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07
Maggio 2012

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GRECIA E MAGNA GRECIA

Ovvero popoli o capitale

 

C’è sempre un monoteismo all’orizzonte del dispotismo: il debito diventa debito d’esistenza, debito dell’esistenza dei soggetti stessi. Viene il momento in cui il creditore non ha ancora prestato mentre il debitore non cessa di rendere, poiché rendere è un dovere, mentre prestare è una facoltà…

(Gilles Deleuze e Felix Guattari, L’anti-Edipo. Capitalismo e schizofrenia, Einaudi, Torino 2002, pag. 222)

 

Austerità

Non viviamo un’epoca come le altre. Un nuovo oscurantismo, infatti, e una nuova dogmatica di idee egemonizzano la direzione politica internazionale. Il capitale finanziario è l’artefice di questa teologia medievale fondata sul sacrificio[1]. Sembra di assistere al disfacimento del mondo antico alla soglia del medioevo. La lenta e lunga crisi del tardo capitalismo ci sta mostrando ad un tratto tutta la violenza del sistema in cui viviamo, ponendo sull’altare del sacrificio, non più la rinuncia al superfluo, ma l’esistenza stessa di milioni di persone, la loro carne viva.

Siamo di fronte alla fine di un’epoca storica.

Può anche darsi che la fine sia quella di una vera e propria civiltà.

 

Nell’economia globalizzata l’eurocentrismo è in una crisi probabilmente irreversibile. Si parla ormai diffusamente della fine del modello europeo, senza dire, tuttavia, che questo è l’esito di un lungo processo che ha comportato un ineguale sviluppo del capitalismo sul globo, che mentre si espandeva come modello di produzione non esportava nella stessa misura né benessere né diritti. Siamo al punto in cui alcuni paesi, che fino a venti anni fa erano considerati in via di sviluppo e in cui le classi lavoratrici non hanno maturato necessariamente una storia di lotta per la conquista di condizioni di produzione più accettabili, diventano, anche per una questione di numeri di popolazione, il nuovo standard del capitalismo senescente, modello che si impone e che richiede che anche gli altri si adeguino.

 

Questa inversione paradigmatica fra centro e periferia globale, sta producendo un cortocircuito sistemico. Se sul piano economico è da tempo che l’Europa e gli Stati Uniti non conducono più i giochi come una volta, è sullo stesso piano ideologico del liberismo che si ritrovano più chiaramente i sintomi della fine di una civiltà. Paradosso della storia la fine si sta producendo proprio a partire da una nazione, come la Grecia, a cui la storia dell’Occidente si è rifatta come la propria origine.

 

Perché fine di una civiltà? Il capitalismo nella sua forma espansiva, parlava alle masse sfruttate con il linguaggio della libertà e dell’opportunità, promettendo prospettive future che sarebbero dipese solo dalle capacità individuali dei singoli. Era l’epoca della doppia morale, quella di carta e quella reale, un’epoca in cui religione e sviluppo economico restavano in palese contraddizione. Nell’attuale natura recessiva dell’economia invece il sacrificio assume, come concetto, un senso nuovo e il capitalismo finanziario si presenta necessariamente nelle vesti di una nuova religione, un nuovo dogma. Questo si manifesta in un totale cambio di registro al livello del linguaggio utilizzato: il sistema, non potendosi più rappresentare come portatore di benessere per tutti, parla alla gente con il crudo linguaggio della realtà dei fatti. “Le cose stanno oggettivamente così”, in questo modo suonano le parole odierne del capitale. Questo è il significato del termine “austerità” che caratterizza la fase in corso, cioè l’asprezza con cui le verità nascoste, circa l’infelicità capitalistica, vengono alla luce.

Tutto ciò nonostante ci sia chi opera tentativi nella direzione di fare dell’austerità una nuova teoria economica, secondo la quale il capitalismo può funzionare solo con conti statali in ordine, a prescindere da tutto il resto. A nostro parere non è un caso che la deviazione misticheggiante dell’economia politica attuale coincida con la fortissima finanziarizzazione dell’economia, che rappresenta il compimento della completa astrazione del capitale, non più produttivo, localizzato e riconoscibile e perciò personificabile. Il capitale finanziario è un capitale impersonale, talmente lontano, talmente indifferente che assume le caratteristiche di un nuovo dio, di cui le borse, simili ad oracoli, rappresentano la volontà. È passato il tempo in cui il capitalista era il tuo padrone e potevi ancora immaginarti o intravedere la sua ricchezza mondana. Il padrone di oggi non lo incontrerai mai e non importa neanche che esista davvero poiché saranno solo i suoi funzionari a dettare le regole della tua esistenza al mondo (esattamente come preti)[2].

 

D’altra parte cosa sta avvenendo in Grecia se non la trasformazione di un intero Stato in un laboratorio sociale su larga scala di queste nuove dottrine antiumane del capitale finanziario globale?

