Esperienza e rappresentazione
SE LA STORIA PUò FINIRE
Uno studio a partire da Hegel e Bataille (Parte I)
Mariano Mazzullo
Seminario di Storia del
pensiero politico,
G. Bataille “Hegel, l’uomo e la
storia”, sul tema “fine della
storia”.
1. Bataille, la dialettica e la fine della storia
L’analisi che Bataille propone della
dialettica hegeliana si colloca in un preciso dibattito filosofico
intorno a quello che è il capitolo più dibattuto della
Fenomenologia. Essa tocca
pertanto alcuni degli aspetti più importanti del pensiero
storico-politico di Hegel, come l’origine dell’individualità e della
libertà umana dal regno della natura, il sorgere dei rapporti di forza
all’interno della società e le dinamiche con cui la coscienza compie
questa fase epocale del suo sviluppo, per poi affrontare infine
l’ipotesi pesudo-hegeliana della “fine della storia”.
L’acutezza del discorso di Bataille è
immediatamente evidente, il progredire dell’analisi è da subito così
conciso e profondo da disorientare il lettore più avvezzo al linguaggio
hegeliano. Tuttavia lo spessore del suo discorso non deriva dalla
lettura intelligente con cui commenta la lezione del filosofo tedesco e
ne arricchisce la bibliografia, quanto dal focalizzare quegli aspetti
che gli appaiono incerti e nel metterli radicalmente in dubbio. Il suo
intento non è di fare un’esegesi, bensì di portare avanti la teoria di
Hegel fin dove è possibile, accrescendola di ipotesi alternative o
confutazioni originali, revocandola senza sconti dove presta il fianco
alla critica. Lo studio hegeliano di Bataille nasce all’interno di un
intenso confronto con l’interpretazione che di questi diede A. Kojeve,
considerato uno dei maggiori interpreti di sempre del filosofo tedesco,
di cui Bataille aveva potuto seguire le celebri
Lezioni[1],
insieme praticamente alle menti più brillanti dell’intero mondo
filosofico francese: Sartre, Queneau, Merleau-Ponty, Lacan, e molti
altri. L’incontro con Hegel si mostra da subito uno stimolo fortissimo
per lui, a partire dalle lezioni di Kojeve avvierà con questi un intenso
dibattito, una brillante querelle
che assumerà non di rado i toni dello scontro personale, ma che alla
fine si rivelerà fonte di numerose intuizioni. «Tutta l’opera di
Bataille sembra un fare e disfare
Quando esce per la rivista “Monde
nouveau-paru” l’articolo Hegel, l’uomo e la storia[3], i temi del confronto sono ormai maturi in Bataille e la
questione-Hegel è già stata affrontata sotto diversi aspetti. Questo
breve saggio perciò non intende ricapitolare tutti gli argomenti di
distacco dal filosofo tedesco e dalla sua interpretazione canonica, né
«risolvere difficoltà per le quali non è bastato un secolo intero»[4],
esso si propone invece lo scopo ben più interessante di seguire il filo
rosso delle varie possibilità accampate dal celebre capitolo sulla
nascita dell’autocoscienza, le parzialità, le ipotesi inesplorate,
andando da una parte oltre il testo, dall’altra però seguendo una
lettura fedele, che si avvale dei testi di Kojeve, citati spesso e quasi
senza intenti polemici. Prima di entrare nel merito è opportuno
precisare che Bataille mira ad inquadrare l’ipotesi della “fine della
storia” nella logica della dialettica servo-padrone – cioè a partire dal
momento in cui Hegel sembra collocare l’origine della storia, ossia l’insorgere dei rapporti di forza, dei
ruoli, all’interno della società – per poi applicare e verificare la
tenuta dello schema hegeliano all’evoluzione dei rapporti sociali
nell’epoca della tecnica, del primato dell’economia e del benessere
allargato. Vedremo più avanti quale sia il ragionamento condotto da
Bataille in proposito, ma forse ancor più necessario di questa
avvertenza è chiarire i termini generalissimi in cui il concetto di
“fine della storia” si ritrova in Hegel, così da comprendere la reale
entità del tema all’interno del suo pensiero, riservandoci più avanti di
chiarirne i diversi significati. A livello meramente quantitativo i
passi in cui Hegel menziona il tema della fine della storia sono pochi e
brevi, per essere più chiari: lo si ritrova nell’ultimo paragrafo della
Fenomenologia[5],
dove il filosofo adopera esplicitamente il termine
Ende che, dei tre diversi
sostantivi tedeschi (Ziel, Zweck,
Ende) maggiormente usati per le diverse accezioni del concetto di
fine (la/il), è quello meno filosofico e anche meno usato nella
Fenomenologia. Viene inoltre
accennato nell’ultimo capitolo delle
Lezioni sulla filosofia della
Storia – capitolo
dedicato al Cristianesimo come religione del “compimento” – e
implicitamente nel capitolo dell’Enciclopedia
dedicato alla Weltgeschichte,
dove tuttavia il termine fine non è mai pronunciato. Si parla piuttosto
della liberazione (Befreiung)
dello Spirito (realizzata nell’identità di un popolo tra la sua volontà
e le sue leggi: lo Stato) nel §550,
o della forma/realtà dello Spirito quale identità col sapere assoluto
nel §553[6].
