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06
Gennaio 2012

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Inchieste

IL DESTINO DI NAPOLI EST

Massimo Ammendola

 

Introduzione: un’analisi globale

L’attuale crisi globale, secondo il filosofo ed economista indiano Prem Shankar Jha[1], è solo l’ultima in ordine di tempo nello sviluppo secolare del capitalismo, oggi sempre più globalizzato. A suo giudizio, questa è la quarta volta che il capitalismo infrange il suo «contenitore» economico, politico e istituzionale, alla fine di uno dei suoi cicli di espansione, provocando il cosiddetto «caos sistemico», ovvero il crollo delle istituzioni e delle relazioni preesistenti, accompagnato da un prolungato conflitto tra gli stati e all’interno di essi.

Ogni espansione capitalistica ha condotto alla riorganizzazione economica e politica di un’area del pianeta progressivamente più vasta, la quale ha creato le condizioni per l’avvio del successivo ciclo di accumulazione e per la nascita di una nuova potenza egemone: ciascuna delle quattro precedenti fasi di espansione fu contrassegnata dall’egemonia di un centro economico predominante, identificabile prima nelle città-stato medievali, poi nell’egemonia economica dei Paesi Bassi, ed infine nella potenza coloniale della Gran Bretagna. Oggi siamo ormai al termine della quarta fase di espansione, quella del «secolo americano». E potremmo ipotizzare che stiamo passando a una quinta fase targata Cina.

La storia dell’umanità è la storia di un continuo tentativo di adattamento al cambiamento tecnologico: quest’ultimo è il vero fattore propulsivo del capitalismo, dato che è perennemente stimolato dal profitto. La società scivola in uno stato di cambiamento costante, in cui è favorita la crescita della competizione: i cambiamenti tecnologici nelle industrie dei trasporti e della comunicazione sono la causa dell’ultimo ciclo di espansione capitalistica. La graduale compressione dei cicli di espansione è stata causata da una costante accelerazione del ritmo dei cambiamenti tecnologici: la crescita della scala di produzione, la conseguente espansione incessante di dimensioni e di potere del contenitore capitalistico, e l’abbreviarsi del periodo temporale entro cui il cambiamento ha dovuto completarsi, hanno sottoposto le istituzioni politiche a una pressione sempre crescente e hanno aumentato la violenza di ciascuna transizione.

Le origini di questo paradosso risiedono nel movimento a forbice dell’accumulazione di capitale liquido e delle opportunità di investimento. Non appena si produce uno «scoppio di distruzione creativa»[2], le opportunità di investimento liquido in nuovi macchinari crescono rapidamente: dopo la spesa iniziale, quando i nuovi mezzi di produzione sostituiscono i vecchi, i profitti crescono di conseguenza aumentando l’accumulazione del capitale. Ma ogni sostituzione della vecchia generazione di macchinari e dei vecchi modelli di gestione aziendale con i nuovi, limita le opportunità di ulteriori e rapidi aumenti di produttività. Le probabilità di profitto sugli investimenti futuri cominciano pertanto a scendere proprio quando il profitto sugli investimenti esistenti raggiunge un picco. Ciò crea una pressione inesauribile da parte di quantità crescenti di profitti generati dagli investimenti passati, ossia di capitale liquido, per trovare nuove opportunità di investimento.

Dietro le quinte degli eventi, agisce quella che Karl Polanyi definì l’«Alta Finanza»[3], funzionando come un’organizzazione permanente ed indipendente, legata unicamente alle banche centrali, che sta trasformando il pianeta in un unico centro di produzione e commercializzazione.

È questo il momento in cui il capitalismo assume la sua forma più egemonica e comincia a riorganizzare vaste aree del mondo. Questa riorganizzazione è promossa con l’ausilio di una «ideologia legittimante» e sostenuta dalla minaccia o dall’uso della forza: ogni ciclo capitalistico ha pertanto dato vita a lunghi periodi di violenza, dal momento che le città e le nazioni al centro del sistema hanno cercato di riorganizzare la periferia per aumentare la redditività del capitale.

