Inchieste
IL DESTINO
DI NAPOLI EST
Massimo
Ammendola
Introduzione: un’analisi
globale
L’attuale crisi globale, secondo il filosofo ed economista indiano
Prem Shankar Jha[1], è solo l’ultima in
ordine di tempo nello sviluppo secolare del capitalismo, oggi sempre più
globalizzato. A suo giudizio, questa è la quarta volta che il
capitalismo infrange il suo «contenitore» economico, politico e
istituzionale, alla fine di uno dei suoi cicli di espansione, provocando
il cosiddetto «caos sistemico», ovvero il crollo delle istituzioni e
delle relazioni preesistenti, accompagnato da un prolungato conflitto
tra gli stati e all’interno di essi.
Ogni espansione capitalistica ha condotto alla riorganizzazione
economica e politica di un’area del pianeta progressivamente più vasta,
la quale ha creato le condizioni per l’avvio del successivo ciclo di
accumulazione e per la nascita di una nuova potenza egemone: ciascuna
delle quattro precedenti fasi di espansione fu contrassegnata
dall’egemonia di un centro economico predominante, identificabile prima
nelle città-stato medievali, poi nell’egemonia economica dei Paesi
Bassi, ed infine nella potenza coloniale della Gran Bretagna. Oggi siamo
ormai al termine della quarta fase di espansione, quella del «secolo
americano». E potremmo ipotizzare che stiamo passando a una quinta fase
targata Cina.
La storia dell’umanità è la storia di un continuo tentativo di
adattamento al cambiamento tecnologico: quest’ultimo è il vero fattore
propulsivo del capitalismo, dato che è perennemente stimolato dal
profitto. La società scivola in uno stato di cambiamento costante, in
cui è favorita la crescita della competizione: i cambiamenti tecnologici
nelle industrie dei trasporti e della comunicazione sono la causa
dell’ultimo ciclo di espansione capitalistica. La graduale compressione
dei cicli di espansione è stata causata da una costante accelerazione
del ritmo dei cambiamenti tecnologici: la crescita della scala di
produzione, la conseguente espansione incessante di dimensioni e di
potere del contenitore capitalistico, e l’abbreviarsi del periodo
temporale entro cui il cambiamento ha dovuto completarsi, hanno
sottoposto le istituzioni politiche a una pressione sempre crescente e
hanno aumentato la violenza di ciascuna transizione.
Le origini di questo paradosso risiedono nel movimento a forbice
dell’accumulazione di capitale liquido e delle opportunità di
investimento. Non appena si produce uno «scoppio di distruzione
creativa»[2],
le opportunità di investimento liquido in nuovi macchinari crescono
rapidamente: dopo la spesa iniziale, quando i nuovi mezzi di produzione
sostituiscono i vecchi, i profitti crescono di conseguenza aumentando
l’accumulazione del capitale. Ma ogni sostituzione della vecchia
generazione di macchinari e dei vecchi modelli di gestione aziendale con
i nuovi, limita le opportunità di ulteriori e rapidi aumenti di
produttività. Le probabilità di profitto sugli investimenti futuri
cominciano pertanto a scendere proprio quando il profitto sugli
investimenti esistenti raggiunge un picco. Ciò crea una pressione
inesauribile da parte di quantità crescenti di profitti generati dagli
investimenti passati, ossia di capitale liquido, per trovare nuove
opportunità di investimento.
Dietro le quinte degli eventi, agisce quella che Karl Polanyi
definì l’«Alta Finanza»[3],
funzionando come un’organizzazione permanente ed indipendente, legata
unicamente alle banche centrali, che sta trasformando il pianeta in un
unico centro di produzione e commercializzazione.
È questo il momento in cui il capitalismo assume la sua forma più
egemonica e comincia a riorganizzare vaste aree del mondo. Questa
riorganizzazione è promossa con l’ausilio di una «ideologia
legittimante» e sostenuta dalla minaccia o dall’uso della forza: ogni
ciclo capitalistico ha pertanto dato vita a lunghi periodi di violenza,
dal momento che le città e le nazioni al centro del sistema hanno
cercato di riorganizzare la periferia per aumentare la redditività del
capitale.
