GRECIA E MAGNA GRECIA
Ovvero
popoli o capitale
C’è sempre un monoteismo all’orizzonte
del dispotismo: il debito diventa
debito d’esistenza,
debito dell’esistenza dei soggetti stessi. Viene il momento in cui il
creditore non ha ancora prestato mentre il debitore non cessa di
rendere, poiché rendere è un dovere, mentre prestare è una facoltà…
(Gilles Deleuze e Felix Guattari,
L’anti-Edipo. Capitalismo e schizofrenia, Einaudi, Torino 2002, pag. 222)
Austerità
Non viviamo un’epoca come le altre. Un
nuovo oscurantismo, infatti, e una nuova dogmatica di idee egemonizzano
la direzione politica internazionale. Il capitale finanziario è
l’artefice di questa teologia medievale fondata sul sacrificio[1]. Sembra di
assistere al disfacimento del mondo antico alla soglia del medioevo. La
lenta e lunga crisi del tardo capitalismo ci sta mostrando ad un tratto
tutta la violenza del sistema in cui viviamo, ponendo sull’altare del
sacrificio, non più la rinuncia al superfluo, ma l’esistenza stessa di
milioni di persone, la loro carne viva.
Siamo di fronte alla fine di un’epoca
storica.
Può anche darsi che la fine sia quella
di una vera e propria civiltà.
Nell’economia globalizzata
l’eurocentrismo è in una crisi probabilmente irreversibile. Si parla
ormai diffusamente della fine del modello europeo, senza dire, tuttavia,
che questo è l’esito di un lungo processo che ha comportato un ineguale
sviluppo del capitalismo sul globo, che mentre si espandeva come modello
di produzione non esportava nella stessa misura né benessere né diritti.
Siamo al punto in cui alcuni paesi, che fino a venti anni fa erano
considerati in via di sviluppo e in cui le classi lavoratrici non hanno
maturato necessariamente una storia di lotta per la conquista di
condizioni di produzione più accettabili, diventano, anche per una
questione di numeri di popolazione, il nuovo standard del capitalismo
senescente, modello che si impone e che richiede che anche gli altri
si adeguino.
Questa inversione paradigmatica fra
centro e periferia globale, sta producendo un cortocircuito sistemico.
Se sul piano economico è da tempo che l’Europa e gli Stati Uniti non
conducono più i giochi come una volta, è sullo stesso piano ideologico
del liberismo che si ritrovano più chiaramente i sintomi della fine di
una civiltà. Paradosso della storia la fine si sta producendo proprio a
partire da una nazione, come la Grecia, a cui la storia dell’Occidente
si è rifatta come la propria origine.
Perché fine di una civiltà? Il
capitalismo nella sua forma espansiva, parlava alle masse sfruttate con
il linguaggio della libertà e dell’opportunità, promettendo prospettive
future che sarebbero dipese solo dalle capacità individuali dei singoli.
Era l’epoca della doppia morale, quella di carta e quella reale,
un’epoca in cui religione e sviluppo economico restavano in palese
contraddizione. Nell’attuale natura recessiva dell’economia invece il
sacrificio assume, come concetto, un senso nuovo e il capitalismo
finanziario si presenta necessariamente nelle vesti di una nuova
religione, un nuovo dogma. Questo si manifesta in un totale cambio di
registro al livello del linguaggio utilizzato: il sistema, non potendosi
più rappresentare come portatore di benessere per tutti, parla alla
gente con il crudo linguaggio della realtà dei fatti. “Le cose stanno
oggettivamente così”, in questo modo suonano le parole odierne del
capitale. Questo è il significato del termine “austerità” che
caratterizza la fase in corso, cioè l’asprezza con cui le verità
nascoste, circa l’infelicità capitalistica, vengono alla luce.
Tutto ciò nonostante ci sia chi opera
tentativi nella direzione di fare dell’austerità una nuova teoria
economica, secondo la quale il capitalismo può funzionare solo con conti
statali in ordine, a prescindere da tutto il resto. A nostro parere non
è un caso che la deviazione misticheggiante dell’economia politica
attuale coincida con la fortissima finanziarizzazione dell’economia, che
rappresenta il compimento della completa astrazione del capitale, non
più produttivo, localizzato e riconoscibile e perciò personificabile. Il
capitale finanziario è un capitale impersonale, talmente lontano,
talmente indifferente che assume le caratteristiche di un nuovo dio, di
cui le borse, simili ad oracoli, rappresentano la volontà. È passato il
tempo in cui il capitalista era il tuo padrone e potevi ancora
immaginarti o intravedere la sua ricchezza mondana. Il padrone di oggi
non lo incontrerai mai e non importa neanche che esista davvero poiché
saranno solo i suoi funzionari a dettare le regole della tua esistenza
al mondo (esattamente come preti)[2].
D’altra parte cosa sta avvenendo in
Grecia se non la trasformazione di un intero Stato in un laboratorio
sociale su larga scala di queste nuove dottrine antiumane del capitale
finanziario globale?
