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06
Gennaio 2012

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Transizione

LA TRANSIZIONE AL TEMPO DELLA CRISI

Guido Cosenza*

 

L’organismo economico nato a seguito della rivoluzione industriale, soffre di intrinseche disfunzioni interne congenite, che sono all’origine di instabilità crescenti. Il fenomeno è accentuato dall’interazione con un ecosistema gravemente alterato dalla attività produttiva umana: le tare dell’uno e il degrado dell’altro interferiscono pesantemente e generano un quadro complessivo preoccupante.

Limitiamo inizialmente l’analisi agli aspetti strutturali (ovviamente anche altri elementi entrano in gioco a minare l’equilibrio del sistema globale, ci riferiamo ovvero alle profonde alterazioni sociali determinate dalla odierna organizzazione della produzione, ma ne tratteremo nel seguito): il processo produttivo è il fattore principale che ha forgiato l’attuale configurazione della comunità umana, ne ha indotto nel tempo la complessa conformazione interna che è sotto gli occhi di tutti; il carattere dominante, l’espansione progressiva insopprimibile, non consente all’organismo la sopravvivenza in condizione di stasi, tanto meno di decrescita, se non subendo profonde trasformazioni.

La ragione è semplice: il capitale nel corso del processo lavorativo si accresce, nel contempo la potenza generatrice delle merci aumenta per effetto delle innovazioni tecnologiche, e la conseguenza è che la produzione si incrementa di continuo. Se lo sviluppo si arrestasse, parte del capitale resterebbe inattivo e non si valorizzerebbe, e ciò comporterebbe una violazione della logica di funzionamento inerente all’apparato produttivo globalmente operante. Un capitale inattivo si logora ed è soggetto a dissipazione: questa è una condizione inaccettabile per il presente ordine economico.

Tuttavia a un certo stadio del corso espansivo si giunge ineluttabilmente a un punto in cui il volume di merci confezionato eccede la capacità di assorbimento del mercato, e il congegno produttivo si inceppa: ha luogo una paralisi parziale, il capitale investito è in parte fermo, quello di recente accumulazione non trova opportunità di investimento produttivo.

Ecco la contraddizione centrale: il capitale nella ricerca di sbocchi alternativi si piega a degli usi differenti da quello canonico, gli unici che gli sono consentiti sono, da un lato, per porsi al riparo dalla flessione inflativa, l’acquisto di beni non finanziariamente deperibili, dall’altro, invece, il ricorso all’impiego finanziario. Il secondo espediente è quello prevalente in quando promette di preservare il carattere specifico del capitale, la riproduzione allargata.

La manovra ha però un rovescio della medaglia: è esposta ad alti rischi in quanto le operazioni che si prospettano nascondono rilevanti azzardi. Analizziamo separatamente le varie possibili opzioni.

• Si procede al finanziamento dei consumi. Per poter innalzare il volume delle allocazioni delle merci invendute si è spinti a concedere prestiti in condizioni di non sicura solvibilità.

• Si incoraggia l’accensione di mutui con copertura insufficiente.

• Si finanziano attività produttive dall’esito incerto.

• Si accordano linee di credito a stati in situazioni economicamente vulnerabili.

E così via. Come conseguenza si va incontro a elevati tassi di insolvenza con conseguenti fallimenti e sofferenze gravi delle banche, degli istituti di credito, delle imprese.

Si è in piena crisi, l’apparato economico si inceppa, perde vistosamente colpi. È a questo punto che il potere saldamente nelle mani dei gestori del capitale attua il piano “salvezza della nazione”.

Le perdite vengono compensate in un gioco bilanciato, per un verso si effettuano prelievi  di risorse dalla comunità, prevalentemente costituita da coloro che sono subalterni nel processo di produzione, per un altro si incentiva nuovamente l’occupazione perché i consumi riacquistino vigore. Ecco allora che la macchina si rimette faticosamente in moto.

Ci si chiede se la crisi odierna sia così grave da compromettere la ripartenza. I dati a disposizione propendono ad avvalorare la tesi che la ripresa avrà luogo, ma sarà sicuramente molto sofferta. Sussistono ancora sufficienti risorse naturali per alimentare la macchina produttiva e inoltre i danni all’ambiente, probabilmente irreversibili, non hanno ancora raggiunto il livello di guardia; tutto ciò esclude che la ripresa sia messa a rischio. Il quadro complessivo indicherebbe che il collasso per il momento sia scongiurato.

L’unica altra evenienza, alternativa alla ripresa del ciclo, collasso escluso, comporterebbe l’innesco di un diffuso processo di trasformazione sociale, incentivato dalle condizioni di precarietà sociale e ambientale che si sono determinate. Questo evento è però da escludere per varie ragioni.

Innanzitutto le aree in cui si sperimentano rapporti economici e sociali in grado di surrogare gli attuali in declino sono estremamente limitate. Esigue e ristrette sono le areole in cui si tenta di ordire una trama nuova capace di originare organizzazioni di vita non dissipative delle risorse naturali e tali da non alimentare spinte estensive.