La globalizzazione potrebbe apparire oggi come il collasso del
capitalismo classico, specie in questo periodo di crisi. Invece, come
afferma Samir Amin[4],
la globalizzazione è proprio l’industrializzazione della periferia, uno
sviluppo che si è manifestato come parte dello smantellamento della
produzione nazionale e della sua ricostruzione in un sistema
internazionale integrato di produzione industriale. In sintesi, la
produzione industriale cessa di essere nazionale per diventare
internazionale. Ciò comporta che il capitalismo globale, cambia forma,
riorganizzandosi, distruggendo quello nazionale, ormai in declino.
Gli agenti principali della globalizzazione sono le grandi aziende
multinazionali, che controllano i due terzi del commercio
internazionale. Oggi, un paese che viene tagliato fuori dal loro
circuito, è destinato a rimanere povero. La concentrazione di potere
economico che è saldamente nelle mani di alcuni giganti commerciali
genera il forte potere politico delle grandi aziende transnazionali:
considerata la posta in gioco, non stupisce che la politica sia schiava
dell’economia.
Il capitalismo ha cominciato a distruggere non semplicemente
l’istituzione del mercato nazionale, ma anche l’architettura di leggi,
convenzioni e organizzazioni, edificate nel corso di oltre due secoli,
che l’avevano sorretto e umanizzato.
La risposta statunitense al caos crescente si è tradotta nel
tentativo di creare un impero: ma sia la prima avvisaglia, ovvero
l’intervento in Kosovo, sia i successivi interventi in Iraq prima e in
Libia poi, con in mezzo la serie di rivoluzioni controllate della
“primavera araba”[5],
sono gli ambiziosi tentativi di realizzarlo, e stanno portando ad un
aumento del caos.
La smania di stabilità delle grandi aziende transnazionali è il
fattore alla base di gran parte dei processi di riorganizzazione
politica oggi in corso nel mondo, ad opera, soprattutto, degli Stati
Uniti. Le grandi aziende multinazionali, infatti, prediligono integrare
aziende nella loro catena produttiva globale, se queste hanno sede in
paesi dove vi è la ragionevole certezza che la produzione non sarà
soggetta a frequenti perturbazioni. Ciò richiede un alto grado di
stabilità politica ed un basso livello di mobilitazione sindacale:
condizioni assai rare, che devono essere quindi create in modo
artificioso e con la forza, vale a dire ad opera di uno stato forte, se
non autoritario.
L’interdipendenza economica, provocata dalla globalizzazione,
minaccia i profitti non solo delle grandi multinazionali, che sono
direttamente colpite perché hanno unità produttive o di servizio nei
paesi più poveri ed instabili, ma, a causa dell’intreccio delle
partecipazioni azionarie, anche di un’ampissima frangia di altri
soggetti interessati. In sostanza, nell’ultima incarnazione del
capitalismo, è praticamente quasi tutta la popolazione dei paesi
metropolitani ad aver sviluppato un interesse vitale per il controllo,
non solo delle politiche economiche, ma anche degli eventi politici nei
paesi periferici.
Oggi, come nel passato, la rinascita espansiva del capitalismo è
accompagnata da disordine, violenza e insicurezza: all’interno degli
stati, ciò ha fatto da detonatore al conflitto tra i nuovi vincitori e i
nuovi sconfitti della società. La formazione dei sindacati, la nascita
del socialismo e del comunismo, e il trionfo di quest’ultimo in vaste
aree di Europa e di Asia, furono risposte all’insostenibile «utopia
perversa» del capitalismo industriale nel terzo e quarto ciclo di
espansione. Ora, all’ingresso del quinto ciclo, le forze economiche
ricreando un’utopia perversa: legare il destino della nostra società a
un’organizzazione fondata sull’accumulazione illimitata, un sistema
condannato alla crescita, che esternalizza i danni, facendoli ricadere
su di noi, sulle generazioni future e soprattutto sulla natura,
fornitrice di risorse e secchio della spazzatura, protagonista e vittima
del processo produttivo.
Un sistema che sovraproduce e che quindi può durare solo
sovracquistando, cioè attraverso l’iperconsumo, indotto dal sistema
pubblicitario e dall’obsolescenza accelerata e programmata dei prodotti.
