banner rivista rosso
07
Maggio 2012

home - indice

 

ANTEFATTO E PRESENTAZIONE DEL NUMERO

Redazione

 

Il numero 07 che qui vi presentiamo, in definitiva, nei suoi vari articoli altro non fa che esprimere un pensiero semplice, che è però anche al tempo stesso il più complesso di tutti gli altri che possano essere concepiti oggi: l’umanità sta cambiando; e questo cambiamento ha accelerato in modo clamoroso.

 

Come è chiaro, se scriviamo su e di Città future non è per il solo amore dell’umanità del futuro. La speranza, il desiderio di una trasformazione delle cose sono generate unicamente dal più profondo dei dolori ispirati dal presente. I sentimenti, certo, non sono la verità dei pensieri, è vero; tuttavia, crediamo che riflessioni senza passione, e discussioni che non taglino nella viva carne del mondo non diano mai contributi sinceri al proprio tempo. E, dunque, agiamo così, con la coscienza di non aver bisogno d’altri pensieri ossificati, o d’altre rinunce nel prendere posizione nella vita.

 

L’uscita di questo numero avviene, come è evidente a voi che ci leggete, in un momento di crisi epocale della nostra storia. L’Europa, al confronto con le altre potenze mondiali, è in procinto di cedere il passo, forse in modo più duraturo di quanto si pensi. In questo scenario complesso, l’Italia ha assunto un ruolo importante, è divenuto una sorta di ago della bilancia della sorte di un intero continente ed insieme pesante àncora di una nave che è già rallentata e che naviga in acque decisamente incerte.

 

Il mondo, d’altra parte, procede, questo è vero; non tutto è fermo. C’è la Cina, c’è l’India, e poi il Brasile, senza dimenticare gli Stati Uniti; ma sentiamo di doverci porre una domanda: qual è la traiettoria storica delle forme economiche e politiche di questi paesi? Dove arrivano ad incontrarsi l’orizzonte del loro attuale presente e del loro prossimo futuro? Non è, forse, quell’orizzonte ormai così vicino a ciò che è al di là dell’uomo, al di là, almeno, del nostro uomo, quello che abbiamo conosciuto e che adesso non più riconosciamo,e tuttavia quello che ancora ci porta a scrivere queste parole, a porci queste domande, a sperare in una risposta, in una presa di posizione?

 

Se questa è la traiettoria storica reale, se a questo punto ci porta il sistema del capitalismo di oggi, dovremo finalmente arrenderci a questo nuovo uomo, abbandonare le resistenze e, soprattutto, abbandonare la memoria, lasciare che il nuovo avanzi, che tutto conquisti il nuovo uomo, quest’uomo che, del vecchio, ha solo il nome? Bisognerà lasciarlo finire del tutto l’uomo che era, per incontrare un orizzonte del futuro?

 

L’Italia anche sta cambiando velocemente. Ma va pur detto, se ce ne fosse bisogno, che non è per via di Berlusconi, o di Monti, né per via della sua arretratezza storica e della mediocrità morale che la contraddistingue. L’Italia sta cambiando perché è la sua costituzione ossea e la carne del suo corpo, che sono inadeguate, anche per le traversie degli ultimi suoi secoli, ad affrontare il batterio di questa nuova peste mondiale.

 

L’Italia anch’essa è ammalata, e i veri sintomi della sua malattia non sono la crisi dei partiti, o i suicidi dei lavoratori e degli imprenditori, né sono gli indici d’aspettativa della crescita economica. Il suo abisso è un abisso in cui il senso delle cose deflagra, e lo spaesamento di chi vive in esso è quello di chi, oramai, non sa neppure perché lottare, perché resistere, cambiare.

 (Torna su)

La diafana malattia italiana ha raggiunto così la stessa trasparenza della salute nichilistica dell’Europa e dell’Occidente capitalistico tutto. La stessa distruzione di ogni morale e ogni estetica della vita, d’ogni senso, e la frattura fra presente e passato, fra i singoli e la società, si compiono anche in Italia; come compiute lo erano già tempo, con differenze dovute solo ad una diversa storia della coscienza civile, in Francia, Inghilterra, Spagna, Germania. Se l’Italia oggi precipita e si dimena, invano, nella sua malattia, è perché è più debole degli altri, e ha una debolezza creatasi nel tempo e che nel tempo è stata dimenticata.

