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08
Ottobre 2012

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Esperienza e rappresentazione

ESPERIENZA (PARTE I)

Giulio Trapanese

 

Maggio 2011, Scuola Critica, Biblioteca Brau, Napoli.

La seguente costituisce la trascrizione rivisitata della terza parte del seminario «Esperienza e rappresentazione», tenutasi nel Maggio 2011 per il progetto Scuola Critica.

 

1. Ancora due parole sulla rappresentazione

Ora passiamo, invece, alla terza parte e al tema dell’esperienza. Se dalla discussione svolta finora è venuto fuori un quadro un po’ manicheo dell’argomentazione, vale a dire che abbiamo posto da un lato l’elemento cattivo, la rappresentazione, e il buono, l’esperienza, in questa parte proveremo a smussare questa dicotomia.

Comincerei dicendo che sul tema della trasformazione dell’esperienza diversi pensatori nel Novecento si sono già espressi; tra questi ricordiamo, ad esempio, T. Adorno con la critica dell’esautorazione dell’esperienza umana, o lo stesso P. P. Pasolini, di cui abbiamo discusso prima;  chiamerei, inoltre, in causa J. Baudrillard e il suo concetto di profezia auto-avverantesi, sviluppo, a sua volta, delle tesi contenute in alcuni paragrafi de La società dello spettacolo di G. Debord. Mi soffermo adesso sull’autore più vicino a noi cronologicamente, e cioè Baudrillard, in particolare perché è lui ad aver riproposto l’esigenza di concettualizzare la pubblicità, quale elemento onnipresente nella nostra vita e nella formazione dei contenuti della coscienza. La pubblicità, infatti, è un elemento profetico nella misura in cui, esprimendosi su di un fatto, non presuppone alcuna verità che la giustifichi e la fondi. Esse, infatti, non hanno premesse, né hanno commenti, o presentano testimoni a loro favore: non c’è alcun presupposto di verità (o di ricerca di verità) alla base della pubblicizzazione di una certa merce. La verità, non come dato acquisito, ma come dimensione, non ha alcun ruolo nello spazio pubblicitario. La verità, piuttosto, si fa con la pubblicità, dal momento che pubblicitaria è divenuta la qualità intima di ogni verità contemporanea. La rappresentazione pubblicitaria, infatti, non si presenta come un riflesso (più o meno aderente) di valori presenti nella realtà, ma è essa stessa capace di creare di per sé valori.

Gemellato alla pubblicità è, d’altra parte, specialmente nel campo della politica, il sondaggio. Anche il sondaggio, infatti, non esprime una semplice rappresentazione. Esso non è uno scandaglio della realtà  (dove naturalmente poi il concetto di realtà rimane problematico) ma costituisce una vera e propria azione con effetti assai rilevanti nella società. Esso si esprime e agisce nel mondo, opera in esso, e così facendo, vi apporta delle trasformazioni. All’interno delle nostre società della comunicazione in tempo reale e senza mediazione di trasmissione, il sondaggio, infatti, una volta diffuso, è capace di influenzare e modificare la percezione e la realtà in un arco brevissimo di tempo. D’altra parte, se prendiamo in considerazione il nostro Berlusconi possiamo notare come egli abbia compreso molto bene il peso dei sondaggi nella società modellata sull’esempio dello spettacolo.

Faccio un ulteriore esempio sulla pervasività del sondaggio. Se alcuni decenni fa ad un cittadino napoletano fosse sembrato che nella sua città lo smog fosse in calo, l’impressione soggettiva sarebbe bastata a giustificare la sua convinzione, e questo almeno per un certo periodo di tempo. L’esperienza particolare di questa certa persona avrebbe avuto ancora un proprio peso e, dunque, in quanto tale, gli avrebbe permesso di partecipare, per dire così, al dibattito delle interpretazioni sul reale, a partire dalla propria di esperienza. Immaginiamoci, invece, come si comporterebbe oggi un individuo medio. Nel momento in cui avesse la percezione di una minore presenza di smog nell’ambiente, egli, tornato a casa,si collegherebbe su internet e si documenterebbe attraverso statistiche e tabelle sui risultati degli ultimi rilevamenti atmosferici. La Verità sarà tutta riposta in queste statistiche, con la conseguenza, quasi scontata, dell’abbandono dei propri presentimenti e delle proprie intuizioni. È questa la mutazione venutasi a creare, nella nostra società, nel rapporto fra  impressioni e sensazioni soggettive e le rappresentazioni universali che si impongono al di sopra delle nostre esperienze particolari. La nostra verità è oramai lì, oggettivata in dati, statistiche, commenti autorevoli, i quali, tra l’altro, va detto, non sono spesso altro che il risultato di calcoli informatici. Questa rappresentazione del reale, diffusa sui grandi mezzi di informazione, ha una capacità specifica che è quella di impedire, sul nascere stesso, qualunque ricerca alternativa del vero, e qualunque percorso di formazione di rappresentazioni e visioni alternative delle cose. Tengo a ribadire, ancora una volta,  che nel momento in cui affrontiamo il tema della rappresentazione, l’elemento che dobbiamo tenere in considerazione nei nostri discorsi è la genesi di questa, vale a dire il modo in cui si impianta nella coscienza, e non, invece, il contenuto specifico della rappresentazione, che di per sé può essere giusto o sbagliato, vero o falso. 

