banner rivista rosso
07
Maggio 2012

home - indice

 

LA SIRIA OLTRE ASSAD

Maria Chiara Rizzo

 

Fino ad un anno fa era un Paese sconosciuto a molti. Poi gli eventi lo hanno portato alla scoperta. Peccato che la conoscenza della Siria e del suo popolo sia passata attraverso notizie di sangue, violenza e dispotica dittatura. Ormai è più di un anno che non si arrestano le violenze e il susseguirsi di dichiarazioni e appelli internazionali che si sono concretizzati in un nulla di fatto. Così, mentre il bla-bla-bla continua, gli scontri aumentano e il numero delle vittime sale vertiginosamente.

 

Bashar Al Assad è al potere da undici anni e non aveva mai visto mettere in discussione la sua carica dal popolo siriano. Le misure adottate all’inizio delle rivolte nell'ottica di evitare sommosse di massa e l'abrogazione della legge sullo stato d'emergenza, in vigore dal 1963, non hanno funzionato. Al Assad aveva già previsto le proteste, ma semplicemente non ne immaginava la portata. Nessuno fino ad un anno fa avrebbe potuto immaginare che il popolo siriano avrebbe rotto il muro dell’omertà, sfidando il sadico potere del regime poliziesco di Bashar e il suo esercito di membri dei servizi segreti. Per prevenire lo scenario tunisino ed egiziano, nelle settimane prima dello scoppio delle rivolte, il presidente aveva adottato misure per garantirsi la pace sociale, quali sussidi alla disoccupazione, diminuzione dei costi dei beni e il calmieramento dei prezzi di elettricità e medicinali.

Le immagini e le statue di Bashar e di suo padre Hafez, in ricordo di tutti gli anni di regno del vecchio presidente, sono presenti in ogni angolo del Paese: davanti e dentro gli uffici pubblici, in negozi, scuole e persino in forma adesiva sugli autobus e sulle automobili. Non essendo designato al potere che, invece, spettava a Basil, suo fratello maggiore, Bashar fu chiamato a governare il Paese dopo l’incidente che costò la vita a suo fratello. Il presidente, che non aveva mostrato alcuna inclinazione per la politica, abbandonò Londra dove studiava oftalmologia e rientrò in Siria, dove fu mandato all’accademia militare. Diventato presidente a trentaquattro anni, Assad divenne Capo delle forze armate e del Partito Baath.

(torna su)

Nel 2007, alle elezioni per il parlamento e il rinnovo del mandato del presidente per altri sette anni, il Fronte nazionale progressista (Fnp) coalizione di partiti guidata dal partito Baath al potere conquistò senza sorprese la maggioranza dei 250 seggi in Parlamento, vincendo le elezioni che lo riconfermarono con il 98% dei voti. Presentatosi al popolo come paladino della democrazia e trasparenza, dichiarò di voler combattere la corruzione che dilagava nel suo Paese, ma presto le sue parole si dimostrarono inattendibili, così come le sue promesse di libertà per i partiti politici. In poco tempo il presidente iniziò a tessere la sua rete di relazioni clientelari, affidando il potere nelle mani dei suoi familiari e amici che esercitano tutt’oggi un controllo capillare su tutto il territorio nazionale. Il braccio nero di Assad è rappresentato dai feroci Mukhabarat servizi segreti un vero e proprio esercito di controllori, temuti dai civili e dagli stranieri per le maniere poco docili e i mezzi coercitivi usati contro gli avversari del regime.

 

Appartenente al gruppo religioso minoritario degli Alawiti, Assad ha visto di colpo venir meno i suoi consensi da parte della maggioranza religiosa sunnita. E nel tentativo di evitare ulteriori rivendicazioni dannose al suo potere, ha emanato un decreto per garantire la nazionalità a migliaia di curdi che abitano la zona nord-est della Siria e che da oltre cinquant'anni vivono nel paese da stranieri. Tale manovra politica verso un'etnia, oggetto di repressioni sanguinose e deportazioni da parte del regime siriano, si configura come misura preventiva per evitare richieste di indipendenza. I curdi rappresentano circa il 15% della popolazione residente in Siria e Bashar teme spinte indipendentiste, alla luce della loro autonomia nel nord dell'Iraq. Dopo anni di esclusione dei membri di questa etnia da opportunità di lavoro nel settore pubblico, in quanto stranieri, il decreto potrebbe portare al presidente l'avallo di circa 300 mila cittadini. La Turchia è quella che più ha da temere per la consistente presenza di una comunità curda nel suo territorio. Infatti, uno sgretolamento del regime di Assad potrebbe favorire la nascita di alleanze di movimenti dalle forti spinte secessionistiche, dal momento che il malcontento dei curdi, divisi dai confini di più stati, continua a serpeggiare.

Oggi le rivolte si sono tramutate in guerra civile, caratterizzata anche da una connotazione confessionale: in un Paese abitato da diverse minoranze quali curdi, drusi, cristiani e armeni, quella alawita, attualmente al potere, setta del ramo sciita dell’Islam, deve confrontarsi con una maggioranza sunnita, estromessa dal potere.

