Transizione
ORIGINI E PROSPETTIVE DELLA CRISI ECONOMICA
Guido Cosenza
Scrivevano nel 1854
Marx e Engels in relazione alla crisi in atto, alla luce dei numerosi
analoghi eventi ricorrenti verificatisi negli anni precedenti:
La speculazione di regola si presenta
nei periodi in cui la sovrapproduzione è in pieno corso. Essa offre alla
sovrapproduzione momentanei canali di sbocco, e proprio per questo
accelera lo scoppio della crisi e ne aumenta la virulenza. La crisi
stessa scoppia dapprima nel campo della speculazione e solo
successivamente passa a quello della produzione. Non la
sovrapproduzione, ma la sovraspeculazione, appare perciò agli occhi
dell’osservatore superficiale come causa della crisi. Il successivo
dissesto della produzione non appare come conseguenza necessaria della
sua stessa precedente esuberanza, ma come semplice contraccolpo del
crollo della speculazione.[1]
La riflessione
riportata era dedotta dalla lunga e approfondita analisi effettuata nei
decenni precedenti intesa a decifrare il meccanismo di funzionamento di
un congegno economico e sociale giunto allora a uno stadio di avanzata
maturazione.
L’indagine condotta,
frutto dell’impegno di molti anni di studio, culminati poi nel decennio
successivo con la pubblicazione del primo volume del Capitale, è
caratterizzata da un rigore metodologico esemplare, il che ci rafforza
nella convinzione della validità anche attuale delle deduzioni desunte.
Il sistema capitalista
è azionato da un meccanismo che non ha cambiato i propri connotati, le
funzioni principali sono rimaste inalterate nonostante lo sviluppo
verificatosi in più di un secolo di espansione selvaggia.
Molti sono gli
indicatori che avvalorano l’asserzione, il più convincente è per
l’appunto il riproporsi identico delle disfunzioni intrinseche
all’organismo economico e sociale.
Il gigantismo accresce
la virulenza delle patologie, ma non ne modifica il carattere. Le
incongruenze, contraddizioni del meccanismo, si accentuano ma non sono
suscettibili di essere soppresse in quanto sono connaturate al complesso
sistema in crescita, eliminarle implicherebbe la disgregazione del
congegno in funzione.
Di ciò intendiamo
occuparci, ma prima vogliamo soffermarci brevemente su quanto affermato:
che cioè nei trecento e passa anni in cui il modello di sviluppo
capitalista si è andato consolidando ed estendendo l’apparato produttivo
e i rapporti e le funzioni sociali non sono nella sostanza mutati. Si
può constatare come le crisi si siano riprodotte con le stesse modalità
originando qualitativamente le stesse disfunzioni, la differenza si
manifesta nella virulenza con cui si presentano.
Tuttavia due elementi
rilevanti vanno valutati
- La ridotta presenza
della componente lavoro nel processo produttivo, circostanza che ha
portato ad attenuare la conflittualità e ha favorito nella controparte
sociale storicamente in contrapposizione il coinvolgimento in funzione
della crescita.
- L’evidenziarsi dei
limiti fisici dell’universo-pianeta.
Questi aspetti però non
hanno modificato le caratteristiche funzionali del complesso congegno
economico e sociale che è alla base del sistema.
È quindi essenziale
riprendere l’analisi del meccanismo produttivo per sgombrare il campo
dalle cortine fumogene diffuse ad arte per ostacolare il conseguimento
di una chiara visione di fenomeni che per loro natura sono molto
semplici da intendere.
Il processo produttivo
che è alla base della struttura consolidatasi con l’avvento della
rivoluzione industriale si impernia sul luogo in cui il capitale
incontra il lavoro, la fabbrica, il centro erogatore del valore, cioè
della ricchezza inerente al dispositivo economico vigente, il cuore del
sistema, là dove il capitale impiegato si valorizza – si appropria del
plusvalore – si espande.
La reiterazione del
processo genera l’accumulazione del capitale e l’ampliamento della base
produttiva. Si determinano varie conseguenze:
-aumenta il profitto e
aumenta anche il volume del capitale che produce quel profitto,
- in generale si
verifica che il rapporto fra capitale investito e profitto, il tasso di
profitto, diminuisce.
