Esperienza e rappresentazione
DECOSTRUIRE LA VIRTUALITà
Qualche appunto sulla nascita dell'informatica
1. Orwell, ovvero “le magnifiche sorti e progressive…”
Nel 1984 l’azienda
informatica Apple, per
lanciare sul mercato uno dei primissimi modelli di
personal computer (il
Macintosh, che da allora sarà sviluppato in decine di versioni),
realizzò un famoso spot commerciale, tra i più osannati e costosi della
storia della pubblicità[1].
La scena ritrae una
società futurista non molto lontana nel tempo, dove degli uomini
assolutamente spersonalizzati marciano all’unisono immersi in
un’atmosfera cupa e opprimente. Il loro percorso, all’interno di quella
che sembra una fabbrica gigantesca, è costellato di piccoli schermi che
trasmettono il viso di un uomo in primo piano che tiene un discorso;
giunti in una grande sala, si siedono e osservano in silenzio un
maxi-schermo che continua a trasmettere la stessa identica immagine.
L’audio del discorso accompagna tutta la scena, e merita di essere
riportato per intero:
Oggi, noi celebriamo il primo glorioso anniversario delle Direttive
sulla Purificazione dell’Informazione. Noi abbiamo creato, per la prima
volta in tutta la storia, un paradiso di pura ideologia. Dove ciascun
lavoratore può realizzarsi al sicuro da invasioni destabilizzanti di
verità contraddittorie e arrecanti confusione. La nostra Unificazione
dei Pensieri è un’arma più potente di qualsiasi flotta o armata sulla
terra. Noi siamo un popolo, con una volontà, una risoluzione, una causa.
I nostri nemici dovranno parlare a sé stessi fino alla morte e noi li
sotterreremo con la loro stessa confusione. Noi vinceremo!
Il riferimento a
1984 di George Orwell è chiarissimo, sia per il
plot iconografico, sia per
l’anno in cui sapientemente fu deciso di realizzarlo. Ma accanto a
queste immagini “orwelliane” vediamo anche una giovane donna vestita
come un atleta (siamo nell’anno delle Olimpiadi di Los Angeles,
boicottate dai paesi del blocco socialista), identificata da colori
sgargianti in netto contrasto con gli abiti dei detenuti-soldati, tutti
grigi e identici tra loro. La ragazza si muove di corsa all’interno
della struttura, reggendo in mano un grosso martello e inseguita da
guardie in tenuta anti-sommossa. Giunta anche lei nella grande sala dove
tutti sono seduti a guardare il maxi-schermo, vi lancia contro il
martello con un gesto da atletica leggera, proprio mentre il faccione
sullo schermo (che rappresenta ovviamente il Grande Fratello, che
“guarda tutti” e recita il suo monologo) pronuncia le parole: “Noi
vinceremo...”. All’esplosione del maxi-schermo segue la frase di
chiusura dello spot:
«Il 24
gennaio Apple introdurrà Macintosh.
E capirete perché il 1984 non sarà come
1984».
Questo spot costruisce una rappresentazione decisamente efficace della
cosiddetta “rivoluzione informatica”: il computer arriva, con la sua
forza dirompente, a liberarci dal conformismo dei mass-media
tradizionali, a scuoterci da un narcotico paradiso fatto di immagini
uniche e non-contraddittorie. Oltretutto, siamo ancora in una fase di
“guerra fredda”, e il mezzo informatico rappresenta la quintessenza
della libertà di informazione e di realizzazione individuale che
l’occidente capitalistico può opporre al grigiore uniformante dei regimi
dell’Est. Per inciso, vi si può leggere anche una polemica, neanche
troppo velata, sul ruolo dominante dell’ibm
nel settore informatico; questo aspetto appare però decisamente
secondario. Quel che più conta è l’immagine iconografica e, al tempo
stesso, la forte carica simbolica che la “rivoluzione informatica”,
rappresentata in pieno dal personal computer e dalla sua
innovazione, riesce a dare di se medesima. C’è qui tutta la forza eroica
di un mezzo di comunicazione ai suoi esordi. Una simile iconografia la
possiamo ritrovare anche quando fu pubblicizzato per la prima volta il
telefono, o quando mezzo mondo si entusiasmò per le strabilianti
applicazioni della corrente elettrica scoperta da Edison.
