LA SIRIA OLTRE ASSAD
Maria Chiara Rizzo
Fino ad un anno fa era
un Paese sconosciuto a molti. Poi gli eventi lo hanno portato alla
scoperta. Peccato che la conoscenza della Siria e del suo popolo sia
passata attraverso notizie di sangue, violenza e dispotica dittatura.
Ormai è più di un anno che non si arrestano le violenze e il susseguirsi
di dichiarazioni e appelli internazionali che si sono concretizzati in
un nulla di fatto. Così, mentre il bla-bla-bla continua, gli scontri
aumentano e il numero delle vittime sale vertiginosamente.
Bashar Al Assad è al
potere da undici anni e non aveva mai visto mettere in discussione la
sua carica dal popolo siriano. Le misure adottate all’inizio delle
rivolte nell'ottica di evitare sommosse di massa e l'abrogazione della
legge sullo stato d'emergenza, in vigore dal 1963, non hanno funzionato.
Al Assad aveva già previsto le proteste, ma semplicemente non ne
immaginava la portata. Nessuno fino ad un anno fa avrebbe potuto
immaginare che il popolo siriano avrebbe rotto il muro dell’omertà,
sfidando il sadico potere del regime poliziesco di Bashar e il suo
esercito di membri dei servizi segreti. Per prevenire lo scenario
tunisino ed egiziano, nelle settimane prima dello scoppio delle rivolte,
il presidente aveva adottato misure per garantirsi la pace sociale,
quali sussidi alla disoccupazione, diminuzione dei costi dei beni e il
calmieramento dei prezzi di elettricità e medicinali.
Le immagini e le statue
di Bashar e di suo padre Hafez, in ricordo di tutti gli anni di regno
del vecchio presidente, sono presenti in ogni angolo del Paese: davanti
e dentro gli uffici pubblici, in negozi, scuole e persino in forma
adesiva sugli autobus e sulle automobili. Non essendo designato al
potere che, invece, spettava a Basil, suo fratello maggiore, Bashar fu
chiamato a governare il Paese dopo l’incidente che costò la vita a suo
fratello. Il presidente, che non aveva mostrato alcuna inclinazione per
la politica, abbandonò Londra dove studiava oftalmologia e rientrò in
Siria, dove fu mandato all’accademia militare. Diventato presidente a
trentaquattro anni, Assad divenne Capo delle forze armate e del Partito
Baath.
Nel 2007, alle elezioni
per il parlamento e il rinnovo del mandato del presidente per altri
sette anni, il Fronte nazionale progressista (Fnp)
– coalizione di
partiti guidata dal partito Baath al potere
– conquistò senza sorprese
la maggioranza dei 250 seggi in Parlamento, vincendo le elezioni che lo
riconfermarono con il 98% dei voti. Presentatosi al popolo come paladino
della democrazia e trasparenza, dichiarò di voler combattere la
corruzione che dilagava nel suo Paese, ma presto le sue parole si
dimostrarono inattendibili, così come le sue promesse di libertà per i
partiti politici. In poco tempo il presidente iniziò a tessere la sua
rete di relazioni clientelari, affidando il potere nelle mani dei suoi
familiari e amici che esercitano tutt’oggi un controllo capillare su
tutto il territorio nazionale. Il braccio nero di Assad è rappresentato
dai feroci Mukhabarat
– servizi segreti
– un vero e proprio esercito di
controllori, temuti dai civili e dagli stranieri per le maniere poco
docili e i mezzi coercitivi usati contro gli avversari del regime.
Appartenente al gruppo
religioso minoritario degli Alawiti, Assad ha visto di colpo venir meno
i suoi consensi da parte della maggioranza religiosa sunnita. E nel
tentativo di evitare ulteriori rivendicazioni dannose al suo potere, ha
emanato un decreto per garantire la nazionalità a migliaia di curdi che
abitano la zona nord-est della Siria e che da oltre cinquant'anni vivono
nel paese da stranieri. Tale manovra politica verso un'etnia, oggetto di
repressioni sanguinose e deportazioni da parte del regime siriano, si
configura come misura preventiva per evitare richieste di indipendenza.
I curdi rappresentano circa il 15% della popolazione residente in Siria
e Bashar teme spinte indipendentiste, alla luce della loro autonomia nel
nord dell'Iraq. Dopo anni di esclusione dei membri di questa etnia da
opportunità di lavoro nel settore pubblico, in quanto stranieri, il
decreto potrebbe portare al presidente l'avallo di circa 300 mila
cittadini. La Turchia è quella che più ha da temere per la consistente
presenza di una comunità curda nel suo territorio. Infatti, uno
sgretolamento del regime di Assad potrebbe favorire la nascita di
alleanze di movimenti dalle forti spinte secessionistiche, dal momento
che il malcontento dei curdi, divisi dai confini di più stati, continua
a serpeggiare.
Oggi le rivolte si sono
tramutate in guerra civile, caratterizzata anche da una connotazione
confessionale: in un Paese abitato da diverse minoranze quali curdi,
drusi, cristiani e armeni, quella alawita, attualmente al potere, setta
del ramo sciita dell’Islam, deve confrontarsi con una maggioranza
sunnita, estromessa dal potere.