Inoltre non sono presenti sul territorio consistenti forze consapevoli dei gravi rischi che la comunità corre e che siano in grado di farsi carico dell’azione di trasformazione.

Allo stato attuale siamo al centro del guado e ci si interroga sul carattere da dare all’azione da intraprendere.

Innanzitutto va ribadito che l’appropriazione di beni a scapito prevalentemente delle fasce sociali soccombenti nel processo produttivo è una scelta obbligata all’interno  dell’ordinamento vigente, in alternativa solo una azione che contempli la rimozione dello schema progettuale imperante potrebbe essere risolutiva, ma per tale operazione non sono mature le condizioni storiche, mancando una adeguata spinta propulsiva.

Dunque è inesorabilmente all’interno della crisi il campo d’azione di chi si propone di contribuire al futuro ineludibile piano di trasformazione sociale. L’ampia e profonda turbolenza che sconvolge la comunità avrà il suo decorso naturale, produrrà ingenti danni e numerose vittime, e in tale frangente emerge con chiarezza l’obiettivo da perseguire: su di noi incombe il compito di predisporre un terreno favorevole al lungo lavoro che si prospetta, su cui occorrerà impegnarsi al tempo della imminente ripresa e della successiva ulteriore crisi che si prevede debba essere quella terminale. Allora si scioglierà il dilemma: lasciarsi cadere nel baratro oppure percorrere un tragitto salvifico verso una società in grado di reggersi in condizioni di equilibrio stabile sia al proprio interno, calibrando e distribuendo equamente le risorse, sia all’esterno, interagendo in modalità non invasiva con l’ambiente circostante.

Come si presenta allora un piano di lavoro realistico in tempi difficili di crisi?

Sono essenzialmente due e di natura distinta, gli ingredienti che risulteranno efficaci in un percorso inteso a modificare gli obiettivi della comunità umana e che contribuiranno a incidere sulla sua evoluzione. L’uno comporta un impegno a trasformare la rete di rapporti che intercorre fra gli individui componenti la comunità; per l’altro occorre promuovere la riflessione sulle finalità del proprio incedere, nel convincimento che debbano totalmente mutare di destinazione. Bisognerà affrontare e propagare i temi della radicale trasformazione di rapporti e obiettivi alla luce dei profondi disagi in via di accrescimento rapido che la presente organizzazione economica e sociale determina, e segnalare l’incalzare della prospettiva di carenze via via più gravi a carico della comunità.

La comunità umana nel corso del suo processo evolutivo subisce un progressivo incremento di complessità interna, ogni società evolve da valori bassi a valori elevati della complessità. Questa grandezza contabilizza il peso in termini sociali ed economici dell’architettura interna e in particolare della impalcatura di sostegno che regge l’articolato tessuto sociale. Il valore attualmente raggiunto è notevolmente alto e comporta un volume elevato di risorse per alimentare la struttura che col tempo si è andata appesantendo. In generale l’epoca della transizione è innescata fra gli altri fattori anche dall’eccessivo valore non più sostenibile raggiunto dalla complessità e segna il passaggio, il più delle volte turbolento e drammatico, da valori elevati a valori ridotti di questa grandezza, cioè il transito da una conformazione dell’organismo sociale molto articolata ad una semplificata.

Tali considerazioni implicano che la diminuzione di valore della complessità nel corso della transizione non può che comportare, per le articolazioni imponenti di cui si compone l’organismo attuale, la semplificazione, l’alleggerimento della trama funzionale, cioè la decomposizione in comunità esigue sostanzialmente autonome. Così avvenne al tempo della caduta dell’Impero Romano d’Occidente, e così non potrà non verificarsi ora, anche se si presenteranno modalità di cambiamento di stato drasticamente differenti.

Un primo dato che emerge è che un processo di decomplessificazione controllata avrebbe chance di attuarsi senza eccessivi traumi in un tessuto extraurbano, nei luoghi in cui si siano già configurate aggregazioni con un qualche grado di autosufficienza, laddove sopravviva in qualche misura lo spirito originario della comunità. Si può prevedere che sia lì che possa principiare la formazione di zone di tessuto rigenerato, centri di condensazione intorno ai quali si potrà diramare la nuova tessitura. Il processo dovrebbe quindi aver inizio nei borghi, da tali formazioni dovrebbe propagarsi riorientando lentamente l’orditura immediatamente circostante, determinando una rete semplificata di connessioni.

Da questa analisi impariamo che è nei piccoli centri il terreno fecondo del lavoro di trasmutazione sociale.

Affrontare il tema in relazione alla città risulta più impegnativo. Intanto le città costituiscono luoghi in cui la variabile complessità raggiunge i massimi del suo valore – picchi in un panorama di valori relativamente limitati. Se ne deduce che tali agglomerati umani dovranno di necessità subire una metamorfosi radicale. È difficile valutare ciò che accadrà nel corso della notevole diminuzione in grandezza della complessità, ma è comunque inevitabile che si verifichi un fenomeno di frammentazione oppure di notevole riduzione in dimensione degli attuali organismi urbani.