Nella società capitalistica, infatti, ogni radicale innovazione
tecnologica coincide sempre con la produzione di una nuova merce
e insieme con la produzione di un apparato iconografico e ideologico
(uso il termine con prudenza, sostanzialmente come sinonimo di
simbolico), che ne ricrei continuamente le condizioni di bisogno per
la massa potenzialmente illimitata degli utenti. Non si tratta
semplicemente di pubblicità, nell’accezione comune: come aveva ben
compreso Günther Anders mezzo secolo fa, la “produzione continua del
bisogno delle merci” è l’anima stessa del capitalismo avanzato, perché
per poter consumare prodotti, è necessario che ne abbiamo necessità […]
ma poiché questa necessità non ci viene spontanea (come la fame),
dobbiamo produrla; e ciò per mezzo di una industria particolare
[la pubblicità, n.d.r.], che deve rendere uguali la fame delle merci di
essere consumate e la nostra fame di merci.[2]
Questa modalità di produzione e riproduzione dei bisogni e delle merci è
stata ormai definitivamente acquisita dal capitalismo avanzato. Intuiamo
però, e tale intuizione va ulteriormente approfondita, che anche questa
fase appartiene di fatto al nostro passato. Anders stesso lo avvertiva,
ma individuava come contraltare una nuova fase del mondo capitalistico
in cui, insieme alla produzione delle merci e del bisogno delle merci,
il “sistema macchinino” avrebbe prodotto “le condizioni stesse per la
propria distruzione”, ovvero l’energia atomica. Negli anni sessanta e
settanta, quando Anders scriveva, questa considerazione era di stringete
attualità. Oggi, se pure il pericolo nucleare non ci ha mai realmente
abbandonato (vedi la tragedia di Fukushima in Giappone), viviamo in una
fase storica diversa: non è lo spauracchio di una distruzione prossima
ventura, seppure improbabile o con una delirante funzione deterrente
(come per l’ordigno “Fine di Mondo” del Dottor Stranamore) a
segnare il nostro tempo, ma la promessa di liberazione individuale e di
cambiamento antropologico che traspare nello spot dell’Apple.
La produzione dei bisogni ha lasciato il posto a una produzione
simbolica incessante e reiterata, talmente immateriale da divenire
quasi epidermica. La promessa di liberazione è ormai inscritta nel
carattere globale e “democratico” dei nuovi mezzi della rivoluzione
informatica, anti-totalitara e nemica del conformismo delle immagini
perché quelle stesse immagini riesce a moltiplicarle all’infinito,
slargandole a vera e propria “esperienza del mondo”. Produzione
simbolica (non più soltanto produzione di bisogni) da un lato, e
mutamento delle condizioni antropologiche dell’esperienza dall’altro;
nel mezzo, una produzione capitalistica che diviene sempre più
immateriale, piegata sul versante del “General Intellect”, per
esprimerci in termini marxiani, piuttosto che sulla produzione di
plus-valore immediato[3].
Anche nel mezzo della crisi economica più grave dal 1929 ad oggi, com’è
quella che stiamo vivendo, la fiducia nei nuovi mezzi informatici resta
perciò quasi immutata: la crisi riguarda a detta dei più soltanto il
vecchio capitalismo, quello della finanza e dei monopoli bancari. La
rivoluzione informatica rimane chiusa nella sua torre d’avorio: è ancora
quell’atleta giovane e “diversa” che rompe il grigiore della società
massificata; la sua produzione simbolica è talmente radicale da irretire
perfino qualche teorico dell’anti-capitalismo, oltre ad alcuni movimenti
anti-globalizzazione. Insomma, non siamo ancora riusciti a ritrovare il
solco, tracciato a grande profondità, della mistificazione che nasconde.