Sono comunque passi importanti perché riassumono concetti che non
possono ridursi all’uso di una parola, ma la loro entità ci permette
quanto meno di distinguere Hegel dall’hegelismo. Il seguente tema,
infatti, marginalmente e implicitamente presente in Hegel, in realtà è
sorto più all’attenzione dei suoi interpreti, come Löwith e Kojeve, che
ne hanno certamente amplificato la portata originaria. In ogni caso
questo concetto tanto dibattuto, seppur non tematizzato esplicitamente,
è un assunto logico di fondo nella filosofia di Hegel, un corollario
della sua teleologia dello Spirito Assoluto. Azzardando una sintesi
coerente possiamo dire che emerge dalla concezione finalistica dell’Uomo
come unità che deve farsi o meglio riconquistarsi/riappropriarsi di sé,
attraversando nella storia tutte le contraddizioni che lo separano dalla
sua vera essenza. La storia assume in questa prospettiva il senso
univoco di un’esperienza di ricongiunzione, il ritorno in sé di
un’umanità che si riavvolge fino a ricompattarsi nel proprio concetto, è
la realizzazione progressiva e inarrestabile di un’idea di uomo, di una
sua natura precisa, che informa, struttura, dà il senso complessivo
della Storia. Essa è perciò una traiettoria lineare se vista da
quell’uomo che con la sua esperienza fa
2. La dialettica nei suoi termini
essenziali
Nel capitolo sulla lotta servo-padrone,
Hegel ha voluto descrivere l’uscita dell’uomo dal regno della semplice
percezione immediata, la conquista da parte di un essere completamente
opposto all’altro – privo cioè
di relazioni poiché ancora privo della coscienza della propria libertà –
della certezza di essere sé stesso,
fondamento dell’Io, risultato che segue solo da una dimostrazione a sé
stesso e perciò soprattutto all’altro. Il punto di arrivo di questo
processo è il riconoscimento reciproco dell’autocoscienza[12],
la creazione di un’identità individuale concepita mediante uno scontro
estremo. Se infatti si può giungere al confronto, e di qui al
riconoscimento dell’autocoscienza, solo compiendo un’azione reciproca
con l’altro termine in gioco, ovvero solo nella circostanza in cui il
fare dell’altro è identico al mio[13],
per questa necessaria specularità il rapporto tra le due autocoscienze
«si determina come un dar prova di sé, a sé stesso e all’altro, mediante
la lotta per la vita e per la morte»[14]. Tra le
molteplici implicazioni racchiuse in questa lettura hegeliana, è
inevitabile notare la presenza di una coloritura morale a caratteri
forti, espressa nella clausola dello scontro necessario. L’inevitabilità
dello scontro, quale momento in cui si situa il passaggio dal semplice
mondo immediato e generico al mondo trasformato e mediato dall’uomo,
deve far riflettere su cosa significhi per Hegel “origine dell’umanità”.
Quel momento di liberazione della coscienza dal suo solipsismo
asfittico, la fuga dal mutismo immediato dell’in-sè, senza memoria e
senza storia, verso una realtà individuale e perciò duale con il mondo e
con l’altro, non è descritto da Hegel come una “relazione etica”, un
riconoscimento di uguaglianza e di identità tra gli uomini, o una
qualche riconciliazione con il totalmente altro, ma al contrario come
una lotta spietata per il sopravvento, con la creazione di differenze
profonde, con il rischio della vita in una dimostrazione di forza. Il
dissidio tutto interno di una coscienza senza
riflessione del mondo e dell’altro,
la sua totale assenza di comunicazione, storicamente non viene superata
per Hegel con un’assunzione delle differenze, con il rigetto della
bestiale chiusura in sé stessi, ma col portare all’extrema ratio questa bestialità nello scontro diretto, dunque
un’opposizione che non viene scavalcata ma sovrapposta ad un’altra:
l’opposizione naturale, storica e impersonale della coscienza al mondo e
all’uomo viene colmata con uno scontro personale[15].
Impressioni a parte, un tale presunto
darwinismo o illuminismo della forza alla fine non è quello che sembra,
anche se è chiaro che vuole sembrarlo, per due motivi:
1.Perchè il
superamento degli opposti attraverso la loro “sintesi” è infatti niente
di più che il processo logico della Storia in Hegel.
2. Soprattutto perché
non si tratta di uno scontro che plaude il forte, ma anzi porta a
vincere l’apparente perdente, lo schiavo[16].