Nel momento stesso in cui uno Stato prende misure contro i propri cittadini inermi (e disarmati) come si prenderebbero misure contro invasori malintenzionati, riducendoli alla fame, all’indigenza materiale e alla disperazione, significa che un mondo di valori, seppure formali, seppure cartacei, crolla su se stesso aprendo le porte al baratro. La falsa rappresentazione (della libertà e del benessere) si nega. Se lo stato ha rappresentato nell’epoca espansiva del capitale, almeno formalmente, l’interesse pubblico, esso muta ormai apertamente la propria funzione sociale in guardiano di un capitale astratto dal territorio e centrato altrove (compiutamente de-territorializzato), che non concepisce più come necessaria neanche l’esistenza di una struttura economica statale, in grado di esercitare quantomeno la funzione elementare di permettere la circolazione della moneta ai livelli più bassi dell’economia.

 

Questa nuova convinzione che domina nei centri di potere sovranazionali (e sovra-politici), non colpisce solo la classe tradizionalmente oggetto degli attacchi del capitale produttivo, ma anche il capitale produttivo stesso (nonostante questo sia ancora tendenzialmente convinto che il male venga dalle pretese operaie[3]), il quale infatti non può esistere nel vuoto di mercati in verticale contrazione. I piccoli padroni sono disperati di fronte al crollo della loro società e molti, schiacciati dai debiti, rinunciano a qualsiasi forma di resistenza (e quindi della vita, che è diventata una forma di pura resistenza). Mai fu più chiaro di oggi quanto Keynes e i diritti sociali conquistati dai lavoratori abbiano significato per il capitalismo del Novecento, nonostante la cecità ideologica di destre e padroni.

Le destre populiste trovano tipicamente il loro humus sociale in questa situazione.

 

La dottrina dell’austerità, essendo cieca, procede imperterrita nella propria opera distruttrice, smantellando enormi apparati produttivi in una sorta di guerra senza armi. Da un punto di vista oggettivo, infatti, poco importa che la distruzione di forze produttive avvenga mediante bombardamenti piuttosto che per semplice dismissione. La guerra post-moderna è già in atto da almeno un decennio e lambisce l’Europa nei suoi paesi di frontiera, utilizzati dal centro come bastioni economici (aree di sacrificio) a propria protezione. Si tratta di una guerra, armata da un solo lato della barricata, del capitale finanziario contro le popolazioni, condotta mediante direttive, leggi e tassazioni, tutte di natura antisociale.

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Il debito infinito

La tradizionale composizione ternaria del capitale[4], rendita, profitto e imposta, relativa alle figure sociali del proprietario, dell’imprenditore e del banchiere (quest’ultimo articolato doppiamente in privato e pubblico), vede una nettissima prevalenza dell’imposta come componente il cui dominio tende ad andare a scapito delle altre due. Da più parti si osserva la strana coincidenza di vedute fra dipendenti aziendali e loro piccoli padroni, tutti presi nella stessa morsa letale dello Stato e dei banchieri, che anche se giuridicamente separati sono in realtà lo stesso soggetto impersonale di “cattura del valore”, il quale agisce per mezzo di leggi, realizzando pienamente ciò che in altri tempi poteva sembrare meno palese e cioè che: «prima di essere una finta garanzia contro il dispotismo, la legge è invenzione del despota stesso: essa è la forma giuridica assunta dal debito infinito»[5].

 

Se da un lato si assiste a questa strana coincidenza, un’altra coincidenza, strana solo in apparenza, è infatti quella che in Grecia, ma non solo lì, sta palesandosi fra Stato e banche. L’autosospensione della politica altro non è che la sospensione di una costosa rappresentazione, finalizzata ad una più diretta ingerenza delle banche nella tenuta in vita del debito infinito, che il più banale raziocinio porterebbe a non onorare. Ci permettiamo a questo punto di riportare questa citazione:

 

Si è spesso notato come lo Stato comincia (o ricomincia) con due atti fondamentali, uno detto di territorialità per fissazione di residenza, l’altro detto di liberazione per abolizione di piccoli debiti. Ma lo Stato procede per eufemismo. […] L’abolizione dei debiti, quando ha luogo, è un mezzo per mantenere la ripartizione delle terre […]. In altri casi ove avviene una ridistribuzione, il ciclo dei crediti viene mantenuto, nella nuova forma instaurata dallo Stato, il danaro. Poiché, di certo, il danaro non comincia col servire al commercio, o almeno non ha un modello commerciale autonomo. […] E, fondamentalmente, il danaro è indissociabile non dal commercio, ma dall’imposta come mantenimento dell’apparato di Stato. Basandosi sulle ricerche di Will, M. Foucault mostra come, in certe tirannidi greche, l’imposta sugli aristocratici e la distribuzione di danaro ai poveri era un mezzo per ricondurre il danaro ai ricchi, per allargare singolarmente il regime dei debiti, per renderlo ancora più forte, […] (Come se i greci avessero scoperto a loro modo ciò che gli Americani ritroveranno dopo il New Deal: che pesanti imposte sono propizie ai buoni affari). Insomma, il danaro, la circolazione del danaro, è il modo per rendere il debito infinito[6].