Nel momento stesso in cui uno Stato
prende misure contro i propri cittadini inermi (e disarmati) come si
prenderebbero misure contro invasori malintenzionati, riducendoli alla
fame, all’indigenza materiale e alla disperazione, significa che un
mondo di valori, seppure formali, seppure cartacei, crolla su se stesso
aprendo le porte al baratro. La falsa rappresentazione (della libertà e
del benessere) si nega. Se lo stato ha rappresentato nell’epoca
espansiva del capitale, almeno formalmente, l’interesse pubblico, esso
muta ormai apertamente la propria funzione sociale in guardiano di un
capitale astratto dal territorio e centrato altrove (compiutamente
de-territorializzato), che non concepisce più come necessaria neanche
l’esistenza di una struttura economica statale, in grado di esercitare
quantomeno la funzione elementare di permettere la circolazione della
moneta ai livelli più bassi dell’economia.
Questa nuova convinzione che domina nei
centri di potere sovranazionali (e sovra-politici), non colpisce solo la
classe tradizionalmente oggetto degli attacchi del capitale produttivo,
ma anche il capitale produttivo stesso (nonostante questo sia ancora
tendenzialmente convinto che il male venga dalle pretese operaie[3]), il quale
infatti non può esistere nel vuoto di mercati in verticale contrazione.
I piccoli padroni sono disperati di fronte al crollo della loro società
e molti, schiacciati dai debiti, rinunciano a qualsiasi forma di
resistenza (e quindi della vita, che è diventata una forma di pura
resistenza). Mai fu più chiaro di oggi quanto Keynes e i diritti sociali
conquistati dai lavoratori abbiano significato per il capitalismo del
Novecento, nonostante la cecità ideologica di destre e padroni.
Le destre populiste trovano tipicamente
il loro humus sociale in questa situazione.
La dottrina dell’austerità, essendo
cieca, procede imperterrita nella propria opera distruttrice,
smantellando enormi apparati produttivi in una sorta di guerra senza
armi. Da un punto di vista oggettivo, infatti, poco importa che la
distruzione di forze produttive avvenga mediante bombardamenti piuttosto
che per semplice dismissione. La guerra post-moderna è già in atto da
almeno un decennio e lambisce l’Europa nei suoi paesi di frontiera,
utilizzati dal centro come bastioni economici (aree di sacrificio) a
propria protezione. Si tratta di una guerra, armata da un solo lato
della barricata, del capitale finanziario contro le popolazioni,
condotta mediante direttive, leggi e tassazioni, tutte di natura antisociale.
Il debito infinito
La tradizionale composizione ternaria
del capitale[4], rendita,
profitto e imposta, relativa alle figure sociali del proprietario,
dell’imprenditore e del banchiere (quest’ultimo articolato doppiamente
in privato e pubblico), vede una nettissima prevalenza dell’imposta come
componente il cui dominio tende ad andare a scapito delle altre due. Da
più parti si osserva la strana coincidenza di vedute fra dipendenti
aziendali e loro piccoli padroni, tutti presi nella stessa morsa letale
dello Stato e dei banchieri, che anche se giuridicamente separati sono
in realtà lo stesso soggetto impersonale di “cattura del valore”, il
quale agisce per mezzo di leggi, realizzando pienamente ciò che in altri
tempi poteva sembrare meno palese e cioè che: «prima di essere una finta
garanzia contro il dispotismo, la legge è invenzione del despota stesso:
essa è la forma giuridica assunta dal debito infinito»[5].
Se da un lato si assiste a questa strana
coincidenza, un’altra coincidenza, strana solo in apparenza, è infatti
quella che in Grecia, ma non solo lì, sta palesandosi fra Stato e
banche. L’autosospensione della politica altro non è che la sospensione
di una costosa rappresentazione, finalizzata ad una più diretta
ingerenza delle banche nella tenuta in vita del debito infinito, che il
più banale raziocinio porterebbe a non onorare. Ci permettiamo a questo
punto di riportare questa citazione:
Si è spesso
notato come lo Stato comincia (o ricomincia) con due atti fondamentali,
uno detto di territorialità per fissazione di residenza, l’altro detto
di liberazione per abolizione di piccoli debiti. Ma lo Stato procede per
eufemismo. […] L’abolizione dei debiti, quando ha luogo, è un mezzo per
mantenere la ripartizione delle terre […]. In altri casi ove avviene una
ridistribuzione, il ciclo dei crediti viene mantenuto, nella nuova forma
instaurata dallo Stato, il danaro. Poiché, di certo, il danaro non
comincia col servire al commercio, o almeno non ha un modello
commerciale autonomo. […] E, fondamentalmente, il danaro è
indissociabile non dal commercio, ma dall’imposta come mantenimento
dell’apparato di Stato. Basandosi sulle ricerche di Will, M. Foucault
mostra come, in certe tirannidi greche, l’imposta sugli aristocratici e
la distribuzione di danaro ai poveri era un mezzo per ricondurre il
danaro ai ricchi, per allargare singolarmente il regime dei debiti, per
renderlo ancora più forte, […] (Come se i greci avessero scoperto a loro
modo ciò che gli Americani ritroveranno dopo il New Deal: che pesanti
imposte sono propizie ai buoni affari). Insomma, il danaro, la
circolazione del danaro, è il modo
per rendere il debito infinito[6].
