Esperienza e rappresentazione
ESPERIENZA (PARTE I)
Giulio Trapanese
Maggio 2011, Scuola
Critica, Biblioteca Brau, Napoli.
La seguente costituisce la
trascrizione rivisitata della terza parte del seminario «Esperienza e
rappresentazione», tenutasi nel Maggio 2011 per il progetto Scuola
Critica.
1. Ancora due parole sulla
rappresentazione
Ora passiamo, invece, alla terza parte e al
tema dell’esperienza. Se dalla discussione svolta finora è venuto fuori
un quadro un po’ manicheo dell’argomentazione, vale a dire che abbiamo
posto da un lato l’elemento cattivo, la rappresentazione, e il buono,
l’esperienza, in questa parte proveremo a smussare questa dicotomia.
Comincerei dicendo che sul tema della
trasformazione dell’esperienza diversi pensatori nel Novecento si sono
già espressi; tra questi ricordiamo, ad esempio, T. Adorno con la
critica dell’esautorazione dell’esperienza umana, o lo stesso P. P.
Pasolini, di cui abbiamo discusso prima;
chiamerei, inoltre, in causa J. Baudrillard e il suo concetto di
profezia auto-avverantesi, sviluppo, a sua volta, delle tesi contenute
in alcuni paragrafi de La società
dello spettacolo di G. Debord. Mi soffermo adesso sull’autore più
vicino a noi cronologicamente, e cioè Baudrillard, in particolare perché
è lui ad aver riproposto l’esigenza di concettualizzare la pubblicità,
quale elemento onnipresente nella nostra vita e nella formazione dei
contenuti della coscienza. La pubblicità, infatti, è un elemento
profetico nella misura in cui, esprimendosi su di un fatto, non
presuppone alcuna verità che la giustifichi e la fondi. Esse, infatti,
non hanno premesse, né hanno commenti, o presentano testimoni a loro
favore: non c’è alcun presupposto di verità (o di ricerca di verità)
alla base della pubblicizzazione di una certa merce. La verità, non come
dato acquisito, ma come dimensione, non ha alcun ruolo nello spazio
pubblicitario. La verità, piuttosto, si fa con la pubblicità, dal
momento che pubblicitaria è divenuta la qualità intima di ogni verità
contemporanea. La rappresentazione pubblicitaria, infatti, non si
presenta come un riflesso (più o meno aderente) di valori presenti nella
realtà, ma è essa stessa capace di creare di per sé valori.
Gemellato alla pubblicità è, d’altra parte,
specialmente nel campo della politica, il sondaggio. Anche il sondaggio,
infatti, non esprime una semplice rappresentazione. Esso non è uno
scandaglio della realtà
(dove naturalmente poi il concetto di realtà rimane problematico) ma
costituisce una vera e propria azione con effetti assai rilevanti nella
società. Esso si esprime e agisce nel mondo, opera in esso, e così
facendo, vi apporta delle trasformazioni. All’interno delle nostre
società della comunicazione in tempo reale e senza mediazione di
trasmissione, il sondaggio, infatti, una volta diffuso, è capace di
influenzare e modificare la percezione e la realtà in un arco brevissimo
di tempo. D’altra parte, se prendiamo in considerazione il nostro
Berlusconi possiamo notare come egli abbia compreso molto bene il peso
dei sondaggi nella società modellata sull’esempio dello spettacolo.
Faccio un ulteriore esempio sulla pervasività del sondaggio. Se alcuni decenni fa ad un cittadino napoletano fosse sembrato che nella sua città lo smog fosse in calo, l’impressione soggettiva sarebbe bastata a giustificare la sua convinzione, e questo almeno per un certo periodo di tempo. L’esperienza particolare di questa certa persona avrebbe avuto ancora un proprio peso e, dunque, in quanto tale, gli avrebbe permesso di partecipare, per dire così, al dibattito delle interpretazioni sul reale, a partire dalla propria di esperienza. Immaginiamoci, invece, come si comporterebbe oggi un individuo medio. Nel momento in cui avesse la percezione di una minore presenza di smog nell’ambiente, egli, tornato a casa,si collegherebbe su internet e si documenterebbe attraverso statistiche e tabelle sui risultati degli ultimi rilevamenti atmosferici. La Verità sarà tutta riposta in queste statistiche, con la conseguenza, quasi scontata, dell’abbandono dei propri presentimenti e delle proprie intuizioni. È questa la mutazione venutasi a creare, nella nostra società, nel rapporto fra impressioni e sensazioni soggettive e le rappresentazioni universali che si impongono al di sopra delle nostre esperienze particolari. La nostra verità è oramai lì, oggettivata in dati, statistiche, commenti autorevoli, i quali, tra l’altro, va detto, non sono spesso altro che il risultato di calcoli informatici. Questa rappresentazione del reale, diffusa sui grandi mezzi di informazione, ha una capacità specifica che è quella di impedire, sul nascere stesso, qualunque ricerca alternativa del vero, e qualunque percorso di formazione di rappresentazioni e visioni alternative delle cose. Tengo a ribadire, ancora una volta, che nel momento in cui affrontiamo il tema della rappresentazione, l’elemento che dobbiamo tenere in considerazione nei nostri discorsi è la genesi di questa, vale a dire il modo in cui si impianta nella coscienza, e non, invece, il contenuto specifico della rappresentazione, che di per sé può essere giusto o sbagliato, vero o falso.