 

L’immissione di “liquidità” (tutta nominale) serve solo a questo. Moneta e debito infatti esistono solo insieme e fin dal principio, al punto che la moneta non serve allo scambio se non secondariamente, ma all’istituzione di un debito dei soggetti verso lo Stato, che nella forma invertita del debito sovrano (dello Stato verso i soggetti, e quindi, nello schema rappresentativo, dei soggetti verso se stessi, debito interiorizzato), diventa oltre che inestinguibile anche “automatico”, nel senso che esso esiste a prescindere dalla volontà e dalle azioni di ognuno. Il debito quindi preesiste ai soggetti. Esso è un’istituzione transazionale, lo strumento primo della finanza, il fine della facoltà del prestare. Bisogna capire che un’economia capitalista senza debito non può esistere, e in effetti non se n’è mai vista una; le banche esistono da prima del capitalismo e che esso ha comportato nient’altro che un salto qualitativo da un debito originario di carattere per lo più individuale, al debito attuale socializzato, globalizzato e totalizzante. In un’economia monetaria teoricamente autosufficiente, cioè basata sulla sola produzione e scambio, senza banche, borse e Stato, elementi che nel capitalismo sono concatenati strettamente, la stessa moneta non avrebbe ragion d’essere. Il debito è divenuto così la vera risorsa essenziale delle istituzioni, ciò che permette loro di vendere, non beni o servizi, ma direttamente moneta, il che equivale a dire che esso giustifica un prelievo generalizzato in moneta sull’esistenza stessa. Siamo in una fase in cui la produzione di debito diventa il fine stesso dell’economia. E dato che il sistema procede per eufemismo, tutto questo viene chiamato “ristrutturazione del debito”.

 

Il caso della Grecia è, in tal senso, un caso esemplare e la beffa è che questa enorme operazione di rafforzamento del suo debito viene presentata come un “aiuto”. Ci si chiede come si possa finanziare il debito sovrano se non attraverso altro debito. D’altra parte se gran parte dei debiti sovrani sono detenuti dalle banche, a chi prestano i soldi le banche se non a se stesse? Allora questo enorme giro di moneta non è solo un giro nominale? La verità è che il denaro non esce mai davvero dalle banche. È un circuito completamente chiuso, ed in effetti, non si traduce in crescita mentre l’economia va in recessione perché la trasfusione passa direttamente da una sacca di plasma all’altra senza essere praticata endovena a nessun corpo esangue. Il paziente in fin di vita vede queste sacche di plasma passare sulla sua testa senza che nessuno degli infermieri si ricordi di collegare la flebo.

 

Tuttavia esisterebbero modi diversi di considerare l’immissione di liquidità in circolo, uno che potremmo definire “nominale” ed è la forma alla quale si sta assistendo in Grecia, l’altra più keynesiana che potremmo definire “reale”, nel senso che servirebbe ad oliare anche i meccanismi dell’economia reale, cioè quella produttiva. Se nel primo caso si tratta di prestito, nel secondo caso si tratterebbe di finanziamento a fondo perduto. Il secondo modo potrebbe configurarsi più o meno come una forma di reddito di cittadinanza (ogni altra forma è inefficace).

Se consideriamo il dato astratto del piano di “aiuti” di 240 miliardi di Euro in 5 anni messi sul piatto dalla troika per “salvare” la Grecia, senza neanche tenere conto dei miliardi che lo stato greco dovrà trovare per conto suo auto-amputando i propri arti, avremmo la possibilità di assicurare per cinque anni la somma di 360 euro al mese per ogni singolo cittadino greco. Se considerassimo come definitivamente povera la metà della popolazione greca, cosa che ancora pare non sia, il reddito di cittadinanza, per chi è senza entrate, diverrebbe di 720 euro al mese. Assumendo una composizione familiare media anche di 3 persone avremmo 2.160 euro al mese per famiglia che significano quasi 26.000 euro all’anno. C’è qualcuno che può dubitare che un piano straordinario di questa entità, sull’intervallo temporale di un lustro, concepito per la popolazione e non per i bilanci statali e gli interessi (legali) delle banche, non riattiverebbe l’economia della Grecia? Questo si potrebbe ottenere con la medesima cifra e senza imporre tagli. Sarebbe la cosa logica da fare se la preoccupazione della troika fosse davvero il destino dei greci.

 

Ma è impossibile ragionare in questi termini, al di là del fatto che la ragione non rientri nell’ambito della teologia, per il semplice motivo che il salvataggio dei greci implicherebbe l’estinzione per insolvenza del loro debito, dato che lo Stato greco non sarebbe capace di onorare i propri titoli alla loro prossima scadenza. Il debito prima di tutto. In Grecia si sperimenta perciò una teologia capitalistica, di sapore ecumenico, finalmente ed apertamente anti-umana (post-umana), nel senso che non esclude il sacrificio umano, in tempi di “pace”, pur di salvaguardare un’insolvibilità di fatto dello stato greco che conviene, invece, sia perdurante. Questo per il duplice motivo che va dal più evidente interesse delle banche, alla più nascosta, ma correlata, essenza dello Stato in quanto apparato pubblico di cattura del valore.

