Esperienza e rappresentazione
RAPPRESENTAZIONE
Giulio Trapanese
Maggio 2011, Scuola
critica, Biblioteca Brau, Napoli
Questa costituisce
una trascrizione rivisitata della seconda di tre parti del seminario
«Esperienza e rappresentazione nel mondo senza tempo» tenutasi nel
Maggio 2011 per il progetto Scuola critica.
Continuiamo, dunque, con la seconda
delle questioni che sono al centro della nostra discussione: la
rappresentazione. Partirò dalla fine di ciò che mi
ero preparato a dirvi, in modo da alleggerire di un po’ la
presentazione.
Cristo o la rivoluzione
d’Ottobre oggi
L’altro giorno, alla riunione periodica della rivista Città Future, parlavamo di come sia possibile pensare una rivoluzione oggi. Devo ammettere, d’altra parte, che questa questione è complicata fin nelle sue premesse: già non è semplice comprendere quali siano stati gli eventi rivoluzionari nel corso della nostra storia. Se assumiamo un’ottica storica, tuttavia, possiamo individuare alcuni autentici rivolgimenti che si sono presentati nella storia umana e soffermarcisi su. Tra questi, ad esempio, direi che spicca la nascita e la diffusione della religione cristiana, prima in Europa, e poi nel mondo. Vi invito, infatti, a riflettere intorno al mondo prima e dopo la venuta di Cristo. La comparsa della figura di Cristo, e la diffusione del suo messaggio hanno segnato per la nostra società un cambiamento decisivo, una trasformazione sostanziale in verità per quasi tutta la civiltà umana. Possiamo dire che il cristianesimo ha costituito un vero e proprio spartiacque nella storia degli ultimi millenni. Un altro momento storico a noi più vicino, invece, che potremmo assumere come evento fondamentale è la rivoluzione d’Ottobre, con i suoi importanti effetti sulla politica del Novecento e i suoi esiti che sono stati variamente interpretati. La rivoluzione d’Ottobre dalla sua è stato probabilmente l’evento più incisivo della storia di tutto il secolo del Novecento.
Ora quello che vorrei
mettere in luce è come questi due tipi di fenomeni, come tutti i
fenomeni storici del nostro passato, si sono presentati anzitutto come
fenomeni locali, per poi solo successivamente assumere una portata e un
valore globale. Cristo ad esempio, nasce nella regione di Palestina, e
lì vi trascorre i suoi primi trent’anni[1].
La rivoluzione d’Ottobre è un processo che sedimenta nella particolare
realtà della Russia e lo stesso fenomeno del bolscevismo è un fenomeno
caratteristico del mondo russo dei primi due decenni del secolo
ventesimo. Questo tipo di processi si sviluppa, dunque, in un primo
tempo in modo silenzioso e senza un eccessivo clamore: quanti sapevano
infatti di Cristo o di Lenin prima della loro morte? La diffusione nel
mondo del senso di questi processi ha comportato dunque, a sua volta, un
processo temporale e l’impegno e l’attività di un gran numero di persone
che vi si sono dedicate; possiamo, in altre parole, dire che ha
richiesto un vero e proprio movimento culturale. In base ad esso la
rivoluzione russa, ad esempio, scoppiata nel Novembre del 1917, nei mesi
e negli anni successivi fu in grado di diffondere la propria influenza
in uno scenario molto più ampio; Cristo, d’altra parte, morì a trentatre
anni ma è dopo la sua morte, e grazie all’opera dei suoi discepoli, che
divenne l’emblema di una nuova religione e una figura esemplare.
Noi in questo momento
potremmo fare lo sforzo immaginativo di pensare ad un evento storico che
possa avere nel nostro presente una prorompenza culturale paragonabile
per estensione e radicalità, ad esempio, al fenomeno del cristianesimo
(ci vuole un grande sforzo!). Ora, se ci siete riusciti, pensate al modo
in cui la spettacolarizzazione totale della vita[2]
determinerebbe però per tutti una sorta di fermo immagine della verità;
riflettete al mondo in cui essa imprigionerebbe l’evento accaduto in una
forma chiusa, che diverrebbe necessariamente l’unica valida, al di là di
tutte le altre e possibili rappresentazioni sull’evento.
Ora il punto saliente è
che nei processi storici noi non siamo mai di fronte a fenomeni statici,
che rimangono identici a se stessi col trascorrere del tempo: la storia,
infatti, come continuo trapassare, è, al contempo, un continuo ritornare
su di sé e sui propri eventi, un ritornare che ha l’effetto di esaltarne
alcuni passaggi, o di portarne altri all’oblio, con la conseguenza di
generare desideri di emulazione o giudizi di condanna. Se torniamo al
secondo dei nostri esempi, potremmo chiederci allora: quali effetti
generò in Europa e nel mondo la Rivoluzione russa? Senz’altro reazioni,
innovazioni, trasformazioni: conseguenze queste, tuttavia, rese
possibili storicamente comunque da certe forme di rapporti sociali e da
particolari istanze soggettive (i partiti comunisti nei singoli paesi,
ad esempio, o i partiti liberali o fascisti che erano avversi al
progetto del socialismo). Dall’altro lato, il cristianesimo, nato
storicamente con la figura di Cristo, se è riuscito a diffondersi e
imporsi, è stato anche per via della mediazione dell’aura mitico –
simbolica che lo avvolse sia agli occhi dei suoi contemporanei che a
quelli di chi venne nei secoli dopo: la figura della sofferenza di un
uomo – Dio, morto per avvicinare Dio agli uomini. Il simbolismo si è
caratterizzato, dunque, come uno dei più grandi strumenti di mediazione,
e non certo solo in campo religioso.
Bisognerà dire che noi,
dalla nostra prospettiva, abbiamo perso quasi ogni predisposizione a
sentire il fascino di questa aura mitico – simbolica. Negli ultimi
secoli della nostra storia infatti abbiamo ci siamo preclusi questa
possibilità, e lo abbiamo fatto tanto dal punto di vista antropologico
che da quello culturale. Oggi, alla fine di questo processo di
disincanto durato diversi secoli, nessun nuovo Cristo potrebbe incantare
i popoli, come fece Gesù: il sistema della conoscenza umana dei fatti
della società e della storia si è chiaramente andato trasformando, e
trasformando in modo essenziale. Oggi in particolare, esso si fonda sul
gioco d’incastro delle istantanee rappresentazioni mediatiche degli
eventi che accadono nel mondo, ovvero sulla loro immediata riproduzione
in immagini, e la loro fissazione in significati universali. La venuta
di un secondo Cristo, in ipotesi, sarebbe accolta oggi dallo sguardo
razionale e da quella ricerca di una verità determinata dai fatti (“le
cose sono andate così”), desiderosa di stabilire con un colpo unico
giudizi definitivi sulle cose. Un nuovo Cristo sarebbe, così,
immediatamente fotografato, ripreso, sarebbe un personaggio noto a tutti
ancor prima di morire, e dunque non potrebbe divenire più una figura con
un valore universale d’esempio. Lo stesso sacrificio della sua morte non
sarebbe possibile, perché egli si troverebbe ad essere immortalato già
prima, agli occhi di tutti, e nel medesimo istante, per via della
diffusione su scala globale di immagini e informazioni. Non ci sarebbero
i presupposti per la creazione di sette né per un autentico conflitto di
interpretazioni, i vangeli non sarebbero tanti (come tanti lo sono
stati, molto più di quattro) ma ve ne sarebbe un’unica versione. Ci
sarebbe uno spettacolo unico, e ci sarebbe, quindi, un unico spettatore
di massa. Nella rappresentazione unificata (“a reti unificate”, come si
dice) troviamo, infatti, già contenuta implicitamente la radice
dell’annientamento di ogni mediazione, di ogni lavoro d’interpretazione,
di ogni tentativo di attualizzazione. L’evento viene ridotto ad una
forma di oggettività astratta e la sua rappresentazione è resa immune da
qualunque variazione sul tema dominante.