La globalizzazione potrebbe apparire oggi come il collasso del capitalismo classico, specie in questo periodo di crisi. Invece, come afferma Samir Amin[4], la globalizzazione è proprio l’industrializzazione della periferia, uno sviluppo che si è manifestato come parte dello smantellamento della produzione nazionale e della sua ricostruzione in un sistema internazionale integrato di produzione industriale. In sintesi, la produzione industriale cessa di essere nazionale per diventare internazionale. Ciò comporta che il capitalismo globale, cambia forma, riorganizzandosi, distruggendo quello nazionale, ormai in declino.

Gli agenti principali della globalizzazione sono le grandi aziende multinazionali, che controllano i due terzi del commercio internazionale. Oggi, un paese che viene tagliato fuori dal loro circuito, è destinato a rimanere povero. La concentrazione di potere economico che è saldamente nelle mani di alcuni giganti commerciali genera il forte potere politico delle grandi aziende transnazionali: considerata la posta in gioco, non stupisce che la politica sia schiava dell’economia.

Il capitalismo ha cominciato a distruggere non semplicemente l’istituzione del mercato nazionale, ma anche l’architettura di leggi, convenzioni e organizzazioni, edificate nel corso di oltre due secoli, che l’avevano sorretto e umanizzato.

La risposta statunitense al caos crescente si è tradotta nel tentativo di creare un impero: ma sia la prima avvisaglia, ovvero l’intervento in Kosovo, sia i successivi interventi in Iraq prima e in Libia poi, con in mezzo la serie di rivoluzioni controllate della “primavera araba”[5], sono gli ambiziosi tentativi di realizzarlo, e stanno portando ad un aumento del caos.

La smania di stabilità delle grandi aziende transnazionali è il fattore alla base di gran parte dei processi di riorganizzazione politica oggi in corso nel mondo, ad opera, soprattutto, degli Stati Uniti. Le grandi aziende multinazionali, infatti, prediligono integrare aziende nella loro catena produttiva globale, se queste hanno sede in paesi dove vi è la ragionevole certezza che la produzione non sarà soggetta a frequenti perturbazioni. Ciò richiede un alto grado di stabilità politica ed un basso livello di mobilitazione sindacale: condizioni assai rare, che devono essere quindi create in modo artificioso e con la forza, vale a dire ad opera di uno stato forte, se non autoritario.

L’interdipendenza economica, provocata dalla globalizzazione, minaccia i profitti non solo delle grandi multinazionali, che sono direttamente colpite perché hanno unità produttive o di servizio nei paesi più poveri ed instabili, ma, a causa dell’intreccio delle partecipazioni azionarie, anche di un’ampissima frangia di altri soggetti interessati. In sostanza, nell’ultima incarnazione del capitalismo, è praticamente quasi tutta la popolazione dei paesi metropolitani ad aver sviluppato un interesse vitale per il controllo, non solo delle politiche economiche, ma anche degli eventi politici nei paesi periferici.

Oggi, come nel passato, la rinascita espansiva del capitalismo è accompagnata da disordine, violenza e insicurezza: all’interno degli stati, ciò ha fatto da detonatore al conflitto tra i nuovi vincitori e i nuovi sconfitti della società. La formazione dei sindacati, la nascita del socialismo e del comunismo, e il trionfo di quest’ultimo in vaste aree di Europa e di Asia, furono risposte all’insostenibile «utopia perversa» del capitalismo industriale nel terzo e quarto ciclo di espansione. Ora, all’ingresso del quinto ciclo, le forze economiche ricreando un’utopia perversa: legare il destino della nostra società a un’organizzazione fondata sull’accumulazione illimitata, un sistema condannato alla crescita, che esternalizza i danni, facendoli ricadere su di noi, sulle generazioni future e soprattutto sulla natura, fornitrice di risorse e secchio della spazzatura, protagonista e vittima del processo produttivo.