Il fatto notevole è che configurandosi lo Stato come emissario d’imposta del capitale finanziario impersonale è nei confronti dello Stato soltanto che una politica può agire, o salvandolo attraverso la rivendicazione di un reddito minimo garantito, oppure condannandolo attraverso la creazione di uno scambio finalmente necessario e svincolato dal danaro (no, non stiamo parlando di ritorno al baratto). Fine dell’imposta, fine delle banche, fine delle borse.

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Sindrome da Magna Grecia

Fa un certo effetto la sufficienza con la quale in Europa viene trattata la tragedia greca. Un continente che tanto deve alla storia antica di quella nazione, arriva a credere che quanto avviene in Grecia non lo riguardi da vicino: come se la Grecia fosse un paese a sé, come se essa non fosse dentro l’Europa, ma lo fosse solo geograficamente o per via della moneta, piuttosto che geneticamente.

 

Tuttavia se il cinismo europeo è in qualche modo comprensibile alle latitudini anglosassoni (dove i popoli, e non solo i politici, sono convinti di essere artefici solitari delle proprie virtù), è davvero grottesco l’improvviso (e improvvido) atteggiarsi a paese nordico (e virtuoso) dell’Italia, che fino all’altro ieri, non aveva altre virtù che nel proprio passato antico e che oggi vuole apparire come il primo della classe secondo un modo di fare e ragionare che non gli appartiene. Insomma l’Italia non è mai stato un paese dai conti svizzeri, tantomeno dalle abitudini teutoniche e vuole sentirsi tedesco, proprio nel momento in cui è palese che la politica della Germania strangolerà l’Europa intera. Già una prima volta l’Italia ha voluto seguire la Germania nel momento più sbagliato. Per questo motivo forse di fronte al decorso spaventoso della morsa della crisi greca, in Italia si cerca in ogni modo di guardare da un altro lato, pur di non guardarsi allo specchio, pur di non figurarsi come una Magna Grecia odierna, non più agli albori, ma al possibile tramonto di una civiltà.

Oltre alla vicinanza geografica e alla fortissima familiarità del panorama greco, pensiamo ci sia più di qualche motivo per il quale l’Italia assomigli proprio molto di più alla Grecia che alla Germania e se ne potrebbe parlare a lungo, ma basta il dato del debito pubblico, di 10 volte maggiore, per poter assegnare senz’altro il titolo di Magna Grecia al nostro paese in questo momento.

 

E allora se si gioca a fare i virtuosi e si contrabbanda l’idea che la fine dell’economia greca è, in fin dei conti, responsabilità dei greci, con la loro evasione fiscale elevatissima, con la corruzione politica da stato sudamericano e cose di questo tipo, di cui il debito sarebbe il naturale e meritato riflesso, si dovrebbe anche avere la serietà di ammettere una certa proporzionalità fra questi mali greci e quelli nostrani in ragione diretta all’entità del rapporto fra il nostro debito pubblico e quello greco.

 

Nel nostro paese ci sono invece persone istruite, con la faccia (troppo) pulita e intelligente, che parlano in Tv dicendo che noi siamo stati bravi a prendere per tempo le misure che i greci non hanno voluto o saputo prendere. Gli italiani dovrebbero perciò essere orgogliosi della loro incapacità di far cadere i governi e considerarsi anche furbi per questo o peggio artefici del proprio destino. Invero l’Italia è proprio una Magna Grecia e solo per questa sua “virtù” si trova suo malgrado al centro del mondo in questo momento. L’attenzione internazionale a ciò che si muove in Italia è straordinaria e non per le ultime trovate dell’ultimo presidente del consiglio eletto.

 

Ora si provi ad immaginare lo scenario internazionale con la Magna Grecia insolvente.

Nessuno, compreso la Germania, osa figurarsi cosa resterebbe di un’Europa monetizzata fino al midollo, se l’Italia non tenesse fede ai propri “impegni”. Solo per questo è possibile assistere ad un incredibile impulso autodistruttivo del capitalismo euro-americano, che fa dell’austerità il proprio nuovo grido di battaglia e dell’Italia il suo laboratorio magno (altare sacrificale). La Germania perderebbe la sua “pacifica” ed istituzionale egemonia politica, gli stati-nazione europei riconquisterebbero una relativa (per quanto insperata) autonomia economico-finanziaria soprattutto in termini monetari (svalutazione), l’euro esploderebbe, gli Stati Uniti si troverebbero a fare i conti con una propria moneta di nuovo troppo forte per le esportazioni.

Tutto ciò non può essere, non deve avvenire. Data la particolare congiuntura, il nostro paese sarà teatro di una lotta i cui esiti avranno effetti globali.

 

Qualcuno può davvero credere che al mondo gliene freghi qualcosa del destino degli italiani?

