kojeve non considerano umano quell’individuo che agisce al di fuori della logica della dialettica, al di là dell’immane forza del negativo che ribalta continuamente le figure della storia e muove così al cambiamento. La parzialità del concetto di Storia proveniente dall’identificazione hegeliana dell’uomo con il fare costante di un meccanismo di ribaltamento, aveva catturato l’attenzione Bataille già qualche giorno dopo la conferenza di Kojeve al College de sociologie del dicembre 1937. Bataille gli invia una lettera rimasta celebre dove deplora che il sistema hegeliano non contempli affatto quella «negatività senza impiego»[36], che è il fare di chi non ha più niente da fare, e così escluda una enorme parte di umanità, quel “resto” di umanità che sopravvive anche alla fine della storia come continuo processo di negazione del dato: fenomeni come l’erotismo, il riso, la gioia davanti alla morte[37], e tutto ciò che non implica una mediazione concettuale. In una visione del mondo e del tempo chiusa, cioè volta al raggiungimento di uno scopo e poi alla sua conservazione e ripetizione, non c’è da stupirsi che per i suoi difensori la fine di questo processo conduca ad una “carenza di umanità”, ma Bataille non vede in modo nettamente distinto uomo e animale, non concepisce cioè che la carenza di uno significhi il sopravvento dell’altro. La dicotomia decisiva, la tassonomia e la demarcazione netta tra uomo e animale non presta fede all’essenza dell’uomo, non definisce l’uomo ma tende a crearlo in quella che è stata definita opportunamente «macchina antropologica»[38]. Tutte le definizioni epocali dell’uomo lo caratterizzano per esclusione o negazione dell’animale, per “differenza specifica”, ponendo l’accento su ciò che li distingue, ma tralasciando del tutto ciò li che accomuna. A questo proposito è sorprendente notare come Linneo, il più grande scienziato della definizione, campione della tassonomia e padre della scienza naturale moderna, con le sue rigide gerarchie e classificazioni, non abbia definito l’uomo come un’essenza differente dall’animale, ma come «l’animale che è tale solo se si riconosce non essere»[39]. La dialettica hegeliana è una forma di quella macchina antropologica in azione nella nostra cultura, e anzi la fine della storia, come secondo Kojeve si ritrova in Hegel, è un concetto coerente solo perché all’origine della storia viene posto un uomo con un’essenza acquisita e ben distinta dall’animale. Venendo a mancare quest’essenza dell’umano che sta a monte della storia, si sottrarrà la storia ad ogni altra possibile manifestazione ulteriore, e quanto dell’uomo sopravviverà non sarà che il suo “resto”, vita puramente biologica, come afferma Kojeve[40]. In buona sostanza la fine della storia in questa lettura kojeviana, non sarebbe altro che la fine dell’uomo, il quale essendo essenzialmente un “animale storico” non sopravvivrebbe alla perdita della sua “natura trasformatrice”. Questa è la discussione in cui si inserisce la voce di Bataille, il contrasto tra lui e Kojeve concerne proprio quel resto che sopravvive alla morte dell’uomo ridiventato animale alla fine della storia[41], e mentre il primo rifiuta di credere che tutto quanto l’uomo possiede di sé sia legato alle forme privilegiate del “negativo”, cioè quelle forme del fare come la ragione osservativa, l’autocoscienza, lo spirito, che scatenano un progresso storico; il secondo non vede altro uomo al di là di quell’essere che fa la storia con la sua trasformazione “spirituale”, la storia e l’uomo in sostanza gli appaiono la stessa cosa. Forse la posizione di Bataille si potrebbe esprimere meglio e sarebbe resa più semplice con una domanda: ci può essere storia e quindi umanità anche senza quell’uomo storico hegeliano del fare, anche quando quell’uomo si è compiuto in tutte le forme principali del suo sviluppo? Ci può essere sapere anche laddove questo si è compiuto, raggiungendo le sue conoscenze fondamentali? Ovviamente la risposta di Bataille è positiva, ma la sua posizione non è solo critica, egli vuole inoltre mettere in evidenza la presenza di una faglia logico-deduttiva nel sistema hegeliano con un argomento che apparentemente sembra ed è sembrato, anche ai più grandi colleghi di Bataille, l’obiezione di un mistico, di un nuovo metafisico.