Possiamo d’altra parte, assumere un esempio
a noi ancora più vicino, nel tempo e nello spazio: la vittoriosa
campagna elettorale di L. de Magistris a sindaco di Napoli. Di per sé
non m’interessa questo esempio dal punto di vista del suo significato
politico, ma da quello per cui lo si può assumere come modello di
dinamiche politiche più generali e che non riguardano certo solo
l’Italia. Osservando questa campagna elettorale, infatti, come qualunque
altra si stia svolgendo negli ultimi mesi, abbiamo potuto renderci conto
della trasformazione della natura di una campagna elettorale. Se,
infatti, ancor oggi esiste una certa quota di militanza tradizionale
(cioè quella che si regge sulla partecipazione diretta all’attività
politica) il grande della formazione delle correnti di opinioni e di
pensiero, non è evidentemente più il prodotto di questa attività. La
formazione delle idee, che chiamiamo ancora così d’altro canto solo
impropriamente, è legata ad un’altra serie di dinamiche e
di fattori che rendono assolutamente diverso dal passato il modo
in cui si crea il consenso nelle nostre società contemporanee. Chiunque,
ad esempio, abbia partecipato quest’anno alla campagna elettorale di De
Magistris avrà notato come, dopo ogni iniziativa, tutti ardevano
fortemente di tornare a casa, o, comunque avvertivano un bisogno quasi
epidermico di connettersi immediatamente e acquisire le notizie relative
all’efficacia di ciò che aveva fatto durante la giornata di campagna
elettorale. Una certa percentuale attribuita a De Magistris dall’ultimo
sondaggio, e un certo trend di opinioni che la rete veicolava,
costituiva indubitabilmente la base per l’agenda della propria militanza
del giorno dopo. Dunque, ritroviamo qui il fatto che un (presunto) punto
di vista oggettivo sulla totalità degli avvenimenti è in grado oramai di
sovrapporsi immediatamente alle conclusioni che, invece, le esperienze
porterebbero a trarre ai singoli individui impegnati nella società. Il
prevalere di una rappresentazione astratta è in grado, quindi, di
trasformare radicalmente il senso dell’esperienza degli individui nel
mondo, perché il loro contatto con il reale è sempre e comunque mediato
da una serie virtuale di rappresentazioni e di espressioni del vero che,
nel momento in cui vengono diffuse e si impongono, trasformano alla
radice il modo di formazione delle visioni del mondo dei singoli
individui.
2. Esperienza nel mondo del consumo
Detto questo, mi propongo ora di entrare
propriamente nel tema dell’esperienza. Diciamo, anzitutto, che la nostra
esperienza del tempo nel mondo consumistico incarna una nuova forma di
esperienza ciclica, una ciclicità di specie del tutto particolare,
connotata di una vera e propria aura mortifera. Cosa è mai, infatti,
l’esperienza del consumo? Il consumo non costituisce che un continuo
rimando, una creazione e una distruzione dell’aspettativa della
gratificazione ed, al tempo stesso, la frustrazione del momento vero e
proprio della gratificazione sensibile. L’esperienza del consumo si
fonda su di un movimento che transita continuamente da un oggetto
all’altro, senza mai fermarsi su alcuno di questi. Io credo che proprio
questa ossessività nella ricerca del piacere e nell’appagamento siano
alla base del processo di distruzione della continuità dell’esperienza
dell’Io, e di quello della frammentazione della percezione della vita,
che è uno dei tratti soggettivi particolari dell’uomo consumistico di
oggi.
All’interno di una società basata ancora,
per quanto riguarda la produzione, su quella di generi di prima
necessità – dunque agricoltura e artigianato –
l’esperienza media era collegata direttamente (in chi vi
lavorava) e indirettamente (in chi ne usufruiva senza lavorare) alla
trasformazione della natura da parte dell’uomo in un legame di
sostanziale dipendenza da questa. In questa dimensione di legame e di
dipendenza assumeva un ruolo imprescindibile l’elemento dell’attesa[1].
Così, infatti, prima di ogni raccolto, era necessario ci fosse la semina[2].
L’ordine delle cose retto dal necessario susseguirsi delle stagioni
della natura, costituiva, da questo punto di vista, sempre una garanzia.