Per questo motivo se il fronte franco-tedesco ha potuto sostenere, per un certo periodo, che la Grecia potesse fallire, è evidente a tutti che l’Italia non deve neanche azzardarsi a pensarlo.

Non è tempo di politica, neanche di dialettica interna fra diverse visioni conservatrici, come ad esempio quella a favore dell’austerità contrapposta a quella più propensa alla crescita, perché alla testa del mondo siedono le banche, il cui potere deriva esattamente dai debiti sovrani, e si sa che alle banche interessano i conti. Ora è dunque tempo di “tecnica”, tempo di dottrina, di esperti, di specialisti e commissari. Ed eccoli i nostri “tecnici” della Bocconi sulla testa dell’Europa.

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Specialisti terribili.

C’è un lavoro sporco da fare, un cadavere da far sparire, come quando arriva Harvey Keitel - Fornero (non si tratta di distribuire caramelle) in Pulp Fiction a mettere a posto la situazione sfuggita di mano. Il capitalismo è vecchio, ogni anno in più di esistenza che questo sistema estorcerà ancora sarà prelevato dalle vite di ciascuno ed in particolare da chi ne ha statisticamente di più: i giovani. Non è affatto un caso che i nostri esperti siano tutti dei vecchi. Non poteva concepirsi distanza più siderale fra un vecchio problema dei giovani e i suoi “guaritori”. Lo scarto incolmabile non è solo economico (chi guadagna vergognosamente troppo non può concepire i problemi quotidiani della crisi economica), ma anche generazionale (chi ha davanti a sé uno scarso decennio di vita non può concepire ansia del futuro).

Soltanto l’idiozia al potere (altro che la fantasia) può sortire la più spettacolare fiera della contro-deduttività come nuovo paradigma del sapere autoritario, quale ci è dato di assistere di questi tempi oscuri.

 

Immaginiamo, nei termini seguenti (dialogo fra sordi), ad esempio, lo svolgimento, un po’ surreale, di una lezione al corso di economia politica dell’austerità, tenuta da un qualsiasi docente “montiano”, incalzato da qualche domanda simile a quelle che crediamo molti si stiano facendo di questi tempi.

Allievo: «Professore, ma l’aumento dell’età pensionabile al fine di favorire l’ingresso dei giovani nel mondo del lavoro, non è una misura contro intuitiva?»

Prof: «Ma forse lei non si rende conto che solo lavorando di più i genitori possono continuare a permettersi di mantenere i loro figli fino a cinquant’anni».

Allievo: «Professore, ma la possibilità di licenziare più facilmente, oltre a sfavorire il raggiungimento di un’adeguata anzianità contributiva, non è evidentemente un amplificatore della disoccupazione?»

Prof: «Ma forse lei non considera che la disoccupazione è dovuta alla resistenza ad assumere per paura di non poter licenziare. In realtà la disoccupazione reale non esiste, se non come conflitto psichico interno del datore di lavoro»

Allievo: «Professore, ma in Italia non è già molto facile licenziare?»

Prof: «Ma, forse lei non considera a sufficienza che non si può licenziare chi non è mai stato assunto, da questo punto di vista, licenziare è addirittura impossibile»

Allievo: «Professore ma non sarebbe lecito aspettarsi dalla crescita della precarizzazione del mondo del lavoro una restrizione, in ragione inversa, del mercato interno?»

Prof: «No, perché noi si punta a quello estero»

Allievo: «Professore, ma l’insieme di queste misure non promette una sicura crisi futura del sistema pensionistico, data la netta diminuzione della capacità contributiva dei lavoratori precari nel tempo?»

Prof: «No, perché lei non considera opportunamente la possibilità di adeguare le pensioni del futuro»

Allievo: «al costo della vita?»

Prof: «No, alla speranza della fine».

 

«Gli specialisti agiscono in un ambito già codificato sulla loro specialità, se si chiede qualcosa agli specialisti è escluso che sappiano rispondere. Gli specialisti sono terribili»[7]

Il ministro Fornero non capiva che il ricongiungimento oneroso dei contributi non è un privilegio, ma il diritto di avere riconosciuti i propri contributi già versati per la propria pensione. Lei pensava che una pensione più consistente fosse da ritenersi un privilegio per il quale è giusto pagare. Il ministro Fornero ritiene che sia giusto pagare per avere indietro i propri soldi[8].

Ora gli italiani dovrebbero non solo tollerare questa incredibile presunzione alla loro guida nazionale, ma anche accettare sacrifici in nome dell’assurdità? Noi pensiamo che tutto quest’oscurantismo tecnocratico non sia per niente necessario, che questo sistema economico, politico e di potere non abbia più alcun senso e ragione di continuare ad esistere. Un minuto dopo lo scoccare della fine, nell’anno Mille, l’umanità capì che la vita continuava[9].