L’immissione di “liquidità” (tutta
nominale) serve solo a questo. Moneta e debito infatti esistono solo
insieme e fin dal principio, al punto che la moneta non serve allo
scambio se non secondariamente, ma all’istituzione di un debito dei
soggetti verso lo Stato, che nella forma invertita del debito sovrano
(dello Stato verso i soggetti, e quindi, nello schema rappresentativo,
dei soggetti verso se stessi, debito interiorizzato), diventa oltre che
inestinguibile anche “automatico”, nel senso che esso esiste a
prescindere dalla volontà e dalle azioni di ognuno. Il debito quindi
preesiste ai soggetti. Esso è un’istituzione transazionale, lo strumento
primo della finanza, il fine della facoltà del prestare. Bisogna capire
che un’economia capitalista senza debito non può esistere, e in effetti
non se n’è mai vista una; le banche esistono da prima del capitalismo e
che esso ha comportato nient’altro che un salto qualitativo da un debito
originario di carattere per lo più individuale, al debito attuale
socializzato, globalizzato e totalizzante. In un’economia monetaria
teoricamente autosufficiente, cioè basata sulla sola produzione e
scambio, senza banche, borse e Stato, elementi che nel capitalismo sono
concatenati strettamente, la stessa moneta non avrebbe ragion d’essere.
Il debito è divenuto così la vera risorsa essenziale delle istituzioni,
ciò che permette loro di vendere, non beni o servizi, ma direttamente
moneta, il che equivale a dire che esso giustifica un prelievo
generalizzato in moneta sull’esistenza stessa. Siamo in una fase in cui
la produzione di debito diventa il fine stesso dell’economia. E dato che
il sistema procede per eufemismo, tutto questo viene chiamato
“ristrutturazione del debito”.
Il caso della Grecia è, in tal senso, un
caso esemplare e la beffa è che questa enorme operazione di
rafforzamento del suo debito viene presentata come un “aiuto”. Ci si
chiede come si possa finanziare il debito sovrano se non attraverso
altro debito. D’altra parte se gran parte dei debiti sovrani sono
detenuti dalle banche, a chi prestano i soldi le banche se non a se
stesse? Allora questo enorme giro di moneta non è solo un giro nominale?
La verità è che il denaro non esce mai davvero dalle banche. È un
circuito completamente chiuso, ed in effetti, non si traduce in crescita
mentre l’economia va in recessione perché la trasfusione passa
direttamente da una sacca di plasma all’altra senza essere praticata
endovena a nessun corpo esangue. Il paziente in fin di vita vede queste
sacche di plasma passare sulla sua testa senza che nessuno degli
infermieri si ricordi di collegare la flebo.
Tuttavia esisterebbero modi diversi di
considerare l’immissione di liquidità in circolo, uno che potremmo
definire “nominale” ed è la forma alla quale si sta assistendo in
Grecia, l’altra più keynesiana che potremmo definire “reale”, nel senso
che servirebbe ad oliare anche i meccanismi dell’economia reale, cioè
quella produttiva. Se nel primo caso si tratta di prestito, nel secondo
caso si tratterebbe di finanziamento a fondo perduto. Il secondo modo
potrebbe configurarsi più o meno come una forma di reddito di
cittadinanza (ogni altra forma è inefficace).
Se consideriamo il dato astratto del
piano di “aiuti” di 240 miliardi di Euro in 5 anni messi sul piatto
dalla troika per “salvare” la Grecia, senza neanche tenere conto dei
miliardi che lo stato greco dovrà trovare per conto suo auto-amputando i
propri arti, avremmo la possibilità di assicurare per cinque anni la
somma di 360 euro al mese per ogni singolo cittadino greco. Se
considerassimo come definitivamente povera la metà della popolazione
greca, cosa che ancora pare non sia, il reddito di cittadinanza, per chi
è senza entrate, diverrebbe di 720 euro al mese. Assumendo una
composizione familiare media anche di 3 persone avremmo 2.160 euro al
mese per famiglia che significano quasi 26.000 euro all’anno. C’è
qualcuno che può dubitare che un piano straordinario di questa entità,
sull’intervallo temporale di un lustro, concepito per la popolazione e
non per i bilanci statali e gli interessi (legali) delle banche, non
riattiverebbe l’economia della Grecia? Questo si potrebbe ottenere con
la medesima cifra e senza imporre tagli. Sarebbe la cosa logica da fare
se la preoccupazione della troika fosse davvero il destino dei greci.
Ma è impossibile ragionare in questi
termini, al di là del fatto che la ragione non rientri nell’ambito della
teologia, per il semplice motivo che il salvataggio dei greci
implicherebbe l’estinzione per insolvenza del loro debito, dato che lo
Stato greco non sarebbe capace di onorare i propri titoli alla loro
prossima scadenza. Il debito prima di tutto. In Grecia si sperimenta
perciò una teologia capitalistica, di sapore ecumenico, finalmente ed
apertamente anti-umana (post-umana), nel senso che non esclude il
sacrificio umano, in tempi di “pace”, pur di salvaguardare
un’insolvibilità di fatto dello stato greco che conviene, invece, sia
perdurante. Questo per il duplice motivo che va dal più
evidente interesse delle banche, alla più nascosta, ma correlata,
essenza dello Stato in quanto apparato pubblico di cattura del valore.