Egli si scaglia contro questa visione “acefala” dell’uomo post-storico, dell’individuo “puramente biologico”, rifiuta una rappresentazione univoca dell’uomo come essenza e del sapere come compimento, dichiarando con una profondità sfuggente che «ciò che è, è più di ciò che è»[42], che ogni senso implica già la sua mancanza di senso, ogni sapere la sua mancanza di sapere, perché è proprio di ogni significato l’oltranza del significato[43]. Sarebbe appassionante seguire il ragionamento di Bataille su questo punto, che apre scenari ignoti alla rappresentazione che del sapere ha offerto Hegel, descrizione che per essere messa in questione ha bisogno di argomenti sottilissimi come quelli di Bataille, ma non è questo il luogo adatto per approfondire questi aspetti. Diciamo solo che facendo dell’oltranza di significato, e in genere dell’opposto, un elemento indispensabile e una condizione del significato, l’impossibile diviene un ens necessarium[44] che Hegel non ha contemplato nel suo sistema e che Bataille rivendica all’essenza del Wissen e dell’uomo[45]. È proprio questa obiezione che, diciamo “non lineare” nei termini del Logos tradizionale, varrà a Bataille non poche critiche da parte dei filosofi di carriera come Kojeve e Sartre. Ma in realtà, una tale posizione apparentemente dilettantistica, come appunto gli rimproveravano i suoi colleghi più decorati, cela un fortissimo argomento contrario all’ideale del Kreis hegeliano, al cerchio come compimento e totalità del sapere e dello sviluppo umano, perciò anche alla “fine della storia”: vedremo quali siano le sue implicazioni maggiori poco più avanti, quando nello specifico parleremo di questo tema principale.

Grossomodo in questi termini viene riproposta da Bataille la rilettura della dialettica di Hegel, lasciando aperta l’ipotesi della fine e dell’inizio della storia, ma non nel senso di un inizio o di una perdita di umanità, ma di un punto di stallo economico-politico dettato dall’uso improduttivo delle ricchezze, sviluppato da “fenomeni dialettici” come le guerre, lo snobismo, il lusso sublimato nell’ideale borghese di benessere diffuso.

 

GIUGNO 2012

(torna su)


[1] Le famose Lezioni di Kojeve sulla Fenomenologia dello spirito furono tenute dal 1933 al ’39 presso l’Ecole pratique des hautes etudes e vennero poi raccolte e pubblicate da R. Queneau. Sono edite da Adelphi, a cura di G. Frigo, 1996.

[2] «Tutta l’opera di Bataille sembra un fare e disfare la Fenomenologia di Hegel», in F. Rella e S. Mati, Georges Bataille, filosofo, Mimesis, 2007, p. 14.

[3] G. Bataille, Hegel, l’homme et l’histoire (Hegel, l’uomo e la storia), in «Monde Nouveau-paru», nn. 96-97, 1956, Vol. XII delle Oeuvres complètes, Paris 1988.

[4] Bataille, cit., p.1.

[5] G. W. F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, Cap. VIII, Il sapere assoluto, Bompiani 2000, § 2, p. 1053.

[6] «Il concetto dello Spirito ha la sua realtà nello Spirito. Che questa consista nell’identità con quello rappresenta il sapere dell’idea assoluta, e in ciò consiste la sua parte necessaria. [trad. mia]», in: Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, § 553, edizione on-line dell’“Hegel-institut.de”.

[7] Hegel, Fenomenologia…, cit., Prefazione passim.

[8] In termini più propriamente hegeliani, l’apparente contraddizione, o la “differenza indifferente” tra la fine e l’inizio, tra l’essenza e l’esistenza, tra la realtà e la ragione, è la contraddizione tra verità (dell’oggetto) e sapere (della coscienza), che di volta in volta viene superata con il meccanismo della negazione determinata.

[9] Hegel considera la ragione o il sapere alla stregua di un’operazione di ricongiunzione, di riappropriazione. Molto esemplificativa la sua metafora della Fenomenologia con il Giudizio. Nella parola tedesca Urteilskraft (giudizio) vede una conferma del suo concetto di Assoluto come unità da ricomporre (opposto a quello dell’Io-dato fichtiano), poiché la parola Urteilskraft accenna a una ursprünglich Teilung cioè a una “divisione originaria”. Ma come può una divisione essere originaria, come può attuarsi cioè se prima non è preceduta da una unità? Pertanto, ciò che il giudizio presuppone secondo Hegel deve essere un concetto precedente, un’unità primitiva che, nelle infinite divisioni che la ragione vi apporta durante la storia nel tentativo di appropriarsene, ci sfugge nella sua interezza e si concretizza in modalità volta per volta differenti, in un processo che tende alla sua conoscenza, alla scoperta del suo concetto assoluto.