Un sistema che sovraproduce e che quindi può durare solo sovracquistando, cioè attraverso l’iperconsumo, indotto dal sistema pubblicitario e dall’obsolescenza accelerata e programmata dei prodotti. Come se fossimo fuori dal tempo e dallo spazio.[6]

All’utopia folle della crescita illimitata, finora non vi è stata alcuna coerente risposta globale: il capitalismo, con i suoi attori/imprenditori dello sviluppo (imprese transnazionali, banchieri, responsabili politici, tecnocrati e mafie), sta per spezzare definitivamente lo stampo dello stato-nazione, generando enormi pressioni per fare a pezzi ogni istituzione umana, tra cui le basi dello stato sociale, ostacolo allo sviluppo del capitalismo globale.

È evidente che il mondo odierno in via di globalizzazione è privo di timoniere, e i suoi leader, che suppongono di avere il controllo degli eventi, sono solo dei re nudi. Wystan Hugh Auden scrisse negli anni Trenta: «Le nostre vite sono determinate da forze esterne che fingiamo di capire». Una frase che riassume la condizione attuale dell’umanità.

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Il caso Napoli est

Recupero del rapporto col mare, infrastrutture per il turismo e il tempo libero, ripristino dell'antico fiume Sebeto: questo era l'ambizioso progetto di riqualificazione della zona orientale di Napoli. Era il 1996. L’allora assessore all’Urbanistica del Comune di Napoli, Vezio De Lucia, presentò il piano: dopo tanti anni di inquinamento, dovuto all'occupazione industriale e portuale, si parlava di “finestre sul mare” evocando, maldestramente, le suggestioni suscitate dall'antica canzone napoletana Marechiaro...

Del mare non vi è quasi più traccia, essendo in atto una vera e propria re-industrializzazione. In una zona costiera che oggi si presenta come un agglomerato di padiglioni industriali, alcuni ancora attivi, parecchi abbandonati, circondati dal centro, densamente abitato.

Con gli attuali progetti di riqualificazione, che hanno totalmente sconvolto gli originari intenti di restituzione del territorio alla cittadinanza, si stanno concentrando nuovi impianti industriali, per la produzione di energia e per lo smaltimento di rifiuti, nuove enormi infrastrutture portuali, nuove speculazioni edilizie (residenze, ma specialmente centri commerciali). La prassi è sempre la stessa: si distruggono le pianificazioni dei piani regolatori, con accordi di programma, leggi quadro e leggi obiettivo, o meglio ancora con i commissariamenti. Addio pianificazione, addio seria riqualificazione ambientale.

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La centrale a turbogas

Oltre alle già imponenti muraglie di containers depositati, che circondano le aree limitrofe al porto commerciale, nascondendo il mare, sulla costa è spuntata una nuova centrale a turbogas da 400 mw (falsamente spacciata per un restyling della vecchia centrale di Vigliena, evitando così la necessaria Valutazione d’Impatto Ambientale).

Per contratto, doveva essere pronta nel 2008, ed invece è stata attivata solo un anno dopo: in questo caso si sarebbe dovuto rivedere il progetto, cercando la migliore tecnologia disponibile, ma ciò non è stato fatto. Inoltre, l'impianto sta funzionando a mezzo regime: dato che il prezzo del gas oscilla pericolosamente, non conviene tenerlo acceso sempre, e così è in funzione circa sei mesi all'anno, nonostante sia costato ben 200 milioni di euro alla Tirreno Power (50% Gas de France Suez Italia; 50% a Energia italiana, ovvero Sorgenia 78%, in cui troviamo il gruppo cir di De Benedetti, hera 11% e iren 11%).

E a poca distanza, a Ponticelli, la Regione vuole anche un inceneritore: entrambi gli impianti, classificati per legge come «insalubri di prima classe», sono a pochi chilometri dal pieno centro cittadino.

Inoltre la bonifica dei suoli su cui è stata costruita la centrale pare non sia avvenuta a norma di legge: le attività di smantellamento del vecchio impianto hanno causato notevoli problemi alla salute dei residenti (bruciori agli occhi e difficoltà respiratorie), poiché i materiali inquinanti da rimuovere non hanno ricevuto un trattamento di bonifica adeguato, ma sono stati portati direttamente in discarica.