Vediamo in sintesi i passaggi
fondamentali della lotta per il riconoscimento. In breve:
quell’individuo che, non temendo per la propria vita, affronterà e
rischierà la morte, colui che si scontrerà con il “negativo” senza
anteporre la propria conservazione al cambiamento, costui uscirà
dapprima vincente dal confronto con l’altro, dimostrando nella lotta di
essere libero. Ma proprio elevandosi al di là dell’altro, che viene
superato per non aver negato sé stesso nel rischio estremo della morte, egli produrrà una
distanza e frapporrà una barriera tra sé e la cosa, creerà cioè una
differenza tra la propria libertà e la realtà. Questo iato sottile,
questa crepa invisibile che si apre all’interno della sovranità, può
essere colmata solo dal servo. Questi, perdente per come si è comportato
di fronte alla morte, costretto a lavorare per soddisfare il suo
Signore, si ritrova ad avere una prerogativa di cui il Signore è
sprovvisto. Il suo lavoro, sintomo di sottomissione all’altrui
sovranità, diviene espressione della sua
libertà nella trasformazione della realtà. Lavorando metterà in moto
quel processo di negazione del
dato, di trasformazione della mera esistenza delle cose con il proprio
lavoro; si creerà così un mondo umano attorno a sé diventando con ciò
stesso uomo libero, padrone di sé e del mondo[17]. Trasformando
la realtà trasformerà sé stesso, giungendo a quel riconoscimento di sé
che il Signore, apparentemente vincente, non è stato in grado di
compiere, “paralizzato” dalla sua sovranità[18].
Lo scontro presupposto dal
riconoscimento, clausola che ci era apparsa violenta lotta personale, in
realtà si mostra adesso per quello che è, e cioè come ribaltamento e
capovolgimento inaspettato, per cui lo schiavo, il lavoratore, colui che
deve sopperire alle necessità pratiche e biologiche di un altro,
conquista la piena autonomia sul suo signore, perché nelle sue mani e
nel suo lavoro si concentra adesso il potere di trasformare la realtà[19].
In ciò egli agisce verso l’altro nel modo in cui agisce verso di sé,
trasformando il mondo trasforma sé stesso, reciprocità essenziale al
riconoscimento, di cui il signore si è mostrato privo[20].
Ecco a ragion veduta perché senza lotta non si produce il
riconoscimento, perché nella lotta si generano quelle differenze che
possono poi venire superate. Questo capitolo della
Fenomenologia è una
descrizione esemplare del movimento di progressiva negazione e
superamento che per Hegel muove
Innanzitutto per Bataille è in gioco
nella rappresentazione di Hegel in sostanza: (1) chi detenga il primato
di aver innescato la ruota della storia, in secondo luogo (2) il modo in
cui si configurano i rapporti di forza emergenti, e da ultimo (3)
l’ipotesi di una fine della storia con l’instaurazione di un modello su
un altro.
3. Il primato dell’origine
L’uomo storico per Hegel è l’individuo
che nega se stesso continuamente, è la propria
in-esistenza,
auto-trasformazione inarrestabile,
auto-differenza; per questo motivo nella dialettica servo-padrone
pare situarsi l’origine della storia, in quanto momento in cui l’uomo
nega la sua “semplice presenza” naturale, per avviare il ciclo dei suoi
cambiamenti. All’origine di questa inarrestabile auto-differenza
relativa e graduale si pone il momento di una differenza assoluta e
originaria, la nascita dell’autocoscienza nella lotta: l’uomo si
distingue dalla semplice natura, da tutti gli altri uomini e infine da
sé stesso, con cui entra in dialogo cosciente. È chiaro leggere in
questa descrizione una raffigurazione dell’origine dell’uomo e quindi
della sua storia, ma è altrettanto evidente come questo meccanismo,
sebbene non si spenga con il suo primo grande prodotto, implichi già il
rapporto con una fine, in quanto rappresenta un fondamento che precede e
pertanto sorregge i significati della storia, le dinamiche dell’animo e
del corpo umano.
È questa genesi della storia,
determinata nel senso di un evento scatenante e quindi già custode di
una qualche fine (poiché ogni senso esclude l’altro)[22],
che Bataille mette al centro della sua analisi. Durante il boom
storicista ottocentesco, già Nietzsche avvertiva come l’esigenza del suo
tempo di rintracciare/dare un’origine della storia, fosse in realtà il
tentativo implicito di sopprimerla, non solo perché riconoscersi
un’origine è sempre negarne un’altra, ma soprattutto perché «non c’è
un’origine che non sia già persa nel suo divenire»[23]. Nello
storicismo del suo secolo, «patria delle mescolanze e degli
imbastardimenti, epoca dell’uomo-mistura»[24], Nietzsche
intuiva chiaramente la ricerca di un’identità, di un’espressione
comune che superasse l’assenza
di un’unità di espressione (Stillosigkeit)[25].
Quell’unità mancante alla cultura e all’individuo del suo tempo
veniva sopperita con una narrazione monologica del tempo, un richiamo ad
una storia antica – fenomeno che si ripete sempre identico ogniqualvolta
un popolo o una nazione nascente (o rinascente) si imbatta nella
necessità di costruirsi una tradizione[26]
– che in quanto originaria è identitaria e legittimante, soprattutto per
quanto riguarda i popoli e a maggior ragione le nazioni e i nazionalismi
che si andavano formando all’epoca di Nietzsche[27].