2. Internet, ovvero “l’uomo è (sempre più) antiquato”
Tutte
le grandi rivoluzioni tecnologiche, dicevamo prima, oltre a produrre
continuamente merci e “bisogno delle merci” producono un proprio
apparato simbolico; verrebbe da dire: producono la propria
Weltanschauung
(visione del mondo). Quest’apparato simbolico mantiene inalterate, anche
a distanza di tempo, alcune caratteristiche di base: l’innovazione,
quando esce dai laboratori e si incarna in un bene di consumo, diviene
automaticamente “progresso di tutti”, perché democratico e a buon
mercato; il prodotto di una vera rivoluzione tecnologica (come il
computer, non come l’Ipad che ne è soltanto un’appendice) non incrementa
semplicemente le possibilità di utilizzo, ma le stesse capacità e
attitudini umane, e forse ne crea addirittura alcune ex-novo;
infine, la rivoluzione tecnologica è sempre “liberazione” da qualcosa,
oppure promessa di liberazione che apre al futuro.
Questi caratteri si ripetono nella nostra storia recente in maniera
sempre più accelerata: ogni progresso tecnico, dal più epocale al meno
significativo, viene etichettato come una “rivoluzione”. Hanno
contribuito a diffondere questo sentimento, seppure in modo non sempre
determinante, tutte le schiere dei vecchi e nuovi “positivisti”, ovvero
di coloro che, come scriveva ironicamente Leopardi, restano incantati di
fronte alle “magnifiche sorti e progressive” che il progresso della
scienza lascia intravedere. Il loro ruolo concreto è spesso assai
misero, o puramente accessorio: fanno da semplice “cassa di risonanza”
alle idee imperanti, amplificano e mettono in circolo un apparato
simbolico che possiede invece ben altre fonti di irradiazione.
L’intellettuale che tesse oggi le lodi del progresso tecnologico, e vi
legge la possibilità “positiva” di uno sviluppo della società umana, è
insomma una figura assolutamente residuale. Il suo posto è stato
occupato dai cosiddetti brain trust, ovvero da gruppi di tecnici
concretamente operativi all’interno delle grandi multinazionali, delle
agenzie statistiche sovranazionali e delle lobby pubblicitarie.
Per quest’ultimi non vale più, come scriveva Gramsci, la funzione di
blocco intellettuale egemone: sono diventati essi stessi un momento
necessario del ciclo produttivo, un’appendice strumentale della
produzione simbolica e immateriale della contemporaneità. Cos’è che
producono? Producono rappresentazioni del reale che devono sembrare più
vere del vero, producono un cortocircuito dell’esperienza umana che
viene poi riempito con un “vuoto simbolico” e virtuale, dove gli stessi
bisogni delle merci non hanno più necessità di essere riprodotti in
continuazione perché sono diventati “il” reale, la fame vera degli
individui (per riprendere la metafora di Anders).
È interessante notare come questi nuovi gruppi intellettuali, che hanno
una funzione di produzione simbolica completamente interna,
strumentale, al sistema capitalistico contemporaneo, riescano a
riassorbire e a riutilizzare perfino le visioni più pessimistiche del
progresso tecnologico. Questa è una vecchia questione, in verità, che
risale a Pasolini: quanto è esteso e pervasivo il potere della società
dei consumi, e fino a che punto può “riassorbire”, rendendole mezzi di
consumo a sua volta, le critiche che gli vengono mosse? Sappiamo che la
risposta di Pasolini era tragicamente negativa: tutto, almeno in
potenza, corre il rischio di essere riassorbito, reso innocuo, veicolato
a scopo di consumo. La critica al sistema, la contestazione, perfino le
“utopie negative” che esprimeva Pasolini stesso nella sua Trilogia
della vita, possono essere quantomeno tollerati, se non utilizzati
per produrre nuove merci di consumo (come il filone “boccaccesco”, ad
esempio, che trasformò il Decameron in una serie di filmetti
erotici popolari).
