ANTEFATTO E
PRESENTAZIONE DEL NUMERO
Redazione
Il numero 07 che qui vi
presentiamo, in definitiva, nei suoi vari articoli altro non fa che
esprimere un pensiero semplice, che è però anche al tempo stesso il più
complesso di tutti gli altri che possano essere concepiti oggi:
l’umanità sta cambiando; e questo cambiamento ha accelerato in modo
clamoroso.
Come è chiaro, se
scriviamo su e di Città future
non è per il solo amore dell’umanità del
futuro. La speranza, il desiderio di una trasformazione delle
cose sono generate unicamente dal più profondo dei dolori ispirati dal
presente. I sentimenti, certo, non sono la verità dei pensieri, è vero;
tuttavia, crediamo che riflessioni senza passione, e discussioni che non
taglino nella viva carne del mondo non diano mai contributi sinceri al
proprio tempo. E, dunque, agiamo così, con la coscienza di non aver
bisogno d’altri pensieri ossificati, o d’altre rinunce nel prendere
posizione nella vita.
L’uscita di questo
numero avviene, come è evidente a voi che ci leggete, in un momento di
crisi epocale della nostra storia. L’Europa, al confronto con le altre
potenze mondiali, è in procinto di cedere il passo, forse in modo più
duraturo di quanto si pensi. In questo scenario complesso, l’Italia ha
assunto un ruolo importante, è divenuto una sorta di ago della bilancia
della sorte di un intero continente ed insieme pesante àncora di una
nave che è già rallentata e che naviga in acque decisamente incerte.
Il mondo, d’altra
parte, procede, questo è vero; non tutto è fermo. C’è la Cina, c’è
l’India, e poi il Brasile,
senza dimenticare gli Stati Uniti; ma sentiamo di doverci porre
una domanda: qual è la traiettoria storica delle forme economiche e
politiche di questi paesi? Dove arrivano ad incontrarsi l’orizzonte del
loro attuale presente e del loro prossimo futuro? Non è, forse,
quell’orizzonte ormai così vicino a ciò che è al di là dell’uomo, al di
là, almeno, del nostro uomo, quello che abbiamo conosciuto e che adesso
non più riconosciamo,e tuttavia quello che ancora ci porta a scrivere
queste parole, a porci queste domande, a sperare in una risposta, in una
presa di posizione?
Se questa è la
traiettoria storica reale, se a questo punto ci porta il sistema del
capitalismo di oggi, dovremo finalmente arrenderci a questo nuovo uomo,
abbandonare le resistenze e, soprattutto, abbandonare la memoria,
lasciare che il nuovo avanzi, che tutto conquisti il nuovo uomo,
quest’uomo che, del vecchio, ha solo il nome? Bisognerà lasciarlo finire
del tutto l’uomo che era, per incontrare un orizzonte del futuro?
L’Italia anche sta
cambiando velocemente. Ma va pur detto, se ce ne fosse bisogno, che non
è per via di Berlusconi, o di Monti, né per via della sua arretratezza
storica e della mediocrità morale che la contraddistingue. L’Italia sta
cambiando perché è la sua costituzione ossea e la carne del suo corpo,
che sono inadeguate, anche per le traversie degli ultimi suoi secoli, ad
affrontare il batterio di questa nuova peste mondiale.
L’Italia anch’essa è
ammalata, e i veri sintomi della sua malattia non sono la crisi dei
partiti, o i suicidi dei lavoratori e degli imprenditori, né sono gli
indici d’aspettativa della crescita economica. Il suo abisso è un abisso
in cui il senso delle cose deflagra, e lo spaesamento di chi vive in
esso è quello di chi, oramai, non sa neppure perché lottare, perché
resistere, cambiare.
La diafana malattia
italiana ha raggiunto così la stessa trasparenza della salute
nichilistica dell’Europa e dell’Occidente capitalistico tutto. La stessa
distruzione di ogni morale e ogni estetica della vita, d’ogni senso, e
la frattura fra presente e passato, fra i singoli e la società, si
compiono anche in Italia; come compiute lo erano già tempo, con
differenze dovute solo ad una diversa storia della coscienza civile, in
Francia, Inghilterra, Spagna, Germania. Se l’Italia oggi precipita e si
dimena, invano, nella sua malattia, è perché è più debole degli altri, e
ha una debolezza creatasi nel tempo e che nel tempo è stata dimenticata.