Fa riflettere anche la velocità con cui questo ed altri iter autorizzativi siano passati sui tavoli istituzionali. Ben due interrogazioni parlamentari, nel 2007, ad opera dell’on. Francesco Caruso e del sen. Fernando Rossi, non hanno mai avuto risposta.

Come non ha avuto risposta positiva, dopo circa 4 mesi di tentativi de visu, via mail e via telefono, la mia richiesta di un’intervista con l’ing. Massimo Rubino, Napoli Plant & Project Manager. Dopo una prima parvenza di collaborazione, da parte dell’ingegnere, sono stato messo in contatto con il dott. Niccolò de Simone, responsabile Formazione, Sviluppo e Comunicazione di Tirreno Power, che doveva autorizzare l’intervista. Dopo aver addirittura richiesto la lista di domande che volevo porgere, prima in forma orale ed poi anche scritta, ha iniziato a non parlare più dell’intervista, nelle mail che mi inviava, offrendomi invece, dopo più di 2 mesi, del fantomatico materiale, che doveva raccogliere, mai arrivatomi. Dopo il mio ennesimo scandalizzato sollecito, in cui ricordavo che avevo richiesto un’intervista, e che non avevo ricevuto nessun tipo di materiale informativo, il de Simone ha continuato a fare lo gnorri, appellandosi alla trasparenza di Tirreno Power: «con la presente ci scusiamo per il ritardo nella risposta, in ogni  caso per qualsiasi informazione inerente la società ed il progetto rimandiamo al ns. sito internet ove può reperire tutti i dati di suo interesse.

Proprio per il principio della trasparenza le informazioni societarie essendo di dominio pubblico sono presenti sul sito www.tirrenopower.com che permette di poter reperire tutto il materiale utile dal loro sito internet». Dopo 4 mesi di richieste per avere un’intervista, mi hanno indicato gentilmente il loro sito internet.

Una società davvero trasparente, Tirreno Power.

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La Darsena di Levante

Nello specchio d'acqua antistante la centrale è invece in atto, la costruzione della nuova Darsena di Levante, che ospiterà il nuovo Terminal Contenitori di Napoli Levante, per accogliere le più grandi navi portacontainers del mondo (400 m), con annesso aumento dei trasporti su gomma e ferro, a pochi metri dalle case e dall'abbandonato Forte di Vigliena, monumento nazionale.

In nessun altro porto italiano si prevedono incrementi così imponenti: la nuova Darsena frutterà al Consorzio conateco (Consorzio Napoletano Terminal Contenitori, formato dalla cosco, compagnia di stato cinese e dalla msc del sorrentino-svizzero Aponte), che già gestisce l'attuale porto commerciale, un incremento delle sue attività pari quasi al 350%, per i prossimi 50 anni.

Il porto occuperà così circa 5 chilometri di costa. La Campania si prepara a divenire la «piattaforma logistica» del Mediterraneo, terra di solo passaggio delle merci, che avrà Napoli come nodo centrale nei traffici tra Europa, Oriente e Nord Africa.

La Campania si prepara a divenire la «piattaforma logistica» del Mediterraneo, terra di solo passaggio delle merci.

Preoccupa poi il fatto che, già attualmente nel porto, «i controlli sono pochi per forza di cose: ci sono solo 12 doganieri per migliaia di containers; e già adesso a Napoli arriva tutta la merce cinese per l’Italia, anche perché la città partenopea è un paradiso fiscale: stando alle stime della Camere di Commercio sono circa 6.600 le imprese individuali cinesi e più di 5.000 le società registrate in un solo quartiere di Napoli, Scampia», come affermava Vittorio Carlomagno, presidente di Contribuenti.it.