D’altra parte, se il
Cristianesimo ha potuto diffondersi nei primi secoli del nostro primo
millennio, e successivamente continuare a farlo fino alla nostra storia
contemporanea, è stato sulla base della traduzione e
dell’interpretazione continua del messaggio del suo fondatore. Un
tramandare che è stato un tradire (il
tradere latino così vicino al
tradire), ma che lo sarebbe stato in ogni caso, come sempre è avvenuto
per ogni processo storico. Lo studio della storia della Chiesa e della
progressiva formazione del dogmatismo cristiano potrebbe dimostrarci
facilmente allora come tutti i grandi fenomeni culturali si siano andati
formando attraverso scelte e mediazioni, incontri casuali, perdite e
ritrovamenti. Ogni processo di questo tipo, possiamo dire, sia avvenuto
in virtù di travagliate selezioni culturali, in virtù delle quali, tra
l’altro, come sempre, sono risultati vinti e vincitori. In ogni caso,
niente a che vedere con un fenomeno di carattere globale quale siamo
abituati a considerarlo oggi. Il processo è stato infatti lungo,
travagliato e l’incontro fra nuove e vecchie religioni, interpretazioni
scritturali, processi di conversione, è avvenuto in un arco di tempo
sufficiente alla creazione consapevole di una forma nuova di ideologia e
di pratica religiosa.
Rappresentazione ed
esperienza
Adesso, dunque entriamo
più nel merito del tema della rappresentazione. Seguiremo l’indicazione
per cui, come dicevamo, esperienza e tempo non sono affatto due termini
che possono essere disgiunti l’uno dall’altro, dal momento che
l’esperienza si trasforma a seconda del modo in cui noi la viviamo, e a
seconda del tempo in cui noi la compiamo. Non si dà, infatti, mai una
medesima esperienza in tempi diversi. A proposito di questo cambiamento
in funzione della durata[3],
vi invito a dare un’occhiata allo schema 2 (presente qui alla fine del
testo)[4].
In esso si rappresenta in modo semplice il modo in cui si forma una
rappresentazione nella nostra mente, il modo, cioè, in cui si presenta
alla nostra coscienza e in essa si mantiene: nello schema si mette a
fuoco in particolare se questa rappresentazione viene assunta
sic et simpliciter dall’esterno o se arriva a formarsi gradualmente
dall’interno[5].
Quello che vorrei sostenere, insomma, è che noi normalmente traiamo la
maggior parte delle nostre rappresentazioni dalla nostra esperienza di
vita. Tuttavia, nel momento in cui le rappresentazioni si vanno formando
al di là della mia esperienza concreta e al di là delle relazioni con
gli altri, vale a dire sulla base di un modello di verità generale che
supera e annulla la possibilità della formazione di vari punti di vista,
il mio intero rapporto con il mondo andrà a definirsi in modo diverso.
Credo possiamo allora
considerare, a questo riguardo, due aspetti. Il primo ha a che fare con
il carattere universale del messaggio e, quindi, propriamente della
rappresentazione. Si è andata sviluppando, negli ultimi decenni,
l’abitudine ad esprimersi con molta leggerezza su quanto accade in giro
per il mondo, come se tutto ci riguardasse da vicino (il che in un certo
senso è anche vero), ma come ciascuno fosse capace di intendersi di
tutto (questo vale per gli studenti universitari di materie scientifiche
in particolare!). L’accelerazione dei tempi nella diffusione di
informazioni ha reso così possibile questo atteggiamento, che è senza
dubbio in continua e incontrollata crescita.
A questo riguardo,
nello schema 2 che vi riporto, ho tradotto l’idea per la quale alla
riduzione tendenziale del tempo di trasmissione di un’informazione e di
formazione, quindi, nel soggetto della relativa rappresentazione, tale
rappresentazione cadrà, con maggiore probabilità, nel campo del dominio.
Con dominio intendo anzitutto, il campo del “sentito dire” tipico
dell’informazione mediatica, che è oggettivata e composta
essenzialmente da fatti. Entro questo schema (che ovviamente è e
rimane un semplice schema e non di più) al modello di rappresentazione
che è espressione di un’esperienza e che partecipa della formazione del
senso di un individuo, si oppone una rapidissima rappresentazione –
informazione la quale, essendo per lo più non riflessa, cioè non
elaborata dal soggetto, induce un atteggiamento difensivo nella
personalità degli individui. Credo sia essa alla base anche della
formazione della rigida superficie caratteriale dei giovani d’oggi, la
quale se apparentemente mira a difendere la persona, in realtà, ne
distrugge la fragile interiorità.
Il secondo aspetto
riguarda, invece, la possibilità di recuperare un rapporto più intimo
con le nostre rappresentazioni e le nostre conoscenze del mondo. Con
questa possibilità identifico fondamentalmente, come scrisse Wilfred Bion,
quella capacità di pensare e di apprendere a partire dalla propria
esperienza e non da concetti astratti, il che ci porterebbe ad essere
più propensi a considerare le rappresentazioni che sorgono dalla nostra
vita come qualcosa di nostro, e su cui sia possibile fondare un modo di
vivere, uno stile d’essere, in ultima analisi, un valore. In questa
seconda ottica il genere di rappresentazioni che consideriamo è diverso
dal primo di cui discutevamo: le rappresentazioni hanno in esso infatti
un rapporto molto più intimo e personale con la nostra esperienza
individuale.
Vorrei fare un esempio.
Se andassi, ad esempio, in India, per due anni, e al ritorno scrivessi
un libro, con esso offrirei una certa rappresentazione, (magari falsa)
ma una rappresentazione in ogni modo figlia di un’esperienza del mondo.
D’altra parte, invece, nella società in cui si formano rappresentazioni
a scarso contenuto di esperienza e alto contenuto di astrattezza (ad
esempio, mi faccio un’opinione sull’India guardando documentari in
televisione sull’India e facendomi raccontare da altri) accade che alla
mia coscienza sopraggiunga (in tempo brevissimo) un’immagine
dall’esterno in grado di affermarsi sulla mia percezione personale del
mondo. In questo caso sarà evidente che il documentario sull’India non
riguarderà l’esperienza autentica del mio corpo e del mio sentire. Sarà
piuttosto l’esperienza di un’immagine, un’esperienza astratta.