Gli Italiani infatti
hanno vissuto rivoluzioni politiche ed economiche solo in una forma
passiva; la stessa passività, la stessa subordinazione è anche la radice
dell’inconsapevole e, in definitiva, inconsistente resistenza degli
italiani a quella trasformazione dell’uomo che la borghesia ha operato
dovunque nel mondo nell’ultimo secolo e mezzo. L’Italia ha resistito, a
modo suo, per un lungo periodo, rimanendo, infatti, nelle sue province
del Sud, nelle periferie più oscure delle sue città, e nelle sue isole
reali e figurali, anche qualcosa di diverso. Fino ancora a pochi decenni
fa, l’Italia, tra i paesi ricchi, rappresentava oggettivamente il paese
rimasto più legato a tradizionali e plurisecolari forme di vita.
Ma ormai, che sia bene
o che sia male, tutto questo è definitivamente tramontato. Gli argini
sono stati divelti, e con violenza, e la marea storica trasborda al di
sopra delle palizzate che il nostro carattere aveva creato nel tempo… ed
ora c’è già chi urla alla fine del mondo. Come dare torto a questi nuovi
annunciatori dell’apocalisse?
Ma non sarà neppure
questa la vera fine del mondo, come non lo sono state le altre temute e
sperate nel corso degli ultimi millenni.
Si tratta sicuramente
della fine di un certo mondo, un mondo ben determinato, il mondo che chi
ha almeno più di venti anni, ha avuto ancora la possibilità di
intravedere, di conoscere, magari solo in modo teorico. Quando
l’apparente malattia, la malattia della crisi, finirà, e nulla impedisce
che possa effettivamente interrompersi per un po’, potremo finalmente
giungere ad un nuovo, terribile stato di salute. A quella salute
generata dall’incoscienza, e che si dimostra peggiore di ogni malattia
che si conclami.
In un mondo che
dimentica, il passato dell’Italia, il suo passato, è troppo lontano,
mentre il presente capitalistico e amorale del mondo di oggi, vero
vettore storico del nostro tempo, è già con tutta la sua forza anche
qui, ha preso la nostra vita con la violenza impersonale della
necessità, e ha dipinto di sé la nostra percezione delle cose, anche
quelle più piccole, dopo aver finito con le più grandi.
Ma l’Italia può
salvarsi anche da sola,
gridano e mentono i giornalisti.
L’Italia ce la farà, la sua economia strutturalmente è forte,
provano a convincere i politici.
L’Italia è sana e saprà come
riprendersi, ma potrà farlo solo con la rinnovata fede, dice il papa, e
questo, in verità, non ci stupisce.
Ma la verità è che se
l’Italia si salverà (per come oggi s’intende ancora sciaguratamente la
salvezza) sarà allora perché non potrà più realmente davvero salvarsi.
Gli dei accecano, chi vogliano che si perda, e la strada dell’Italia è
senza più luce, senza più riferimenti, continua a proseguire in
discesa illudendosi, ad ogni curva, ad ogni battito di immotivata
speranza, che si tratti, invece, d’un’ascesa, almeno di uno slargo, di
un’opportunità di sosta, di riposo.
Ma allora come faremo,
con il Pil, l’economia, i suicidi, la disoccupazione dei giovani, e le
pensioni?
Come faremo con noi stessi, con i figli che ancora non abbiamo e quelli
che abbiamo già messo al mondo, quando ancora nessuno avrebbe immaginato
(nessuno?), che il mondo sarebbe divenuto così… così… così... ecco
mancano le parole... così... povero.
Ma
Il problema di questo mondo non è che sia povero, almeno non in un
senso assoluto, e rispetto a quello di trenta o trecento anni fa. Il
problema è che l’umanità si sta rivelando inadeguata a se stessa, non sa
più come gestire le proprie risorse, e si lascia andare, in un modo che
solo l’accecamento del disincanto può permettere, ad una nuova fiducia
nel progresso delle cose. Ma quale progresso? E progresso verso cosa?