Di fronte a questa volontà di richiamarsi ad un
proteron, Nietzsche intuiva chiaramente la negazione delle fratture
e delle inconciliabili differenze del tempo, la riduzione del tutto ad
un’unica piatta successione di eventi – rassicurante narrazione dei
valori fondanti dell’umanità – la tendenza nascosta ad un
telos e uno scorrimento
identico da cui venivano l’inerzia, l’epigonismo[28],
e più in generale l’allineamento in una traiettoria deduttiva,
“edipica”, del tempo, che ci classifica come figli della storia più che
come artefici[29].
Nietzsche metterà al centro della sua diagnosi della
decadence il rapporto degenere, metafisico, trascendente, dell’uomo
con il tempo. Ma anche solo ad uno sguardo comune appare evidente che
una storia con un evento, un movimento o una peculiarità originaria a
monte, è una storia uniforme, per quanti cambiamenti possano incorrere
al suo interno essa resta chiusa in un orizzonte di senso, orientata e
determinata da una tendenza evolutiva iniziata col sorgere della sua
parabola e tendente alla propria realizzazione. Un cambiamento il cui
protagonista sia un concetto da raggiungere, un individuo da realizzare,
è la storia di un piano da compiere, «storia che ci permetterebbe di
riconoscerci dovunque e di dare a tutte le trasformazioni del passato la
forma della riconciliazione, una storia che getterebbe dietro di sé
uno sguardo da fine del mondo»[30]. Proprio quello
di cui va in cerca l’epoca di Nietzsche, che è al contempo proprio
quella storia-riconoscimento dell’uomo proposta dell’hegelismo. Bataille
pone in questione proprio la presunta originarietà della lotta
servo-padrone, evidenziando due aspetti poco chiari della descrizione di
Hegel. Innanzitutto: se la storia dell’uomo comincia con il
riconoscimento dell’autocoscienza attraverso il lavoro, di conseguenza
sembra proprio che la storia – come afferma lo stesso Kojeve – sia
essenzialmente la storia del servo lavoratore[31].
In secondo luogo, se l’umanità si realizza nel lavoro sancito attraverso
la lotta, e solo con ciò pone le basi di un suo sviluppo storico, allora
prima della lotta non si dava né la storia propriamente detta né dunque
il lavoro che trasforma? Posto che la successione logica delle figure
nella Fenomenologia non
corrisponde strettamente alla loro successione cronologica – perché la
descrizione della storia dell’esperienza della coscienza è pur sempre
una ricostruzione attraverso l’interiorizzazione della sua profondità –
Bataille tuttavia si chiede se la successione dei momenti sia
“soddisfacente”, dato che «mi sembra difficile [afferma] dimenticare che
il lavoro abbia dovuto precedere la schiavitù»[32].
Pur continuando a riconoscere al lavoro
una prerogativa unica nella scansione e divisione del tempo e dei ruoli,
Bataille sostiene che a “disalienare” l’uomo dalla sua
in-seità, e cioè a determinare
la storicità stessa dell’uomo siano stai, prima ancora della relazione
con la morte e dell’imposizione di un Signore, i divieti religiosi,
precetti nati dal rapporto umano col sacro e realizzatisi innanzitutto
nella divisione del tempo. «Hegel avrebbe messo in luce nello spazio,
ciò che – secondo Bataille – si è compiuto innanzitutto nel tempo»[33],
nel senso di un’opposizione classica tra “tempo sacro” e “tempo
profano”. Bataille vuole ricondurre la storicità dell’uomo, con la sua
conseguente organizzazione della società in ruoli e contrapposizioni, ad
un fattore più antropologico che dialettico, benché qui non sia in
questione la logica dello sviluppo dialettico della storia, bensì la sua
origine dalla dialettica. L’organizzazione della vita in base alla
divisione del tempo è una forma primitiva di società in cui il lavoro e
la differenza dei ruoli sono coevi e non riconducibili ad uno scontro
dialettico. L’intera comunità si divide nel tempo di un lavoro profano
dedito alla produzione e rivolto al tempo del consumo nella festa sacra.
In questi termini la proposta di Bataille non sembra molto persuasiva,
sembra piuttosto che la sua critica all’originarietà della dialettica si
risolva semplicemente con la proposta di uno schema alternativo, ma
anch’esso originario. La lettura di Hegel dunque ha solo sbagliato sui
tempi e sui modi dell’origine della storia, oppure questa antica
divisione del tempo non possiede alcuna originarietà ed è un’effettiva
obiezione alla dialettica? Bataille non vuole sostituire alla dialettica
alcunché, afferma infatti che l’organizzazione della società nella
divisione del tempo non accede affatto alla storicità degli eventi,
essendo una divisione netta e senza scambi di ruoli, ma riconoscendo in
questa struttura ancestrale dell’umanità una divisione, organizzazione
etico-economica della società in ruoli e funzioni vuole affermare che
l’uomo sia stato presente anche al di qua di una storia umana, iniziata
con le contrapposizioni dialettiche hegeliane. Con l’esteriorizzazione,
la configurazione di quel primitivo solco tra gli uomini e i loro ruoli,
tracciato dalla divisione del tempo, con il suo prendere corpo nello
spazio attraverso lo scontro dialettico tra servo e padrone si avrà,
infatti, la perdita della monotonia e della stabilità del tempo, la
chiarezza dell’opposizione temporale tra sacro e profano lascia il posto
all’instabilità della Storia, dove vige un
perpetuo sistema di «duplicità e capovolgimento dei significati»[34].