Mi sentirei di dire,
dunque, che l’esperienza contemporanea, stia andando,
traducendosi troppo spesso purtroppo in quella dell’osservazione a
distanza, lasciando, al contempo, che la posizione di chi osserva, a sua
volta, si riduca a quella di un passivo spettatore. Spettatore di un
mondo di cui non si partecipa più nei fatti e dal quale, dunque, si
finisce coll’essere dominati, al modo in cui lo si è dalle immagini
(quelle irrazionali che generano paura nella nostra mente) che non si
conoscono per davvero, e che si sono venute a creare in modo autonomo
prevalentemente sotto l’effetto di suggestioni. In base a questo schema
allora vorrei mostrare come il piano possibile del dominio di
rappresentazioni da parte di un sistema totalizzante vada
tendenzialmente aumentando con la velocizzazione (che è nei fatti una
moltiplicazione, in astratto) della nostra esperienza. Concluderei
quindi che le rappresentazioni mentali hanno una genesi oggi
sostanzialmente differente da quelle del passato. Il modo in cui esse si
formano è diverso. Non vorrei terminare con una conclusione manichea: mi
sentirei di dire, tuttavia, che questa è una tendenza affermata, e una
linea di sviluppo ben radicatasi nella nostra società a partire almeno
dagli ultimi decenni.
All’interno della
rivoluzione informatica di oggi, in particolare, ultimo tassello di quel
particolare fenomeno storico che è il processo di razionalizzazione
della vita alla base della nascita del capitalismo, si può infatti
registrare un certo scarto, un cambiamento dalle rilevanti conseguenze
antropologiche, tra gli effetti delle tecnologie di ieri e quelle di
oggi rispetto al modo in cui il soggetto si forma un’immagine di sé.
Oggi, infatti, l’esperienza è negata da un ingente, e in continuo
aumento, numero di rappresentazioni e informazioni, a loro volta frutto
di una complessa struttura di dominazione. Alla possibilità di
un’esperienza sensibile, questa logica di dominio sostituisce un quadro
di senso ben definito e fondato su un grande numero di prove e
controprove di tipo apparentemente razionale. Nello sguardo sulla vita,
tuttavia, la verità è che si esprime sempre di più un punto di vista
asettico ed universale, un punto di vista per il quale nel nostro punto
di vista sul mondo già si esprime la sovranità stessa del dominio su di
noi. Questo fenomeno è molto più affermato oggi che nei secoli e nei
decenni passati. Il punto storico raggiunto, infatti, rappresenta lo
sviluppo ultimo di quel fenomeno che già negli anni quaranta ci veniva
descritto da un pensatore come Adorno, alle prese con l’amara
osservazione degli effetti del capitalismo tecnologico sulla vita
ordinaria degli individui.
Tra le cause
del deperimento dell’esperienza c’è, non ultimo, il fatto che le cose,
sottoposte alla legge della loro pura funzionalità, assumono una forma
che riduce il contatto con esse alla pura manipolazione, senza tollerare
quel surplus che sopravvive come nocciolo dell’esperienza perché non è
consumato dall’istante dell’azione[6]
Credo si possano
distinguere a questo proposito due questioni: da un lato il piano
specifico delle rappresentazioni nell’odierna comunicazione di massa;
dall’altro il problema della tecnica in sé, che include un discorso più
generale sul destino del rapporto dell’uomo con il fenomeno tecnologico.
Pur non esaminando nello specifico questi due temi, credo si possa
sostenere con decisione che il sistema capitalistico di oggi prosperi
sulla base di un consenso che viene ricercato in modo invasivo e
continuo. Lo spazio qui disegnato alla lavagna [si riferisce alla
lavagna dell’aula del seminario, indicante la totalità dello spazio
sociale] costituisce uno spazio progressivamente eroso dal fuoco
centrale (il modello capitalistico di consumo). Il centro di oggi, come
diceva Guy Debord ne La società dello spettacolo (1967), è un centro che è più potente e
radicato di quello di prima. Il sistema si è andato rafforzando. Ha
invaso ciò che prima non gli apparteneva, ha prevalso, dunque, quasi
completamente sul non capitalistico. Tuttavia alla forza di penetrazione
nella periferia, si è andata affiancando la fragilità di una condizione
che prevede il rinnovamento continuo del consenso, e, dunque, un
controllo capillare su tutti i gangli della società. Solo con il
controllo permanente di queste periferie, allora, il sistema
capitalistico può oggi sussistere, dal momento che di suo, infatti, esso
sembra non possedere una chiara legittimità nella società[7].
Il sistema economico di oggi assume, direi, le sembianze trascendenti
tipiche di entità del passato: esso deve trovare ogni giorno la sua
conferma, ha bisogno di auto legittimarsi nelle coscienze degli
individui, è un fenomeno di tipo nuovo, ma non mistico, estremamente
concreto, invece. Al posto delle vecchie preghiere, il sistema può
riprodurre il proprio dominio attraverso atti di reiterato consumo, da
intendersi come prove di fedeltà allo status esistente. Il centro di
oggi potrà esistere soltanto allora nella misura in cui creerà e
rinnoverà forme di vita, modi di essere, e nella misura in cui questa
macchina riesca a non arrestarsi mai, e sia attiva di giorno, di notte,
sempre.
Vincenzo:
«Vorrei porre una domanda: in che senso il sistema capitalistico di oggi
ha bisogno di produrre delle forme di vita? E che si intende per forma
di vita?»
Credo che rispetto alla
questione delle forme di vita possiamo riferirci a quanto sostenuto da
G. Agamben[8],
interpretando questa espressione “forma di vita” in una duplice maniera,
a seconda se attribuiamo al genitivo un senso oggettivo o soggettivo. Se
consideriamo il genitivo come oggettivo, la vita sarà allora formata a
partire da un modello che le proviene dall’esterno e rispetto a cui essa
è sostanzialmente passiva. Nel caso opposto del genitivo soggettivo, è
la vita stessa che contribuisce a creare la propria forma, ad
autodeterminarsi. Sulla base di questa precisazione, possiamo
individuare proprio nel labile confine fra la vita formata e la vita che
forma il fronte più acceso di lotta fra l’individuo con la sua
possibilità di esprimersi nella vita e l’imposizione di modelli esterni
da parte del sistema dominante. Per quanto io personalmente non creda
nella teoria di una costruzione totale della identità individuale ai
nostri giorni, né, quindi, creda nell’esistenza dei sistemi, per
capirci, alla 1984 di George Orwell, in grado di sopprimere
integralmente l’orizzonte della creatività umana, credo tuttavia sia
necessario proseguire, e con attenzione, su questa strada per farsi
un’idea delle trasformazioni epocali dell’antropologia del nostro tempo.
Dispiace essere apocalittici, ma se con apocalissi intendiamo un momento
di forte passaggio nella storia e nella coscienza degli individui,
allora bisogna pur esserlo in questi anni.