Traffici con la Cina che già oggi sono quindi molto attivi, anche per la collaborazione della Regione Campania con il cis Interporto di Nola di Gianni Punzo che ha investito a Tianjin in un mega centro commerciale; e da gennaio 2010, la conateco dispone poi di altri spazi retroportuali, oltre 200.000 mq, grazie all'accordo tra Regione Campania, Autorità Portuale e Interporto Napoli, trasformando il porto di Napoli nel primo caso concreto di “porto lungo”.

Ma anche dai traffici illegali di rifiuti che passano per Napoli, vengono grossi profitti: «Siamo di fronte a un fenomeno di dimensioni e di gravità inquietanti e l’operazione di oggi non fa che confermarlo. Ormai la rotta Italia-Cina è diventata la rotta dei veleni, con navi cariche di rifiuti tossici che salpano dai nostri porti per approdare al pericoloso mercato del riciclo di materie prime», secondo l'ex presidente di Legambiente, Roberto Della Seta.

A sinistra della centrale e della Darsena, è poi in costruzione anche il porticciolo turistico «Porto Fiorito»; a destra, invece, c'è già la Darsena Petroli, autorizzata per altri 20 anni, in cui si scarica, deposita e smista il combustibile necessario al fabbisogno di tutta la regione.

Una situazione di questo genere rappresenta un problema molto serio data l’evidente compresenza di più attività pericolose nella stessa area a rischio: forte è il rischio di incidenti nelle centrali a turbogas, e con la contemporanea presenza delle petroliere e delle navi gasiere, oltre alle raffinerie, ai serbatoi di gas e di oli combustibili, o ancora delle navi e dei sommergibili nucleari che pure transitano nel Golfo, gli scenari ipotetici si fanno più che drammatici.

Esiste infatti un «Piano di emergenza esterna zona orientale», che riguarda i possibili incidenti rilevanti che interessino l'area di Napoli est e i suoi stabilimenti, compreso l'oleodotto di collegamento tra la Darsena Petroli ed i depositi costieri, che diviene in caso di crisi una vera e propria miccia, lungo un percorso che si snoda dalla costa fino alla zona di Poggioreale: il pericolo è quello di un clamoroso effetto domino. Eppure la stessa Napoli è stata già segnata da incidenti gravi come quello dell'esplosione di 25 serbatoi costieri dell'Agip del 1985.

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La «zona rossa»

Siamo in piena «zona gialla» del Vesuvio, quella cioè che sarà interessata (quantomeno) dalla caduta di particelle, in caso di futura (ma preannunciata) eruzione. E forse dovremmo parlare di «zona rossa», come affermò l'ex numero uno della Protezione Civile, Guido Bertolaso: «Napoli va inserita in zona rossa, da rivedere i piani di evacuazione».

A poche decine di metri dalla centrale e da queste altre attività inquinanti, si sono insediati i nuovi laboratori artistici del Teatro San Carlo, e si insedierà a breve una cittadella universitaria, in cui confluiranno alcune facoltà dell'Università di Napoli «Federico ii» (area ex Cirio). Oltre a chi già abita in zona, le presenze giornaliere raggiungeranno quota 22.000.

E non dimentichiamo che in questa zona è stato costruito, ed ora giace abbandonato, anche l’Ospedale del Mare, il più grande ospedale del Sud Italia.

In un contesto ambientale e sanitario già critico: alta è la mortalità per malattie all'apparato respiratorio e per tumori; i superamenti delle polveri sottili pm10 sono continui, in una città che è pesantemente inquinata dai traffici portuali: non essendo presenti banchine elettrificate, tutte le navi, da quella da crociera alle petroliere, sono costrette a mantenere i motori accesi per tutta la durata dell'attracco.

Alta è la mortalità per malattie all'apparato respiratorio e per tumori; per la cui forte incidenza la zona orientale già nel 1995 fu segnalata dall’oms, a causa della presenza di innumerevoli fonti di inquinamento quali la Darsena Petroli, le raffinerie, le industrie e la vecchia centrale termoelettrica, le discariche, legali ed illegali, e il depuratore di Ponticelli e quello di S. Giovanni, oggi in dismissione. La zona «Napoli Orientale» è Sito d'Interesse Nazionale, ovvero è stata dichiarata «ad alto rischio ambientale»: ma ciò significa che incombe l'enorme affare delle bonifiche da compiere.