Possiamo d’altra parte, assumere un esempio a noi ancora più vicino, nel tempo e nello spazio: la vittoriosa campagna elettorale di L. de Magistris a sindaco di Napoli. Di per sé non m’interessa questo esempio dal punto di vista del suo significato politico, ma da quello per cui lo si può assumere come modello di dinamiche politiche più generali e che non riguardano certo solo l’Italia. Osservando questa campagna elettorale, infatti, come qualunque altra si stia svolgendo negli ultimi mesi, abbiamo potuto renderci conto della trasformazione della natura di una campagna elettorale. Se, infatti, ancor oggi esiste una certa quota di militanza tradizionale (cioè quella che si regge sulla partecipazione diretta all’attività politica) il grande della formazione delle correnti di opinioni e di pensiero, non è evidentemente più il prodotto di questa attività. La formazione delle idee, che chiamiamo ancora così d’altro canto solo impropriamente, è legata ad un’altra serie di dinamiche e  di fattori che rendono assolutamente diverso dal passato il modo in cui si crea il consenso nelle nostre società contemporanee. Chiunque, ad esempio, abbia partecipato quest’anno alla campagna elettorale di De Magistris avrà notato come, dopo ogni iniziativa, tutti ardevano fortemente di tornare a casa, o, comunque avvertivano un bisogno quasi epidermico di connettersi immediatamente e acquisire le notizie relative all’efficacia di ciò che aveva fatto durante la giornata di campagna elettorale. Una certa percentuale attribuita a De Magistris dall’ultimo sondaggio, e un certo trend di opinioni che la rete veicolava, costituiva indubitabilmente la base per l’agenda della propria militanza del giorno dopo. Dunque, ritroviamo qui il fatto che un (presunto) punto di vista oggettivo sulla totalità degli avvenimenti è in grado oramai di sovrapporsi immediatamente alle conclusioni che, invece, le esperienze porterebbero a trarre ai singoli individui impegnati nella società. Il prevalere di una rappresentazione astratta è in grado, quindi, di trasformare radicalmente il senso dell’esperienza degli individui nel mondo, perché il loro contatto con il reale è sempre e comunque mediato da una serie virtuale di rappresentazioni e di espressioni del vero che, nel momento in cui vengono diffuse e si impongono, trasformano alla radice il modo di formazione delle visioni del mondo dei singoli individui.

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2. Esperienza nel mondo del consumo

Detto questo, mi propongo ora di entrare propriamente nel tema dell’esperienza. Diciamo, anzitutto, che la nostra esperienza del tempo nel mondo consumistico incarna una nuova forma di esperienza ciclica, una ciclicità di specie del tutto particolare, connotata di una vera e propria aura mortifera. Cosa è mai, infatti, l’esperienza del consumo? Il consumo non costituisce che un continuo rimando, una creazione e una distruzione dell’aspettativa della gratificazione ed, al tempo stesso, la frustrazione del momento vero e proprio della gratificazione sensibile. L’esperienza del consumo si fonda su di un movimento che transita continuamente da un oggetto all’altro, senza mai fermarsi su alcuno di questi. Io credo che proprio questa ossessività nella ricerca del piacere e nell’appagamento siano alla base del processo di distruzione della continuità dell’esperienza dell’Io, e di quello della frammentazione della percezione della vita, che è uno dei tratti soggettivi particolari dell’uomo consumistico di oggi.

All’interno di una società basata ancora, per quanto riguarda la produzione, su quella di generi di prima necessità – dunque agricoltura e artigianato –  l’esperienza media era collegata direttamente (in chi vi lavorava) e indirettamente (in chi ne usufruiva senza lavorare) alla trasformazione della natura da parte dell’uomo in un legame di sostanziale dipendenza da questa. In questa dimensione di legame e di dipendenza assumeva un ruolo imprescindibile l’elemento dell’attesa[1]. Così, infatti, prima di ogni raccolto, era necessario ci fosse la semina[2]. L’ordine delle cose retto dal necessario susseguirsi delle stagioni della natura, costituiva, da questo punto di vista, sempre una garanzia. Nella dimensione fondamentalmente agricola, la preparazione costituisce un tratto essenziale della vita; in queste società tradizionali, d’altra parte, il consumo è solo l’ultima tappa di un lungo processo, possibile dopo un arco di tempo di solito piuttosto lungo. Dunque, il tempo necessario alla coltivazione e alla maturazione del frutto era la ragione della necessità di un’attenta conservazione del raccolto. Il frutto del lavoro diveniva dunque sacro nel senso di non poter essere sprecato, né dover essere consumato tutto in una volta sola. Il lavoro della terra, dunque, (ma non è poi così diverso quello della lavorazione degli oggetti nell’artigianato tradizionale) si presentava come un lavoro di stimolazione e di trasformazione della natura la quale faceva leva sulla spontanea capacità produttiva di questa. Il soggetto creatore restava in ogni caso la natura, non l’uomo. Anche l’uomo, certo, era capace, a suo modo, di creare. Ma la sua arte creativa, in fin dei conti - e per millenni l’uomo così se lo è figurato -  non era che un’imitazione del vero soggetto, la natura. Ars imitatur naturam.