D’altra parte, come si
diceva, se il sistema oggi non riesce ad affermarsi imponendo i propri
stili di vita e di comportamento, esso non può sussistere. Senza creare
ed organizzare forme di vita, il capitale, nella sua fase attuale, non
riesce più ad auto-rigenerarsi. Se non produce, ad esempio, immagini di
jeans e di maglie, oltre che jeans e maglie, il sistema oggi perde la
propria base di sussistenza. In questo modo possiamo vedere come la
produzione industriale, che è sorta nella storia come una produzione
meccanizzata di oggetti volti al soddisfacimento di bisogni, in buona
sostanza, primari, si sia andata trasformandosi nella produzione di
merci d’altro tipo, che vanno ben al di là delle necessità più
stringenti. La macchina del capitale oltre che merci produce così
personalità di individui, individui necessari alla perpetuazione del
proprio meccanismo, individui che possano comprare e affezionarsi alle
merci che consumano.
Il totalitarismo del
XX
secolo e la nuova rappresentazione del potere
Veniamo ora al punto
specifico che vorrei trattare e che riguarda la soppressione
dell’esperienza a vantaggio della rappresentazione. Facciamo un esempio
a partire dalla storia del Novecento. Si dice comunemente che in
quest’ultimo secolo, la storia avrebbe conosciuto diverse forme di
sistemi totalitari. Su tutte il fascismo, il nazismo, lo stalinismo.
Ciascuno di questi sistemi avrebbe incarnato a suo modo una
rappresentazione particolare del potere, ma tutti avrebbero comunque
saputo ben adoperare i nuovi strumenti di comunicazione di massa, che lo
sviluppo tecnologico metteva a disposizione. Hitler, Stalin, Mussolini
incarnavano ciascuno una rappresentazione chiara ed evidente del
comando, fondando la propria legittimità storica su alcuni elementi
ideologici e alcuni valori universali che interessavano una larga fascia
della popolazione. L’esempio della Russia ci permette, ad esempio, di
constatare come con l’affermazione del dominio staliniano, abbiamo avuto
anche la riproposizione dei tradizionali miti della cultura russa, il
ritorno al concetto di patria, il recupero del valore della famiglia; in
senso politico più generale, le masse sono state coinvolte in ideali di
competizione nazionale con le altre nazioni, rendendo il comunismo una
bandiera e un ideale generale. Il nazismo, dalla sua, ci offrirebbe
elementi ancora più significativi per poter riconoscere i punti
ideologici necessari al regime per tenere unita la società e prevenire
il rischio di conflitti interni.
Dunque qual è il punto
che ci interessa mettere in luce? Il punto è che noi non abbiamo più
nelle società occidentali questo tipo di totalitarismi da almeno
sessanta anni. Non abbiamo più queste forme di società che Debord, negli
anni ottanta definiva attraverso la categoria dello spettacolare
concentrato, vale a dire la forma dello spettacolo che si concentra in
una sola persona, e in un centro ideologico definito. Uno spettacolo
cristallizzato in una forma in cui la massa si identifica, in cui può
credere, e che può arrivare a considerare come proprio valore. Questo
tipo di società non esiste più. La novità storica è costituita piuttosto
da uno spettacolare di natura diversa, lo spettacolare integrato,
diffuso capillarmente nel tessuto sociale e capace di organizzarsi su
più livelli. Questo sistema, una volta affermatosi, è in grado di
entrare nel quotidiano in modo più incisivo, e, una volta penetrato in
esso, è in grado di fare di questa dimensione quotidiana la sua
principale leva di forza. L’immagine del sistema economico – finanziario
attuale, infatti, si afferma proprio perché fa del quotidiano il proprio
centro, l’origine della propria forza.
Dal momento che viviamo
in Italia, in cui abbiamo Berlusconi [il seminario si è tenuto nel
Maggio del 2011], potremmo avere l’impressione che il potere politico
sia ben riconoscibile, così come poteva esserlo ai tempi di Mussolini.
Potremmo così avere l’impressione che Berlusconi esprima la visibilità
del potere per eccellenza, il potere spettacolarizzato per antonomasia.
Ma questo è vero solo per un’analisi superficiale. Berlusconi, infatti,
altro non esprime che il quotidiano spettacolarizzato, e lo
spettacolare, a sua volta, andatosi diffondendosi su tutta la sfera
della vita.
Vorrei dire, cercando
di sintetizzare, che oggi il potere economico – finanziario non si basa
più su di una società regolata da modelli simbolici e normativi, una
società, cioè, in cui tali modelli costituiscono un ideale di
riferimento per la personalità, rispetto a cui la soggettività organizza
se stessa, pure non lasciandosene determinare completamente dall’esterno[9].
Nello spettacolare, di primo tipo, del fascismo, il modello simbolico
che si impone è un modello senza dubbio introiettabile, ma che tuttavia
rimane un modello, un ideale, non già realtà, per la personalità; non si
giustappone, cioè, in modo veloce, e senza lasciar scampo, sulla
personalità degli individui. All’epoca del capitalismo della prima metà
del ventesimo secolo, tra il modello sociale dominante e la “pelle”
dell’individuo rimaneva comunque uno spazio, uno spazio che rendeva
ancora possibile la costruzione d’una particolare traiettoria
esistenziale per l’individuo. La fine di questa dimensione, cioè, la
fine di questa relazione fra personalità individuale e sistema simbolico
dominante, è un fenomeno decisivo e può essere ricompreso all’interno
del discorso del declino del simbolico nelle nostre società. Qual è
infatti l’importanza del simbolico, e perché se ne deve lamentare tanto
l’assenza oggi? Il punto è che il piano del simbolico garantisce che la
costruzione dell’identità possa avvenire all’interno di un contesto e di
una cultura, perché esso stesso si fonda su di una cultura; tuttavia
proprio l’esistenza di quest’ultima permette che l’individuo possa non
omologarsi completamente al modello che all’interno di un quadro
culturale risulta dominante. Tale punto dovrà continuare ad essere
approfondito, perché è un tema chiave. Lo affronteremo anche domani.
A questo proposito
domani faremo un piccolo esperimento: attraverso il confronto con delle
immagini, in particolare con la proiezione di video di Mussolini e di
alcuni suoi discorsi. Possiamo anticipare che ci troveremo di fronte al
fatto che tra comportamento e i suoi gesti, conformi alla sua funzione
di Dux (che a noi adesso possono sembrare anche caricaturali, ma non lo
sono) e il piano dell’espressione corporea non si dà una completa
sovrapposizione. Al nostro sguardo, riosservando i suoi comizi,
Mussolini sembrerà una sorta di attore. Le nostre orecchie e i nostri
occhi non sono più abituate a percepire come naturale la distanza fra il
simbolico e il reale, ed è per questa ragione che un tipo umano
ideologico a noi sembra essenzialmente un personaggio finto, vale a
dire, un attore. Il nostro Berlusconi, che pure vedremo in video,
d’altra parte ci apparirà come una persona normale; questo senz’altro
perché noi siamo suoi contemporanei, ma anche credo perché avvertiamo
che potrebbe trattarsi di una persona incontrata per la strada. Il suo
modo di fare, le sue battute, la sua leggerezza nel rapporto con il
pubblico potranno effettivamente portarci a pensare che sia uno di noi,
una persona come le altre, prestata per il momento alla politica.