Certo, allora c’era la censura giudiziaria, che poteva colpire anche
penalmente gli autori che si macchiavano di un «offesa al comune senso
del pudore». Ma questa vecchia macchina repressiva era nient’altro che
un retaggio del regime fascista, e come tale prossima ad essere
definitivamente accantonata. Le forme di censura, dagli anni settanta in
poi, specie in Italia, sono diventate molto meno appariscenti di prima;
quasi mai si colpiva direttamente, perché la censura era ormai a monte,
nell’omologazione del nascente mezzo televisivo. Tanto che la frontiera
del “comune senso del pudore” si è spostata di pari passo con
l’evoluzione stessa della televisione: dalle vallette dei telequiz siamo
passati all’esibizione esplicita del corpo femminile nella televisione
commerciale, e perfino parte delle vicende politiche odierne ha avuto
come campo di battaglia una spregiudicata rivisitazione del “comune
senso del pudore” e del corpo delle donne[4].
Il processo di riassorbimento di cui parlava Pasolini è insomma lo
stesso che, a livello simbolico, e quindi di sistema, ha portato
il brain trust di Apple a riutilizzare Orwell per lanciare sul
mercato il personal computer. Il futuro distopico concepito dall’autore
di 1984 era già stato privato in precedenza, e per ragioni che
qui si possono soltanto accennare, della sua potenziale carica eversiva,
comodamente dirottata dalla critica della società consumistica verso i
lidi più sicuri di una critica al sistema totalitario sovietico. Il
terreno per un’interpretazione “democratica” e filo-capitalista di
Orwell era quindi già spianato[5].
Quella pubblicità dimostra però con quanta forza simbolica una società
come la nostra, felicemente incamminata sulla via della completa
“informatizzazione”, riesca a fissare nel progresso tecnico le stigmate
della propria libertà e della propria democrazia. In quest’ottica, un
ampliamento della tecnologia, sia quantitativo che qualitativo,
rappresenta automaticamente uno slargamento
dell’esperienza umana, specialmente se questo ampliamento espelle da sé
ogni retaggio ideologico, per presentarsi come pura “positività” di
progresso. La natura dei nuovi mezzi informatici, che introducono il
concetto di “virtualità” nella nostra concreta esperienza del mondo, si
presta meglio di altri a rendere evidente tale meccanismo. La virtualità
ci appare libera in sé, proprio perché crea un mondo ex-novo,
sorta di infinita tabula rasa su cui imprimere una varietà di
messaggi spesso diversissimi tra loro, e senza un apparente centro di
controllo (il faccione del maxischermo che si infrange). La Rete (il
World wide web, non a caso) ne è al tempo stesso la metafora e
l’applicazione, portata al livello più onnicomprensivo possibile.
Ma un apparato simbolico che nasce nel cuore stesso del capitalismo
avanzato può davvero essere “neutrale”? Tra le aziende della Silicon
Valley, i laboratori del cern
di Ginevra e quelli del Pentagono di Washington - tutti e tre hanno
contribuito in maniera determinante alla nascita di Internet - c’è più
di una semplice concordanza di intenti. Oggi, con la Rete che fa parte
ormai della nostra quotidianità e con il personal computer che,
nelle sue varie forme, è diventato una reale appendice dell’essere
umano, penso sia possibile andare oltre l’apparato simbolico dispiegato,
con grande forza persuasiva, negli anni eroici della nascita
dell’informatizzazione. Siamo insomma collocati nella “media distanza”,
e di quella presunta neutralità possiamo ormai misurarne gli effetti
concreti di “cambiamento antropologico”.