Il fatto notevole è che configurandosi
lo Stato come emissario d’imposta del capitale finanziario impersonale è
nei confronti dello Stato soltanto che una politica può agire, o
salvandolo attraverso la rivendicazione di un reddito minimo garantito,
oppure condannandolo attraverso la creazione di uno scambio finalmente
necessario e svincolato dal danaro (no, non stiamo parlando di ritorno
al baratto). Fine dell’imposta, fine delle banche, fine delle borse.
Sindrome da Magna Grecia
Fa un certo effetto la sufficienza con
la quale in Europa viene trattata la tragedia greca. Un continente che
tanto deve alla storia antica di quella nazione, arriva a credere che
quanto avviene in Grecia non lo riguardi da vicino: come se la Grecia
fosse un paese a sé, come se essa non fosse dentro l’Europa, ma lo fosse
solo geograficamente o per via della moneta, piuttosto che
geneticamente.
Tuttavia se il cinismo europeo è in
qualche modo comprensibile alle latitudini anglosassoni (dove i popoli,
e non solo i politici, sono convinti di essere artefici solitari delle
proprie virtù), è davvero grottesco l’improvviso (e improvvido)
atteggiarsi a paese nordico (e virtuoso) dell’Italia, che fino all’altro
ieri, non aveva altre virtù che nel proprio passato antico e che oggi
vuole apparire come il primo della classe secondo un modo di fare e
ragionare che non gli appartiene. Insomma l’Italia non è mai stato un
paese dai conti svizzeri, tantomeno dalle abitudini teutoniche e vuole
sentirsi tedesco, proprio nel momento in cui è palese che la politica
della Germania strangolerà l’Europa intera. Già una prima volta l’Italia
ha voluto seguire la Germania nel momento più sbagliato. Per questo
motivo forse di fronte al decorso spaventoso della morsa della crisi
greca, in Italia si cerca in ogni modo di guardare da un altro lato, pur
di non guardarsi allo specchio, pur di non figurarsi come una Magna
Grecia odierna, non più agli albori, ma al possibile tramonto di una
civiltà.
Oltre alla vicinanza geografica e alla
fortissima familiarità del panorama greco, pensiamo ci sia più di
qualche motivo per il quale l’Italia assomigli proprio molto di più alla
Grecia che alla Germania e se ne potrebbe parlare a lungo, ma basta il
dato del debito pubblico, di 10 volte maggiore, per poter assegnare
senz’altro il titolo di Magna Grecia al nostro paese in questo momento.
E allora se si gioca a fare i virtuosi e
si contrabbanda l’idea che la fine dell’economia greca è, in fin dei
conti, responsabilità dei greci, con la loro evasione fiscale
elevatissima, con la corruzione politica da stato sudamericano e cose di
questo tipo, di cui il debito sarebbe il naturale e meritato riflesso,
si dovrebbe anche avere la serietà di ammettere una certa
proporzionalità fra questi mali greci e quelli nostrani in ragione
diretta all’entità del rapporto fra il nostro debito pubblico e quello
greco.
Nel nostro paese ci sono invece persone
istruite, con la faccia (troppo) pulita e intelligente, che parlano in
Tv dicendo che noi siamo stati bravi a prendere per tempo le misure che
i greci non hanno voluto o saputo prendere. Gli italiani dovrebbero
perciò essere orgogliosi della loro incapacità di far cadere i governi e
considerarsi anche furbi per questo o peggio artefici del proprio
destino. Invero l’Italia è proprio una Magna Grecia e solo per questa
sua “virtù” si trova suo malgrado al centro del mondo in questo momento.
L’attenzione internazionale a ciò che si muove in Italia è straordinaria
e non per le ultime trovate dell’ultimo presidente del consiglio eletto.
Ora si provi ad immaginare lo scenario
internazionale con la Magna Grecia insolvente.
Nessuno, compreso la Germania, osa
figurarsi cosa resterebbe di un’Europa monetizzata fino al midollo, se
l’Italia non tenesse fede ai propri “impegni”. Solo per questo è
possibile assistere ad un incredibile impulso autodistruttivo del
capitalismo euro-americano, che fa dell’austerità il proprio nuovo grido
di battaglia e dell’Italia il suo laboratorio magno (altare
sacrificale). La Germania perderebbe la sua “pacifica” ed istituzionale
egemonia politica, gli stati-nazione europei riconquisterebbero una
relativa (per quanto insperata) autonomia economico-finanziaria
soprattutto in termini monetari (svalutazione), l’euro esploderebbe, gli
Stati Uniti si troverebbero a fare i conti con una propria moneta di
nuovo troppo forte per le esportazioni.
Tutto ciò non può essere, non deve
avvenire. Data la particolare congiuntura, il nostro paese sarà teatro
di una lotta i cui esiti avranno effetti globali.
Qualcuno può davvero credere che al
mondo gliene freghi qualcosa del destino degli italiani?