Cfr. F. Chiereghin, Introduzione alla Fenomenologia dello spirito, Carocci, Roma 2008, p. 56.

[10] Hegel, Fenomenologia…, cit., p. 1063.

[11] Kojeve citato in Hegel, l’uomo e la storia, pp. 25-26.

[12] «L’autocoscienza è in sé e per sé, solo quando e in quanto è in sé e per sé per un’altra coscienza, cioè solo in quanto è qualcosa di riconosciuto», in: Hegel, Fenomenologia…, cit., p.275.

[13] «Un’attività unilaterale sarebbe inutile, perché ciò che deve accadere può realizzarsi solo mediante il fare identico dell’altro», in: Hegel, Fenomenologia…cit., p. 277

[14] Hegel, Fenomenologia…, cit., p.281.

Che il processo di riconoscimento sia portato necessariamente a risolversi nello scontro non è una petitio principi hegeliana. Che le cose vadano così lo si può riscontrare in ogni situazione in cui ci si sente rispecchiati dalle realtà: si dice a sé stessi di sentirsi riconosciuti, di sentirsi sé stessi, solo perché gli altri si comportano nel modo in cui faremmo noi. Ma questa precondizione non esaurisce il processo di riconoscimento, sebbene lo renda possibile. L’identità del fare di diversi soggetti li porta inevitabilmente allo scontro, come momento di comprensione della propria singola identità.

[15] A proposito di quest’aspetto soggettivista, “impositivo”, dell’etica hegeliana, è stato rilevato quel carattere forte e “violento” a cui facciamo qui una breve allusione. Levinas e le filosofie morali che fondano la “relazione etica” sulla preminenza dell’altro più che del sé hanno parlato di una violenza dell’idealismo soggettivista di Hegel o di Heidegger. Cfr. E. Levinas, Totalità e Infinito, Jaka Book, 2006, pp.40 e ss.

[16] «[...] l’uomo libero è il servo che avrà soppresso la propria servitù» in: A. Kojeve Hegel, l'uomo e la storia, p. 18, citato da Fenomenologia dello spirito tradotta e commentata da Kojeve.

[17] Nel Secondo Trattato sul governo, J. Locke fa derivare il diritto di proprietà, lo stato giuridico di una cosa, dalla trasformazione attraverso il lavoro del suo stato reale. Se Locke avesse scritto la dialettica avrebbe definito il diritto di proprietà un diritto servile o padronale?

[18] Cfr. Hegel, Fenomenologia dello spirito, sul “ribaltamento” delle posizioni, cit., p. 287.

[19] Hegel, Fenomenologia…, cit., p. 285.

[20] «Al riconoscimento vero e proprio, manca il momento in cui ciò che il signore fa verso l’altro, lo fa anche verso sé stesso, e ciò che il servo fa verso sé stesso lo fa anche verso l’altro [...]. Il signore dunque, non è certo dell’essere per sé come verità, al contrario: la sua verità è la coscienza inessenziale e il fare inessenziale di questa coscienza. Di conseguenza, la verità della coscienza autonoma è la coscienza servile», in: Hegel, Fenomenologia…cit., p. 285.

[21] Hegel, Fenomenologia…, cit., p. 287.

[22] «Nietzsche per riferirsi alla storia usa spesso negli aforismi della Volontà di potenza il termine Richtung, che significa tanto “direzione” quanto “valore”, ad indicare che ogni senso è un’imposizione di valori» in: (a cura di F. Volpi) M. Heidegger, Il nichilismo europeo, Adelphi Edizioni, Milano 2006.

[23] R. Dionigi, Il doppio cervello di Nietzsche, Cappelli, Bologna 1982.

[24] M. Foucault, Nietzsche, la genealogia e la storia, in Microfisica del potere, Einaudi, Torino 1977.

[25] «La cultura dev’essere uniformità di vivere, pensare, apparire e volere» in: F. Nietzsche, Sull’utilità e il danno della storia per la vita, Adelphi, Milano 2007; «è unità di stile artistico in tutte le manifestazioni di un popolo» in; F. Nietzsche, David Strauss uomo di fede e scrittore, Adelphi, Milano 1992.