Come ciascuno di voi certo potrà già intuire, il mondo in cui viviamo è, invece, ben diverso. L’eterea comunicazione di informazioni ha oramai sostituito completamente la relazione pratica con la natura e il rapporto con la materialità della natura in genere. Il nostro mondo è divenuto, infatti, il mondo in cui ogni cosa deve poter essere saputa da tutti, e in cui il vero oggetto di interesse sociale è costituito dall’informazione: sapere cosa accade nel mondo. Per un individuo medio di oggi, la vita senza la serie continua di informazioni sarebbe insostenibile, e questo, indipendentemente dal continente in cui viva. Nessuno, infatti, creda che questo sia un discorso che vale solo per noi europei o occidentali. L’esperienza del mondo oggi è un’esperienza di dati e rappresentazioni che vengono fornite su di un mondo[3]. La rete è solo l’esempio più evidente di questo orientamento e ci dimostra chiaramente come l’ambizione dell’umanità di oggi sia quella di costruire nuovi sistemi di informazione e comunicazione tra gli individui che siano sempre più complessi, articolati e veloci. Il vero mito, almeno degli ultimi venti anni, è divenuto la costruzione di un mondo completamente trasparente, diafano in tutta l’ampiezza del suo sistema di memorizzazione di dati e di comunicazione. L’uomo che si sta preparando ad essere l’uomo del futuro (o forse in molte parti del mondo è già quello del presente) è, dunque, un individuo in continua connessione con la rete, e con l’infinità di rappresentazioni del reale che essa contiene; d’altro canto, è anche un individuo sempre più indifferente alla materialità del mondo che lo circonda, mentre avverte il bisogno continuo di venire a conoscenza dei fatti più disparati, delle notizie più impensabili, e di apprendere da semplici video o da corsi on line abilità di cui neanche sarebbe mai venuto a conoscenza senza il sistema di comunicazione generalizzata in cui viviamo.

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Possiamo quindi sostenere che il rapporto di un singolo con il proprio territorio si è completamente modificato. Il termine stesso di radice, che affonda nella sua etimologia da una metafora arborea, ormai ha perso qualunque senso per la formazione dell’identità di un individuo. Chi ancora si può dire radicato? E dove affonderebbero, infatti, queste radici? Nessuno di noi può dirsi radicato allo stesso modo di come poteva farlo ancora un uomo o una donna di quaranta o cinquanta anni fa. Nessuno di noi può dirsi radicato in quel modo oggi perché non è certo dalle radici che noi assumiamo il nostro sostentamento, né ad esse che chiediamo di orientarci nelle nostre scelte, nella nostra vita pratica. Noi oggi ci gioviamo di tutt’altre forme culturali di mediazione, e queste forme ormai non richiedono più i caratteri di fissità, e di solidità che erano, invece, caratteri assolutamente essenziali per la definizione di una forma culturale del passato. Il tempo reale delle comunicazioni di massa ci ha ormai catturati nell’illusione di essere cittadini del mondo, e ci ha guadagnati all’idea che sia proprio l’intero mondo il nostro campo personale dell’esperienza. In questo modo, è evidente, i contorni dell’appartenenza diventano così ampi da finire col rarefarsi e astrarsi. Tanto più nella deriva virtuale della nostra esperienza, questa nuova dimensione sta stravolgendo, e in pochissimo tempo, la tradizionale relazione dell’individuo con il suo contesto. L’apertura indefinita al campo potenziale dell’esperienza ha significato così la completa estraniazione a qualunque vincolo di appartenenza ma soprattutto, insieme con essa, a quello di partecipazione attiva al mondo.