Nella società della tecnologia che sostituisce la naturalità della vita,
l’uomo non ha più alcuna esperienza concreta ormai di ciò di cui parla e
di ciò in cui s’illude di credere.
Quanto a noi e
all’Italia, quello che è certo è che se il mondo diverrà compiutamente
quello che il nostro capitalismo, cioè il capitalismo della tecnica e
dell’istantaneità, ci lascia immaginare, l’Italia difficilmente avrà un
suo proprio ruolo storico in questo mondo che sarà. Troppo lenta nel
cambiare, infatti, essa sarà ormai anche troppo stanca per ricordare, e
eternamente inferiore posta al confronto del tempo in cui riuscì nella
grandezza, sarà assuefatta al senso di impotenza e inadeguatezza
rispetto alla nuova meccanizzata e amorale umanità che si sarà ormai
formata, oltre i suoi confini.
Potrà continuare, al
massimo, ad essere lo sfondo di cartoline per quei turisti che ancora
fingeranno di ricordare il passato con una foto alla torre di Pisa, o
dalle parti del Colosseo. L’Italia sarà, insomma, definitivamente, la
terra del passato. Potrà per questo anche essere celebrata, ma sempre
come squarcio singolare posto al di là del mondo vero, e considerata
allo stesso modo in cui gli umani osservano le specie non umane
estintesi in ere passate della storia della terra; dopo averle chiuse in
un museo senza più aria, e aver fatto sulla loro estinzione le ipotesi
più fantasiose e sconsiderate.
Ecco, dopo questo
antefatto, che prova ad esprimere il senso complessivo del numero, un
sintetico schema degli articoli che troverete, come da indice, in
quest’edizione di Città Future.
In ordine, l’editoriale
della redazione che affronta l’opposizione tra il potere del capitale e
quello residuo che hanno i popoli per poter capovolgere la situazione
del presente. In particolare si partirà dagli eccessi di tale
situazione, vale a dire il caso della Grecia, e, dunque, quello
dell’Italia. Segue
all’editoriale un articolo importante sulla crisi economica e sulle sue
prospettive ad opera del nostro collaboratore, Guido Cosenza, che pone,
percorrendo sentieri marxisti, spunti di analisi interessanti sulla
natura di fondo della crisi finanziaria in atto.
Seguono poi gli
articoli relativi alle nostre rubriche più strutturate: per la rubrica
“Esperienza e rappresentazione” abbiamo la seconda parte dell’articolo
di Giulio Trapanese Esperienza e
rappresentazione nel mondo senza tempo, avente come argomento
specifico quello della rappresentazione, e
Biopolitica e fine della storia
di Mariano Mazzullo.
Per la rubrica, invece,
“La città dell’uomo”, abbiamo, in ordine, l’articolo di Alessandro
D’Aloia sulle esperienze di partecipazione democratica nei progetti di
pianificazione urbanistica, che estende al campo dello spazio l’analisi
critica condotta rispetto al tempo nella rubrica “Esperienza e
rappresentazione”, l’articolo di Sergio Ulgiati sull’attuale questione
della TAV con annessa discussione relativa alle forme di partecipazione
democratica alla gestione del territorio, e il resoconto, espresso in
forma di intervista, di un’esperienza di inchiesta sulla storia della
periferia napoletana.
Seguono dunque articoli
di natura più varia: uno studio di Antonello Baldassare, sul tema
dell’articolo 18 e, più, in generale, del rapporto fra giurisprudenza
dell’oggi ed economia. Ad esso segue un articolo di
approfondimento su questioni internazionali, ed in particolare sulla
questione siriana, ad opera di Maria Chiara Rizzo. Ancora poi due
interviste, una allo scienziato Roberto Germano sull’epistemologia della
scienza odierna, e un’altra, a cura di Giulio Trapanese, sul tema del
rapporto fra Nord e Sud, riferita in particolare ad una terra spesso
dimenticata, la terra del Cilento.
Chiude questo numero,
come lo scorso, una riflessione composta in forma letteraria ad opera di
Giulia Inverardi, a partire da un viaggio nella vicina e lontana
Francia.