- La caduta del tasso
di profitto indebolisce il sistema, ma può essere attenuata riducendo il
costo del lavoro ed estendendo la durata della giornata lavorativa. Si
attuano anche espedienti alternativi, ad esempio la promozione di
produzioni a basso contenuto tecnologico.
L’estensione della
produzione, associata alla introduzione di innovazioni tecnologiche,
determina un accrescimento di prodotti disponibili sul mercato e agisce
anche sull’occupazione in fabbrica.
L’ampiezza
dell’occupazione è regolata da due fattori in controtendenza. Da un lato
si riduce a causa delle innovazioni tecniche, diminuzione del contenuto
di forza-lavoro per unità di prodotto.
Per altro verso si
accresce nella fase espansiva della produzione. Nel tratto iniziale del
ciclo predomina il secondo fattore: l’occupazione aumenta.
La produzione non può
crescere indefinitamente, si giunge a un punto in cui il volume delle
merci prodotte supera la capacità di assorbimento del mercato. Si
instaura un regime di sovrapproduzione.
La fabbrica deve allora
ridurre la confezione di merci. Ne derivano alcune conseguenze capitali:
1) diminuzione della
occupazione – disoccupazione,
2) formazione di ampie
scorte di capitali in cerca di impiego. Il capitale generato nel
processo di produzione allargata è fermo, risulta improduttivo e cerca
disperatamente un’area di investimento,
3) il capitale già
investito è anch’esso parzialmente inattivo e tenta freneticamente di
procurare compratori per le merci invendute e per quelle che è in grado
di produrre.
Il sistema produttivo entra in crisi.
I capitali vengono
dirottati, il loro impiego si dirige verso procedure genericamente
indicate come speculazione: finanziarizzazione del capitale. Si
finanziano prestiti intesi a sostenere attività di esito incerto, si
finanziano consumi per assorbire la sovrapproduzione, ecc.
Come si può notare, e
del resto è stato ampiamente descritto[2],
la speculazione non è la causa della crisi ma ne è la conseguenza.
L’utilizzazione
improduttiva, finanziaria, è forzata dalla natura stessa del capitale,
impossibilitato a restare fermo, costretto per costituzione a riprodursi
di continuo in forma allargata; la finanziarizzazione gliene dà
l’occasione.
L’esclusivo
investimento produttivo porterebbe a un abnorme estensione della
manifattura in settori i cui esiti stentano a trovare una collocazione
sul mercato, di qui l’origine della disperata ricerca di soluzioni
alternative. La scelta che si prospetta più agevole e naturale consta
nella attivazione di meccanismi di collocazione del capitale nella
disponibilità di operatori indipendenti dietro la corresponsione di
interessi.
Si crea così un largo
settore finanziario a cui contribuiscono e/o accedono agenti delle più
disparate provenienze. Deve allora risultare chiaro che nel mondo
capitalista produzione e finanza viaggiano in sintonia, sono due facce
della stessa medaglia.
Ambedue gli aspetti del
capitale messi in luce hanno i loro punti di debolezza.
- L’uso produttivo va
incontro a periodi di sovrapproduzione.
- A sua volta l’impiego
finanziario, nel gestire l’investimento di ingenti accumuli di capitale
improduttivo, si trova esposto a ricorrenti crisi di insolvenza.
D’altra parte il
capitale inattivo è soggetto a declino, in particolare in tempo di
crisi. La forma denaro del capitale perde valore, un’alternativa
ampiamente perseguita per sottrarsi ai rischi del gioco della finanza e
della svalutazione consta nell’acquisizione, a prezzi estremamente
vantaggiosi, di risorse e di beni di nazioni soccombenti in periodi di
congiuntura negativa.
La congiuntura negativa
è preceduta da una fase di ampie proposte di finanziamenti a condizioni
molto favorevoli per cui paesi con programmi di crescita industriale
vengono indotti a usufruire copiosamente delle opportunità offerte.
Quando il sistema entra in crisi si determina una restrizione della
circolazione di capitali, una diminuzione della domanda di risorse
minerarie ed energetiche e di prodotti sia agricoli che industriali con
conseguente caduta dei prezzi. Le economie che risultano esposte sono
particolarmente danneggiate: aumento del debito pubblico, peggioramento
della bilancia dei pagamenti.