Con questa prima sottile ma significativa obiezione antropologica
Bataille avanza già decisamente la critica all’esistenza di un’origine,
ma soprattutto sembra voler precisare che la banale distinzione tra un
tempo “animale” o “naturale” e una storia umana nata con la lotta per il
riconoscimento è insensata, che la storia è senz’altro nel tempo e non
al di fuori, che il tempo pur senza identificarsi con essa la implica
già poiché l’uomo è già presente nella sua natura “non storica”,
animale, così come l’animale sarà sempre presente nel corso
dell’esistenza storica dell’uomo, perciò anche oltre una presunta fine
della storia. È il caso di ribadire comunque che la recondita dialettica
del sacro-profano sembra pur sempre una specie di riconduzione ad una
dinamica, una struttura, un’identità
preistorica, ma laddove lavoro, scontro e signoria non hanno alcuna
precedenza l’uno sull’altro non vi può essere neppure alcuna differenza
dialettica che scandisca il loro manifestarsi, nel registro di Hegel
figurerebbero come semplici attività che regolano monotonamente il tempo
e la vita degli uomini, che si mostrano prive di storia poiché prive di
uno spazio di rapporti e confini cangianti. A dimostrazione del fatto
che non è la dialettica in sé l’obiettivo critico di Bataille, ma il
significato che essa attribuisce al concetto di uomo e di storia, egli
afferma che se anche le cose fossero andate come ipotizza non ci sarebbe
nulla da cambiare nella dialettica hegeliana, che rimarrebbe una logica
del cambiamento pur rinunciando alla pretesa originarietà della lotta[35].
Ciò che Bataille cerca esplicitamente di screditare è l’idea che
all’alba della storia ci sia la notte di un’identità vagante, infondata,
ancora indistinta dalla natura, svegliata e spronata a sé stessa e al
suo mondo con lo scontro e il tracciato di una differenza
improvvisamente insorta. L’origine dell’uomo, il momento di “trapasso
della specie”, l’insorgere dell’umano nell’animale appare al nostro
filosofo un ideale umanistico e spiritualista, che individua e separa
una volta per tutte l’uomo dal mondo. Bataille gli oppone l’idea di
un’umanità molto meno originaria, un umano presente ancor prima del suo
cominciamento storico, e in questo rifiuto della dialettica hegeliana
sono già presenti i tratti della critica al concetto hegelo-kojeviano
che individua nella fine della storia la fine dell’uomo. Sia prima che
dopo la storia Hegel e Kojeve non considerano umano quell’individuo che
agisce al di fuori della logica della dialettica, al di là dell’immane
forza del negativo che ribalta continuamente le figure della storia
e muove così al cambiamento. La parzialità del concetto di Storia
proveniente dall’identificazione hegeliana dell’uomo con il fare
costante di un meccanismo di ribaltamento, aveva catturato l’attenzione
Bataille già qualche giorno dopo la conferenza di Kojeve al
College de sociologie del
dicembre 1937. Bataille gli invia una lettera rimasta celebre dove
deplora che il sistema hegeliano non contempli affatto quella
«negatività senza impiego»[36], che è il fare
di chi non ha più niente da fare, e così escluda una enorme parte di
umanità, quel “resto” di umanità che sopravvive anche alla fine della
storia come continuo processo di negazione del dato: fenomeni come
l’erotismo, il riso, la gioia davanti alla morte[37], e tutto ciò
che non implica una mediazione concettuale. In una visione del mondo e
del tempo chiusa, cioè volta al raggiungimento di uno scopo e poi alla
sua conservazione e ripetizione, non c’è da stupirsi che per i suoi
difensori la fine di questo processo conduca ad una “carenza di
umanità”, ma Bataille non vede in modo nettamente distinto uomo e
animale, non concepisce cioè che la carenza di uno significhi il
sopravvento dell’altro. La dicotomia decisiva, la tassonomia e la
demarcazione netta tra uomo e animale non presta fede all’essenza
dell’uomo, non definisce l’uomo ma tende a crearlo in quella che è stata
definita opportunamente «macchina antropologica»[38].
Tutte le definizioni epocali dell’uomo lo caratterizzano per esclusione
o negazione dell’animale, per “differenza specifica”, ponendo l’accento
su ciò che li distingue, ma tralasciando del tutto ciò li che accomuna.
A questo proposito è sorprendente notare come Linneo, il più grande
scienziato della definizione, campione della tassonomia e padre della
scienza naturale moderna, con le sue rigide gerarchie e classificazioni,
non abbia definito l’uomo come un’essenza differente dall’animale, ma
come «l’animale che è tale
solo se si riconosce non essere»[39].
La dialettica hegeliana è una forma di quella macchina antropologica in
azione nella nostra cultura, e anzi la fine della storia, come secondo
Kojeve si ritrova in Hegel, è un concetto coerente solo perché
all’origine della storia viene posto un uomo con un’essenza acquisita e
ben distinta dall’animale. Venendo a mancare quest’essenza dell’umano
che sta a monte della storia, si sottrarrà la storia ad ogni altra
possibile manifestazione ulteriore, e quanto dell’uomo sopravviverà non
sarà che il suo “resto”, vita puramente biologica, come afferma Kojeve[40].