Come se fossimo fuori dal tempo e dallo spazio.[6]
All’utopia folle della crescita illimitata, finora non vi è stata
alcuna coerente risposta globale: il capitalismo, con i suoi
attori/imprenditori dello sviluppo (imprese transnazionali, banchieri,
responsabili politici, tecnocrati e mafie), sta per spezzare
definitivamente lo stampo dello stato-nazione, generando enormi
pressioni per fare a pezzi ogni istituzione umana, tra cui le basi dello
stato sociale, ostacolo allo sviluppo del capitalismo globale.
È evidente che il mondo odierno in via di globalizzazione è privo
di timoniere, e i suoi leader, che suppongono di avere il controllo
degli eventi, sono solo dei re nudi. Wystan Hugh Auden scrisse negli
anni Trenta: «Le nostre vite sono determinate da forze esterne che
fingiamo di capire». Una frase che riassume la condizione attuale
dell’umanità.
Il caso Napoli est
Recupero del rapporto col mare, infrastrutture per il turismo e il
tempo libero, ripristino dell'antico fiume Sebeto: questo era
l'ambizioso progetto di riqualificazione della zona orientale di Napoli.
Era il 1996. L’allora assessore all’Urbanistica del Comune di Napoli,
Vezio De Lucia, presentò il piano: dopo tanti anni di inquinamento,
dovuto all'occupazione industriale e portuale, si parlava di “finestre
sul mare” evocando, maldestramente, le suggestioni suscitate dall'antica
canzone napoletana Marechiaro...
Del mare non vi è quasi più traccia, essendo in atto una vera e
propria re-industrializzazione. In una zona costiera che oggi si
presenta come un agglomerato di padiglioni industriali, alcuni ancora
attivi, parecchi abbandonati, circondati dal centro, densamente abitato.
Con gli attuali progetti di riqualificazione, che hanno totalmente
sconvolto gli originari intenti di restituzione del territorio alla
cittadinanza, si stanno concentrando nuovi impianti industriali, per la
produzione di energia e per lo smaltimento di rifiuti, nuove enormi
infrastrutture portuali, nuove speculazioni edilizie (residenze, ma
specialmente centri commerciali).
La prassi è sempre la stessa: si
distruggono le pianificazioni dei piani regolatori, con accordi di
programma, leggi quadro e leggi obiettivo, o meglio ancora con i
commissariamenti. Addio pianificazione, addio seria riqualificazione
ambientale.
La centrale a turbogas
Oltre alle già imponenti muraglie di containers depositati,
che circondano le aree limitrofe al porto commerciale, nascondendo il
mare, sulla costa è spuntata una nuova centrale a turbogas da 400
mw (falsamente spacciata
per un restyling della vecchia centrale di Vigliena, evitando
così la necessaria Valutazione d’Impatto Ambientale).
Per contratto, doveva essere pronta nel 2008, ed invece è stata
attivata solo un anno dopo: in questo caso si sarebbe dovuto rivedere il
progetto, cercando la migliore tecnologia disponibile, ma ciò non è
stato fatto. Inoltre, l'impianto sta funzionando a mezzo regime: dato
che il prezzo del gas oscilla pericolosamente, non conviene tenerlo
acceso sempre, e così è in funzione circa sei mesi all'anno, nonostante
sia costato ben 200 milioni di euro alla Tirreno Power (50%
Gas de France Suez Italia; 50% a Energia italiana, ovvero
Sorgenia 78%, in cui troviamo il gruppo
cir di De Benedetti,
hera 11% e
iren 11%).
E a poca distanza, a Ponticelli, la Regione vuole anche un
inceneritore: entrambi gli impianti, classificati per legge come
«insalubri di prima classe», sono a pochi chilometri dal pieno
centro cittadino.
Inoltre la bonifica dei suoli su cui è stata costruita la centrale
pare non sia avvenuta a norma di legge: le attività di smantellamento
del vecchio impianto hanno causato notevoli problemi alla salute dei
residenti (bruciori agli occhi e difficoltà respiratorie), poiché i
materiali inquinanti da rimuovere non hanno ricevuto un trattamento di
bonifica adeguato, ma sono stati portati direttamente in discarica.