Per questo motivo se il fronte
franco-tedesco ha potuto sostenere, per un certo periodo, che la Grecia
potesse fallire, è evidente a tutti che l’Italia non deve neanche
azzardarsi a pensarlo.
Non è tempo di politica, neanche di
dialettica interna fra diverse visioni conservatrici, come ad esempio
quella a favore dell’austerità contrapposta a quella più propensa alla
crescita, perché alla testa
del mondo siedono le banche, il cui potere deriva esattamente dai debiti
sovrani, e si sa che alle banche interessano i conti. Ora è dunque tempo
di “tecnica”, tempo di dottrina, di esperti, di specialisti e
commissari. Ed eccoli i nostri “tecnici” della Bocconi sulla testa
dell’Europa.
Specialisti terribili.
C’è un lavoro sporco da fare, un
cadavere da far sparire, come quando arriva Harvey Keitel - Fornero (non
si tratta di distribuire caramelle) in
Pulp Fiction a mettere a posto
la situazione sfuggita di mano. Il capitalismo è vecchio, ogni anno in
più di esistenza che questo sistema estorcerà ancora sarà prelevato
dalle vite di ciascuno ed in particolare da chi ne ha statisticamente di
più: i giovani. Non è affatto un caso che i nostri esperti siano tutti
dei vecchi. Non poteva concepirsi distanza più siderale fra un vecchio
problema dei giovani e i suoi “guaritori”. Lo scarto incolmabile non è
solo economico (chi guadagna vergognosamente troppo non può concepire i
problemi quotidiani della crisi economica), ma anche generazionale (chi
ha davanti a sé uno scarso decennio di vita non può concepire ansia del
futuro).
Soltanto l’idiozia al potere (altro che
la fantasia) può sortire la più spettacolare fiera della
contro-deduttività come nuovo paradigma del sapere autoritario, quale ci
è dato di assistere di questi tempi oscuri.
Immaginiamo, nei termini seguenti
(dialogo fra sordi), ad esempio, lo svolgimento, un po’ surreale, di una
lezione al corso di economia
politica dell’austerità, tenuta da un qualsiasi docente “montiano”,
incalzato da qualche domanda simile a quelle che crediamo molti si
stiano facendo di questi tempi.
Allievo:
«Professore, ma l’aumento dell’età pensionabile al fine di favorire
l’ingresso dei giovani nel mondo del lavoro, non è una misura contro
intuitiva?»
Prof: «Ma forse lei non si rende conto che solo lavorando di più i genitori
possono continuare a permettersi di mantenere i loro figli fino a
cinquant’anni».
Allievo:
«Professore, ma la possibilità di licenziare più facilmente, oltre a
sfavorire il raggiungimento di un’adeguata anzianità contributiva, non è
evidentemente un amplificatore della disoccupazione?»
Prof: «Ma forse lei non considera che la disoccupazione è dovuta alla
resistenza ad assumere per paura di non poter licenziare. In realtà la
disoccupazione reale non esiste, se non come conflitto psichico interno
del datore di lavoro»
Allievo:
«Professore, ma in Italia non è già molto facile licenziare?»
Prof: «Ma, forse lei non considera a sufficienza che non si può licenziare chi
non è mai stato assunto, da questo punto di vista, licenziare è
addirittura impossibile»
Allievo:
«Professore ma non sarebbe lecito aspettarsi dalla crescita della
precarizzazione del mondo del lavoro una restrizione, in ragione
inversa, del mercato interno?»
Prof: «No, perché noi si punta a quello estero»
Allievo:
«Professore, ma l’insieme di queste misure non promette una sicura crisi
futura del sistema pensionistico, data la netta diminuzione della
capacità contributiva dei lavoratori precari nel tempo?»
Prof: «No, perché lei non considera opportunamente la possibilità di adeguare
le pensioni del futuro»
Allievo:
«al costo della vita?»
Prof: «No, alla speranza della fine».
«Gli
specialisti agiscono in un ambito già codificato sulla loro specialità,
se si chiede qualcosa agli specialisti è escluso che sappiano
rispondere. Gli specialisti sono terribili»[7]
Il ministro Fornero non capiva che il
ricongiungimento oneroso dei contributi non è un privilegio, ma il
diritto di avere riconosciuti i propri contributi già versati per la
propria pensione. Lei pensava che una pensione più consistente fosse da
ritenersi un privilegio per il quale è giusto pagare. Il ministro
Fornero ritiene che sia giusto pagare per avere indietro i propri soldi[8].
Ora gli italiani dovrebbero non solo
tollerare questa incredibile presunzione alla loro guida nazionale, ma
anche accettare sacrifici in nome dell’assurdità? Noi pensiamo che tutto
quest’oscurantismo tecnocratico non sia per niente necessario, che
questo sistema economico, politico e di potere non abbia più alcun senso
e ragione di continuare ad esistere. Un minuto dopo lo scoccare della
fine, nell’anno Mille, l’umanità capì che la vita continuava[9].
Ma in tema di “fine” è interessante
capire che idea gli “esperti” hanno della previdenza sociale.