Mussolini, evidentemente, invece, incarnava un’ altra modalità di affermazione del potere. Il potere del fascismo si esprimeva ancora su di un piano strettamente rappresentativo e su di una forma di rappresentazione che si manifestava separata dall’immediata concretezza della vita ed era sicuramente più estranea ad essa di quanto non lo sia diventata oggi. Il Berlusconi di oggi che parla in televisione, o le giovani persone che vedremo domani rispondere a delle interviste vivono ormai lo spettacolo già dal di dentro di sé e della loro percezione della vita; lo si osserverà facilmente dal modo in cui questi si esprimono. La telecamera per loro non è più uno strumento, ma una modalità d’esistenza. Nel momento in cui parlano esse si vedono già in quel mondo, perché si prefigurano già la possibile pubblicazione di ciò che diranno o che faranno una volta inquadrati. Lo spettacolo è stato nella loro, come per la nostra, formazione, infatti, un’esperienza quotidiana del tutto ordinaria e naturale; lo spettacolo, principalmente attraverso la televisione, è divenuto per loro esso stesso un bisogno naturalizzato. Il risultato è che tutto l’odierno quotidiano è profondamente intriso di spettacolarità[10].
Se dunque alla base di
tutto ciò che stiamo dicendo c’è il prevalere del piano della
rappresentazione mentale su quello dell’esperienza, dovremo pure
chiederci se questo fenomeno non sia già presente nella nostra società
da molto tempo, e quali siano stati i passaggi storici in cui questo è
potuto avvenire. D’altra parte, esperienza e rappresentazione sono due
termini generici ed ambigui, che possono essere interpretati in modi
assolutamente differenti. L’unica possibilità di non incorrere in troppi
fraintendimenti sarà condurre comunque un’analisi storica di quello che
stiamo dicendo.
Rappresentazione e vita
Scegliamo allora una
data approssimativa che possa essere significativa rispetto al nostro
discorso. Prendiamo l’epoca intorno al 1850. Di questo periodo possiamo
considerare il livello di sviluppo delle forze produttive, così come il
tipo di vita che mediamente si conduceva: allora essa consisteva, nei
fatti, soprattutto, nel lavorare, e nel mangiare, bere, vivere, fare
l’amore, vale a dire in quelle poche cose essenziali, per le quali il
tempo, che oggi intendiamo come tempo libero, era infinitamente poco
(possiamo considerare infatti una media di lavoro di 10/12 ore).
Bisognerà allora
dedurne che con l’aumento esponenziale delle forse produttive
dell’ultimo secolo, e l’aumento di disponibilità del tempo libero, si è
andata determinando la possibilità che la vita non sia solo vita, ma che
sia, sempre più, anche la rappresentazione di se stessa. Il problema è
costituito dal fatto che questo raddoppiamento della vita, non ha
portato ad un suo potenziamento, ma, chiaramente, al suo restringimento.
Nell’esperienza della vita non vale una logica lineare. Ecco vorrei che
questo punto costituisse il fulcro del nostro discorso. Se osserviamo,
infatti, il primo schema che vi ho proposto[11],
possiamo constatare come attraverso lo sviluppo delle forze produttive
la vita di oggi abbia la possibilità e il tempo non solo di soddisfare
le esigenze che, in parte, prima già soddisfaceva, ma anche quella di
auto - rappresentarsi. Oggi, ad esempio, si ha il tempo di fare e
immediatamente anche di rappresentare ciò che si fa (si pensi al caso di
facebook in cui si scrive ciò che si fa, ciò che si pensa in un certo
momento). Riferendoci ancora alla metà del diciannovesimo secolo, si può
dire che allora si aveva a malapena la possibilità di soddisfare le
proprie esigenze, e non si avvertiva il bisogno di una continua
espressione all’esterno del proprio sentire e del proprio essere. Oggi,
d’altra parte, il piano della rappresentazione della vita, paragonato a
quello della vita in sé ha assunto un peso incredibile, si è
sovradimensionato. La vita animale dell’uomo è continuamente annullata
(annullata, non superata) in una fissazione del suo essere in sterili
immagini mentali, che non guidano la sua azione ma semplicemente la
classificano, e non le danno senso, semplicemente, al massimo, un
significato[12].
Onnipresenza della
pubblicità
In sintesi, dunque,
potremo dire che il dominio della rappresentazione costituisca l’effetto
distorto del processo di liberazione di tempo, quale è andato di pari
passo con lo sviluppo produttivo[13].
Oggi infatti la rappresentazione ha un potere nella nostra società su
tutti i livelli. Pensiamo all’investimento del denaro del capitale: il
sistema capitalistico odierno spende metà dei propri soldi per
rappresentarsi in pubblicità e conquistare nuovi spazi di mercato,
costruendo, in questo modo, veri e propri modelli di tipi umani.
L’irrazionalità dell’odierno capitalismo potrebbe essere sintetizzata
tutta nella seguente annotazione. Se si spende oggi una ricchezza
quantificabile in x per la produzione di merci necessarie ai bisogni
materiali, se ne spende, invece, un’altra, y, senz’altro maggiore per
costruire, influenzare, e diffondere altri bisogni che sono
assolutamente non necessari e che servono unicamente alla riproduzione
del capitale e del suo profitto. La pubblicità, dunque, vero e proprio
emblema della società della seconda metà del secolo
XX, è l’elemento in
cui è possibile riconoscere tutta la contraddittorietà del modello
capitalistico odierno. Il sistema attuale ha un carattere antisociale,
così come antisociale è la pubblicità che esso diffonde. La pubblicità è
dunque il frutto di un lavoro che non ha più alcuna ricaduta positiva
sull’uomo, il suo senso è solo quello di tenere insieme un sistema
complesso, pervasivo e dunque anche fragile, che ha bisogno di una
continua alimentazione, e che persegue l’obiettivo della sua sussistenza
sulla testa delle vite della maggioranza degli individui.
I nostri bisogni,
dunque, non possono essere interpretati come quelli propagandati dalla
pubblicità la quale, infatti, ha l’unico scopo di determinare una certa
tendenza di consumi (il più delle volte riuscendoci[14]).
I bisogni che riguardano l’uomo sono, piuttosto, quelli di utilizzare
degli oggetti per soddisfare e per prendersi cura della propria
animalità e, quindi, della propria spiritualità. La pubblicità ha il
proprio senso, dunque, soltanto dal punto di vista dello sviluppo
capitalistico. Non riguarda affatto i bisogni degli individui. Non ha
senso dal punto di vista di un bisogno reale, umano.
In questo quadro,
dunque, possiamo arguire come il capitale, concentrato come è oggi in
pochissime mani, sia in grado con qualche semplice mossa di determinare
e trasformare il destino di interi popoli e nazioni. Dall’altra parte,
invece, gli individui che, lavorando e consumando, sono la base reale
del processo di accumulazione avvertono dalla loro una grande impotenza
rispetto al loro agire nel mondo. Non si rendono conto di come sia
possibile cambiare questa macchina così complessa che li sovrasta, che
ne determina i movimenti e li obbliga a rinunciare ai loro desideri; la
loro stessa vita è divenuta loro troppo complessa, perché completamente
soggiogata a rapporti esteriori.