Fa riflettere anche la velocità con cui questo ed altri iter
autorizzativi siano passati sui tavoli istituzionali. Ben due
interrogazioni parlamentari, nel 2007, ad opera dell’on. Francesco
Caruso e del sen. Fernando Rossi, non hanno mai avuto risposta.
Come non ha avuto risposta positiva, dopo circa 4 mesi di tentativi
de visu, via mail e via
telefono, la mia richiesta di un’intervista con l’ing. Massimo Rubino,
Napoli Plant & Project Manager.
Dopo una prima parvenza di collaborazione, da parte dell’ingegnere, sono
stato messo in contatto con il dott. Niccolò de Simone, responsabile
Formazione, Sviluppo e Comunicazione di
Tirreno Power, che doveva
autorizzare l’intervista. Dopo aver addirittura richiesto la lista di
domande che volevo porgere, prima in forma orale ed poi anche scritta,
ha iniziato a non parlare più dell’intervista, nelle mail che mi
inviava, offrendomi invece, dopo più di 2 mesi, del fantomatico
materiale, che doveva raccogliere, mai arrivatomi. Dopo il mio ennesimo
scandalizzato sollecito, in cui ricordavo che avevo richiesto
un’intervista, e che non avevo ricevuto nessun tipo di materiale
informativo, il de Simone ha continuato a fare lo gnorri, appellandosi
alla trasparenza di Tirreno Power:
«con la presente ci scusiamo per il ritardo nella risposta, in ogni
caso per qualsiasi informazione inerente la società ed il
progetto rimandiamo al ns. sito internet ove può reperire tutti i dati
di suo interesse.
Proprio per il principio della trasparenza le informazioni
societarie essendo di dominio pubblico sono presenti sul sito
www.tirrenopower.com che permette di poter reperire tutto il materiale
utile dal loro sito internet». Dopo 4 mesi di richieste per avere
un’intervista, mi hanno indicato gentilmente il loro sito internet.
Una società davvero trasparente,
Tirreno Power.
La Darsena di Levante
Nello specchio d'acqua antistante la centrale è invece in atto, la
costruzione della nuova Darsena di Levante, che ospiterà il nuovo
Terminal Contenitori di Napoli Levante, per accogliere le più grandi
navi portacontainers del mondo (400 m), con annesso aumento dei
trasporti su gomma e ferro, a pochi metri dalle case e dall'abbandonato
Forte di Vigliena, monumento nazionale.
In nessun altro porto italiano si prevedono incrementi così
imponenti: la nuova Darsena frutterà al Consorzio
conateco (Consorzio Napoletano Terminal Contenitori, formato
dalla cosco, compagnia di
stato cinese e dalla msc
del sorrentino-svizzero Aponte), che già gestisce l'attuale porto
commerciale, un incremento delle sue attività pari quasi al
350%, per i prossimi 50 anni.
Il porto occuperà così circa 5 chilometri di costa. La Campania si
prepara a divenire la «piattaforma logistica» del Mediterraneo, terra di
solo passaggio delle merci, che avrà Napoli come nodo centrale nei
traffici tra Europa, Oriente e Nord Africa.
La Campania si prepara a divenire la «piattaforma logistica» del
Mediterraneo, terra di solo passaggio delle merci.
Preoccupa poi il fatto che, già attualmente nel porto, «i controlli
sono pochi per forza di cose: ci sono solo 12 doganieri per migliaia di
containers; e già adesso a Napoli arriva tutta la merce cinese per
l’Italia, anche perché la città partenopea è un paradiso fiscale: stando
alle stime della Camere di Commercio sono circa 6.600 le imprese
individuali cinesi e più di 5.000 le società registrate in un solo
quartiere di Napoli, Scampia», come affermava Vittorio Carlomagno,
presidente di Contribuenti.it.
Traffici con la Cina che già oggi sono quindi molto attivi, anche
per la collaborazione della Regione Campania con il
cis Interporto di Nola di Gianni Punzo che ha investito a
Tianjin in un mega centro commerciale; e da gennaio 2010, la
conateco dispone poi di
altri spazi retroportuali, oltre 200.000 mq, grazie all'accordo tra
Regione Campania, Autorità Portuale e Interporto Napoli, trasformando il
porto di Napoli nel primo caso concreto di “porto lungo”.