Nella dimensione fondamentalmente agricola, la preparazione costituisce
un tratto essenziale della vita; in queste società tradizionali, d’altra
parte, il consumo è solo l’ultima tappa di un lungo processo, possibile
dopo un arco di tempo di solito piuttosto lungo. Dunque, il tempo
necessario alla coltivazione e alla maturazione del frutto era la
ragione della necessità di un’attenta conservazione del raccolto. Il
frutto del lavoro diveniva dunque sacro nel senso di non poter essere
sprecato, né dover essere consumato tutto in una volta sola. Il lavoro
della terra, dunque, (ma non è poi così diverso quello della lavorazione
degli oggetti nell’artigianato tradizionale) si presentava come un
lavoro di stimolazione e di trasformazione della natura la quale faceva
leva sulla spontanea capacità produttiva di questa. Il soggetto creatore
restava in ogni caso la natura, non l’uomo. Anche l’uomo, certo, era
capace, a suo modo, di creare. Ma la sua arte creativa, in fin dei conti
- e per millenni l’uomo così se lo è figurato -
non era che un’imitazione del vero soggetto, la natura. Ars
imitatur naturam.
Come ciascuno di voi certo potrà già
intuire, il mondo in cui viviamo è, invece, ben diverso. L’eterea
comunicazione di informazioni ha oramai sostituito completamente la
relazione pratica con la natura e il rapporto con la materialità della
natura in genere. Il nostro mondo è divenuto, infatti, il mondo in cui
ogni cosa deve poter essere saputa da tutti, e in cui il vero oggetto di
interesse sociale è costituito dall’informazione: sapere cosa accade nel
mondo. Per un individuo medio di oggi, la vita senza la serie continua
di informazioni sarebbe insostenibile, e questo, indipendentemente dal
continente in cui viva. Nessuno, infatti, creda che questo sia un
discorso che vale solo per noi europei o occidentali. L’esperienza del
mondo oggi è un’esperienza di dati e rappresentazioni che vengono
fornite su di un mondo[3].
La rete è solo l’esempio più evidente di questo orientamento e ci
dimostra chiaramente come l’ambizione dell’umanità di oggi sia quella di
costruire nuovi sistemi di informazione e comunicazione tra gli
individui che siano sempre più complessi, articolati e veloci. Il vero
mito, almeno degli ultimi venti anni, è divenuto la costruzione di un
mondo completamente trasparente, diafano in tutta l’ampiezza del suo
sistema di memorizzazione di dati e di comunicazione. L’uomo che si sta
preparando ad essere l’uomo del futuro (o forse in molte parti del mondo
è già quello del presente) è, dunque, un individuo in continua
connessione con la rete, e con l’infinità di rappresentazioni del reale
che essa contiene; d’altro canto, è anche un individuo sempre più
indifferente alla materialità del mondo che lo circonda, mentre avverte
il bisogno continuo di venire a conoscenza dei fatti più disparati,
delle notizie più impensabili, e di apprendere da semplici video o da
corsi on line abilità di cui neanche sarebbe mai venuto a
conoscenza senza il sistema di comunicazione generalizzata in cui
viviamo.
Possiamo quindi sostenere che il rapporto di
un singolo con il proprio territorio si è completamente modificato. Il
termine stesso di radice, che affonda nella sua etimologia da una
metafora arborea, ormai ha perso qualunque senso per la formazione
dell’identità di un individuo. Chi ancora si può dire radicato? E dove
affonderebbero, infatti, queste radici? Nessuno di noi può dirsi
radicato allo stesso modo di come poteva farlo ancora un uomo o una
donna di quaranta o cinquanta anni fa. Nessuno di noi può dirsi radicato
in quel modo oggi perché non è certo dalle radici che noi assumiamo il
nostro sostentamento, né ad esse che chiediamo di orientarci nelle
nostre scelte, nella nostra vita pratica. Noi oggi ci gioviamo di
tutt’altre forme culturali di mediazione, e queste forme ormai non
richiedono più i caratteri di fissità, e di solidità che erano, invece,
caratteri assolutamente essenziali per la definizione di una forma
culturale del passato. Il tempo reale delle comunicazioni di massa ci ha
ormai catturati nell’illusione di essere cittadini del mondo, e ci ha
guadagnati all’idea che sia proprio l’intero mondo il nostro campo
personale dell’esperienza. In questo modo, è evidente, i contorni
dell’appartenenza diventano così ampi da finire col rarefarsi e
astrarsi. Tanto più nella deriva virtuale della nostra esperienza,
questa nuova dimensione sta stravolgendo, e in pochissimo tempo, la
tradizionale relazione dell’individuo con il suo contesto. L’apertura
indefinita al campo potenziale dell’esperienza ha significato così la
completa estraniazione a qualunque vincolo di appartenenza ma
soprattutto, insieme con essa, a quello di partecipazione attiva al
mondo.