In buona sostanza la fine della storia in questa lettura kojeviana, non
sarebbe altro che la fine dell’uomo, il quale essendo essenzialmente un
“animale storico” non sopravvivrebbe alla perdita della sua “natura
trasformatrice”. Questa è la discussione in cui si inserisce la voce di
Bataille, il contrasto tra lui e Kojeve concerne proprio quel resto che
sopravvive alla morte dell’uomo ridiventato animale alla fine della
storia[41],
e mentre il primo rifiuta di credere che tutto quanto l’uomo possiede di
sé sia legato alle forme privilegiate del “negativo”, cioè quelle forme
del fare come la ragione osservativa, l’autocoscienza, lo spirito, che
scatenano un progresso storico; il secondo non vede altro uomo al di là
di quell’essere che fa la storia con la sua trasformazione “spirituale”,
la storia e l’uomo in sostanza gli appaiono la stessa cosa. Forse la
posizione di Bataille si potrebbe esprimere meglio e sarebbe resa più
semplice con una domanda: ci può essere storia e quindi umanità anche
senza quell’uomo storico
hegeliano del fare, anche quando quell’uomo si è compiuto in tutte le
forme principali del suo sviluppo? Ci può essere sapere anche laddove
questo si è compiuto, raggiungendo le sue conoscenze fondamentali?
Ovviamente la risposta di Bataille è positiva, ma la sua posizione non è
solo critica, egli vuole inoltre mettere in evidenza la presenza di una
faglia logico-deduttiva nel sistema hegeliano con un argomento che
apparentemente sembra ed è sembrato, anche ai più grandi colleghi di
Bataille, l’obiezione di un mistico, di un nuovo metafisico.
Egli si scaglia contro questa visione
“acefala” dell’uomo post-storico, dell’individuo “puramente biologico”,
rifiuta una rappresentazione univoca dell’uomo come essenza e del sapere
come compimento, dichiarando con una profondità sfuggente che «ciò che
è, è più di ciò che è»[42],
che ogni senso implica già la sua mancanza di senso, ogni sapere la sua
mancanza di sapere, perché è proprio di ogni significato l’oltranza del
significato[43].
Sarebbe appassionante seguire il ragionamento
di Bataille su questo punto, che apre scenari ignoti alla
rappresentazione che del sapere ha offerto Hegel, descrizione che per
essere messa in questione ha bisogno di argomenti sottilissimi come
quelli di Bataille, ma non è questo il luogo adatto per approfondire
questi aspetti. Diciamo solo che facendo dell’oltranza
di significato, e in genere dell’opposto, un elemento indispensabile
e una condizione del significato,
l’impossibile diviene un
ens necessarium[44]
che Hegel non ha contemplato nel suo sistema e che Bataille rivendica
all’essenza del Wissen e
dell’uomo[45].
È proprio questa obiezione che, diciamo “non lineare” nei termini del
Logos tradizionale, varrà a Bataille non poche critiche da parte dei
filosofi di carriera come Kojeve e Sartre. Ma in realtà, una tale
posizione apparentemente dilettantistica, come appunto gli
rimproveravano i suoi colleghi più decorati, cela un fortissimo
argomento contrario all’ideale del
Kreis hegeliano, al cerchio come compimento e totalità del sapere e
dello sviluppo umano, perciò anche alla “fine della storia”: vedremo
quali siano le sue implicazioni maggiori poco più avanti, quando nello
specifico parleremo di questo tema principale.
Grossomodo in questi termini viene
riproposta da Bataille la rilettura della dialettica di Hegel, lasciando
aperta l’ipotesi della fine e dell’inizio della storia, ma non nel senso
di un inizio o di una perdita di umanità, ma di un punto di stallo
economico-politico dettato dall’uso improduttivo delle ricchezze,
sviluppato da “fenomeni dialettici” come le guerre, lo snobismo, il
lusso sublimato nell’ideale borghese di benessere diffuso.
GIUGNO 2012
[1]
Le famose Lezioni di
Kojeve sulla Fenomenologia
dello spirito furono tenute dal 1933 al ’39 presso l’Ecole pratique des hautes etudes e vennero poi raccolte e pubblicate
da R. Queneau. Sono edite da
Adelphi, a cura di G.
Frigo, 1996.
[2]
«Tutta l’opera di Bataille sembra un fare e disfare
[3]
G. Bataille, Hegel, l’homme et l’histoire (Hegel, l’uomo e la storia), in
«Monde Nouveau-paru»,
nn. 96-97, 1956, Vol.
XII
delle Oeuvres complètes,
Paris 1988
[4]
Bataille, cit.,
p.1
[5]
G. W. F. Hegel,
Fenomenologia dello spirito, Cap. VIII,
Il sapere assoluto,
Bompiani 2000, § 2, p. 1053
[6]
«Il concetto dello Spirito ha la sua realtà nello Spirito. Che
questa consista nell’identità con quello rappresenta il sapere
dell’idea assoluta, e in ciò consiste la sua parte necessaria.