 

Gli Italiani infatti hanno vissuto rivoluzioni politiche ed economiche solo in una forma passiva; la stessa passività, la stessa subordinazione è anche la radice dell’inconsapevole e, in definitiva, inconsistente resistenza degli italiani a quella trasformazione dell’uomo che la borghesia ha operato dovunque nel mondo nell’ultimo secolo e mezzo. L’Italia ha resistito, a modo suo, per un lungo periodo, rimanendo, infatti, nelle sue province del Sud, nelle periferie più oscure delle sue città, e nelle sue isole reali e figurali, anche qualcosa di diverso. Fino ancora a pochi decenni fa, l’Italia, tra i paesi ricchi, rappresentava oggettivamente il paese rimasto più legato a tradizionali e plurisecolari forme di vita.

 

Ma ormai, che sia bene o che sia male, tutto questo è definitivamente tramontato. Gli argini sono stati divelti, e con violenza, e la marea storica trasborda al di sopra delle palizzate che il nostro carattere aveva creato nel tempo… ed ora c’è già chi urla alla fine del mondo. Come dare torto a questi nuovi annunciatori dell’apocalisse?

 

Ma non sarà neppure questa la vera fine del mondo, come non lo sono state le altre temute e sperate nel corso degli ultimi millenni.

 

Si tratta sicuramente della fine di un certo mondo, un mondo ben determinato, il mondo che chi ha almeno più di venti anni, ha avuto ancora la possibilità di intravedere, di conoscere, magari solo in modo teorico. Quando l’apparente malattia, la malattia della crisi, finirà, e nulla impedisce che possa effettivamente interrompersi per un po’, potremo finalmente giungere ad un nuovo, terribile stato di salute. A quella salute generata dall’incoscienza, e che si dimostra peggiore di ogni malattia che si conclami.

 

In un mondo che dimentica, il passato dell’Italia, il suo passato, è troppo lontano, mentre il presente capitalistico e amorale del mondo di oggi, vero vettore storico del nostro tempo, è già con tutta la sua forza anche qui, ha preso la nostra vita con la violenza impersonale della necessità, e ha dipinto di sé la nostra percezione delle cose, anche quelle più piccole, dopo aver finito con le più grandi.

 

Ma l’Italia può salvarsi anche da sola, gridano e mentono i giornalisti. L’Italia ce la farà, la sua economia strutturalmente è forte,  provano a convincere i politici. L’Italia è sana e saprà come riprendersi, ma potrà farlo solo con la rinnovata fede, dice il papa, e questo, in verità, non ci stupisce.

 (Torna su)

Ma la verità è che se l’Italia si salverà (per come oggi s’intende ancora sciaguratamente la salvezza) sarà allora perché non potrà più realmente davvero salvarsi. Gli dei accecano, chi vogliano che si perda, e la strada dell’Italia è senza più luce, senza più riferimenti, continua a proseguire in discesa illudendosi, ad ogni curva, ad ogni battito di immotivata speranza, che si tratti, invece, d’un’ascesa, almeno di uno slargo, di un’opportunità di sosta, di riposo.

 

Ma allora come faremo, con il Pil, l’economia, i suicidi, la disoccupazione dei giovani, e le pensioni? Come faremo con noi stessi, con i figli che ancora non abbiamo e quelli che abbiamo già messo al mondo, quando ancora nessuno avrebbe immaginato (nessuno?), che il mondo sarebbe divenuto così… così… così... ecco mancano le parole... così... povero.

 

Ma Il problema di questo mondo non è che sia povero, almeno non in un senso assoluto, e rispetto a quello di trenta o trecento anni fa. Il problema è che l’umanità si sta rivelando inadeguata a se stessa, non sa più come gestire le proprie risorse, e si lascia andare, in un modo che solo l’accecamento del disincanto può permettere, ad una nuova fiducia nel progresso delle cose. Ma quale progresso? E progresso verso cosa? Nella società della tecnologia che sostituisce la naturalità della vita, l’uomo non ha più alcuna esperienza concreta ormai di ciò di cui parla e di ciò in cui s’illude di credere.