I giovani di oggi, individui che hanno viaggiato già nei loro primi vent’anni nei cinque continenti, d’altra parte, al cospetto anche solo dei loro nonni non possono affatto essere definiti degli individui attivi. La loro esperienza del mondo è talmente rarefatta che le relazioni più immediate e concrete sfumano nell’indistinzione, e nell’insensatezza. Ciò che è effettivamente loro vicino, nella loro percezione si presenta come lontano, mentre ciò che è lontano ai loro occhi, per via dell’illusione della virtualità, diventa di una surreale vicinanza. D’altra parte chi non si rende conto quotidianamente che nulla sembra interessare l’individuo medio di oggi più dell’esotico, dello stravagante, dell’extra terrestre, così come, allo stesso tempo, la terra che questi calpesta ogni giorno per tornare a casa o andare a lavoro, ammesso che ancora la calpesti, e non voli direttamente da un posto all’altro, non vengono più riconosciuti né sentiti come propri? Quando sosteniamo, dunque, che il mondo non è più quello di prima,  dobbiamo intenderlo nel senso che per gli individui contemporanei il mondo della loro esperienza non è più quello di prima. Possiamo immaginare, infatti, che alla domanda su quale sia il proprio mondo un individuo di cento anni fa ed uno di oggi risponderebbero ciascuno in un modo completamente diverso. Temo che i due, da questo punto di vista, sfiorerebbero un livello di reciproca incomprensibilità.

Dunque se mi chiedessero se è vero che il mondo è cambiato, risponderei di sì, ma lo farei pensando soprattutto al cambiamento della qualità dell’esperienza che si fa oggi del mondo, prima ancora che riflettendo su alcune oggettive trasformazioni del mondo in sé.

Il mondo in cui viviamo, infatti, vale a dire l’insieme delle nostre relazioni con gli oggetti e con le persone, è stato asservito talmente all’uomo che esso, oserei dire, di per sé non è ormai neppure più mondo in senso classico. Il mondo di per sé è sparito. L’esperienza odierna, infatti, non arriva più ad organizzarsi attorno ad una complessa rete di relazioni con diverse persone, sulla base della condivisione di un senso collettivo. Il mondo interno di un individuo, piuttosto, sta divenendo il corrispettivo, dal punto di vista delle nostre sinapsi nervose, dell’insieme scomposto di bit e accensioni binarie, con le quali pensano i computer e che, a nostra volta, stiamo introiettando a furia di essere continuamente a contatto con le nostre periferiche elettroniche d’ogni tipo.

Ecco che in questo nuovo mondo senza mondo, dovremmo forse chiederci quale fine abbia fatto quell’elemento il quale, forse, più degli altri ne sta venendo radicalmente modificato, vale a dire il nostro corpo. Si parla in modi diversi tanto di un’accentuazione del ruolo del corpo nella nostra società che della sua negazione come capacità sensibile della nostra esperienza. Dalla mia io credo che il nostro corpo, nonostante le modificazioni degli ultimi tempi, e nonostante il prevalere dell’astrazione della nostra esperienza rispetto alla concretezza, abbia un’irriducibile capacità di reclamare il particolare nel campo dell’esperienza. La ragione di ciò è che, nonostante le apparenze e le fantasie in cui la nostra vita individuale si trova immersa come un incubo senza inizio e senza fine, la nostra vita reale, cioè quella che comincia con il nostro primo respiro e termina con l’ultimo e che nel mentre è fatta di crescita, sviluppo, invecchiamento, abitudine, perdita, esprime, invece, in termini chiari il suo legame con il mondo, la sua insopprimibile risonanza con il contesto che vive. E questo contesto rinvia necessariamente a relazioni ed affetti di un mondo che per forza di cose ci è vicino come esseri corporei. Il nostro corpo si nutre del mondo che lo circonda. Dell’aria che respira, del cibo che ingerisce, delle persone che tocca. Il nostro corpo è in un mondo, ma in un mondo ben preciso, determinato, dunque delimitato. Il nostro essere corporeo ci insegna la ricchezza possibile e insieme la limitatezza della nostra esperienza.

D’altro canto, invece, il sentimento di onnipotenza che è la base e insieme il prodotto della tecnologia dell’informazione istantanea si oppone e nega il sentimento della fatica, dello sforzo, della limitatezza delle nostre possibilità. Tecnologia e corpo incarnano funzionalità diverse, direi, modi di essere diversi. Il modo ciclico dei ritmi della vita, fatta di attività e riposo, nutrimento e dispendio energetico, gioia e tristezza, appartiene è una caratteristica essenziale della vita umana. Quello della continua produzione e riproduzione di attività rappresentativa a ciclo continuo, invece, come l’attività potenzialmente senza sosta di (presunta) vita senza morte, e di una connessione senza limiti, appartiene piuttosto alle macchine informatiche. Chissà se aver assunto a nostro modello quest’ultimo modo di essere, anziché il primo, non sia proprio l’effetto di una stanchezza dell’umanità di oggi, una stanchezza e un abbandono del proprio essere legati all’incapacità, ormai, di provare emozioni nella relazioni con i propri simili e con la natura.