[trad. mia]», in: Hegel,
Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, § 553,
edizione on-line dell’“Hegel-institut.de”.
[7]
Hegel,
Fenomenologia…, cit.,
Prefazione passim
[8]
In termini più propriamente hegeliani, l’apparente
contraddizione, o la “differenza indifferente” tra la fine e
l’inizio, tra l’essenza e l’esistenza, tra la realtà e la
ragione, è la contraddizione tra verità (dell’oggetto) e sapere
(della coscienza), che di volta in volta viene superata con il
meccanismo della negazione determinata.
[9]
Hegel considera la ragione o il sapere alla stregua di
un’operazione di ricongiunzione, di riappropriazione. Molto
esemplificativa la sua metafora della Fenomenologia con il
Giudizio. Nella parola tedesca
Urteilskraft
(giudizio) vede una conferma del suo concetto di
Assoluto come unità da
ricomporre (opposto a quello dell’Io-dato fichtiano), poiché
la parola Urteilskraft
accenna a una ursprünglich
Teilung cioè a una “divisione originaria”. Ma come può una
divisione essere originaria, come può attuarsi cioè se prima non
è preceduta da una unità? Pertanto, ciò che il giudizio
presuppone secondo Hegel deve essere un concetto precedente,
un’unità primitiva che, nelle infinite divisioni che la ragione
vi apporta durante la storia nel tentativo di appropriarsene, ci
sfugge nella sua interezza e si concretizza in modalità volta
per volta differenti, in un processo che tende alla sua
conoscenza, alla scoperta del suo
concetto assoluto.
Cfr.
F. Chiereghin, Introduzione alla Fenomenologia dello spirito, Carocci, Roma
2008, p. 56
[10]
Hegel,
Fenomenologia…, cit., p. 1063
[11]
Kojeve citato in Hegel, l’uomo e la storia, pp. 25-26
[12]
«L’autocoscienza è in sé e per sé, solo quando e in quanto è in
sé e per sé per un’altra coscienza, cioè solo in quanto è
qualcosa di riconosciuto», in: Hegel, Fenomenologia…, cit., p.275
[13]
«Un’attività unilaterale sarebbe inutile, perché ciò che deve
accadere può realizzarsi solo mediante il fare identico
dell’altro», in: Hegel, Fenomenologia…cit., p. 277
[14]
Hegel, Fenomenologia…, cit.,
p.281.
Che il processo di
riconoscimento sia portato necessariamente a risolversi nello
scontro non è una petitio
principi hegeliana. Che le cose vadano così lo si può
riscontrare in ogni situazione in cui ci si sente rispecchiati
dalle realtà: si dice a sé stessi di sentirsi riconosciuti, di
sentirsi sé stessi, solo perché gli altri si comportano nel modo
in cui faremmo noi. Ma questa precondizione non esaurisce il
processo di riconoscimento, sebbene lo renda possibile.
L’identità del fare di diversi soggetti li porta inevitabilmente
allo scontro, come momento di comprensione della propria singola
identità.
[15]
A proposito di quest’aspetto soggettivista, “impositivo”,
dell’etica hegeliana, è stato rilevato quel carattere forte e
“violento” a cui facciamo qui una breve allusione. Levinas e le
filosofie morali che fondano la “relazione etica” sulla
preminenza dell’altro più che del sé hanno parlato di una
violenza dell’idealismo soggettivista di Hegel o di Heidegger.
Cfr. E. Levinas, Totalità
e Infinito, Jaka Book, 2006, pp.40 e ss.
[16]
«[...] l’uomo libero è il servo che avrà soppresso la propria
servitù» in: A. Kojeve
Hegel, l'uomo e la storia,
p. 18, citato da
Fenomenologia dello spirito tradotta e commentata da Kojeve.
[17]
Nel Secondo Trattato sul
governo, J. Locke fa derivare
il diritto di proprietà, lo stato giuridico di una cosa, dalla
trasformazione attraverso il lavoro del suo stato reale. Se
Locke avesse scritto la dialettica avrebbe definito il diritto
di proprietà un diritto servile o padronale?
[18]
Cfr. Hegel,
Fenomenologia dello spirito, sul “ribaltamento” delle
posizioni, cit., p. 287
[19]
Hegel,
Fenomenologia…, cit., p. 285
[20]
«Al riconoscimento vero e proprio, manca il momento in cui ciò
che il signore fa verso l’altro, lo fa anche verso sé stesso, e
ciò che il servo fa verso sé stesso lo fa anche verso l’altro
[...]. Il signore dunque, non è certo dell’essere per sé come
verità, al contrario: la sua verità è la coscienza inessenziale
e il fare inessenziale di questa coscienza. Di conseguenza, la
verità della coscienza autonoma è la coscienza servile», in:
Hegel,
Fenomenologia…cit., p.
285
[21]
Hegel,
Fenomenologia…, cit.,
p. 287
[22]
«Nietzsche per riferirsi alla storia usa spesso negli aforismi
della Volontà di potenza
il termine Richtung,
che significa tanto “direzione” quanto “valore”, ad indicare che
ogni senso è un’imposizione di valori»
in: (a cura di F. Volpi) M. Heidegger,
Il nichilismo europeo,
Adelphi Edizioni, Milano 2006.