Ma in tema di “fine” è interessante capire che idea gli “esperti” hanno della previdenza sociale. Esiste infatti un documento redatto per il CERP Center for Research on Pensions and Welfare Policies – a firma proprio della nostra Elsa Fornero (che avrebbe poi fatto la riforma delle pensioni), il quale indaga come mai in Italia non abbiano ancora avuto successo alcuni strumenti di “debito innovativo” come il reverse mortgage, vale a dire il prestito vitalizio ipotecario[10], introdotto nel nostro paese dalla Legge 248/05, concludendo che tali strumenti potranno diventare più interessanti per quei pensionati che sono più preoccupati per i loro standard di vita. La relazione fra questo studio e la successiva carica istituzionale di una dei suoi firmatari, ha in sé qualcosa di inquietante[11].

Questa gente non capisce niente[12]. Allora la domanda è: ma siamo sicuri che un improbabile popolo di perfetti bifolchi non sia in grado di scegliere per sé un qualsiasi modo migliore per esistere al mondo?

Tutti sanno che se non c’è lavoro per tutti bisognerebbe distribuirlo. Tutti sanno che allungando l’età pensionabile si sfavoriscono i giovani. Tutti sanno che licenziare più facilmente significa svuotare di senso il lavoro a tempo indeterminato e non aiutare l’occupazione.

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Dalla Magna Grecia alla Grecia[13] (antica). Random democracy

Il punto è questo: la guida politica e/o tecnocratica degli stati non è più adeguata alla situazione. Inadeguatezza per inadeguatezza è meglio che sia l’ignoranza popolare a decidere per se stessa. Trattandosi di dover scegliere come governare la fine, è meglio che si possa partecipare attivamente ad essa. Solo quando le cose continuano ad andare più o meno bene ci si può permettere la delega ad una casta politica inetta. Se nel ‘68 si parlava di “fantasia al potere”, oggi ci sembra più che giusto rivendicare “l’ignoranza al potere”. Seppure il popolo rispondesse esattamente alla rappresentazione di incompetenza che l’autorità dottrinaria ne dà per autogiustificare se stessa, sarebbe comunque più giusto che questa massa di incompetenti fosse libera di decidere per sé. Ma tutti sanno che il popolo, inteso come insieme anche amorfo, è lontano dal corrispondere alla descrizione dominante e che è, al contrario, solo la sua competenza diffusa su tutti gli aspetti del quotidiano a permettere ancora il funzionamento materiale del sistema. Se tutto si trascina ancora in avanti è solo grazie alla resistenza della massa (moltitudine biopolitica) che ogni giorno lotta contro la fine, inventando continuamente le proprie forme di sussistenza. Quando e quanto si produce, si produce nonostante le ingiunzioni burocratiche, di stati e piccoli o grandi padroni, nonostante la povertà dei mezzi, nonostante la sanguisuga statale e parastatale.

Pensiamo che se la storia prende certe pieghe bisognerebbe saper cogliere in essa anche certi suggerimenti che corrono sottotraccia nell’indifferenza generalizzata. Inizio e fine di una civiltà o inizio e fine intesa come un nuovo inizio della stessa civiltà? Cosa ha da suggerirci l’antica Grecia, che possa valere per noi oggi?

 

In una società in cui il sistema produttivo è ipertrofico e allo stesso tempo disorganizzato, bisogna capire come ritrovare un’agibilità politica, che non può non essere in un certo qual modo “astratta”. In queste condizioni lo stesso concetto di democrazia deve essere riformulato, se su scala globale 30 persone decidono tutto. Allora come si può mai conferire un senso reale a questa parola? La democrazia ha bisogno di uno spazio circoscritto, e di un tempo dedicato alla partecipazione, al confronto. Essa si basa su una non-fissità dei ruoli e un giusto equilibrio fra lavoro e politica. Se pensiamo alla democrazia ateniese, che pure era di élite, vediamo che essa seguiva un modello di partecipazione diretta alla gestione della società, in contrapposizione al modo di concepirla in base al modello rappresentativo. Ma la democrazia diretta non si è fatta anche perché è difficile e richiede tutta una serie di condizioni, per poter essere praticata. Essa include la partecipazione collettiva non solo alla discussione politica ma alla gestione della società e quindi un livello medio di preparazione e capacità, che non è solo una preparazione politica, ma alla politica. Ad esempio con il sorteggio, invece che con la votazione, tutti dovevano essere pronti ad essere sorteggiati e questo significava generalmente educati alla politica. Ma su un altro piano significa che invece di centralizzare si deve de-centralizzare. Oggi invece i livelli locali e de-centralizzati, come le municipalità seppure conoscono di più le cose del territorio non possono in realtà fare niente, perché i luoghi decisionali sono oltre che a livelli più alti, anche nascosti. Io vivo qua, non è che posso controllare tutto il mondo.

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Già possiamo immaginare i difensori della meritocrazia sguainare i soliti argomenti: ma come, non è giusto che siano i più meritevoli a dirigere? No, non lo è. Perché è il merito stesso ad essere un privilegio e la sua distribuzione non è per niente equa. La meritocrazia è un valore platonico e pertanto elitario anche quando fossero i veri meritevoli a governare tutti gli altri[14].