Esiste infatti un documento
redatto per il CERP
– Center for Research on Pensions and Welfare
Policies – a firma proprio della nostra Elsa Fornero
(che avrebbe poi fatto la riforma delle pensioni), il quale indaga come
mai in Italia non abbiano ancora avuto successo alcuni strumenti di
“debito innovativo” come il reverse mortgage, vale a dire il
prestito vitalizio ipotecario[10],
introdotto nel nostro paese dalla Legge 248/05, concludendo che tali
strumenti potranno diventare più interessanti per quei pensionati che
sono più preoccupati per i loro standard di vita. La relazione fra
questo studio e la successiva carica istituzionale di una dei suoi
firmatari, ha in sé qualcosa di inquietante[11].
Questa gente non capisce niente[12]. Allora la
domanda è: ma siamo sicuri che un improbabile popolo di perfetti
bifolchi non sia in grado di scegliere per sé un qualsiasi modo migliore
per esistere al mondo?
Tutti sanno che se non c’è lavoro per
tutti bisognerebbe distribuirlo. Tutti sanno che allungando l’età
pensionabile si sfavoriscono i giovani. Tutti sanno che licenziare più
facilmente significa svuotare di senso il lavoro a tempo indeterminato e
non aiutare l’occupazione.
Dalla Magna Grecia alla Grecia[13]
(antica). Random democracy
Il punto è questo: la guida politica e/o
tecnocratica degli stati non è più adeguata alla situazione.
Inadeguatezza per inadeguatezza è meglio che sia l’ignoranza popolare a
decidere per se stessa. Trattandosi di dover scegliere come governare la
fine, è meglio che si possa partecipare attivamente ad essa. Solo quando
le cose continuano ad andare più o meno bene ci si può permettere la
delega ad una casta politica inetta. Se nel ‘68 si parlava di “fantasia
al potere”, oggi ci sembra più che giusto rivendicare “l’ignoranza al
potere”. Seppure il popolo rispondesse esattamente alla rappresentazione
di incompetenza che l’autorità dottrinaria ne dà per autogiustificare se
stessa, sarebbe comunque più giusto che questa massa di incompetenti
fosse libera di decidere per sé. Ma tutti sanno che il popolo, inteso
come insieme anche amorfo, è lontano dal corrispondere alla descrizione
dominante e che è, al contrario, solo la sua competenza diffusa su tutti
gli aspetti del quotidiano a permettere ancora il funzionamento
materiale del sistema. Se tutto si trascina ancora in avanti è solo
grazie alla resistenza della massa (moltitudine biopolitica) che ogni
giorno lotta contro la fine, inventando continuamente le proprie forme
di sussistenza. Quando e quanto si produce, si produce nonostante le
ingiunzioni burocratiche, di stati e piccoli o grandi padroni,
nonostante la povertà dei mezzi, nonostante la sanguisuga statale e
parastatale.
Pensiamo che se la storia prende certe
pieghe bisognerebbe saper cogliere in essa anche certi suggerimenti che
corrono sottotraccia nell’indifferenza generalizzata. Inizio e fine di
una civiltà o inizio e fine intesa come un nuovo inizio della stessa
civiltà? Cosa ha da suggerirci l’antica Grecia, che possa valere per noi
oggi?
In una società in cui il sistema
produttivo è ipertrofico e allo stesso tempo disorganizzato, bisogna
capire come ritrovare un’agibilità politica, che non può non essere in
un certo qual modo “astratta”. In queste condizioni lo stesso concetto
di democrazia deve essere riformulato, se su scala globale 30 persone
decidono tutto. Allora come si può mai conferire un senso reale a questa
parola? La democrazia ha bisogno di uno spazio circoscritto, e di un
tempo dedicato alla partecipazione, al confronto. Essa si basa su una
non-fissità dei ruoli e un giusto equilibrio fra lavoro e politica. Se
pensiamo alla democrazia ateniese, che pure era di élite, vediamo che
essa seguiva un modello di partecipazione diretta alla gestione della
società, in contrapposizione al modo di concepirla in base al modello
rappresentativo. Ma la democrazia diretta non si è fatta anche perché è
difficile e richiede tutta una serie di condizioni, per poter essere
praticata. Essa include la partecipazione collettiva non solo alla
discussione politica ma alla gestione della società e quindi un livello
medio di preparazione e capacità, che non è solo una preparazione
politica, ma alla politica. Ad esempio con il sorteggio, invece che con
la votazione, tutti dovevano essere pronti ad essere sorteggiati e
questo significava generalmente educati alla politica. Ma su un
altro piano significa che invece di centralizzare si deve
de-centralizzare. Oggi invece i livelli locali e de-centralizzati, come
le municipalità seppure conoscono di più le cose del territorio non
possono in realtà fare niente, perché i luoghi decisionali sono oltre
che a livelli più alti, anche nascosti. Io vivo qua, non è che posso
controllare tutto il mondo.
Già possiamo immaginare i difensori
della meritocrazia sguainare i soliti argomenti: ma come, non è giusto
che siano i più meritevoli a dirigere? No, non lo è. Perché è il merito
stesso ad essere un privilegio e la sua distribuzione non è per niente
equa. La meritocrazia è un valore platonico e pertanto elitario anche
quando fossero i veri meritevoli a governare tutti gli altri[14].