In generale allorché si
verifica che l’impiego produttivo del capitale nella propria realtà
economica inizia a declinare si attivano due linee difensive
strategiche, per un verso viene accentuata la destinazione degli
investimenti in zone periferiche laddove il costo del lavoro è più
basso, la conseguente diminuzione dei prezzi genera, in tempi di mercato
saturo, un momentaneo vantaggio, per altro verso l’impiego del capitale
viene indirizzato, secondo quanto esponevamo, su attività non
produttive.
Quest’ultima
destinazione, che finisce per divenire prevalente, è alla base della
speculazione finanziaria: si acquistano titoli con elevate rendita, si
ottengono diritti sulle entrate presenti e soprattutto future delle
nazioni.
È opportuno esaminare
più in dettaglio il dispiegarsi del fenomeno in modo da avere una
visione circostanziata.
In una prima fase si ha
un massiccio afflusso di capitali verso economie deboli. Tale corso
origina un movimento alterno di risorse dal centro alla periferia e
viceversa. Gli stati della periferia vengono inondati da offerte di
finanziamento, di apertura di linee di credito, di proposte di
investimenti produttivi e improduttivi. Si sviluppa una moltitudine di
iniziative, di promozioni industriali e finanziarie scorrelate in paesi
economicamente vulnerabili con conseguenti pesanti obbligazioni
finanziarie in assenza di una solidità di progetto e affidabili
prospettive. Infine interviene a imporre il rispetto degli impegni
assunti il sostegno dei governi forti dei paesi di origine dei capitali.
In conclusione la
procedura seguita per sottrarsi alla crisi soffre di una cruciale
incongruenza: al fine di rendere disponibili ampi fondi atti a
finanziare consumi adeguati al volume raggiunto dalla produzione e
sorreggere la loro espansione vengono elargiti prestiti con copertura
inadeguata, il capitale in eccesso viene in parte indirizzato verso
attività ad alto rischio. L’operazione si avvita su se stessa per
l’impossibilità del recupero dei crediti, si determinano alti tassi di
insolvenza con conseguenti fallimenti e sofferenze gravi di banche, di
istituti di credito, di imprese.
A tale stadio del
processo di involuzione finanziaria si è in piena opera di distruzione
di capitali. La movimentazione del capitale risulta non più legata a
procedimenti produttivi, il capitale non espleta l’attività specifica di
valorizzazione per cui è deputato a operare. Siamo in presenza di un
capitale non allocato produttivamente e depauperato dalle spericolate
iniziative finanziarie. Esso, svalutato, privato temporaneamente del suo
carattere precipuo non alimenta la produzione e non si valorizza. La
macchina produttiva si inceppa. Perché si attui una ripartenza e possa
proseguire la sequenza ciclica tipica dello sviluppo del capitale
occorre che le perdite siano compensate, la compensazione avviene a
spese delle classi subalterne.
Il cosiddetto
risanamento, e quindi la ripresa, viene realizzato attraverso ingenti
prelievi dalla finanza pubblica. Spesso lo stato di belligeranza, acuito
o addirittura innescato durante le crisi, contribuisce ad alimentare la
macchina produttiva e rappresenta uno strumento idoneo a favorire la
ripartenza.
Dunque il ciclo si
conclude con la distruzione ingente di capitali a cui si accompagna il
recupero forzato di risorse dall’intera comunità e in particolare dalle
classi subalterne nel processo di produzione, queste si trovano ora in
una condizione di debolezza, la produzione è parzialmente ferma, il
consumo declina, la lunga stagnazione già prelude a futuri bisogni da
soddisfare, la disoccupazione dilaga e si è forzati ad accettare
condizioni di lavoro sfavorevoli. Tale congiuntura determina condizioni
idonee alla ripresa della produzione con rinnovata propulsione. Sono i
prodromi della ripartenza.
Il ciclo interrotto
dalla crisi riprende il suo corso a spese delle classi sociali
subordinate al processo produttivo. La struttura di potere saldamente
nelle mani dei detentori dei capitali predispone il prelievo
– la cosiddetta salvezza della nazione a cui anche in questa fase
storica stiamo assistendo.
In conclusione lo
schema di sviluppo conseguente al consolidarsi dell’odierno meccanismo
produttivo e consono alla formazione dell’articolato attuale tessuto
sociale si configura in una successione di cicli.