Anche perché la distopia di Orwell continua a bruciare sotto la cenere,
nonostante siano in molti a vederla infranta, o relegata al passato
recente. Non c’è bisogno di scomodare una distopia di fine millennio
come quella del film Matrix (che pure resta affascinante, anche
per le similitudini col lavoro di un pensatore come Baudrillard); la
realtà virtuale, dietro la frenesia dei suoi input e delle sue
«invasioni destabilizzanti di verità contraddittorie», mistifica la
radice stessa della nostra “esperienza”, restringendola nel medesimo
orizzonte unico e massificato che faceva professione di combattere. Fare
mille esperienze simultanee, disperse nello spazio ma sovrapposte le une
alle altre nel tempo, equivale a non farne nessuna. Il pericolo di
scambiare il vero con il falso, e che questo scambio diventi
sistematico, inevitabile, automatico, rimane nascosto sotto strati e
strati di immagini a getto continuo. Non siamo più soltanto produttori
defraudati del valore
prodotto, e in esso alienati; o consumatori alimentati da una “fame” di
prodotti sempre più artificiale e totalizzante. Siamo diventati soggetti
defraudati dell’esperienza, e alimentati da un’unica, multiforme rete di
rappresentazioni del reale che è diventata ormai più vera del vero.
3. Re Mida, ovvero “non è tutt’oro quel che luccica”
A questo punto potrebbe sembrare che il discorso sia esaurisca in una
descrizione puramente negativa, se non “apocalittica”, della cosiddetta
rivoluzione informatica e delle sue conseguenze antropologiche. La
critica alla presunta “neutralità” dei nuovi mezzi di comunicazione, al
carattere simbolico della loro produzione e all’ideologia sotterranea
che essi veicolano, coinvolge in realtà una questione ancora più
profonda: che ne è dell’esperienza umana nell’età della tecnica? Ancora
una volta, possono soccorrerci le riflessioni di Günther Anders
contenute nel secondo volume de L’uomo è antiquato.
Nel capitolo dedicato al tema del “conformismo” nella società di massa,
Anders tratteggia due metafore molto interessanti che riguardano i
caratteri dell’esperienza nella situazione contemporanea. La prima si
riferisce alla differenza tra «esperienza permanente del mondo» ed
«appercezione», intesa come lo “sperimentare” un effetto di tipo nuovo
rispetto ad uno schema pre-determinato di reazioni. La coercizione e il
conformismo del sistema tecnocratico sono “impercettibili” perché
riguardano il nostro stesso modus vivendi, la nostra esperienza
permanente delle cose, il modo attraverso cui ne restiamo perennemente
“impressionati”. Ecco perché, come del resto sosterrà anche Michel
Foucault alcuni anni dopo, la società contemporanea non ha più bisogno
dei vecchi schemi di forza e di dominio: la privazione della libertà
tende ad assumere ormai il carattere dell’offerta (“ciò che viene
offerto”, in tedesco geboten), che è insieme offerto e comandato
senza che noi possiamo percepire l’ordine in quanto ordine, o che il
soggetto che lo impone percepisca il proprio atto come imposizione.
L’impersonalità del consumo è identica all’impersonalità dell’offerta
che viene consumata, e della rete che la impone «nel modo più liscio,
più privo di sforzo, più privo di residui, più narcotico possibile».