Michele Ainis[15], noto
costituzionalista, in un intervento del 2 gennaio 2012 sul
Corriere della Sera[16],
lanciava l’idea della cosiddetta
demarchia (democrazia del sorteggio) per la costituzione di una
Camera dei cittadini da affiancare a quella dei deputati, magari
esautorando il Senato, come sostenuto anche da Carlo Calenda sul
Foglio (nientemeno). Cariche a
rotazione e governanti provvisori (a tempo determinato), con possibilità
di revoca anticipata del mandato, sarebbero gli altri correttivi con cui
riformare l’attuale graniticità oligarchica assunta dalla democrazia
rappresentativa.
Crediamo di poter aggiungere subito un
paio di osservazioni. Le proposte di Ainis, per quanto giuste in sé,
rappresentano un keinesysmo della politica, volto cioè a salvare e non a
condannare il modello della rappresentanza, intanto perché la camera dei
cittadini non sostituisce tout
court quella dei deputati, ma la affianca solamente, per cui non è
ancora chiaro chi comanda (un duopolio di potere, se reale, non può
durare), in secondo luogo la democrazia non può essere considerata come
un sistema centralizzato a livello nazionale soltanto, senza coprire
tutti gli altri livelli locali di organi di potere (non basta dunque una
camera di cittadini, ma ce ne vuole un intero sistema). Ma diremo di
più. La democrazia non riguarda un settore particolare della società,
quello della politica intesa come luogo istituzionale di decisione. Lo
stato non è tutto, come insegna Foucault. Il potere si organizza nelle
istituzioni ma non corre solo attraverso di esse. La democrazia non può
che essere formale in ogni caso in cui non riguardi anche la produzione,
il lavoro quotidiano, l’associazione di persone volta ad un fine
produttivo. Solo considerando la gestione democratica del lavoro di
tutti i tipi (materiale ed immateriale) e l’amministrazione territoriale
(politica) come aspetti del medesimo fenomeno democratico, che corre dal
locale al sovra locale, si può immaginare un’efficacia attuale del
concetto di democrazia, all’altezza dei compiti posti dal momento
particolare in cui siamo piombati. Lavoro e politica non possono
continuare ad essere concepiti separatamente, amministrazione locale e
sovra-locale sono una in rapporto all’altra, la camera nazionale
(ammesso che sia necessaria) è in certo qual modo l’epifenomeno
dell’autodeterminazione produttiva al livello dell’attività quotidiana.
L’autodecisione non può riguardare i
giorni di festa e le decisioni “importanti” senza lambire quelle profane
e quotidiane, essa è un concetto immediatamente produttivo, un vero e
proprio “modo di produzione” che non riguarda però la sola produzione di
beni (o di merci) ma anche la produzione di identità o meglio
soggettività. La democrazia, se tale vuole essere, non può essere così
astratta, albergando nelle istituzioni ma latitando dai luoghi di
produzione del valore e della cultura. Essa non può riguardare la
società e non il singolo o viceversa. O essa è mezzo di
autodeterminazione e quindi produttrice di nuova soggettività, oppure è
parola vuota. Essa non può riguardare l’ordinamento statale senza
riguardare l’organizzazione quotidiana dell’attività dei singoli
associati nel fine di migliorare il mondo attraverso l’opera umana.
APRILE 2012
[1]
Sul rapporto fra capitalismo e religione si sono espressi nel
tempo autori come Benjamin, Weber, Pasolini, con punti di vista
anche discordanti, ma tutti in qualche modo giusti dal loro
angolo visuale. Più recentemente il tema è ritornato di
attualità e non mancano lavori di respiro più ampio come ad
esempio l’opera di Elettra Stimilli,
Il debito del vivente,
ascesi e capitalismo, Quodlibet, Macerata 2011, fra tutti.
[2]
«Oggi si può tracciare il quadro di un’enorme massa monetaria
definibile come “apolide”, che circola attraverso gli scambi e
le frontiere, sfuggendo al controllo degli Stati, formando
un’organizzazione ecumenica multinazionale, costituendo una
potenza sovranazionale di fatto, insensibile alle decisioni dei
Governi».
Gilles Deleuze e Felix Guattari,
7000 A.C. Apparato di cattura in
Millepiani. Capitalismo e
schizofrenia. Castelvecchi, Roma 2010, pag. 535.
[3]
Il tasso di alta retroguardia del capitale produttivo nazionale
è rappresentato plasticamente dalla vicenda della riforma
dell’art. 18 dello statuto dei lavoratori.
[4]
Si veda a tal proposito Deleuze e Guattari, cit., pag. 524.
[5]
Gilles Deleuze e Felix Guattari,
L’anti-Edipo. Capitalismo e schizofrenia, Einaudi 2002, pag. 240
[6]
Deleuze e Guattari,
cit., pagg. 221, 222
[7]
Chi pensa il
cinema. Il senso in meno.
Gilles Deleuze a Vincennes
(1975-1976).
[8]
Estratto dalla puntata di Report del 25 Marzo
Previdenza asociale:
«BERNARDO IOVENE: […] Invece tornando alle ricongiunzioni
onerose, l’anno scorso il Parlamento ha votato una mozione
all’unanimità per l’abolizione della norma. Poi il Governo è
andato a casa e adesso il destino di tanta gente è nelle mani
del Ministro Fornero.