I giovani di oggi, individui che hanno
viaggiato già nei loro primi vent’anni nei cinque continenti, d’altra
parte, al cospetto anche solo dei loro nonni non possono affatto essere
definiti degli individui attivi. La loro esperienza del mondo è talmente
rarefatta che le relazioni più immediate e concrete sfumano
nell’indistinzione, e nell’insensatezza. Ciò che è effettivamente loro
vicino, nella loro percezione si presenta come lontano, mentre ciò che è
lontano ai loro occhi, per via dell’illusione della virtualità, diventa
di una surreale vicinanza. D’altra parte chi non si rende conto
quotidianamente che nulla sembra interessare l’individuo medio di oggi
più dell’esotico, dello stravagante, dell’extra terrestre, così come,
allo stesso tempo, la terra che questi calpesta ogni giorno per tornare
a casa o andare a lavoro, ammesso che ancora la calpesti, e non voli
direttamente da un posto all’altro, non vengono più riconosciuti né
sentiti come propri? Quando sosteniamo, dunque, che il mondo non è più
quello di prima, dobbiamo
intenderlo nel senso che per gli individui contemporanei il mondo della
loro esperienza non è più quello di prima. Possiamo immaginare, infatti,
che alla domanda su quale sia il proprio mondo un individuo di cento
anni fa ed uno di oggi risponderebbero ciascuno in un modo completamente
diverso. Temo che i due, da questo punto di vista, sfiorerebbero un
livello di reciproca incomprensibilità.
Dunque se mi chiedessero se è vero che il
mondo è cambiato, risponderei di sì, ma lo farei pensando soprattutto al
cambiamento della qualità dell’esperienza che si fa oggi del mondo,
prima ancora che riflettendo su alcune oggettive trasformazioni del
mondo in sé.
Il mondo in cui viviamo, infatti, vale a
dire l’insieme delle nostre relazioni con gli oggetti e con le persone,
è stato asservito talmente all’uomo che esso, oserei dire, di per sé non
è ormai neppure più mondo in senso classico. Il mondo di per sé è
sparito. L’esperienza odierna, infatti, non arriva più ad organizzarsi
attorno ad una complessa rete di relazioni con diverse persone, sulla
base della condivisione di un senso collettivo. Il mondo interno di un
individuo, piuttosto, sta divenendo il corrispettivo, dal punto di vista
delle nostre sinapsi nervose, dell’insieme scomposto di bit e accensioni
binarie, con le quali pensano i computer e che, a nostra volta, stiamo
introiettando a furia di essere continuamente a contatto con le nostre
periferiche elettroniche d’ogni tipo.
Ecco che in questo nuovo mondo senza mondo,
dovremmo forse chiederci quale fine abbia fatto quell’elemento il quale,
forse, più degli altri ne sta venendo radicalmente modificato, vale a
dire il nostro corpo. Si parla in modi diversi tanto di un’accentuazione
del ruolo del corpo nella nostra società che della sua negazione come
capacità sensibile della nostra esperienza. Dalla mia io credo che il
nostro corpo, nonostante le modificazioni degli ultimi tempi, e
nonostante il prevalere dell’astrazione della nostra esperienza rispetto
alla concretezza, abbia un’irriducibile capacità di reclamare il
particolare nel campo dell’esperienza. La ragione di ciò è che,
nonostante le apparenze e le fantasie in cui la nostra vita individuale
si trova immersa come un incubo senza inizio e senza fine, la nostra
vita reale, cioè quella che comincia con il nostro primo respiro e
termina con l’ultimo e che nel mentre è fatta di crescita, sviluppo,
invecchiamento, abitudine, perdita, esprime, invece, in termini chiari
il suo legame con il mondo, la sua insopprimibile risonanza con il
contesto che vive. E questo contesto rinvia necessariamente a relazioni
ed affetti di un mondo che per forza di cose ci è vicino come esseri
corporei. Il nostro corpo si nutre del mondo che lo circonda. Dell’aria
che respira, del cibo che ingerisce, delle persone che tocca. Il nostro
corpo è in un mondo, ma in un mondo ben preciso, determinato, dunque
delimitato. Il nostro essere corporeo ci insegna la ricchezza possibile
e insieme la limitatezza della nostra esperienza.
D’altro canto, invece, il sentimento di
onnipotenza che è la base e insieme il prodotto della tecnologia
dell’informazione istantanea si oppone e nega il sentimento della
fatica, dello sforzo, della limitatezza delle nostre possibilità.
Tecnologia e corpo incarnano funzionalità diverse, direi, modi di essere
diversi. Il modo ciclico dei ritmi della vita, fatta di attività e
riposo, nutrimento e dispendio energetico, gioia e tristezza, appartiene
è una caratteristica essenziale della vita umana. Quello della continua
produzione e riproduzione di attività rappresentativa a ciclo continuo,
invece, come l’attività potenzialmente senza sosta di (presunta) vita
senza morte, e di una connessione senza limiti, appartiene piuttosto
alle macchine informatiche. Chissà se aver assunto a nostro modello
quest’ultimo modo di essere, anziché il primo, non sia proprio l’effetto
di una stanchezza dell’umanità di oggi, una stanchezza e un abbandono
del proprio essere legati all’incapacità, ormai, di provare emozioni
nella relazioni con i propri simili e con la natura.