[26] Si pensi ai mitici capostipiti delle antiche dinastie o tribù medievali, da cui le stesse prendevano il nome. I merovingi, re dei Franchi, successori del mitico Meroveo; si pensi alle nazioni post-coloniali che si richiamavano e a volte inventavano completamente un passato remoto in cui risiedesse una loro identità non mischiata a quella dei colonizzatori. Cfr. R. Beets, La decolonizzazione, Il Mulino, Bologna 2003, cap. VIII e ss.

[27] Per comprendere quanta importanza abbia rivestito l’origine storica dell’identità di un popolo, basti pensare che Hegel negava il diritto di costituirsi in una Nazione a quei popoli privi di una storia. L’epoca di Nietzsche, invece, è attraversata dalla necessità di definire l’essenza del concetto di Nazione, attraverso l’identità linguistica, geografica, storica, perciò l’origine, l’unità e identità storica di un popolo assumono un’importanza enorme.

[28] Nietzsche, D. Strass…, cit., pp. 24 e I, III, 241, 249.

[29] In questo senso la proposta “etico-antropologica” di Nietzsche di reimpostare il nostro rapporto con il tempo, come se questo fosse un circolo più che una linea, ha il compito di ovviare all’«impotenza della volontà di volere a ritroso» (La visione e l’enigma, in Così parlò Zarathustra) da cui viene il risentimento e il senso di colpa per eventi immodificabili ed estranei, che ci precedono e ci determinano.

[30] Foucault, cit. p. 54.

[31] Bataille, cit., p. 18.

[32] Ibidem, p. 19.

[33] Ibidem, p. 20.

[34] Ibidem, p. 21.

[35] Ibidem, p. 21, nota 15.

[36] Bataille a Kojeve, 6/12/1937, in G. Agamben, L’aperto, l’uomo e l’animale, Bollati-Boringhieri, 2002, p.14.

[37] Bataille, in Agamben, cit., p. 15.

[38] Ibidem, p. 38.

[39] Ibidem, p. 34, ivi Agamben ci fa notare che: «Linneo prima della decima edizione della sua opera Sistema Naturae non affianca al termine Homo alcun aggettivo, ma gli fa seguire solo il vecchio adagio nosce te ispum».

[40] Bataille, cit., p. 25.

[41] Agamben, cit., p. 13.

[42] Abate C, in F. Rella e S. Mati, Georges Bataille, filosofo, cit., p. 73.

[43] Ibidem, p. 25 e ss.; «La negazione dell’oltranza metafisica è la radice nichilistica dell’idealismo», p. 80.

[44] Ibidem, p. 73.

[45] La leggenda vuole che tra gli atti fondativi della filosofia tradizionale vi sia il riconoscimento da parte degli dei (enunciato dall’oracolo di Delfi) a Socrate di essere il più saggio tra gli uomini, proprio per la sua ignoranza-saggezza di sapere di non sapere. Gli veniva riconosciuto il più grande sapere proprio per il suo non-sapere. Ovviamente quest’ignoranza è solo un punto di partenza per acquisire maggiore sapere, ma spingendo questo parallelo azzardato fino ai nostri scopi Bataille afferma che  l’opposto del sapere non solo è condizione di esso ma è un suo complemento. Tale posizione esprime il paradosso per cui qualcosa per essere tale deve al contempo includere il proprio opposto, essere e non essere assieme. La più celebre enunciazione di questo principio paradossale ci è offerta dal celebre paradosso di Gorgia, per cui l’essere non potendo essere tale in virtù di sé stesso (altrimenti sarebbe eterno, cioè infinito, quindi in nessun luogo, cioè non esistente) né in virtù di un non essere precedente (perché questo non è) non ci lascia altro da dire che il non essere è. Al di là dell’accostamento un po’ forzato tra i due argomenti, l’obiezione aporetica di Bataille ha in comune con quella di Gorgia il voler banalizzare la rigidità di certi modi di pensare che conducono a degli assurdi come la fine della storia (Hegel) o l’assenza di movimento (Eleati). Sul non senso come parte del sapere cfr. F. Rella e S. Mati, Georges Bataille, filosofo, pp. 25 ss.; 75-76-78.