Il quadro così
delineato ci aiuta, allora, a dare risposta a quella domanda, che pochi
forse si vanno facendo con autentico spirito critico: la domanda sulle
ragioni per cui le cose negli ultimi decenni non sono cambiate e ancora
continuano, in effetti, a non cambiare. Le ragioni, insomma,
dell’immobilismo degli ultimi decenni. In Italia, per rimanere alla
nostra nazione, negli ultimi dieci anni abbiamo partecipato alle
manifestazioni di piazza più grandi della nostra storia repubblicana;
così come sono stati tanti i movimenti, di diversa natura, che hanno
fatto la loro comparsa (movimenti antisistema, ambientalisti,
referendari, antipartitici, studenteschi). Tuttavia, nulla di tutto
questo sembra essere riuscito ad incidere sull’andamento reale delle
cose, perché è come avesse riguardato esclusivamente la superficie,
mentre nel profondo i processi continuavano a fare il loro corso. In
conseguenza di ciò in una generazione di giovani attivi in politica è
maturato dentro un senso di grande frustrazione.
Il punto saliente da
sottolineare è che quest’impotenza è anche, in ultima analisi, l’effetto
della sproporzione che si è generata fra il potere del capitale
concentrato e quello detenuto dal mondo del lavoro. Correlata a questa
sproporzione c’è la difficoltà di riconoscere dove oggi si trovi
l’autentico potere, dal momento che esso è meno localizzabile in luoghi
fisici ben determinati. Prendiamo il caso della Fiat: la lotta di
resistenza dei lavoratori a Pomigliano nel 2010, ad esempio, è stata una
lotta importante, ma la direzione della Fiat è riuscita, nonostante
tutto, a spostare velocemente i propri investimenti. Tutto questo io
credo sia stato possibile perché ogni industria si situa immediatamente
all’interno di un orizzonte globale ed opera con una forza che non è più
paragonabile a quella dei suoi lavoratori, i quali attraverso lo
sciopero e l’occupazione, si battono pure ma trovano di fronte a sé un
titano più grande di loro. E il titano non possiamo certo identificarlo
in Marchionne… magari fosse lui! Si tratta piuttosto dell’organizzazione
astratta del lavoro su scala internazionale insieme alla natura
fluttuante[15]
della ricchezza dei capitali concentrati di oggi.
Universalità della
merce e particolarità dell’esperienza
Dunque, riepilogando la
questione: da un lato noi abbiamo la massima universalità della merce
(vale a dire la stessa merce che viene diffusa in tutto il mondo) e,
dall’altro, una massima particolarità dell’esperienze degli individui e
delle comunità. Dico la massima particolarità, perché il forte senso
d’impotenza che si avverte è un grande ostacolo a riconoscere che la
propria azione si colloca comunque sempre in una cornice universale.
Oggi, infatti, si coltiva comunemente l’illusione di poter conoscere
tante cose sia attraverso le comunicazioni dei media, che con la
possibilità di viaggiare; tuttavia, dall’altro lato, si può affermare
con sicurezza che l’esperienza degli individui oggi è un’esperienza
assolutamente impoverita e incredibilmente sminuzzata[16].
Si fa fatica anche solo a sentirsi appartenenti alla propria regione
geografica! La ragione è che la vita si è andata trasformando, fino a
divenire prevalentemente una trasmissione unidirezionale di modelli e di
informazioni da parte di una serie ristretta ed omogenea di centri che
hanno una localizzazione globale. Per cui, nel nostro tempo, si può
anche essere a conoscenza di tutto quello che succede nel mondo, ma non
avere poi nessuna opinione su perché le cose stiano andando in un certo
modo o su come potrebbero andare altrimenti. L’esempio classico è
costituito, infatti, dai nuovi adolescenti che vengono a conoscenza
continuamente di quello che accade del mondo, quanto ai fatti, ma poi
non hanno alcuna capacità di formulare giudizi e aspettative su cosa
fare della loro vita. Sanno tutto del mondo nel momento in cui sono
collegati ad un computer nella loro stanza, ma poi sono immobili e
incapaci di fronte alle difficoltà della vita, dal momento che non hanno
mai davvero conosciuto il mondo in carne ed ossa. E questo è uno dei
punti chiave dello sviluppo della questione, perché è in questo modo che
si sta formando la coscienza delle nuove generazioni.
Ci sarebbero altre
cose, ma il tempo è tiranno, per cui devo venire subito al seguente
punto: la televisione e la passivizzazione dell’esperienza. Con un
controllo forte dell’esperienza, e la riduzione della capacità di poter
agire nel mondo (l’agency) è
andato diminuendo di pari passo il vigore della ricerca di un senso alla
propria vita. Cosa voglio dire? Intendo che con la tecnica, e, nel
particolare, con le comunicazioni di massa, si è ridotto decisamente lo
spessore della sensibilità degli individui. Il problema è non c’è
un’alternativa ad essa per la loro individuazione: è solo la loro
sensibilità che può renderli diversi l’uno dall’altro. La formazione
della mia identità, infatti, dipende in buona misura dal grado di
sviluppo della mia sensibilità e non dal livello di un’astratta
conoscenza o intellezione delle cose. Dal punto di vista della
conoscenza dei fatti posso sapere che al momento c’è una guerra in Iraq,
oppure che ci sono dei rapporti di tipo causa – effetto fra gli eventi,
potrei sostenere, ad esempio, che la guerra in Afghanistan ha avuto come
causa l’attacco terroristico alle Twin Towers. Questo tipo di
rappresentazioni intellettuali, così come, in verità, tutto il sapere di
tipo specialistico e nozionistico oggi è divenuto modello dominante di
conoscenza, e si va diffondendo assai velocemente e in modo
incontrastato.
D’altra parte, bisogna
registrare come oggi anche persone che vivono fisicamente le une molto
distanti dalle altre, finiscono coll’avere un’identica rappresentazione
e interpretazione degli eventi del mondo. La comunicazione di massa
nella sua forma attuale ha determinato così di fatto una certa
omologazione nel livello di conoscenza dei fatti del mondo. Dunque, ci
ritroviamo oggi con una sorta di omologazione intellettuale fra gli
individui. D’altra parte, come dicevamo, abbiamo un’incredibile
riduzione della loro capacità sensibile, la quale riduce la loro
effettiva presenza nell’esperienza che fanno. Crediamo, infatti, che
tutto il tempo, che trascorriamo davanti ad uno schermo[17]
non trasformi la nostra esperienza delle cose? A quali esperienze ci
sottrae, e quali aggiunge, invece, alla nostra percezione ordinaria?
Quali implicazioni ha in genere rispetto alla nostra sensibilità? Queste
valutazioni sorgono in definitiva dal fatto che noi oggi siamo
bombardati da una mole infinita di rappresentazioni e, dunque, la
rappresentazione intellettuale finisce con l’avere un ruolo preminente
nella vita. Nel modo in cui si va formando il senso della nostra
esistenza, essa sovrasta senz’altro l’apporto della nostra più
individuale sensibilità.