Siamo così arrivati a trattare del fenomeno
della conflagrazione del limite. L’aumento delle possibilità, garantito
dai nuovi mezzi tecnologici, ha indubbiamente costituito, almeno per una
certa parte della popolazione mondiale, uno stravolgimento antropologico
clamoroso. Viviamo oggi una trasformazione che ha la portata, almeno,
della rivoluzione del Neolitico. Molti antropologi, tra cui
Levi–Strauss, hanno asserito che la rivoluzione industriale è il vero
grande cambiamento della civiltà umana dopo la rivoluzione neolitica del
8000 – 9000 a. C., costituita appunto dalla scoperta delle tecniche
agricole. Credo si possa considerare la rivoluzione informatica come
l’ultima tappa della rivoluzione dell’industria cominciata nel
xviii
sec. La rimozione del limite materiale nel modo in cui avviene la nostra
comunicazione, vale a dire l’insediarsi rapido e senza opposizione della
comunicazione a distanza come comunicazione generalizzata, costituisce
senz’altro il tema decisivo per inquadrare l’antropologia contemporanea[4].
Quando, infatti, abbiamo detto che è la sensibilità la paladina della
nostra esperienza particolare[5],
(dicevamo prima “tu sei quello che sei perché hai una certa sensibilità
e non una certa conoscenza intellettuale del mondo”), lo abbiamo fatto
in riferimento soprattutto ad un elemento, l’elemento del nostro corpo.
L’esperienza d’essere un corpo incarna, infatti, quella di avere dei
limiti, limiti presenti tanto nello spazio che nel tempo. Il corpo
infatti ha limiti sia rispetto alla sua forza che alla sua debolezza,
perché esso (anche se oggi tendiamo ad avvertirlo sempre di meno), ha
delle proprie energie e risponde chiaramente ad un ciclo di vita,
corrispondente, in buona misura, al nostro destino biologico. Il corpo
che noi siamo ha una sua logica, una logica di conservazione e
riproduzione di sé, la quale agisce indipendentemente dalla nostra
volontà e dalla coscienza. Una logica che lo fa trasformare nel tempo, e
che lo anima secondo bisogni che spesso disattendono le ingiunzioni
della coscienza.
Quanto accade oggi, invece, è che il modello
consumistico della nostra società ci porta a credere di poter fare
un’infinità di cose nella vita, come, ad esempio, viaggiare per tutto il
mondo, conoscere ogni forma di cosa, compiendo un’infinità di
esperienze. Questo tipo di percezione è, ad esempio, molto diffusa fra
gli adolescenti e i ventenni di oggi. La rimozione media, invece, oggi
si attesta sull’elemento della nostra passività, o quanto meno sulla
nostra dipendenza dalla natura e dallo scorrere del tempo. D’altra parte
tutte le culture che hanno preceduto la nostra, con l’insieme delle loro
credenze, di valori e religioni hanno sempre considerato,
esorcizzandola, l’essenza finita della condizione umana e
l’irreversibilità dello scorrere del tempo. La nostra cultura si
caratterizza, invece, per avere attribuito, grazie all’avanzata della
tecnica e della razionalizzazione che ne è alla base, un valore enorme
al mondo dell’al di qua, perdendo di vista, tuttavia, il limite delle
possibilità dateci in questo mondo. Noi siamo oggi certamente nell’al di
qua e ci interessiamo oramai esclusivamente delle cose di questo mondo,
sentendo di appartenere ad esso; ma abbiamo, tuttavia, trasposto
l’infinità e l’onnipotenza nella nostra esperienza dell’al di qua.
Direi, quindi, che, dal punto di vista del
tempo e della valorizzazione della vita mondana, il capitalismo ha
concorso alla promozione della posizione laica degli individui rispetto
al mondo. In effetti la premessa alla logica della valorizzazione del
capitale si basa su questa osservazione:
«Questo è il tempo, e il valore delle cose ce lo dà il tempo
dedicato per farle». Non c’è, dunque, un valore esterno che si aggiunga
alla vita. Questo elemento ha contribuito o magari esso stesso è stato
effetto di un rinvigorimento dell’attenzione verso il mondo umano. Ma
una volta appurato questo, bisogna aggiungere che quanto noi oggi
patiamo la cinica applicazione di questa logica, la quale si traduce
nella riduzione dell’intera sfera della nostra esistenza ad un mondo
quantificabile, traducibile in valore di scambio e offerta per il
mercato, vale a dire n mondo trasformato in merce. Sembra, quindi,
evidente che la nostra esperienza oggi non ha più nulla a che fare con
la sfera del qualitativo.[6]
3. Ai confini dell’esperienza: la
nuova macchina informatica
Possiamo a questo punto al tema decisivo
della questione che stiamo trattando. Il tema della macchina in
connessione alla trasformazione dell’esperienza contemporanea. Se il
Capitale iniziava con la frase: «il mondo in cui viviamo è un mondo
completamente invaso dalle merci» non è meno vero che la nostra società
è ormai completamente invasa da macchine elettroniche di ogni diverso
tipo. Ce n’è una per ogni gusto. Vorrei ricordarvi, se ce ne fosse
bisogno, che, almeno da trenta anni, il tema dell’intelligenza
artificiale non è più solo un’idea, ma la matrice reale che trasforma
l’accadere della nostra vita. L’intelligenza artificiale è il progresso,
e non c’è progresso che non riguardi una qualche forma di intelligenza
che l’uomo programmi per i suoi fini. L’ia
(Intelligenza artificiale) è divenuta una realtà, una realtà da cui non
possiamo prescindere ormai, in ogni sfera del nostro quotidiano. Il
personal computer, lo strumento per eccellenza, lega a sé la nostra vita
e non possiamo negare, pur riconoscendone i lati che ci appaiono
positivi, che siamo completamente schiavi di esso. Vorrei sottolineare
come l’artificialità dell’intelligenza ci appaia oggi un dato del tutto
naturale del nostro mondo così come naturale è il fatto che
l’intelligenza, nella società in cui viviamo, non sia più una
prerogativa esclusivamente umana.