Siamo così arrivati a trattare del fenomeno della conflagrazione del limite. L’aumento delle possibilità, garantito dai nuovi mezzi tecnologici, ha indubbiamente costituito, almeno per una certa parte della popolazione mondiale, uno stravolgimento antropologico clamoroso. Viviamo oggi una trasformazione che ha la portata, almeno, della rivoluzione del Neolitico. Molti antropologi, tra cui Levi–Strauss, hanno asserito che la rivoluzione industriale è il vero grande cambiamento della civiltà umana dopo la rivoluzione neolitica del 8000 – 9000 a. C., costituita appunto dalla scoperta delle tecniche agricole. Credo si possa considerare la rivoluzione informatica come l’ultima tappa della rivoluzione dell’industria cominciata nel xviii sec. La rimozione del limite materiale nel modo in cui avviene la nostra comunicazione, vale a dire l’insediarsi rapido e senza opposizione della comunicazione a distanza come comunicazione generalizzata, costituisce senz’altro il tema decisivo per inquadrare l’antropologia contemporanea[4]. Quando, infatti, abbiamo detto che è la sensibilità la paladina della nostra esperienza particolare[5], (dicevamo prima “tu sei quello che sei perché hai una certa sensibilità e non una certa conoscenza intellettuale del mondo”), lo abbiamo fatto in riferimento soprattutto ad un elemento, l’elemento del nostro corpo. L’esperienza d’essere un corpo incarna, infatti, quella di avere dei limiti, limiti presenti tanto nello spazio che nel tempo. Il corpo infatti ha limiti sia rispetto alla sua forza che alla sua debolezza, perché esso (anche se oggi tendiamo ad avvertirlo sempre di meno), ha delle proprie energie e risponde chiaramente ad un ciclo di vita, corrispondente, in buona misura, al nostro destino biologico. Il corpo che noi siamo ha una sua logica, una logica di conservazione e riproduzione di sé, la quale agisce indipendentemente dalla nostra volontà e dalla coscienza. Una logica che lo fa trasformare nel tempo, e che lo anima secondo bisogni che spesso disattendono le ingiunzioni della coscienza.

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Quanto accade oggi, invece, è che il modello consumistico della nostra società ci porta a credere di poter fare un’infinità di cose nella vita, come, ad esempio, viaggiare per tutto il mondo, conoscere ogni forma di cosa, compiendo un’infinità di esperienze. Questo tipo di percezione è, ad esempio, molto diffusa fra gli adolescenti e i ventenni di oggi. La rimozione media, invece, oggi si attesta sull’elemento della nostra passività, o quanto meno sulla nostra dipendenza dalla natura e dallo scorrere del tempo. D’altra parte tutte le culture che hanno preceduto la nostra, con l’insieme delle loro credenze, di valori e religioni hanno sempre considerato, esorcizzandola, l’essenza finita della condizione umana e l’irreversibilità dello scorrere del tempo. La nostra cultura si caratterizza, invece, per avere attribuito, grazie all’avanzata della tecnica e della razionalizzazione che ne è alla base, un valore enorme al mondo dell’al di qua, perdendo di vista, tuttavia, il limite delle possibilità dateci in questo mondo. Noi siamo oggi certamente nell’al di qua e ci interessiamo oramai esclusivamente delle cose di questo mondo, sentendo di appartenere ad esso; ma abbiamo, tuttavia, trasposto l’infinità e l’onnipotenza nella nostra esperienza dell’al di qua.

Direi, quindi, che, dal punto di vista del tempo e della valorizzazione della vita mondana, il capitalismo ha concorso alla promozione della posizione laica degli individui rispetto al mondo. In effetti la premessa alla logica della valorizzazione del capitale si basa su questa osservazione:  «Questo è il tempo, e il valore delle cose ce lo dà il tempo dedicato per farle». Non c’è, dunque, un valore esterno che si aggiunga alla vita. Questo elemento ha contribuito o magari esso stesso è stato effetto di un rinvigorimento dell’attenzione verso il mondo umano. Ma una volta appurato questo, bisogna aggiungere che quanto noi oggi patiamo la cinica applicazione di questa logica, la quale si traduce nella riduzione dell’intera sfera della nostra esistenza ad un mondo quantificabile, traducibile in valore di scambio e offerta per il mercato, vale a dire n mondo trasformato in merce. Sembra, quindi, evidente che la nostra esperienza oggi non ha più nulla a che fare con la sfera del qualitativo.[6]

 