Insomma, l’esperienza dei soggetti nella società tecnologica, spiega Anders, assomiglia alla situazione dei pesci nell’oceano, i quali “permanentemente fanno esperienza della pressione dell’oceano” senza che possano mai sperimentarla davvero come “appercezione”. «Questa pressione» – aggiunge –
fa parte fin dall’inizio del loro meccanismo di
movimento, anzi dell’intera struttura dei loro corpi. Lo schema di
coercizione è diventato la conditio sine qua non della loro vita
di modo che, quando vengono issati a bordo dai pescatori, scoppiano […]
Lo stesso vale anche per certe condizioni artificiali prodotte
dall’uomo. Nella nostra esistenza è già calcolato il modus con
cui veniamo trattati e a cui siamo sottoposti permanentemente. Pertanto,
non ne facciamo esperienza; o al massimo, la facciamo solo quando esso
viene meno provvisoriamente: infatti, soltanto l’assenza rende
visibile la presenza quotidiana.[6]
Cos’è allora l’esperienza al tempo di internet, se non una pressione
totale di rappresentazioni da cui siamo perennemente “impressionati”
senza percepirlo, conformati senza saperlo, che non possiamo mai
sperimentare realmente se non collocandoci nello spazio, forzatamente
temporaneo e parziale, della sua “assenza”? L’esperienza umana, per
accogliere come “appercezione” uno stimolo esterno, deve poterlo
sperimentare mettendo da parte tutti gli schemi pre-determinati,
vacillando e aprendosi al “nuovo”, a ciò che Hannah Arendt, utilizzando
la metafora della nascita, indicava come l’inizio nella sua
radicale libertà. Non è però l’opposizione necessità-libertà, troppo
antica e radicata per sovrapporla ai meccanismi di funzionamento della
nostra società, ad essere in gioco; ma la capacità stessa di esperire il
mondo al di là della rete di rappresentazioni che ci avvolge.
La seconda metafora che Anders utilizza ci viene incontro proprio a
questo punto. Siamo talmente condizionati, così scrive, dalla
“completezza” apparente del mondo di prodotti ed immagini intorno a noi,
da non riuscire più neppure ad immaginare un mondo diverso, o che
possano esistere “altri mondi”.
La sovrabbondanza è la madre della mancanza di fantasia.
Ovunque noi allunghiamo la mano, troviamo sempre una cosa da afferrare
che, quale merce già pronta per la consegna, fa valere le sue pretese in
modo ferreo […] e poiché cela già in sé le proprie norme, esclude l’idea
di qualcos’altro[7].
Sostituiamo il termine “merce”, legato specificamente al tempo in cui
Anders scriveva, con l’idea di rappresentazione e di immagine, e avremo
una buona descrizione del nostro modo di percepire il mondo.
«Siamo come il Re Mida», aggiunge sapientemente Anders. Secondo la
mitologia greca, Mida era il mitico sovrano che, avendo ospitato nella
sua reggia il satiro Sileno, caro a Dioniso, fu ricompensato dal dio con
la possibilità di trasformare in oro tutto ciò che toccava. Ma la gioia
iniziale di Re Mida mutò ben presto in angoscia: non poteva mangiare, o
bere, perché tutto diventava all’istante oro zecchino. Sarebbe morto di
fame e di sete, se Dioniso non fosse intervenuto e avesse revocato il
prodigio. Le “mani” di Mida rappresentano perciò la cieca cupidigia
dell’uomo che finisce per inimicarsi il mondo e l’esperienza “positiva”
delle cose per il proprio desiderio esasperato di ricchezza. Re Mida
rimane vittima di una duplice illusione: crede di dominare il mondo, ma
il mondo gli si ribella contro; crede di essere l’uomo più ricco della
Terra, ma in realtà è il più povero e miserabile di tutti.
Allo stesso modo, anche noi rischiamo di mutare tutto ciò che ci sta
intorno in un materiale uniforme e deleterio, nonostante appaia prezioso
in superficie. Che esperienza dell’alterità potremmo mai intraprendere,
fuori di metafora, se la sovrabbondanza di rappresentazioni finisce per
rendere tutto uguale a se stesso? Che discriminante positiva potremmo
mai seguire, se non ritroviamo prima il filo di una “appercezione” del
Mondo che sia diversa dalla sua continua, massificata rappresentazione?
La nostra esperienza non può essere insomma come la terribile “mano di
Mida”, perché così non servirebbe più a niente.