Possiamo guardare
allora il secondo schema che vi ho proposto: ci troviamo di fronte ad
una distinzione essenziale fra la rappresentazione che è estranea
all’esperienza e quella, invece, figlia di un’esperienza di vita. La
prima delle due costituisce la rappresentazione alla base delle forme di
potere e di condizionamento del presente. Essa è una rappresentazione
conservativa, perché, provenendo dall’esterno e non essendo passata per
un’elaborazione interna, tende a fissarsi in una forma rigida, e a
irrigidire, a sua volta, lo sviluppo della personalità. D’altra parte,
la rappresentazione che nasce dall’esperienza, invece, e che mantiene un
contatto costante con essa, è una rappresentazione che si presta alla
trasformazione, fino al punto di poter anche essere sostituita da
un’altra. La rappresentazione che sorge dalla vita ha dunque un
carattere meno assoluto e più facilmente ascrivibile dallo stesso
soggetto a quelle che sono le vicende particolari della sua vita. La
rappresentazione del dominio, invece, si presenta con un carattere
atemporale e fisso, e che ha una natura diversa dalle rappresentazioni
più spontanee.
L’invadenza della
rappresentazione nella società odierna
Detto questo, vorrei
aggiungere altre due ultime annotazioni sulla rappresentazione, prima di
concludere. La prima si riferisce alla capacità dell’odierno sistema di
determinare e influenzare le rappresentazioni degli individui. Vorrei
infatti mettere in luce come questa capacità faccia il paio con la
possibilità di controllare e determinare il futuro della società in
toto. Oggi il dominio sulle rappresentazioni è capace di controllare il
futuro stesso per via della creazione di aspettative e di paure. Su
questo permettetemi un veloce passaggio sulla finanza. La finanza
c’entra a questo proposito perché le aspettative e le paure non sono
unicamente aspetti della convulsa psicologia di massa dei nostri anni,
ma sono anche criteri di regolazione del sistema finanziario, il quale
opera attraverso meccanismi di acquisto, d’investimento, e di vendita di
azioni. Oggi il sistema finanziario, in particolare attraverso la
previsione delle agenzie di rating, riesce ad influenzare, quando non
proprio a determinare, il destino economico e, dunque, sociale di intere
nazioni e interi popoli. Questo avviene attraverso la capacità di
diffondere una rappresentazione di come stia per presentarsi la realtà.
Il più evidente esempio
odierno di questo meccanismo riguarda la Grecia. Se fossi per assurdo,
ad esempio, un proprietario di una agenzia di rating, con l’autorità di
sostenere che la Grecia attualmente non sia in grado di ripagare i
propri debitori, potrei determinare così uno sprofondamento ancor più
certo dello stato economico della Grecia, e riuscirei in questo
semplicemente sulla base di una rappresentazione dello stato delle cose.
Dunque, compirei sulla base di una rappresentazione, non di un fenomeno
già presente. Il futuro in quanto tale, infatti, non può rientrare nel
piano della realtà, ma al massimo in quello della possibilità. La
possibilità di fare prospettive intorno al futuro, possibilità su cui,
d’altra parte, si fonda l’intera logica dell’investimento economico e,
in particolare, quello di natura capitalistica, si manifesta nel sistema
della finanza come necessità di controllo del momento presente. Siamo
così di fronte ad un circolo per il quale il controllo del presente
diventa il controllo del futuro, e il controllo del futuro, a sua volta,
ridiventa, immediatamente, la base del controllo del presente. Dunque in
questo meccanismo riconosciamo il modo in cui la previsione storica è in
grado di fungere anche da vera e propria azione storica. Possiamo
sostenere che previsione e azione, allora, entro il quadro che stiamo
descrivendo, giungono quasi a coincidere.
D’altra parte questo
elemento particolare della rappresentazione dell’aspettativa del futuro
nella finanza ha a che fare con il concetto più generale di
rappresentazione mediatica nel momento in cui la si intende come verità
universale. A differenza del passato, oggi, infatti, l’assenza della
mediazione della pluralità dei punti di vista (di cui dicevamo prima
rispetto agli esempi del Cristianesimo e della Rivoluzione russa) rende
la rappresentazione che si diffonde sui media particolarmente pervasiva
e totalizzante. Possiamo aggiungere quindi che il controllo politico che
si esercita oggi è principalmente un controllo politico sulla verità.
Sono i media ad ergersi garanti di una verità universale. Tornando al
nostro esempio, abbiamo visto come si sia imposta la rappresentazione:
«la
Grecia non riuscirà a pagare il suo debito».
Oppure quella, riferita ad un altro evento di recente attualità: «Bin
Laden è colui che ha architettato l’attentato alle Twin Tower.
Abbiamo compiuto una guerra per
prenderlo, una volta preso, l’abbiamo immediatamente ucciso, e gettato
il suo corpo in mare», che è la versione ufficiale dei fatti
riguardo la morte di Bin Laden. Riguardo a quest’ultimo evento,
tuttavia, l’unica immagine che ci è stata concessa (un’immagine
ovviamente video) è quella di un Bin Laden ripreso nel mentre guarda se
stesso in televisione[18].
A questo riguardo la
differenza con il modo in cui si sarebbe instaurata una qualsivoglia
verità in un’epoca passata è molto grande. Un evento storico, ad
esempio, di 500 anni fa, sarebbe stato sottoposto ad un complesso filtro
di mediazioni, di interpretazioni, e trasformazioni; questi passaggi
avrebbero reso la diffusione stessa della verità, la sua ricezione, un
vero processo storico, e quindi un processo frutto di una azione umana
collocata nel tempo. Oggi come oggi, invece, la ricezione è un processo
molto più semplificato, nella misura in cui ci troviamo di fronte ad una
sorta di monopolio unico dell’informazione, e, al contempo, di fronte ad
un modello di diffusione istantanea della stessa informazione. Io credo
che quando gli storici futuri[19]
studieranno mai il nostro presente, si troveranno di fronte ad una nuova
difficoltà: si confronteranno, infatti, con il fenomeno, che stiamo
vivendo, dell’omologazione della serie dei punti di vista individuali su
una verità oggettiva e di carattere universale[20].
Infine vorrei solo
accennare a come il tema della rappresentazione possa essere importante
anche rispetto alla comprensione della natura della politica oggi e in
particolare alla sua declinazione come spettacolo[21].
Oggi, infatti, la politica è sempre più percepita dalla comunità come
un’istanza separata, qualcosa che è al di là della portata dei
cittadini. Inoltre essa è divenuta, come non mai, una professione; dico
come non mai non perché la politica non sia mai stata nella storia una
professione; ma perché mi sentirei di dire che è sulla base dell’attuale
sviluppo delle forze di produzione, che è fondata la possibilità di
estendere la professionalità (a vita) degli incarichi politici. Il
numero di chi può permettersi di non lavorare, infatti, e fare politica
è oggi in proporzione molto più alto del passato: c’è tanta gente che
può non sacrificare il proprio tempo per il lavoro, e dedicarsi alla
politica, e questo costituisce un dato relativamente nuovo dell’ultimo
secolo.