3. Ai confini dell’esperienza: la nuova macchina informatica

Possiamo a questo punto al tema decisivo della questione che stiamo trattando. Il tema della macchina in connessione alla trasformazione dell’esperienza contemporanea. Se il Capitale iniziava con la frase: «il mondo in cui viviamo è un mondo completamente invaso dalle merci» non è meno vero che la nostra società è ormai completamente invasa da macchine elettroniche di ogni diverso tipo. Ce n’è una per ogni gusto. Vorrei ricordarvi, se ce ne fosse bisogno, che, almeno da trenta anni, il tema dell’intelligenza artificiale non è più solo un’idea, ma la matrice reale che trasforma l’accadere della nostra vita. L’intelligenza artificiale è il progresso, e non c’è progresso che non riguardi una qualche forma di intelligenza che l’uomo programmi per i suoi fini. L’ia (Intelligenza artificiale) è divenuta una realtà, una realtà da cui non possiamo prescindere ormai, in ogni sfera del nostro quotidiano. Il personal computer, lo strumento per eccellenza, lega a sé la nostra vita e non possiamo negare, pur riconoscendone i lati che ci appaiono positivi, che siamo completamente schiavi di esso. Vorrei sottolineare come l’artificialità dell’intelligenza ci appaia oggi un dato del tutto naturale del nostro mondo così come naturale è il fatto che l’intelligenza, nella società in cui viviamo, non sia più una prerogativa esclusivamente umana.

Credo, quindi, se siete d’accordo, che dovremo tornare a domandarci cosa sia l’intelligenza artificiale e, quindi, cosa la distingua, se qualcosa la distingua, dall’intelligenza che l’uomo attribuisce a sé. Sarà poi necessario farsi qualche domanda in più e valutare se la nostra intelligenza non si stia andando trasformando nei suoi fondamenti, per via dell’attuale simbiosi presente fra l’uomo e la macchina informatica. Cosa è l’intelligenza di un personal computer? Io credo si tratti, anzitutto, di un’ intelligenza fondata su associazione e collegamento di rappresentazioni; la sua programmazione, d’altra parte, non è che un comando di sequenze passibili di esecuzione ad un’immensa velocità (una velocità elettronica, come dicevamo prima[7]). Il modello incarnato dal computer è lo schema di un’intelligenza rappresentativa, che si caratterizza soprattutto, in fin dei conti, per l’esecuzione di comandi e di compiti. Dunque, un’abilissima e una velocissima intelligenza orientata alla risoluzione di un certo lavoro. Una grandiosa intelligenza di natura astratta, la quale tuttavia - mi perdonerete l’anticipazione – un’intelligenza, che è, in definitiva, un’intelligenza da schiavi. Nella società senza schiavi (o quasi), nella società cioè dei salariati, è l’elettronica che lavora per l’uomo al posto e al servizio di questo; sono i robot e i computer, da un certo punto di vista, i nostri nuovi servi,  dal momento che essi si presentano tanto come gli attivi produttori, che come i programmatori dell’attività.

Mi sentirei di dire che la scoperta dell’elettronica costituisce ancora un fenomeno tutto da decifrare soprattutto rispetto alla società che l’ha prima ideata e, successivamente, realizzata. Questo perché non credo che l’elettronica si possa mai comprenderla in astratto; piuttosto, per comprenderne l’origine, e dunque per avviarne una riflessione decostruttiva, sarà necessario considerarla come il prodotto di una data società, la società borghese occidentale, la quale, per una serie di circostanze, è giunta nella fase odierna, e ha raggiunto un certo tipo di sviluppo tecnico ed economico. Bisognerà così andare alle origini di questa scoperta.

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Le macchine della prima e della seconda rivoluzione industriale sono state, infatti, nuovi strumenti di lavoro, al tempo stesso mezzi di sfruttamento e mezzi sfruttati della natura; d’altro canto, invece, le macchine della terza rivoluzione industriale, le macchine che pensano, non solo eseguono un lavoro ma sono divenute capaci di autoregolarsi, gestire il loro stesso lavoro, e, ove ce ne sia bisogno, correggerlo. Attualmente, inoltre, il sistema della rete rende quella della macchina un’esistenza connessa ad altre macchine con le quali essa è capace di condividere (non vorrei dire socializzare per pietà nei confronti di questo termine) un’infinità di informazioni alla base di un vero e proprio processo di produzione integrato. Ecco arrivati così a quello che costituisce l’autentico presupposto materiale del sistema della produzione che oggi definiamo post-fordista.

Dunque, tra le varie rivoluzioni industriali, per quanto alla base il concetto non cambi, assistiamo ad un salto qualitativo non di poco conto. L’uomo di oggi, per il momento ancora incapace nel riprodurre la vita in vitro (per quanto ormai vicino a questo obiettivo), è già risultato vincitore, invece, nell’impresa di clonare la sua intelligenza, di riprodurla e diffonderla in milioni di altri esseri.  Le macchine, dunque, sono le vere protagoniste dello sviluppo storico contemporaneo. D’altra parte, se mi consentite, sembra che tutti gli ultimi grandi pensatori del nostro tempo ne siano stati decisamente consapevoli (da Weber a Levi Strauss, da Foucault a Baudrillard).