Credo, quindi, se siete d’accordo, che
dovremo tornare a domandarci cosa sia l’intelligenza artificiale e,
quindi, cosa la distingua, se qualcosa la distingua, dall’intelligenza
che l’uomo attribuisce a sé. Sarà poi necessario farsi qualche domanda
in più e valutare se la nostra intelligenza non si stia andando
trasformando nei suoi fondamenti, per via dell’attuale simbiosi presente
fra l’uomo e la macchina informatica. Cosa è l’intelligenza di un
personal computer? Io credo si tratti, anzitutto, di un’ intelligenza
fondata su associazione e collegamento di rappresentazioni; la sua
programmazione, d’altra parte, non è che un comando di sequenze
passibili di esecuzione ad un’immensa velocità (una velocità
elettronica, come dicevamo prima[7]).
Il modello incarnato dal computer è lo schema di un’intelligenza
rappresentativa, che si caratterizza soprattutto, in fin dei conti, per
l’esecuzione di comandi e di compiti. Dunque, un’abilissima e una
velocissima intelligenza orientata alla risoluzione di un certo lavoro.
Una grandiosa intelligenza di natura astratta, la quale tuttavia - mi
perdonerete l’anticipazione – un’intelligenza, che è, in definitiva,
un’intelligenza da schiavi. Nella società senza schiavi (o quasi), nella
società cioè dei salariati, è l’elettronica che lavora per l’uomo al
posto e al servizio di questo; sono i robot e i computer, da un certo
punto di vista, i nostri nuovi servi,
dal momento che essi si presentano tanto come gli attivi
produttori, che come i programmatori dell’attività.
Mi sentirei di dire che la scoperta
dell’elettronica costituisce ancora un fenomeno tutto da decifrare
soprattutto rispetto alla società che l’ha prima ideata e,
successivamente, realizzata. Questo perché non credo che l’elettronica
si possa mai comprenderla in astratto; piuttosto, per comprenderne
l’origine, e dunque per avviarne una riflessione decostruttiva, sarà
necessario considerarla come il prodotto di una data società, la società
borghese occidentale, la quale, per una serie di circostanze, è giunta
nella fase odierna, e ha raggiunto un certo tipo di sviluppo tecnico ed
economico. Bisognerà così andare alle origini di questa scoperta.
Le macchine della prima e della seconda
rivoluzione industriale sono state, infatti, nuovi strumenti di lavoro,
al tempo stesso mezzi di sfruttamento e mezzi sfruttati della natura;
d’altro canto, invece, le macchine della terza rivoluzione industriale,
le macchine che pensano, non solo eseguono un lavoro ma sono divenute
capaci di autoregolarsi, gestire il loro stesso lavoro, e, ove ce ne sia
bisogno, correggerlo. Attualmente, inoltre, il sistema della rete rende
quella della macchina un’esistenza connessa ad altre macchine con le
quali essa è capace di condividere (non vorrei dire socializzare per
pietà nei confronti di questo termine) un’infinità di informazioni alla
base di un vero e proprio processo di produzione integrato. Ecco
arrivati così a quello che costituisce l’autentico presupposto materiale
del sistema della produzione che oggi definiamo post-fordista.
Dunque, tra le varie rivoluzioni
industriali, per quanto alla base il concetto non cambi, assistiamo ad
un salto qualitativo non di poco conto. L’uomo di oggi, per il momento
ancora incapace nel riprodurre la vita in vitro (per quanto ormai vicino
a questo obiettivo), è già risultato vincitore, invece, nell’impresa di
clonare la sua intelligenza, di riprodurla e diffonderla in milioni di
altri esseri. Le macchine,
dunque, sono le vere protagoniste dello sviluppo storico contemporaneo.
D’altra parte, se mi consentite, sembra che tutti gli ultimi grandi
pensatori del nostro tempo ne siano stati decisamente consapevoli (da
Weber a Levi Strauss, da Foucault a Baudrillard).
Le macchine pensanti, cioè esseri non
viventi, ma dotati di intelligenza. Un’intelligenza separata dalla vita,
una mente separata dal corpo, e la rappresentazione separata
dall’emozione. Ecco che bisognerà, dunque, domandarsi, se sia possibile
un pensiero senza vita, così come un pensiero al di là della vita. È
possibile? Certo che da un lato sembra di tornare ai dibattiti
sull’esistenza di un intelletto agente separato dal mondo, che alcuni
filosofi arabi introdussero all’epoca nella filosofia latina del
Medioevo. Ma vorrei provare a convincervi che sono esattamente questi i
dibattiti più attuali alla luce delle rapide trasformazioni tecniche e
sociali in atto.