Va notato, infine, che
la politica nella società dello spettacolo è essa stessa l’apoteosi
dello spettacolarizzazione in atto. Nella nostra società, dunque, anche
la liberazione di un certo tempo dal lavoro, ha favorito il fenomeno
della professionalizzazione della politica, favorendo, di conseguenza,
la fissazione dell’istanza politica come un livello separato dalla
società. La politica si è, quindi, fissata e, così facendo, in realtà,
ha sottratto senso a se stessa, rendendo, al contempo, impolitico il
mondo della società.
APRILE 2012
[1]
Tra l’altro possiamo dire en passant che i primi trent’anni di
Cristo sono abbastanza misteriosi, sono degli anni di cui
qualcuno parla, e qualcuno no, mentre si è scritto solamente
degli ultimi tre anni della sua vita.
[2]
Tale spettacolarizzazione contemporanea non riguarda solo lo
show vero e proprio, ma il modo in cui le rappresentazioni
generali si diffondano in forma mediata conferendo a chi detiene
il potere del sistema la possibilità del controllo.
[3]
Ovviamente non va dimenticata la variabile dell’intensità di
un’esperienza.
[4]
Vedi schema 2 riportato a margine.
[5]
Questo discorso non presuppone alcuna divisione manichea, ma
fonda una distinzione necessaria a comprendere il modo in cui si
formano le rappresentazioni degli individui singoli nel contesto
della società.
[6]
Theodor Adorno, Minima
moralia. Meditazioni della vita offesa, Mondadori, Milano
2005.
[7]
Con periferie intendiamo diversi livelli di spazialità:
periferie sono quelle delle contemporanee metropoli, ma
periferie sono, al tempo stesso, intere nazioni escluse dal
campo delle vere decisioni globali. Periferie possono dunque
essere intesi quartieri, province,
intere nazioni, se non, a volte, addirittura interi
continenti.
[8]
Il riferimento è alle sue ultime lezioni tenute nel 2011 a Paris
VIII e a uno dei suoi ultimi testi
Altissima povertà (2011).
[9]
Determinano un ideale per la personalità, ma, appunto,
non determinano direttamente la personalità dall’esterno, come
si dirà poco più avanti a proposito della nostra società senza
simboli.
[10]
Potremmo tradurre questo processo, in modo un po’ tranchant, con
lo sconfinamento totale del valore di scambio negli ambiti più
privati della vita.
[11]
Anche questo riportato a margine dell’articolo.
[12]
Certo bisognerebbe approfondire questo tema e porsi la domanda
di cosa possa essere oggi la razionalità, che forme possa
assumere. Se l’uomo è un animale dotato di razionalità, e
tradizionalmente la sua razionalità è stata un modo di
affrontare in modo diverso rispetto agli altri animali la
propria animalità, nel momento in cui l’uomo nega con
l’onnipotenza della tecnica e dell’informatica la sua finitezza
e il suo corpo, la razionalità non può più strutturalmente
essere quella di prima, essa stessa deve cambiare il proprio
senso, o scomparire. L’uomo che distrugge la propria naturalità
(cioè la misconosce) al tempo stesso distrugge la sua cultura;
questa, infatti, altro non era che confronto e attribuzione di
senso alla sua naturale condizione di essere finito. Un uomo
senza natura non può più essere un uomo culturale, nel senso che
abbiamo attribuito alla parola cultura negli ultimi millenni.
[13]
Vorrei precisare che non si tratta spesso di un effettivo
aumento di disponibilità di tempo, quello per cui si sviluppa il
piano della rappresentazione. Piuttosto di una distorsione nel
percepire la vita che produce l’illusione che si abbia un tempo
infinito. Questa illusione si lega al fenomeno della rimozione
della morte nelle nostre società occidentali.
[14]
Quella della pubblicità è una nuova affermata tecnica. Si studia
all’università, ma soprattutto, purtroppo, la si impara
nell’odierna vita quotidiana dove il nostro linguaggio, la
nostra postura, le nostre espressioni sono calibrate fin
dall’infanzia su quelle dei modelli della pubblicità ancor più
che su quelli televisivi in quanto tali. La televisione, a sua
volta, infatti, è figlia della pubblicità, e la pubblicità è sua
genitrice e come quei genitori che credono di sopravvivere nei
loro figli, essa ne diventa anche la sua anima. Se oggi qualcosa
non ha pubblicità non può esistere; in questo si esprime la
potenza sociale del capitalismo contemporaneo. Lo spettatore non
deve pagare il suo programma, è infatti la pubblicità il
committente dello spettacolo e ciò che garantisce il rapporto
fra il programma e spettatore. La pubblicità paga il tutto ed è
l’arcano che determina il senso dell’intero spettacolo.
[15]
Per
natura fluttuante s’intende il carattere di flusso come cifra
della nuova spazialità del capitale di ultima generazione (si
veda Manuel Castells,
Comunicazione e potere, Università Bocconi, Milano 2009).
[16]
Se la Lega Nord come partito ha fatto del nordismo la sua
ideologia a partire dagli anni novanta, la gente comune, d’altra
parte, ha cominciato
da alcuni anni a riconoscersi nel suo viale privato e nella sua
strada, sentendosi estranea al di fuori di essa. Il Sud è stato
contrapposto al Nord, l’Italia alla non Italia, gli indigeni
agli immigrati. Il concetto d’Italia, in questo modo, ne è
uscito completamente smaterializzato, e si presenta come un
concetto troppo astratto nella percezione dell’individuo medio.
Il problema di cosa sia oggi l’Italia nella percezione di un
italiano medio rimane un problema aperto. Egli si identifica,
infatti, con la religione, con la provincia, con il Nord, il
Sud. […] Io non riesco più ad identificarmi con qualcosa che mi
contiene ad un livello più ampio.
[17]
Si tratta questi di studi che in Italia non si fanno, ma che ad
esempio in Francia fanno già da un po’, si veda il sito di Bernard
Stiegler, arsindustrialis.fr.
[18]
Immagine la quale, reale o meno, rappresenta una descrizione
perfetta del narcisismo mediatico della nostra società.
[19]
Esisterà mai la storia in futuro?
[20]
Risulta comunque fondamentale il discorso, sul modo in cui il sistema di oggi riesca
effettivamente a mantenersi e, dunque, a svilupparsi.
A questo proposito l’esempio più indicativo credo possa
essere, senz’altro, ancora quello della pubblicità. Il dominio
della rappresentazione, la spettacolarizzazione della vita, il
sistema della pubblicità costituiscono infatti un’incredibile
matrice nella formazione di senso per le nuove generazioni,
la quale ancora non è stata approfondita a sufficienza
dalla critica teorica. Bisogna studiare i nuovi giovani, il modo
in cui la tecnica li sta educando alla vita, se si vuol capire
cosa sarà la società del futuro.
[21]
A questo proposito vi rinvio ad un interessante articolo di
Alessandro D’Aloia,
Politica e rappresentazione, comparso su Città Future n°2.