[23]
R. Dionigi, Il doppio cervello di Nietzsche, Cappelli, Bologna 1982
[24]
M. Foucault, Nietzsche, la genealogia e la storia, in Microfisica del potere, Einaudi, Torino 1977
[25]
«La cultura dev’essere uniformità di vivere, pensare, apparire e
volere» in: F. Nietzsche,
Sull’utilità e il danno della storia per la vita, Adelphi, Milano
2007; «è unità di stile artistico in tutte le manifestazioni di un popolo»
in; F. Nietzsche, David Strauss uomo di fede e scrittore, Adelphi, Milano 1992
[26]
Si pensi ai mitici capostipiti delle antiche dinastie o tribù
medievali, da cui le stesse prendevano il nome. I merovingi, re
dei Franchi, successori del mitico Meroveo; si pensi alle
nazioni post-coloniali che si richiamavano e a volte inventavano
completamente un passato remoto in cui risiedesse una loro
identità non mischiata a quella dei colonizzatori. Cfr. R.
Beets, La
decolonizzazione, Il Mulino, Bologna 2003, cap.
VIII e ss.
[27]
Per comprendere quanta importanza abbia rivestito l’origine
storica dell’identità di un popolo, basti pensare che Hegel
negava il diritto di costituirsi in una Nazione a quei popoli
privi di una storia. L’epoca di Nietzsche, invece, è
attraversata dalla necessità di definire l’essenza del concetto
di Nazione, attraverso l’identità linguistica, geografica,
storica, perciò l’origine, l’unità e identità storica di un
popolo assumono un’importanza enorme.
[28]
Nietzsche, D. Strass…, cit.,
pp. 24 e I,
III, 241, 249.
[29]
In questo senso la proposta “etico-antropologica” di Nietzsche
di reimpostare il nostro rapporto con il tempo, come se questo
fosse un circolo più che una linea, ha il compito di ovviare
all’«impotenza della volontà di volere a ritroso» (La visione e l’enigma, in Così
parlò Zarathustra) da cui viene il risentimento e il senso
di colpa per eventi immodificabili ed estranei, che ci precedono
e ci determinano.
[30]
Foucault,
cit. p. 54
[31]
Bataille, cit., p. 18
[32]
Ibidem,
p. 19
[33]
Ibidem, p. 20
[34]
Ibidem, p. 21
[35]
Ibidem, p. 21, nota 15
[36]
Bataille a Kojeve, 6/12/1937, in G. Agamben,
L’aperto, l’uomo e
l’animale, Bollati-Boringhieri, 2002, p.14
[37]
Bataille, in Agamben, cit., p. 15
[38]
Ibidem, p. 38
[39]
Ibidem, p. 34, ivi
Agamben ci fa notare che: «Linneo prima della decima edizione
della sua opera Sistema
Naturae non affianca al termine
Homo alcun aggettivo,
ma gli fa seguire solo il vecchio adagio
nosce te ispum».
[40]
Bataille, cit.,
p. 25
[41]
Agamben, cit., p. 13
[42]
Abate C, in F. Rella e
S. Mati, Georges Bataille,
filosofo, cit., p.
73
[43]
Ibidem, p. 25 e ss.;
«La negazione dell’oltranza metafisica è la radice nichilistica
dell’idealismo», p. 80
[44]
Ibidem, p. 73
[45]
La leggenda vuole che tra gli atti fondativi della filosofia
tradizionale vi sia il riconoscimento da parte degli dei
(enunciato dall’oracolo di Delfi) a Socrate di essere il più
saggio tra gli uomini, proprio per la sua ignoranza-saggezza di
sapere di non sapere. Gli veniva riconosciuto il più grande
sapere proprio per il suo non-sapere. Ovviamente quest’ignoranza
è solo un punto di partenza per acquisire maggiore sapere, ma
spingendo questo parallelo azzardato fino ai nostri scopi
Bataille afferma che
l’opposto del sapere non solo è condizione di esso ma è un suo
complemento. Tale posizione esprime il paradosso per cui
qualcosa per essere tale deve al contempo includere il proprio
opposto, essere e non essere assieme. La più celebre
enunciazione di questo principio paradossale ci è offerta dal
celebre paradosso di Gorgia, per cui l’essere non potendo essere
tale in virtù di sé stesso (altrimenti sarebbe eterno, cioè
infinito, quindi in nessun luogo, cioè non esistente) né in
virtù di un non essere precedente (perché questo non è) non ci
lascia altro da dire che il
non essere è. Al di là
dell’accostamento un po’ forzato tra i due argomenti,
l’obiezione aporetica di Bataille ha in comune con quella di
Gorgia il voler banalizzare la rigidità di certi modi di pensare
che conducono a degli assurdi come la fine della storia (Hegel)
o l’assenza di movimento (Eleati). Sul non senso come parte del
sapere cfr. F. Rella e S. Mati,
Georges Bataille,
filosofo, pp. 25 ss.; 75-76-78