 

Dall’inizio delle rivolte Assad ha accusato forze straniere di fomentare il popolo contro il suo potere attraverso l'infiltrazione di spie, bande armate e gruppi di salafiti. La tesi più gettonata sarebbe quella della presenza di oppositori del regime siriano manipolati dall'esterno dal Mossad e strumentalizzati dai libanesi che a lungo hanno atteso di vendicare l'omicidio dell'ex primo ministro Rafiq Hariri, imputato alla Siria, e anni di occupazione militare. Anche gli USA avrebbero un ruolo e uno scopo, ovvero quello di indebolire le forze anti sioniste. Non da escludere un coinvolgimento dell'Arabia Saudita, baluardo dell'Islam sunnita e timorosa di un aumento dell'influenza dell'Iran nell'area, nonché ostile al regime Assad. Ma la tesi di un complotto portato avanti dallo stato ebraico e sostenuto dall’America sembra alquanto debole. Anzi. Le forze dell’opposizione siriana, sia la Sinistra che raggruppa un ventaglio molto ampio di correnti, dai comunisti ai marxisti fino ai nazionalisti sia i Fratelli Musulmani confraternita sunnita a favore di uno stato fondato sulla Sharia, non godono di maggiori simpatie da parte dei sionisti, che, invece, sono sempre stati in grado di trarre vantaggi dal rapporto di ostilità con il dittatore siriano. Per Israele sarebbe rischioso avere un regime di stampo democratico ai suoi confini, in quanto quest’ultimo potrebbe dar voce alla collera della sua popolazione per le continue angherie e umiliazioni subite, a partire dal ’48, dai “fratelli” palestinesi e contestare la massiccia colonizzazione delle terre di questi ultimi. Non per ultimo, un nuovo potenziale regime democratico riaprirebbe il dossier del Golan- avamposto strategico per il controllo militare del nemico siriano, nonché alture fondamentali per l’approvvigionamento idrico nell’area- occupato da Israele nel 1967 e da allora mai più riconsegnato alle autorità siriane. Il malcontento per l’occupazione del nemico di una zona tanto strategica quanto fondamentale negli ultimi anni è passato in sordina, ma non è mai scemato e potrebbe esplodere all’improvviso. Israele non potrebbe mai tollerare uno stato democratico nel mondo arabo, preferendo avere a che fare con autocrati che facciano il suo gioco allo scopo di mantenere una pace controllata e controllabile. Insomma, un nodo gordiano, ma non finisce qui.

 (torna su)

Il fattore Iran è imprescindibile in tutta questa vicenda. Un nuovo potere, trascurandone per ora le caratteristiche, potrebbe stringere alleanze con la Repubblica Islamica, portando alla creazione di un apparato sciaraitico e di gran lunga più aggressivo nei confronti dello stato sionista. Ovviamente ciò non significa che all’Iran farebbe comodo la caduta di Assad. Dopo anni di divergenze, i due Stati hanno stretto un’alleanza vantaggiosa per entrambi: per la Siria l’Iran era ed è il miglior alleato contro Israele. In passato ha rappresentato per la Siria un forte sostegno durante la sua occupazione in Libano, un contrappeso alla potenza crescente dell’Iraq di Saddam Hussein e un fattore di pressione nei confronti dei Paesi del Golfo. Invece, per la Repubblica Islamica la Siria costituisce la “voce araba” che impedisce il totale isolamento iraniano tanto regionale quanto internazionale e garantisce il legame con Hezbollah, partito sciita libanese e spina nel fianco di Israele.

 

L’opposizione e le esitazioni dell’Onu ad intraprendere misure contro il governo baathista, creando un certo impasse politico nell’organizzazione internazionale, sono state esercitate da Russia e Cina, potenze alleate di Assad, che trovano nel regime attuale la via di accesso ai mercati del Medio Oriente e l’unico sbocco sul Mediterraneo. La Russia mantiene la sua unica base navale nel Mare Nostrum nel porto di Tartus e, in cambio, continua a fornire supporto e armi all’esercito del presidente.

Certo è che davanti ai nostri occhi si sta consumando una carneficina. La gente si è unita in un unico coro che grida democrazia e libertà, sentimenti covati e repressi in anni e anni di dura dittatura in cui non ha mai smesso di anelare la liberazione da un regime tanto feroce. È pur vero che il clima che si respirava negli anni scorsi a Damasco non avrebbe mai fatto presagire una presa di coscienza e un atto di tale coraggio da parte dei cittadini siriani.

 

La passività internazionale attuale è intollerabile. Sicuramente un’operazione militare come quella portata a termine in Libia, senza entrare nel merito della sue caratteristiche e valutazioni, non avrebbe fatto gli interessi delle potenze occidentali. La Siria è poco appetibile sul piano economico, le sue risorse sono scarse e, per di più, negli ultimi anni è diventata importatrice di oro nero per le sue riserve ormai prosciugate. Il potere è mosso da interessi economici. E poi, forse, a quali pro provocare un nemico già sul piede di guerra come Ahmadinejad che minaccia di attaccare gli avversari americani ed europei? L’Iran non starebbe certo a guardare mentre l’Occidente abbatte il suo miglior e unico alleato arabo nell’ottica di ampliare la sua sfera di influenza nello spazio mediorientale.

Certamente la recente notizia diffusa dai media, secondo cui il governo siriano aveva accettato il piano approvato dal Consiglio di Sicurezza, aveva fatto ben sperare, ma la continuazione delle violenze perpetrate negli ultimi giorni hanno disatteso le speranze. Un programma, quello dell’Onu, che sicuramente non soddisfaceva le aspettative del popolo e dell’opposizione siriana, ma che, almeno, avrebbe dovuto garantire la cessazione della repressione. Ma abbiamo davvero tentato tutte le strade possibili?

Dignità, libertà e democrazia non restano che belle parole che si prestano bene ad ogni manipolazione.

 

APRILE 2012

(torna su)