Ogni ciclo è costituito
da quattro fasi successive:
1. propulsione della
produzione,
2. sovrapproduzione,
stallo e successiva
finanziarizzazione,
3. crisi finanziaria e
perdita di capitali,
4. aspirazione di
risorse dal basso ad alimentare la ripartenza.
La struttura a cicli si
è protratta nel tempo.
La terza fase, pur
essendo innegabilmente parte del ciclo e insopprimibile è stata
ripetutamente dichiarata anomala e spuria dagli economisti accademici,
essi hanno in generale asserito che le disfunzioni erano originate da
comportamenti degli operatori finanziari scorretti, emendabili imponendo
norme progressivamente più restrittive ed esigendo poi il rigoroso
rispetto delle regole.
Le numerose
elaborazioni teoriche sulle patologie affette dal congegno economico
hanno al più originato misure il cui effetto si è limitato ad attenuare
la virulenza degli eventi.
Tuttavia i cicli si
sono inesorabilmente riprodotti e le disfunzioni si sono aggravate in
seguito all’espansione del processo produttivo.
I cicli nel riprodursi
vanno incrementando la loro ampiezza sconvolgendo progressivamente quote
crescenti del mondo circostante e della società e se non vivessimo in un
mondo limitato si potrebbe magari dar credito a quegli economisti che
asseriscono che il sistema vigente è suscettibile di protrarsi
indefinitamente.
Viceversa i limiti
dell’habitat in cui viviamo porta il sistema in crescita a infrangersi
contro le pareti del contenitore.
La collisione evocata
esprime in forma simbolica l’adempiersi di una successione di eventi
dagli effetti devastanti.
L’espansione necessita
di
- aumento di
disponibilità energetiche,
- crescente accesso a
risorse fossili.
Peraltro comporta
- degrado ambientale
dilagante,
- accentuazione degli
squilibri climatici,
- depauperamento delle
risorse e del territorio.
Tali fattori aggravano
progressivamente le crisi in atto e preludono a una resa dei conti
finale.
È da prevedere che la
ripartenza del ciclo non possa indefinitamente riproporsi, di necessità
si giungerà a un punto in cui le condizioni determinatesi non
consentiranno più una ripresa. Quel punto è il valore singolare in cui
si prevede che si raggiunga il termine di un sistema divenuto
inadeguato. Pervenire a quella configurazione lasciandosi trascinare
dalle forze endogene può essere disastroso, anzi nell’evenienza lo sarà.
Sarebbe saggio porvi rimedio prima.
È opportuno chiedersi
se la crisi che stiamo vivendo ora sia o meno l’evento ultimo a cui non
possa seguire una ripartenza, se quindi risulterà inattuabile l’inizio
di un nuovo ciclo.
I dati a disposizione
propenderebbero per un decorso in grado di assicurare una ripresa, sia
pure asfittica. Parrebbe viceversa accertato che la caduta successiva,
se non verrà evitata, si presenterà come drammaticamente conclusiva di
questa fase storica in campo sociale e produttivo.
È quindi della massima
urgenza attrezzare noi e la generazione prossima ad affrontare una
contingenza storica cruciale, un evento che si è prodotto altre volte
allorché si è determinata l’inadeguatezza delle strutture sociali
conseguite e si è innescata la transizione a un nuovo ordine sociale.
APRILE 2012
*
Dipartimento di Scienze Fisiche, Università di Napoli Federico. È autore
di La Transizione. Analisi del processo di transizione a una
società postindustriale ecocompatibile, Feltrinelli, Milano
2008; Il nemico insidioso. Lo squilibrio dell'ecosistema e il
fallimento della politica, Manifestolibri, Roma 2010; e con
Chiesa Giulietto e Sertorio Luigi, La menzogna nucleare.
Perché tornare all'energia atomica sarebbe gravemente rischioso e
completamente inutile, Ponte alle Grazie, Milano 2010.
[1]
Karl Marx, Friedrich Enghels,
Neue Rheinesche Zeitung,
cit. in Karl Marx,
Il capitalismo e la crisi. Scritti scelti a cura di Vladimiro
Giacché, Derive e Approdi, Roma 2009.
[2]
Giacché (cur.), cit.,
e Alberto Burgio, Senza
democrazia, Derive e Approdi, Roma 2009.