Ma anche dai traffici illegali di rifiuti che passano per Napoli,
vengono grossi profitti: «Siamo di fronte a un fenomeno di dimensioni e
di gravità inquietanti e l’operazione di oggi non fa che confermarlo.
Ormai la rotta Italia-Cina è diventata la rotta dei veleni, con navi
cariche di rifiuti tossici che salpano dai nostri porti per approdare al
pericoloso mercato del riciclo di materie prime», secondo l'ex
presidente di Legambiente, Roberto Della Seta.
A sinistra della centrale e della Darsena, è poi in costruzione
anche il porticciolo turistico «Porto Fiorito»; a destra, invece, c'è
già la Darsena Petroli, autorizzata per altri 20 anni, in cui si
scarica, deposita e smista il combustibile necessario al fabbisogno di
tutta la regione.
Una situazione di questo genere rappresenta un problema molto serio
data l’evidente compresenza di più attività pericolose nella stessa area
a rischio: forte è il rischio di incidenti nelle centrali a turbogas, e
con la contemporanea presenza delle petroliere e delle navi gasiere,
oltre alle raffinerie, ai serbatoi di gas e di oli combustibili, o
ancora delle navi e dei sommergibili nucleari che pure transitano nel
Golfo, gli scenari ipotetici si fanno più che drammatici.
Esiste infatti un «Piano di emergenza esterna zona orientale», che
riguarda i possibili incidenti rilevanti che interessino l'area di
Napoli est e i suoi stabilimenti, compreso l'oleodotto di collegamento
tra la Darsena Petroli ed i depositi costieri, che diviene in caso di
crisi una vera e propria miccia, lungo un percorso che si snoda dalla
costa fino alla zona di Poggioreale: il pericolo è quello di un
clamoroso effetto domino. Eppure la stessa Napoli è stata già segnata da
incidenti gravi come quello dell'esplosione di 25 serbatoi costieri
dell'Agip del 1985.
La «zona rossa»
Siamo in piena «zona gialla» del Vesuvio, quella cioè che sarà
interessata (quantomeno) dalla caduta di particelle, in caso di futura
(ma preannunciata) eruzione. E forse dovremmo parlare di «zona rossa»,
come affermò l'ex numero uno della Protezione Civile, Guido Bertolaso:
«Napoli va inserita in zona rossa, da rivedere i piani di evacuazione».
A poche decine di metri dalla centrale e da queste altre attività
inquinanti, si sono insediati i nuovi laboratori artistici del Teatro
San Carlo, e si insedierà a breve una cittadella universitaria, in cui
confluiranno alcune facoltà dell'Università di Napoli «Federico
ii» (area ex Cirio). Oltre a chi già abita in zona, le
presenze giornaliere raggiungeranno quota 22.000.
E non dimentichiamo che in questa zona è stato costruito, ed ora
giace abbandonato, anche l’Ospedale del Mare, il più grande ospedale del
Sud Italia.
In un contesto ambientale e sanitario già critico: alta è la
mortalità per malattie all'apparato respiratorio e per tumori; i
superamenti delle polveri sottili
pm10 sono continui, in una città che è pesantemente
inquinata dai traffici portuali: non essendo presenti banchine
elettrificate, tutte le navi, da quella da crociera alle petroliere,
sono costrette a mantenere i motori accesi per tutta la durata
dell'attracco.
Alta è la mortalità per malattie all'apparato respiratorio e per
tumori; per la cui forte incidenza la zona orientale già nel 1995 fu
segnalata dall’oms, a causa
della presenza di innumerevoli fonti di inquinamento quali la Darsena
Petroli, le raffinerie, le industrie e la vecchia centrale
termoelettrica, le discariche, legali ed illegali, e il depuratore di
Ponticelli e quello di S. Giovanni, oggi in dismissione. La zona «Napoli
Orientale» è Sito d'Interesse Nazionale, ovvero è stata dichiarata «ad
alto rischio ambientale»: ma ciò significa che incombe l'enorme affare
delle bonifiche da compiere.