Questo breve ragionamento non esaurisce certo, né pretende di farlo, le
questioni e gli interrogativi messi in campo. Ragionare sulla natura
della rivoluzione informatica, e sul suo modo di ricreare nuove
condizioni di rappresentazione e di esperienza, significa in primo luogo
provare a misurare fino a che punto questa rivoluzione coinvolge il
nostro stesso modo di pensare, di percepire e di agire. Ogni rivoluzione
sociale o politica è sempre una “rivoluzione antropologica”, anche
quando non siamo noi i soggetti che la determinano. Finora,
l’ampliamento di mezzi, tecnologie e “forze produttive” degli ultimi
trent’anni ha creato soltanto forme nuove di dominio e di alienazione.
La massificazione non potrà mai, nonostante la forza simbolica di cui
è capace, nonostante i proclami e le pubblicità che riesce a costruire,
spacciarsi per liberazione. Perché è in questa veste che ormai vuole
presentarsi: non come obbligo, o come coercizione, ma come promessa di
libertà. Ed è qui che noi dobbiamo provare a svelarne la mistificazione,
quella di chi vorrebbe tramutare tutto in oro massiccio, sempre uguale a
se stesso in ogni angolo del globo, ma in realtà tanto più mortale
quanto più prezioso e luccicante in superficie.
AGOSTO 2012
[1] Lo spot è stato diretto dal noto regista Ridley Scott, il soggetto è stato scritto da Steve Hayden, Brent Thomas e Lee Clow per l'agenzia pubblicitaria Chiat/Day di Venice (Los Angeles, California) e prodotto dalla New York production company, Fairbanks Films. È stato trasmesso un'unica volta in televisione, il 22 gennaio 1984, durante il terzo quarto del Super Bowl, da Wikipedia, http://it.wikipedia.org/wiki/1984
[2]
G. Anders,
L’uomo è antiquato,
vol. II, Bollati Boringhieri, Torino 2007, p. 10
[3]
Cfr. K. Marx,
Lineamenti fondamentali
della critica dell’economia politica, noti anche come
Grundisse. Elaborati
come appunti preparatori al volume
Per la critica
dell’economia politica del 1859, furono pubblicati postumi
nel 1939. Nella sezione dedicata alle
Macchine si trova
esposta appunto la nozione di “General Intellect”, che Marx
intende come determinazione fondamentale di una società
capitalistica futura, comprensiva non più soltanto del lavoro in
senso immediato, ma anche di una mobilitazione totale
dell’intero corpo produttivo e della tecnologia scientifica. Una
tale ricomposizione del ciclo produttivo, capace di estendersi
alla totalità del corpo sociale e delle conoscenze umane,
richiederà (Marx lascia in sospeso il discorso, proprio perché
riguarda un possibile futuro) la riformulazione delle stesse
leggi fondamentali del
plus-valore.
[4]
Vedi a questo
proposito il documentario di Lorella Zanardo intitolato proprio
Il corpo delle donne, che si trova in versione integrale
e gratuita su Internet (www.ilcorpodelledonne.com),
e da cui l’autrice ha tratto anche un libro omonimo, edito da
Feltrinelli nel 2010.
[5]
Orwell, che
combatté in Spagna durante la Guerra Civile (1936-1939) insieme
ai
trotzkisti del
poum, come
tantissimi comunisti europei divenne un convinto
anti-stalinista, e La
fattoria degli animali (1945) sta a dimostrarlo. Ma la sua
critica al totalitarismo e all’irrigidimento ideologico, che nel
romanzo 1984 viene
trasferita metaforicamente in una società prossima ventura,
dominata da un potere spersonalizzante che alimenta solo la
“paura” dei suoi sudditi-cittadini, risente anche del clima
della Guerra Fredda, delle proclamazioni ideologiche dei fautori
dell’americanismo così come di quelli del “socialismo reale”
(vedi E. J. Hobsbawn, Il
secolo breve, cap. viii,
Rizzoli, Milano 1995), oltre che degli slogan e
dell’alienazione della nascente società dei consumi.
[6]
G. Anders,
L’uomo è antiquato,
vol.
II, cit., pp. 183-184
[7]
Anders, cit., p. 182