Si affianca, inoltre, anche grazie al Piano Casa, il pericolo di una speculazione di edilizia urbana spaventosa. Stiamo parlando di aree enormi, alla pari della zona occidentale di Bagnoli, che, se opportunamente riqualificate, potrebbero dare un nuovo volto a Napoli.

Gli interessi sono enormi, e preoccupa la pressione che le forze in gioco stanno esercitando sulle scelte della politica: esemplare è il caso dell'ex manifattura tabacchi, di cui era proprietaria la Fintecna, società controllata dal Ministero dell'Economia e delle Finanze. «Vigilate che la cittadella della polizia si faccia», avvertiva il presidente Napolitano: invece, è passato il progetto per un nuovo quartiere urbano con attività commerciali, residenze e spazi pubblici, commissionato da Fintecna Immobiliare allo studio Mario Cucinella Architects, svelato come parte dei progetti del gruppo di imprenditori dell’associazione «NaplEst Viva Napoli Vive».

La presidentessa è Marilù Faraone Mennella, moglie dell'ex presidente di Confindustria (che ha appoggiato De Magistris al ballottaggio), che hanno lo scopo dichiarato di «valorizzare attraverso una serie di interventi mirati la zona est di Napoli senza ricorrere a finanziamenti pubblici». Si rileva, invece, che sei dei progetti presentati impegnano ingenti finanziamenti pubblici.

La stessa multinazionale petrolifera Kuwait, spinge per un suo piano di recupero, riguardante le aree Q8, «Ambito 13 – ex Raffineria», estese per quasi 100 ettari, come scrive la stessa Kuwait in una incredibile lettera inviata nel novembre 2010 ad Asia e vari esponenti del Comune, in cui inoltre si benedice la realizzazione dell'inceneritore, «straordinaria opportunità per la riqualificazione», oltre ai nuovi insediamenti urbani, «dotati di un interessante mix funzionale (residenza, terziario, attività produttive ecocompatibili)». E viene sollecitata ad Asia e al Comune «la realizzazione di una migliore rete stradale, con accesso dedicato all'inceneritore»; un «potenziamento della rete di sottoservizi, energetici e di teleriscaldamento e teleraffrescamento legati all'inceneritore»; «lo smaltimento pneumatico dei rifiuti prodotti dalle attività previste dal p.u.a. Q8», sempre nell'inceneritore!

E ambiguo è stato il ruolo della Società Consortile Napoli Orientale, società mista, ora in liquidazione, nata con lo scopo di riqualificare l'area orientale del territorio comunale di Napoli, costituita da Comune di Napoli, IMI, Unione Industriali di Napoli, Confcommercio e Confartigianato) a cui si sono aggiunte la Provincia e varie banche, e che ha avuto come presidente Francesco Nerli, ex (inquisito) presidente dell'Autorità Portuale. Nel suo consiglio di amministrazione si sono avvicendati ex vicesindaci, consiglieri ed assessori, tra cui Marone, Papa, Cardillo...

Evidente il peso della già citata Cina, che è forte anche dei legami con la politica locale: emblematico il caso ovvero dell'ex assessore e eurodeputato e candidato a sindaco del pd alle famose primarie commissariate, Andrea Cozzolino, in cui è pesante il ruolo della Cina, dato che votarono, nelle contestate primarie, centinaia di cinesi. L'ex uomo di fiducia di Bassolino, ha poi indirettamente interesse sui suoli dell'ex Feltrinelli, tramite la moglie, la costruttrice Anna Normale.

Per non parlare del sempre presente Paolo Cirino Pomicino, attuale presidente di Tangenziale di Napoli spa (che vuole un’uscita a Bagnoli, sfondando sotto Monte S. Angelo, col placet di De Magistris), che ha da sempre, nell'area del depuratore di via De Roberto, un fortino elettorale, e ha avuto un ruolo fondamentale, quando era ministro e quando era presidente della Commissione Bilancio, sulle operazioni di espropri di suoli che erano agricoli.