Si affianca, inoltre, anche grazie al Piano Casa, il pericolo di
una speculazione di edilizia urbana spaventosa. Stiamo parlando di aree
enormi, alla pari della zona occidentale di Bagnoli, che, se
opportunamente riqualificate, potrebbero dare un nuovo volto a Napoli.
Gli interessi sono enormi, e preoccupa la pressione che le forze in
gioco stanno esercitando sulle scelte della politica: esemplare è il
caso dell'ex manifattura tabacchi, di cui era proprietaria la Fintecna,
società controllata dal Ministero dell'Economia e delle Finanze.
«Vigilate che la cittadella della polizia si faccia», avvertiva il
presidente Napolitano: invece, è passato il progetto per un nuovo
quartiere urbano con attività commerciali, residenze e spazi pubblici,
commissionato da Fintecna Immobiliare allo studio Mario Cucinella
Architects, svelato come parte dei progetti del gruppo di imprenditori
dell’associazione «NaplEst Viva Napoli Vive».
La presidentessa è Marilù Faraone Mennella, moglie dell'ex
presidente di Confindustria (che ha appoggiato De Magistris al
ballottaggio), che hanno lo scopo dichiarato di «valorizzare attraverso
una serie di interventi mirati la zona est di Napoli senza ricorrere a
finanziamenti pubblici». Si rileva, invece, che sei dei progetti
presentati impegnano ingenti finanziamenti pubblici.
La stessa multinazionale petrolifera Kuwait, spinge per un suo
piano di recupero, riguardante le aree Q8, «Ambito 13 – ex Raffineria»,
estese per quasi 100 ettari, come scrive la stessa Kuwait in una
incredibile lettera inviata nel novembre 2010 ad Asia e vari esponenti
del Comune, in cui inoltre si benedice la realizzazione
dell'inceneritore, «straordinaria opportunità per la riqualificazione»,
oltre ai nuovi insediamenti urbani, «dotati di un interessante mix
funzionale (residenza, terziario, attività produttive ecocompatibili)».
E viene sollecitata ad Asia e al Comune «la realizzazione di una
migliore rete stradale, con accesso dedicato all'inceneritore»; un
«potenziamento della rete di sottoservizi, energetici e di
teleriscaldamento e teleraffrescamento legati all'inceneritore»; «lo
smaltimento pneumatico dei rifiuti prodotti dalle attività previste dal
p.u.a. Q8», sempre
nell'inceneritore!
E ambiguo è stato il ruolo della Società Consortile Napoli
Orientale, società mista, ora in liquidazione, nata con lo scopo di
riqualificare l'area orientale del territorio comunale di Napoli,
costituita da Comune di Napoli, IMI, Unione Industriali di Napoli,
Confcommercio e Confartigianato) a cui si sono aggiunte la Provincia e
varie banche, e che ha avuto come presidente Francesco Nerli, ex
(inquisito) presidente dell'Autorità Portuale. Nel suo consiglio di
amministrazione si sono avvicendati ex vicesindaci, consiglieri ed
assessori, tra cui Marone, Papa, Cardillo...
Evidente il peso della già citata Cina, che è forte anche dei
legami con la politica locale: emblematico il caso ovvero dell'ex
assessore e eurodeputato e candidato a sindaco del
pd alle famose primarie
commissariate, Andrea Cozzolino, in cui è pesante il ruolo della Cina,
dato che votarono, nelle contestate primarie, centinaia di cinesi. L'ex
uomo di fiducia di Bassolino, ha poi indirettamente interesse sui suoli
dell'ex Feltrinelli, tramite la moglie, la costruttrice Anna Normale.
Per non parlare del sempre presente Paolo Cirino Pomicino, attuale
presidente di Tangenziale di Napoli
spa (che vuole un’uscita a
Bagnoli, sfondando sotto Monte S. Angelo, col placet di De Magistris),
che ha da sempre, nell'area del depuratore di via De Roberto, un fortino
elettorale, e ha avuto un ruolo fondamentale, quando era ministro e
quando era presidente della Commissione Bilancio, sulle operazioni di
espropri di suoli che erano agricoli.