 

Michele Ainis[15], noto costituzionalista, in un intervento del 2 gennaio 2012 sul Corriere della Sera[16], lanciava l’idea della cosiddetta demarchia (democrazia del sorteggio) per la costituzione di una Camera dei cittadini da affiancare a quella dei deputati, magari esautorando il Senato, come sostenuto anche da Carlo Calenda sul Foglio (nientemeno). Cariche a rotazione e governanti provvisori (a tempo determinato), con possibilità di revoca anticipata del mandato, sarebbero gli altri correttivi con cui riformare l’attuale graniticità oligarchica assunta dalla democrazia rappresentativa.

Crediamo di poter aggiungere subito un paio di osservazioni. Le proposte di Ainis, per quanto giuste in sé, rappresentano un keinesysmo della politica, volto cioè a salvare e non a condannare il modello della rappresentanza, intanto perché la camera dei cittadini non sostituisce tout court quella dei deputati, ma la affianca solamente, per cui non è ancora chiaro chi comanda (un duopolio di potere, se reale, non può durare), in secondo luogo la democrazia non può essere considerata come un sistema centralizzato a livello nazionale soltanto, senza coprire tutti gli altri livelli locali di organi di potere (non basta dunque una camera di cittadini, ma ce ne vuole un intero sistema). Ma diremo di più. La democrazia non riguarda un settore particolare della società, quello della politica intesa come luogo istituzionale di decisione. Lo stato non è tutto, come insegna Foucault. Il potere si organizza nelle istituzioni ma non corre solo attraverso di esse. La democrazia non può che essere formale in ogni caso in cui non riguardi anche la produzione, il lavoro quotidiano, l’associazione di persone volta ad un fine produttivo. Solo considerando la gestione democratica del lavoro di tutti i tipi (materiale ed immateriale) e l’amministrazione territoriale (politica) come aspetti del medesimo fenomeno democratico, che corre dal locale al sovra locale, si può immaginare un’efficacia attuale del concetto di democrazia, all’altezza dei compiti posti dal momento particolare in cui siamo piombati. Lavoro e politica non possono continuare ad essere concepiti separatamente, amministrazione locale e sovra-locale sono una in rapporto all’altra, la camera nazionale (ammesso che sia necessaria) è in certo qual modo l’epifenomeno dell’autodeterminazione produttiva al livello dell’attività quotidiana.

 

L’autodecisione non può riguardare i giorni di festa e le decisioni “importanti” senza lambire quelle profane e quotidiane, essa è un concetto immediatamente produttivo, un vero e proprio “modo di produzione” che non riguarda però la sola produzione di beni (o di merci) ma anche la produzione di identità o meglio soggettività. La democrazia, se tale vuole essere, non può essere così astratta, albergando nelle istituzioni ma latitando dai luoghi di produzione del valore e della cultura. Essa non può riguardare la società e non il singolo o viceversa. O essa è mezzo di autodeterminazione e quindi produttrice di nuova soggettività, oppure è parola vuota. Essa non può riguardare l’ordinamento statale senza riguardare l’organizzazione quotidiana dell’attività dei singoli associati nel fine di migliorare il mondo attraverso l’opera umana.

 

APRILE 2012

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[1] Sul rapporto fra capitalismo e religione si sono espressi nel tempo autori come Benjamin, Weber, Pasolini, con punti di vista anche discordanti, ma tutti in qualche modo giusti dal loro angolo visuale. Più recentemente il tema è ritornato di attualità e non mancano lavori di respiro più ampio come ad esempio l’opera di Elettra Stimilli, Il debito del vivente, ascesi e capitalismo, Quodlibet, Macerata 2011, fra tutti.

[2] «Oggi si può tracciare il quadro di un’enorme massa monetaria definibile come “apolide”, che circola attraverso gli scambi e le frontiere, sfuggendo al controllo degli Stati, formando un’organizzazione ecumenica multinazionale, costituendo una potenza sovranazionale di fatto, insensibile alle decisioni dei Governi».

Gilles Deleuze e Felix Guattari, 7000 A.C. Apparato di cattura in Millepiani. Capitalismo e schizofrenia. Castelvecchi, Roma 2010, pag. 535.

[3] Il tasso di alta retroguardia del capitale produttivo nazionale è rappresentato plasticamente dalla vicenda della riforma dell’art. 18 dello statuto dei lavoratori.

[4] Si veda a tal proposito Deleuze e Guattari, cit., pag. 524.

[5] Gilles Deleuze e Felix Guattari, L’anti-Edipo. Capitalismo e schizofrenia, Einaudi 2002, pag. 240.

[6] Deleuze e Guattari, cit., pagg. 221, 222.

[7] Chi pensa il cinema. Il senso in meno. Gilles Deleuze a Vincennes (1975-1976).

[8] Estratto dalla puntata di Report del 25 Marzo Previdenza asociale:

«BERNARDO IOVENE: […] Invece tornando alle ricongiunzioni onerose, l’anno scorso il Parlamento ha votato una mozione all’unanimità per l’abolizione della norma. Poi il Governo è andato a casa e adesso il destino di tanta gente è nelle mani del Ministro Fornero.