Per capire l'entità degli affari, basti pensare che solo per i lavori per la costruzione delle diverse opere previste sulla linea di costa siamo ad oltre 1 miliardo di euro. A queste risorse se ne devono aggiunger tante altre ancora, per svariati milioni di euro, che dovrebbero essere utilizzate per i lavori di bonifica.

Purtroppo, tutto tace su queste vicende. Né si capisce l'orientamento della giunta De Magistris. Unico fronte critico, il Comitato civico di San Giovanni a Teduccio, presieduto da Vincenzo Morreale: sono stati prodotti tre esposti alla Procura, di cui non si conosce il destino. La Giustizia si è mossa invece contro due esponenti del Comitato, indagati per lo svolgimento “violento” di un pacifico presidio tenutosi davanti alla nuova centrale nel 2007. Morreale, identificato come “capo”, rischia come pena massima 20 anni di reclusione. Viene spontaneo pensare che si voglia colpire l'unica voce dell'area orientale di Napoli. Speriamo di sbagliarci. Speriamo sia possibile un'altra Napoli.

 

DICEMBRE 2011

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[1] Prem Shankar Jha, Il caos prossimo venturo. Il capitalismo contemporaneo e la crisi delle nazioni, Neri Pozza, Vicenza 2007. Si veda anche la premessa di Eric Hobsbawm.

[2] Viene definita in questo modo un’ondata di innovazione tecnologica che rende obsoleti metodi di produzione sperimentati e consolidati, minacciando di bancarotta anche imprese solidissime. Quelle che non si adeguano a queste esplosioni di innovazioni vengono messe fuori mercato. Joseph A. Schumpeter, Capitalismo, socialismo e democrazia, Etas, Milano 2001.

[3] Karl Polanyi, La grande trasformazione, Einaudi, Torino 2000, pp. 5-10.

[4] Samir Amin, Il capitalismo nell’era della globalizzazione: la gestione della società contemporanea, Asterios, Trieste 1997.

[5] Come affermato anche dai relatori del convegno organizzato dall'Istituto Enrico Mattei di Alti Studi sul vicino e medio Oriente, La guerra di Libia allo scanner. Economia, mass media, legittimità dell'intervento, ad Assisi, il 12 ottobre 2011, ovvero Bruno Amoroso, Prof. emerito dell'Università di Roskilde, Pino Cabras, giornalista e direttore di www.megachip.info, Gian Micalessin, inviato di guerra de Il Giornale, e Claudio Moffa, Prof. ordinario dell'Università di Teramo, la primavera araba è stata pilotata dai paesi nato. Dalla serie “cambiare tutto per non cambiare nulla”. Tramite tv locali e occidentali, giornali, Facebook e internet, ci hanno fatto credere che questa rivoluzione sia partita dal basso, tramite l'utilizzo della rete, di Twitter.

In rete è poi possibile trovare un'inchiesta che spiega come nella primavera araba c'è stato l'intervento occulto dei servizi segreti e in particolare di un gruppo di lavoro specifico, il canvas, Centre for Applied Nonviolent Action and Strategies (Centro per le strategie e l'applicazione dell'azione nonviolenta), fondata nel 2002 da alcuni membri del movimento Otpor, tra cui Slobodan Djinovic and Srdja Popović, che portò alla caduta di Slobodan Milosevic in Serbia. I membri del canvas, creatori di rivoluzioni, che si infiltrano nei paesi prescelti e creano instabilità, hanno già lavorato attivamente in 37 paesi, arrivando al successo in 6, portando alla “rivoluzione” Georgia, Ucraina, Libano, Maldive, e ora Egitto e Tunisia; «E la lista aumenterà ancora», come affermato dallo stesso Popović, nell'inchiesta di journeyman.tv, The Revolution Business - World, www.youtube.com/watch?v=lpXbA6yZY-8.

[6] Piero Bevilacqua, Miseria dello sviluppo, Laterza, Bari 2008, pp. 5-14.