Le macchine pensanti, cioè esseri non viventi, ma dotati di intelligenza. Un’intelligenza separata dalla vita, una mente separata dal corpo, e la rappresentazione separata dall’emozione. Ecco che bisognerà, dunque, domandarsi, se sia possibile un pensiero senza vita, così come un pensiero al di là della vita. È possibile? Certo che da un lato sembra di tornare ai dibattiti sull’esistenza di un intelletto agente separato dal mondo, che alcuni filosofi arabi introdussero all’epoca nella filosofia latina del Medioevo. Ma vorrei provare a convincervi che sono esattamente questi i dibattiti più attuali alla luce delle rapide trasformazioni tecniche e sociali in atto.

A questo proposito, se procediamo con un approccio storico, io credo che possiamo individuare negli anni ottanta il periodo di maggiore esaltazione del progetto dell’Intelligenza artificiale e dei suoi variegati sottoprodotti (personal computer, rete informatica di internet, telefono cellulare etc.). È in quegli anni che si diffuse, infatti (per poi propagarsi per tutti gli anni novanta), l’idea che il mondo fosse sul punto di cambiare, e che la vita sarebbe stata rivoluzionata completamente da queste nuove invenzioni. Personalmente, per quanto fossi ancora un bambino, ricordo alcune delle fantasticherie e dei pensieri che circolavano in quegli anni. L’immaginazione procedeva allora spedita rispetto alla possibilità di costruire schermi e processori in grado di proiettare l’umanità intera in una realtà dematerializzata e virtuale. D’altra parte, con uno sguardo retrospettivo, come potremmo dare torto oggi a tanta euforia? Non siamo, in effetti, davanti ad un cambiamento epocale delle forme in cui l’umanità sta riproducendo se stessa?

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Devo dire, tuttavia, che credo non sia stata l’idea in sé del personal computer ad essere decisiva. Più rilevante ancora fu l’associazione di personal computer e rete di Internet; a partire da metà degli anni novanta, infatti, i due termini cominciarono a non essere più distinguibili l’uno dall’altro e, posti insieme, costituirono il binomio che oramai consideriamo indispensabile per la nostra vita e per il nostro lavoro. La convinzione, all’inizio ben presente sia nell’immaginazione comune che nell’ideologia diffusa dai produttori dei software, che ciascuno avrebbe programmato il proprio pc (l’ultima chimera individualista del secolo ventesimo) svanì velocemente, e la realtà che si impose fu quella orchestrata dalle grandi multinazionali del software di programmare software omologati per tutti i pc. L’idea dello strumento personale di lavoro e svago venne così trasformata velocemente in quella diversa di uno strumento di comunicazione dotato di altissime potenzialità. Il computer in rete divenne così l’ultimo nato della famiglia delle radio, delle televisioni, e dei telefoni cellulari. Non più solo uno strumento da scrivania, ma una nuova finestra sul mondo, il pc divenne lo strumento dell’ampliamento esponenziale delle nostre possibilità di essere informati sul mondo e, poco dopo, anche di informare il mondo di noi, in un apparente riscatto del mito disatteso del computer come creatore di una dimensione personale. Della pretesa di generare il proprio software, all’inizio del ventunesimo secolo, rimase solo quella, assai più parziale, di controllare il profilo di un’identità virtuale (il modello di Facebook, per intenderci). Con questo sistema, nel giro di quindici anni, ogni informazione contenuta negli elaboratori, cominciò ad essere non più solo memorizzata e conservata in un hard disk, ma comunicabile, e, dunque, resa disponibile ad un non ben definito pubblico. Ogni pc divenne il tassello di una rete più ampia e complessa in cui cominciarono, da allora, a viaggiare milioni di informazioni al secondo.

Dagli anni ottanta in poi, il ritmo (assai veloce della storia) passò attraverso i nuovi cavi di Internet; la rete costituì il tipo di mondo virtuale entro cui si insediò, senza trovare grandi ostacoli, la prospettiva di senso delle masse, una prospettiva, d’altra parte, già fortemente depauperata dalla nuova cultura del consumo e dai primi decenni della televisione.  La rete divenne la tecnologia simbolo dell’idea di progresso che la borghesia propugnò a cavallo tra i due secoli e dei due millenni.

Se ci poniamo da un punto di vista filosofico, direi che la domanda principale dopo l’evoluzione esponenziale dell’elettronica e, in particolare, della comunicazione, riguarda ancora la possibilità che il pensiero esista indipendentemente della vita. Vi renderete facilmente conto che l’intera nostra discussione di esperienza e rappresentazione potrebbe essere inquadrata anche solo da questo punto di vista e, esagerando, addirittura ridotta a questa semplice opposizione. Se le macchine, infatti, non vivono, ma, tuttavia, pensano, dovremmo affermare la possibilità di un’intelligenza astratta dal corpo. Altrimenti, in caso contrario, bisognerebbe sostenere che non sia possibile che il pensiero sia al di là della vita, e dunque che le macchine stesse, in qualche modo, siano anch’esse una sorta di sistemi viventi. È allora evidente che bisognerà soffermarsi su cosa, in definitiva, significhi pensare. Il dibattito, come sapete, è aperto da almeno alcuni decenni. La mia idea riguardo il pensiero delle macchine è che esso rifletta solo una certa parte del nostro modo di pensare - per l’appunto il lato della nostra intelligenza di tipo rappresentativo - e che su questa specie di intelligenza, se così vogliamo dire, sia stato modellato il funzionamento stesso delle macchine. Con un processo retroattivo la funzionalità rappresentazionale delle macchine è in grado di agire nuovamente sul nostro modo di pensare e di comunicare, rafforzando a sua volta questa dimensione della rappresentazione, a scapito, invece, di altri livelli e di altre dimensioni del funzionamento della nostra mente. E tutto questo non per via del caso. Ma per ragioni storiche, cui già abbiamo fatto dei cenni, e su cui adesso tornerò brevemente ai fini di ricostruire e decostruire la naturalizzazione dell’informatica e dell’intelligenza artificiale, naturalizzazione sempre più radicata nella percezione della nuova generazione.