ELSA FORNERO: Voglio che gli italiani capiscano questa cosa. Se io trovo una possibilità di passare da un regime pensionistico ad un altro regime pensionistico che mi dà qualcosa in più, che mi dà qualcosa in più, io passo. Quel qualcosa in più, lo pago o non lo pago [?]. Perché guardi che se noi adottiamo quel principio..

B. I.: Ma il qualcosa in più sono i contributi che uno ha versato.

E. F.: E no!

B. I.: Ha lavorato in Comune poi, a proposito di flessibilità di cui ci riempiamo la bocca tutti i giorni…

E. F.: Sì, sì, sì.

B. I.: … hanno cambiato lavoro, ma perché bisogna pagarli questi contributi già versati?

E. F.: Dunque, ci sono, le ho già detto prima: i casi sono due: o non c'è niente di più e allora io, pur non avendo fatto i conti, perché non li ho fatti io, li ha fatti l'INPS, io devo presumere che l'INPS abbia fatto dei conti abbastanza precisi e diciamo quantificabili. Lei sta in un regime e, diciamo così, che le viene 100. Poi passa a un altro e le viene 120. Quel 20 lì, qualcuno lo paga! Allora, qui si dice: “vuoi passare di là? Padronissimo, però te lo paghi”. Lei dice: “ma prima era gratuito” e io posso condividere con lei, guarda un po’ quelli si sono avvantaggiati di qualcosa».

(http://www.report.rai.it/dl/Report/puntata/ContentItem-247967ce-8498-4847-b3bb-83961ad92e31.html)

[9] Imperdibili letture: Tonino Guerra (venuto a mancare proprio in questi giorni), Luigi Malerba, Storie dell’anno Mille e Nuove storie dell’anno Mille.

[10] «Il prestito vitalizio è un finanziamento a lungo termine, assistito da ipoteca di primo grado sull'immobile di residenza. Il finanziamento è ideato in modo tale da non prevedere rimborsi di alcun tipo, nemmeno per gli interessi, fino alla morte del contraente, (ovvero, se cointestato ad una coppia di ultra sessantacinquenni, con la scomparsa del coniuge più longevo). Spese e interessi vengono capitalizzati e sono dovuti solo a scadenza. Il rimborso, a meno di rimborso volontario anticipato da parte del sottoscrittore, è a carico degli eredi. Il prestito non prevede quindi il pagamento di alcuna rata per tutta la sua durata, ma capitale ed interessi sono capitalizzati fino a scadenza e maturano interessi. Il prestito vitalizio deve essere rimborsato in un'unica soluzione dagli eredi e/o aventi causa, normalmente entro i 10-12 mesi successivi alla scomparsa del più longevo dei contraenti. Gli eredi hanno due possibilità: se vogliono conservare l'abitazione, possono rimborsare con la liquidità a loro disposizione, oppure l'abitazione potrà essere venduta. […] il prestito vitalizio è uno strumento finanziario che prevede l'anatocismo, ovvero la maturazione di interessi anche sugli interessi già scaduti; in pratica, gli interessi maturati sul prestito producono a loro volta altri interessi, causando una crescita esponenziale del debito». Fonte Wikipedia.

[11] Elsa Fornero, Maria Cristina Rossi, Maria Cesira Urzi Brancati. Explaining why, right or wrong, (Italian) households do not like reverse mortgage, 2011

(reperibile al seguente link: http://www.irsa.it/admin/plugin/panorama/view.html?id=33640&est=1)

[12] «Orbene: le autorità italiane, quelle governative, quelle provinciali, quelle cittadine […] Non sono riuscite ad armonizzare la realtà, perché sono state incapaci di armonizzare prima, nel pensiero, gli elementi della realtà stessa. Esse ignorano la realtà, ignorano l’Italia in quanto è costituita di uomini che vivono, lavorando, soffrendo, morendo. Sono dei dilettanti: non hanno alcuna simpatia per gli uomini. […] Obbligano a soffrire inutilmente nel tempo stesso che sciolgono degli inni alati alla virtù, alla forza di sacrificio del cittadino italiano».

Antonio Gramsci. Politici inetti in Odio gli indifferenti. Chiarelettere, Milano 2011.

[13] Luciano Canfora direbbe dalla Grecia alla Grecia.

[14] L’argomento della meritocrazia, meriterebbe ben altro approfondimento, basti qui sottolineare come esso sia, in ultima analisi, all’origine delle differenze incomprensibili fra retribuzioni per il lavoro, in una società in cui un dirigente di un’azienda, ad esempio, può arrivare a guadagnare centinaia, o addirittura migliaia, di volte in più di un precario o anche di un operaio con un contratto a tempo indeterminato.

[15] Autore anche di Contro il potere degli inetti per una repubblica degli eguali. La cura. Un decalogo per ricominciare da zero. Chiarelettere, Milano 2009.