Dall’inizio delle
rivolte Assad ha accusato forze straniere di fomentare il popolo contro
il suo potere attraverso l'infiltrazione di spie, bande armate e gruppi
di salafiti. La tesi più gettonata sarebbe quella della presenza di
oppositori del regime siriano manipolati dall'esterno dal Mossad e
strumentalizzati dai libanesi che a lungo hanno atteso di vendicare
l'omicidio dell'ex primo ministro Rafiq Hariri, imputato alla Siria, e
anni di occupazione militare. Anche gli USA avrebbero un ruolo e uno
scopo, ovvero quello di indebolire le forze anti sioniste. Non da
escludere un coinvolgimento dell'Arabia Saudita, baluardo dell'Islam
sunnita e timorosa di un aumento dell'influenza dell'Iran nell'area,
nonché ostile al regime Assad. Ma la tesi di un complotto portato avanti
dallo stato ebraico e sostenuto dall’America sembra alquanto debole.
Anzi. Le forze dell’opposizione siriana, sia la Sinistra
– che raggruppa
un ventaglio molto ampio di correnti, dai comunisti ai marxisti fino ai
nazionalisti
– sia i Fratelli Musulmani
– confraternita sunnita a favore
di uno stato fondato sulla Sharia,
– non godono di maggiori simpatie da
parte dei sionisti, che, invece, sono sempre stati in grado di trarre
vantaggi dal rapporto di ostilità con il dittatore siriano. Per Israele
sarebbe rischioso avere un regime di stampo democratico ai suoi confini,
in quanto quest’ultimo potrebbe dar voce alla collera della sua
popolazione per le continue angherie e umiliazioni subite, a partire dal
’48, dai “fratelli” palestinesi e contestare la massiccia colonizzazione
delle terre di questi ultimi. Non per ultimo, un nuovo potenziale regime
democratico riaprirebbe il dossier del Golan- avamposto strategico per
il controllo militare del nemico siriano, nonché alture fondamentali per
l’approvvigionamento idrico nell’area- occupato da Israele nel 1967 e da
allora mai più riconsegnato alle autorità siriane. Il malcontento per
l’occupazione del nemico di una zona tanto strategica quanto
fondamentale negli ultimi anni è passato in sordina, ma non è mai
scemato e potrebbe esplodere all’improvviso. Israele non potrebbe mai
tollerare uno stato democratico nel mondo arabo, preferendo avere a che
fare con autocrati che facciano il suo gioco allo scopo di mantenere una
pace controllata e controllabile. Insomma, un nodo gordiano, ma non
finisce qui.
Il fattore Iran è
imprescindibile in tutta questa vicenda. Un nuovo potere, trascurandone
per ora le caratteristiche, potrebbe stringere alleanze con la
Repubblica Islamica, portando alla creazione di un apparato sciaraitico
e di gran lunga più aggressivo nei confronti dello stato sionista.
Ovviamente ciò non significa che all’Iran farebbe comodo la caduta di
Assad. Dopo anni di divergenze, i due Stati hanno stretto un’alleanza
vantaggiosa per entrambi: per la Siria l’Iran era ed è il miglior
alleato contro Israele. In passato ha rappresentato per la Siria un
forte sostegno durante la sua occupazione in Libano, un contrappeso alla
potenza crescente dell’Iraq di Saddam Hussein e un fattore di pressione
nei confronti dei Paesi del Golfo. Invece, per la Repubblica Islamica la
Siria costituisce la “voce araba” che impedisce il totale isolamento
iraniano tanto regionale quanto internazionale e
garantisce il legame con Hezbollah, partito sciita libanese e spina nel
fianco di Israele.
L’opposizione e le
esitazioni dell’Onu ad intraprendere misure contro il governo baathista,
creando un certo impasse politico nell’organizzazione internazionale,
sono state esercitate da Russia e Cina, potenze alleate di Assad, che
trovano nel regime attuale la via di accesso ai mercati del Medio
Oriente e l’unico sbocco sul Mediterraneo. La Russia mantiene la sua
unica base navale nel Mare Nostrum nel porto di Tartus e, in cambio,
continua a fornire supporto e armi all’esercito del presidente.
Certo è che davanti ai
nostri occhi si sta consumando una carneficina. La gente si è unita in
un unico coro che grida democrazia e libertà, sentimenti covati e
repressi in anni e anni di dura dittatura in cui non ha mai smesso di
anelare la liberazione da un regime tanto feroce. È pur vero che il
clima che si respirava negli anni scorsi a Damasco non avrebbe mai fatto
presagire una presa di coscienza e un atto di tale coraggio da parte dei
cittadini siriani.
La passività
internazionale attuale è intollerabile. Sicuramente un’operazione
militare come quella portata a termine in Libia, senza entrare nel
merito della sue caratteristiche e valutazioni, non avrebbe fatto gli
interessi delle potenze occidentali. La Siria è poco appetibile sul
piano economico, le sue risorse sono scarse e, per di più, negli ultimi
anni è diventata importatrice di oro nero per le sue riserve ormai
prosciugate. Il potere è mosso da interessi economici. E poi, forse, a
quali pro provocare un nemico già sul piede di guerra come Ahmadinejad
che minaccia di attaccare gli avversari americani ed europei? L’Iran non
starebbe certo a guardare mentre l’Occidente abbatte il suo miglior e
unico alleato arabo nell’ottica di ampliare la sua sfera di influenza
nello spazio mediorientale.
Certamente la recente
notizia diffusa dai media, secondo cui il governo siriano aveva
accettato il piano approvato dal Consiglio di Sicurezza, aveva fatto ben
sperare, ma la continuazione delle violenze perpetrate negli ultimi
giorni hanno disatteso le speranze. Un programma, quello dell’Onu, che
sicuramente non soddisfaceva le aspettative del popolo e
dell’opposizione siriana, ma che, almeno, avrebbe dovuto garantire la
cessazione della repressione. Ma abbiamo davvero tentato tutte le strade
possibili?
Dignità, libertà e
democrazia non restano che belle parole che si prestano bene ad ogni
manipolazione.
APRILE 2012