Torno, dunque, a sostenere che è stato propriamente lo sviluppo storico della società capitalistica ad aver promosso l’importanza di questa dimensione dell’uomo, dimensione che è di per sé solo una fra le altre possibili. Io credo che il tipo di evoluzione della macchina informatica rifletta il livello di evoluzione dell’uomo in società in una certa fase storica, e specificamente la fase apertasi con la prima rivoluzione industriale che oggi prosegue a gran ritmo e nel modo in cui possiamo assistere con i nostri occhi. Potete riconoscere, ora, più chiaramente, perché il tema della macchina abbia a che fare con quello dell’esperienza e della rappresentazione, che è il tema del nostro incontro. Privilegiare il piano della rappresentazione ha costituito, infatti, la base per immaginare e per costruire un certo tipo di macchina pensante; attraverso la sua creazione e l’identificazione di pensiero e rappresentazione, e, cosa più terrificante (ma ormai non meno presente, della rappresentazione con la vita) il modo di esistere dell’uomo si è andato profondamente trasformando. Il tema delle macchine e dell’elettronica meriterà dunque, senz’ombra di dubbio, un approfondimento ulteriore; quest’approfondimento passerà attraverso l’analisi dei suoi elementi più specifici.

AGOSTO 2012

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[1] Attesa che poi può voler dire molto spesso speranza.

[2] La più semplice delle verità del mondo contadino è oggi una massima paradossale nel nostro mondo che non riconosce più al tempo alcun potere di mediazione.

[3] Questo è lo sviluppo contemporaneo del modello di società borghese e capitalistica.

[4] A questo riguardo vi inviterei a vedere un film recente americano, Limitless, che può ben illustrare, per immagini, quanto sto cercando di esprimervi.

[5] Vedi Rappresentazione, in Città Future, 2012, n°7. http://www.cittafuture.org/07/04-Rappresentazione.html

[6] A riguardo farei una breve parentesi relativa alla droga e, in particolare, a quella oggi più diffusa, che è la cocaina. D’altra parte ci troviamo a parlarne qui a Napoli, che è una città campione quanto alla produzione, allo smercio e al consumo. La cocaina, infatti, in quanto droga, si propone di eliminare i limiti naturali connaturati allo sforzo e alla prestazione. Il tempo che la cocaina produce è un tempo accelerato. Se facciamo una breve comparazione, infatti,  potremmo dire che tendenzialmente il tempo della cannabis è un tempo dilatato, al contrario di quello dell’eroina, che è un tempo che incide in direzione dell’aumento della sensibilità, e della iper eccitabilità;  ha a che fare con una relazione differente con il tempo, e il  suo tempo non dilata l’esperienza sensibile (cosa che in un certo senso compie l’eroina), ma, piuttosto, sembra aumentare la potenza dell’azione, vale a dire la prestazione, dunque il fare, non il sentire. La cocaina è la droga dell’agire, del fare e della riduzione del limite e della finitezza. Questo ha il suo significato entro il piano della produzione (in fabbrica, comunemente, di notte si consuma cocaina, ad esempio, così come fra gli autisti dei camion delle nostre autostrade). Essa è naturalmente una droga particolarmente diffusa nelle grandi città italiane, a Milano, a Firenze, a Napoli anche (per quanto in questo caso il discorso sia un po’ diverso) e, allora, la cocaina incarna la logica della società in cui viviamo, della produzione e del fare, direi, l’esperienza consumistica della vita. La cocaina è la droga di una serata diversa, una serata in discoteca, la droga per riuscire in un rapporto sessuale, in una partita di biliardo o una corsa in moto. Una droga che io prendo non tanto per aumentare le mie sensazioni o per rilassare, ma per avere successo in qualcosa. Un droga, insomma, che ben si adatta all’anestetizzazione contemporanea della sensibilità e alla nostra cultura del successo.

[7] Mondo senza tempo, in Città Future, 2012, n°6. http://www.cittafuture.org/06/04-Mondo-senza-tempo.html