Per capire l'entità degli affari, basti pensare che solo per i
lavori per la costruzione delle diverse opere previste sulla linea di
costa siamo ad oltre 1 miliardo di euro. A queste risorse se ne devono
aggiunger tante altre ancora, per svariati milioni di euro, che
dovrebbero essere utilizzate per i lavori di bonifica.
Purtroppo, tutto tace su queste vicende. Né si capisce
l'orientamento della giunta De Magistris. Unico fronte critico, il
Comitato civico di San Giovanni a Teduccio, presieduto da Vincenzo
Morreale: sono stati prodotti tre esposti alla Procura, di cui non si
conosce il destino. La Giustizia si è mossa invece contro due esponenti
del Comitato, indagati per lo svolgimento “violento” di un pacifico
presidio tenutosi davanti alla nuova centrale nel 2007. Morreale,
identificato come “capo”, rischia come pena massima 20 anni di
reclusione. Viene spontaneo pensare che si voglia colpire l'unica voce
dell'area orientale di Napoli. Speriamo di sbagliarci. Speriamo sia
possibile un'altra Napoli.
DICEMBRE 2011
[1]
Prem Shankar Jha, Il caos prossimo venturo. Il capitalismo contemporaneo e la crisi delle
nazioni, Neri Pozza, Vicenza 2007. Si veda anche la premessa
di Eric Hobsbawm.
[2]
Viene definita in questo modo un’ondata di innovazione
tecnologica che rende obsoleti metodi di produzione sperimentati
e consolidati, minacciando di bancarotta anche imprese
solidissime. Quelle che non si adeguano a queste esplosioni di
innovazioni vengono messe fuori mercato. Joseph A. Schumpeter,
Capitalismo, socialismo e
democrazia, Etas, Milano 2001.
[3]
Karl Polanyi, La grande
trasformazione, Einaudi, Torino 2000, pp. 5-10.
[4]
Samir Amin, Il capitalismo nell’era della globalizzazione: la
gestione della società contemporanea, Asterios, Trieste 1997.
[5]
Come affermato anche dai relatori del convegno organizzato
dall'Istituto Enrico Mattei di Alti Studi sul vicino e medio
Oriente, La guerra di
Libia allo scanner. Economia, mass media, legittimità
dell'intervento, ad Assisi, il 12 ottobre 2011, ovvero
Bruno Amoroso, Prof. emerito dell'Università di Roskilde, Pino
Cabras, giornalista e direttore di www.megachip.info, Gian
Micalessin, inviato di guerra de
Il Giornale, e
Claudio Moffa, Prof. ordinario dell'Università di Teramo, la
primavera araba è stata pilotata dai paesi nato. Dalla serie
“cambiare tutto per non cambiare nulla”. Tramite tv locali e
occidentali, giornali,
Facebook e internet, ci hanno fatto credere che questa
rivoluzione sia partita dal basso, tramite l'utilizzo della
rete, di Twitter.
In rete è poi possibile trovare
un'inchiesta che spiega come nella primavera araba c'è stato
l'intervento occulto dei servizi segreti e in particolare di un
gruppo di lavoro specifico, il canvas, Centre for Applied
Nonviolent Action and Strategies (Centro per le strategie e
l'applicazione dell'azione nonviolenta), fondata nel 2002 da
alcuni membri del movimento Otpor, tra cui Slobodan Djinovic and
Srdja Popović, che portò alla caduta di Slobodan Milosevic in
Serbia. I membri del canvas, creatori di rivoluzioni, che si
infiltrano nei paesi prescelti e creano instabilità, hanno già
lavorato attivamente in 37 paesi, arrivando al successo in 6,
portando alla “rivoluzione” Georgia, Ucraina, Libano, Maldive, e
ora Egitto e Tunisia; «E la lista aumenterà ancora», come
affermato dallo stesso Popović, nell'inchiesta di journeyman.tv,
The Revolution Business - World,
www.youtube.com/watch?v=lpXbA6yZY-8.
[6]
Piero Bevilacqua, Miseria dello sviluppo, Laterza, Bari
2008, pp. 5-14.