A questo proposito, se procediamo con un
approccio storico, io credo che possiamo individuare negli anni ottanta
il periodo di maggiore esaltazione del progetto dell’Intelligenza
artificiale e dei suoi variegati sottoprodotti (personal computer, rete
informatica di internet, telefono cellulare etc.). È in quegli anni che
si diffuse, infatti (per poi propagarsi per tutti gli anni novanta),
l’idea che il mondo fosse sul punto di cambiare, e che la vita sarebbe
stata rivoluzionata completamente da queste nuove invenzioni.
Personalmente, per quanto fossi ancora un bambino, ricordo alcune delle
fantasticherie e dei pensieri che circolavano in quegli anni.
L’immaginazione procedeva allora spedita rispetto alla possibilità di
costruire schermi e processori in grado di proiettare l’umanità intera
in una realtà dematerializzata e virtuale. D’altra parte, con uno
sguardo retrospettivo, come potremmo dare torto oggi a tanta euforia?
Non siamo, in effetti, davanti ad un cambiamento epocale delle forme in
cui l’umanità sta riproducendo se stessa?
Devo dire, tuttavia, che credo non sia stata
l’idea in sé del personal computer ad essere decisiva. Più rilevante
ancora fu l’associazione di personal computer e rete di Internet; a
partire da metà degli anni novanta, infatti, i due termini cominciarono
a non essere più distinguibili l’uno dall’altro e, posti insieme,
costituirono il binomio che oramai consideriamo indispensabile per la
nostra vita e per il nostro lavoro. La convinzione, all’inizio ben
presente sia nell’immaginazione comune che nell’ideologia diffusa dai
produttori dei software, che ciascuno avrebbe programmato il proprio
pc (l’ultima chimera
individualista del secolo ventesimo) svanì velocemente, e la realtà che
si impose fu quella orchestrata dalle grandi multinazionali del software
di programmare software omologati per tutti i
pc. L’idea dello strumento
personale di lavoro e svago venne così trasformata velocemente in quella
diversa di uno strumento di comunicazione dotato di altissime
potenzialità. Il computer in rete divenne così l’ultimo nato della
famiglia delle radio, delle televisioni, e dei telefoni cellulari. Non
più solo uno strumento da scrivania, ma una nuova finestra sul mondo, il
pc divenne lo strumento
dell’ampliamento esponenziale delle nostre possibilità di essere
informati sul mondo e, poco dopo, anche di informare il mondo di noi, in
un apparente riscatto del mito disatteso del computer come creatore di
una dimensione personale. Della pretesa di generare il proprio software,
all’inizio del ventunesimo secolo, rimase solo quella, assai più
parziale, di controllare il profilo di un’identità virtuale (il modello
di Facebook, per intenderci). Con questo sistema, nel giro di
quindici anni, ogni informazione contenuta negli elaboratori, cominciò
ad essere non più solo memorizzata e conservata in un hard disk,
ma comunicabile, e, dunque, resa disponibile ad un non ben definito
pubblico. Ogni pc divenne
il tassello di una rete più ampia e complessa in cui cominciarono, da
allora, a viaggiare milioni di informazioni al secondo.
Dagli anni ottanta in poi, il ritmo (assai
veloce della storia) passò attraverso i nuovi cavi di Internet; la rete
costituì il tipo di mondo virtuale entro cui si insediò, senza trovare
grandi ostacoli, la prospettiva di senso delle masse, una prospettiva,
d’altra parte, già fortemente depauperata dalla nuova cultura del
consumo e dai primi decenni della televisione.
La rete divenne la tecnologia simbolo dell’idea di progresso che
la borghesia propugnò a cavallo tra i due secoli e dei due millenni.
Se ci poniamo da un punto di vista
filosofico, direi che la domanda principale dopo l’evoluzione
esponenziale dell’elettronica e, in particolare, della comunicazione,
riguarda ancora la possibilità che il pensiero esista indipendentemente
della vita. Vi renderete facilmente conto che l’intera nostra
discussione di esperienza e rappresentazione potrebbe essere inquadrata
anche solo da questo punto di vista e, esagerando, addirittura ridotta a
questa semplice opposizione. Se le macchine, infatti, non vivono, ma,
tuttavia, pensano, dovremmo affermare la possibilità di un’intelligenza
astratta dal corpo. Altrimenti, in caso contrario, bisognerebbe
sostenere che non sia possibile che il pensiero sia al di là della vita,
e dunque che le macchine stesse, in qualche modo, siano anch’esse una
sorta di sistemi viventi. È allora evidente che bisognerà soffermarsi su
cosa, in definitiva, significhi pensare. Il dibattito, come sapete, è
aperto da almeno alcuni decenni. La mia idea riguardo il pensiero delle
macchine è che esso rifletta solo una certa parte del nostro modo di
pensare - per l’appunto il lato della nostra intelligenza di tipo
rappresentativo - e che su questa specie di intelligenza, se così
vogliamo dire, sia stato modellato il funzionamento stesso delle
macchine. Con un processo retroattivo la funzionalità rappresentazionale
delle macchine è in grado di agire nuovamente sul nostro modo di pensare
e di comunicare, rafforzando a sua volta questa dimensione della
rappresentazione, a scapito, invece, di altri livelli e di altre
dimensioni del funzionamento della nostra mente. E tutto questo non per
via del caso. Ma per ragioni storiche, cui già abbiamo fatto dei cenni,
e su cui adesso tornerò brevemente ai fini di ricostruire e decostruire
la naturalizzazione dell’informatica e dell’intelligenza artificiale,
naturalizzazione sempre più radicata nella percezione della nuova
generazione.