 

Quanto a noi e all’Italia, quello che è certo è che se il mondo diverrà compiutamente quello che il nostro capitalismo, cioè il capitalismo della tecnica e dell’istantaneità, ci lascia immaginare, l’Italia difficilmente avrà un suo proprio ruolo storico in questo mondo che sarà. Troppo lenta nel cambiare, infatti, essa sarà ormai anche troppo stanca per ricordare, e eternamente inferiore posta al confronto del tempo in cui riuscì nella grandezza, sarà assuefatta al senso di impotenza e inadeguatezza rispetto alla nuova meccanizzata e amorale umanità che si sarà ormai formata, oltre i suoi confini.

 

Potrà continuare, al massimo, ad essere lo sfondo di cartoline per quei turisti che ancora fingeranno di ricordare il passato con una foto alla torre di Pisa, o dalle parti del Colosseo. L’Italia sarà, insomma, definitivamente, la terra del passato. Potrà per questo anche essere celebrata, ma sempre come squarcio singolare posto al di là del mondo vero, e considerata allo stesso modo in cui gli umani osservano le specie non umane estintesi in ere passate della storia della terra; dopo averle chiuse in un museo senza più aria, e aver fatto sulla loro estinzione le ipotesi più fantasiose e sconsiderate.

 (Torna su)

 

Ecco, dopo questo antefatto, che prova ad esprimere il senso complessivo del numero, un sintetico schema degli articoli che troverete, come da indice, in quest’edizione di Città Future.

In ordine, l’editoriale della redazione che affronta l’opposizione tra il potere del capitale e quello residuo che hanno i popoli per poter capovolgere la situazione del presente. In particolare si partirà dagli eccessi di tale situazione, vale a dire il caso della Grecia, e, dunque, quello dell’Italia.  Segue all’editoriale un articolo importante sulla crisi economica e sulle sue prospettive ad opera del nostro collaboratore, Guido Cosenza, che pone, percorrendo sentieri marxisti, spunti di analisi interessanti sulla natura di fondo della crisi finanziaria in atto.

 

Seguono poi gli articoli relativi alle nostre rubriche più strutturate: per la rubrica “Esperienza e rappresentazione” abbiamo la seconda parte dell’articolo di Giulio Trapanese Esperienza e rappresentazione nel mondo senza tempo, avente come argomento specifico quello della rappresentazione, e Biopolitica e fine della storia di Mariano Mazzullo.

 

Per la rubrica, invece, “La città dell’uomo”, abbiamo, in ordine, l’articolo di Alessandro D’Aloia sulle esperienze di partecipazione democratica nei progetti di pianificazione urbanistica, che estende al campo dello spazio l’analisi critica condotta rispetto al tempo nella rubrica “Esperienza e rappresentazione”, l’articolo di Sergio Ulgiati sull’attuale questione della TAV con annessa discussione relativa alle forme di partecipazione democratica alla gestione del territorio, e il resoconto, espresso in forma di intervista, di un’esperienza di inchiesta sulla storia della periferia napoletana.

 

Seguono dunque articoli di natura più varia: uno studio di Antonello Baldassare, sul tema dell’articolo 18 e, più, in generale, del rapporto fra giurisprudenza dell’oggi ed economia. Ad esso segue un articolo di approfondimento su questioni internazionali, ed in particolare sulla questione siriana, ad opera di Maria Chiara Rizzo. Ancora poi due interviste, una allo scienziato Roberto Germano sull’epistemologia della scienza odierna, e un’altra, a cura di Giulio Trapanese, sul tema del rapporto fra Nord e Sud, riferita in particolare ad una terra spesso dimenticata, la terra del Cilento.

 

Chiude questo numero, come lo scorso, una riflessione composta in forma letteraria ad opera di Giulia Inverardi, a partire da un viaggio nella vicina e lontana Francia.

(Torna su)