ELSA FORNERO: Voglio che gli italiani capiscano questa cosa.
Se io trovo una possibilità di passare da un regime
pensionistico ad un altro regime pensionistico che mi dà
qualcosa in più, che mi dà qualcosa in più, io passo. Quel
qualcosa in più, lo pago o non lo pago [?]. Perché guardi che se
noi adottiamo quel principio..
B. I.: Ma il qualcosa in più sono i contributi che uno ha
versato.
E. F.: E no!
B. I.: Ha lavorato in Comune poi, a proposito di flessibilità
di cui ci riempiamo la bocca tutti i giorni…
E. F.: Sì, sì, sì.
B. I.: … hanno cambiato lavoro, ma perché bisogna pagarli
questi contributi già versati?
E. F.: Dunque, ci sono, le ho già detto prima: i casi sono
due: o non c'è niente di più e allora io, pur non avendo fatto i
conti, perché non li ho fatti io, li ha fatti l'INPS, io devo
presumere che l'INPS abbia fatto dei conti abbastanza precisi e
diciamo quantificabili. Lei sta in un regime e, diciamo così,
che le viene 100. Poi passa a un altro e le viene 120. Quel 20
lì, qualcuno lo paga! Allora, qui si dice: “vuoi passare di là?
Padronissimo, però te lo paghi”. Lei dice: “ma prima era
gratuito” e io posso condividere con lei, guarda un po’ quelli
si sono avvantaggiati di qualcosa».
(http://www.report.rai.it/dl/Report/puntata/ContentItem-247967ce-8498-4847-b3bb-83961ad92e31.html)
[9]
Imperdibili letture: Tonino Guerra (venuto a mancare proprio in
questi giorni), Luigi Malerba,
Storie dell’anno Mille e
Nuove storie dell’anno
Mille.
[10]
«Il prestito vitalizio è un finanziamento a lungo termine,
assistito da ipoteca di primo grado sull'immobile di residenza.
Il finanziamento è ideato in modo tale da non prevedere rimborsi
di alcun tipo, nemmeno per gli interessi, fino alla morte del
contraente, (ovvero, se cointestato ad una coppia di ultra
sessantacinquenni, con la scomparsa del coniuge più longevo).
Spese e interessi vengono capitalizzati e sono dovuti solo a
scadenza. Il rimborso, a meno di rimborso volontario anticipato
da parte del sottoscrittore, è a carico degli eredi. Il prestito
non prevede quindi il pagamento di alcuna rata per tutta la sua
durata, ma capitale ed interessi sono capitalizzati fino a
scadenza e maturano interessi. Il prestito vitalizio deve essere
rimborsato in un'unica soluzione dagli eredi e/o aventi causa,
normalmente entro i 10-12 mesi successivi alla scomparsa del più
longevo dei contraenti. Gli eredi hanno due possibilità: se
vogliono conservare l'abitazione, possono rimborsare con la
liquidità a loro disposizione, oppure l'abitazione potrà essere
venduta. […] il prestito vitalizio è uno strumento finanziario
che prevede l'anatocismo,
ovvero la maturazione di interessi anche sugli interessi già
scaduti; in pratica, gli interessi maturati sul prestito
producono a loro volta altri interessi, causando una crescita
esponenziale del debito».
Fonte Wikipedia.
[11]
Elsa Fornero, Maria Cristina Rossi, Maria Cesira Urzi Brancati.
Explaining why, right or wrong,
(Italian) households do not like reverse mortgage, 2011
(reperibile al seguente link:
http://www.irsa.it/admin/plugin/panorama/view.html?id=33640&est=1)
[12]
«Orbene: le autorità italiane, quelle governative, quelle
provinciali, quelle cittadine […] Non sono riuscite ad
armonizzare la realtà, perché sono state incapaci di armonizzare
prima, nel pensiero, gli elementi della realtà stessa. Esse
ignorano la realtà, ignorano l’Italia in quanto è costituita di
uomini che vivono, lavorando, soffrendo, morendo. Sono dei
dilettanti: non hanno alcuna simpatia per gli uomini. […]
Obbligano a soffrire inutilmente nel tempo stesso che sciolgono
degli inni alati alla virtù, alla forza di sacrificio del
cittadino italiano».
Antonio Gramsci. Politici inetti in
Odio gli indifferenti.
Chiarelettere, Milano 2011.
[13]
Luciano Canfora direbbe dalla Grecia alla Grecia.
[14]
L’argomento della meritocrazia, meriterebbe ben altro
approfondimento, basti qui sottolineare come esso sia, in ultima
analisi, all’origine delle differenze incomprensibili fra
retribuzioni per il lavoro, in una società in cui un dirigente
di un’azienda, ad esempio, può arrivare a guadagnare centinaia,
o addirittura migliaia, di volte in più di un precario o anche
di un operaio con un contratto a tempo indeterminato.
[15]
Autore anche di Contro il
potere degli inetti per una repubblica degli eguali. La cura. Un
decalogo per ricominciare da zero. Chiarelettere, Milano 2009