Torno, dunque, a sostenere che è stato
propriamente lo sviluppo storico della società capitalistica ad aver
promosso l’importanza di questa dimensione dell’uomo, dimensione che è
di per sé solo una fra le altre possibili. Io credo che il tipo di
evoluzione della macchina informatica rifletta il livello di evoluzione
dell’uomo in società in una certa fase storica, e specificamente la fase
apertasi con la prima rivoluzione industriale che oggi prosegue a gran
ritmo e nel modo in cui possiamo assistere con i nostri occhi. Potete
riconoscere, ora, più chiaramente, perché il tema della macchina abbia a
che fare con quello dell’esperienza e della rappresentazione, che è il
tema del nostro incontro. Privilegiare il piano della rappresentazione
ha costituito, infatti, la base per immaginare e per costruire un certo
tipo di macchina pensante; attraverso la sua creazione e
l’identificazione di pensiero e rappresentazione, e, cosa più
terrificante (ma ormai non meno presente, della rappresentazione con la
vita) il modo di esistere dell’uomo si è andato profondamente
trasformando. Il tema delle macchine e dell’elettronica meriterà dunque,
senz’ombra di dubbio, un approfondimento ulteriore;
quest’approfondimento passerà attraverso l’analisi dei suoi elementi più
specifici.
AGOSTO 2012
[1]
Attesa che poi può voler
dire molto spesso speranza.
[2]
La più semplice delle
verità del mondo contadino è oggi una massima paradossale nel
nostro mondo che non riconosce più al tempo alcun potere di
mediazione.
[3]
Questo è lo sviluppo
contemporaneo del modello di società borghese e capitalistica.
[4] A questo riguardo vi
inviterei a vedere un film recente americano, Limitless,
che può ben illustrare, per immagini, quanto sto cercando di
esprimervi.
[5] Vedi Rappresentazione, in Città Future, 2012, n°7. http://www.cittafuture.org/07/04-Rappresentazione.html
[6]
A riguardo farei una
breve parentesi relativa alla droga e, in particolare, a quella
oggi più diffusa, che è la cocaina. D’altra parte ci troviamo a
parlarne qui a Napoli, che è una città campione quanto alla
produzione, allo smercio e al consumo. La cocaina, infatti, in
quanto droga, si propone di eliminare i limiti naturali
connaturati allo sforzo e alla prestazione. Il tempo che la
cocaina produce è un tempo accelerato. Se facciamo una breve
comparazione, infatti,
potremmo dire che tendenzialmente il tempo della cannabis
è un tempo dilatato, al contrario di quello dell’eroina, che è
un tempo che incide in direzione dell’aumento della sensibilità,
e della iper eccitabilità;
ha a che fare con una relazione differente con il tempo,
e il suo tempo non
dilata l’esperienza sensibile (cosa che in un certo senso compie
l’eroina), ma, piuttosto, sembra aumentare la potenza
dell’azione, vale a dire la prestazione, dunque il fare, non il
sentire. La cocaina è la droga dell’agire, del fare e della
riduzione del limite e della finitezza. Questo ha il suo
significato entro il piano della produzione (in fabbrica,
comunemente, di notte si consuma cocaina, ad esempio, così come
fra gli autisti dei camion delle nostre autostrade). Essa è
naturalmente una droga particolarmente diffusa nelle grandi
città italiane, a Milano, a Firenze, a Napoli anche (per quanto
in questo caso il discorso sia un po’ diverso) e, allora, la
cocaina incarna la logica della società in cui viviamo, della
produzione e del fare, direi, l’esperienza consumistica della
vita. La cocaina è la droga di una serata diversa, una serata in
discoteca, la droga per riuscire in un rapporto sessuale, in una
partita di biliardo o una corsa in moto. Una droga che io prendo
non tanto per aumentare le mie sensazioni o per rilassare, ma
per avere successo in qualcosa. Un droga, insomma, che ben si
adatta all’anestetizzazione contemporanea della sensibilità e
alla nostra cultura del successo.
[7] Mondo senza tempo, in Città Future, 2012, n°6. http://www.cittafuture.org/06/04-Mondo-senza-tempo.html