Tale evento potrà presentarsi secondo due schemi, e al momento non possiamo dire di più: in una prima modalità la città dovrebbe subire un processo di evaporazione, spopolarsi, come avvenne all’epoca della transizione all’era medievale, fino a raggiungere una dimensione drasticamente ridotta la cui ampiezza sarà dettata dal processo di osmosi col territorio circostante. L’osmosi darà luogo all’accrescimento di comunità limitrofe. Le dimensioni saranno determinate dal bilanciamento delle varie sollecitazioni, i campi di forza attivi nella regione. Nelle zone in origine urbana si prevede che dovrebbero risultare popolati pressoché solo i centri, in abbandono, deserte, le periferie, testimonianza vivente di una delle tante barbarie compiute dall’umanità lungo la sua storia accidentata.

La seconda opzione che si presenta nell’iter evolutivo dei centri urbani è la compartimentazione. Alcune realtà potrebbero perdere il loro carattere unitario e dar luogo a una aggregazione in cellule con un elevato grado di autonomia, come tanti grani associati da una rete labile di interconnessioni (struttura a melograno). In tal caso dovrà avvenire una profonda riorganizzazione del tessuto urbano con la presenza di addensamenti in corrispondenza dei grani, poi formazione di aree libere da edifici ecc…

Cosa suggeriscono questi schemi per un lavoro di sperimentazione?

Qui si incontra un primo vincolo che deriva dall’analisi dei mali che hanno funestato la società che stiamo per lasciare: l’origine delle disfunzioni è nel carattere dell’attuale organizzazione economica. Il nucleo funzionale del sistema è costituito dallo stretto legame di sudditanza fra la produzione e lo scambio: la produzione non per soddisfare bisogni ma per alimentare il mercato. Tale nesso è all’origine della spinta espansiva che caratterizza il modo di produzione capitalista.

Il primo compito allora nel lavoro sul territorio è di spezzare o almeno indebolire questo legame stretto, il rapporto di subordinazione della produzione allo scambio. In molti luoghi extraurbani si vanno prefigurando agglomerati che attenuano la loro dipendenza dal giro mercantile, producono autonomamente l’energia loro necessaria, spesso si distaccano dalle connessioni della rete di distribuzione che si dirama dalle megacentrali, inoltre confezionano una parte rilevante dei mezzi di sussistenza e li distribuiscono con criteri che scalzano o almeno riducono, i precedenti rapporti mercantili.

Il cambiamento realizzato produce una ricaduta spontanea sui rapporti sociali, la comunità allenta i legami col tessuto imperante e depotenzia l’apparato dominante.

Il passo successivo da studiare verte sui possibili interventi da condurre all’interno delle città. Una prima considerazione ci porta a valutare la fattibilità del rafforzamento dei rapporti di vicinato – inventarsi comunità locali, determinare una sorta di vita di quartiere che prefiguri quei grani, presumibili punti di arrivo della futura decomposizione del tessuto preesistente, sarà essenziale connettersi con realtà esterne che si accingono a invalidare legami mercantili, che hanno intrapreso lo sganciamento dai centri di produzione tradizionali, centralizzati e spesso dislocati in aree distanti.

La città è un luogo complesso in cui si sono sedimentate calcificandosi strutture sociali e produttive inerenti al capitale, comprese le relative sovrastrutture ideologiche, esse si sono materializzate in un complesso urbano mostruoso. In molti luoghi del pianeta tali formazioni saranno inaccessibili al processo di decomposizione in comunità ridotte per cui il fenomeno di decomplessificazione porterà, come abbiamo già ampiamente argomentato in precedenza, all’evento alternativo del diradarsi della trama del tessuto sociale, dello svaporare di parte della orditura. Il processo si svolgerà determinando inevitabilmente lo spopolamento di larghe aree urbanizzate.

Gli episodi di sfollamento comporteranno un trauma per il tessuto limitrofo agli agglomerati cittadini. Il processo di assorbimento e riequilibrio di ingenti masse di popolazioni in movimento a carico di comunità extraurbane dovrà essere gestito in modo che lo svolgimento sia piano e ordinato, evitando il prodursi del fenomeno valanga. Sarà necessario studiare come arginare l’evento.

Le considerazioni che abbiamo riportato in queste note sono desunte da dati storici in relazione ai fenomeni in atto alla luce dei modelli teorici elaborati in questi anni, ma la realtà prende spesso il sopravvento battendo strade inedite. Siamo solo agli inizi di un processo che in buona parte ci sfugge e la sperimentazione è l’unico strumento che possa indirizzarci, è già sporadicamente praticato.

 

NOVEMBRE 2011

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*Dipartimento di Scienze Fisiche, Università di Napoli Federico. È autore di La Transizione. Analisi del processo di transizione a una società postindustriale ecocompatibile, Feltrinelli, Milano 2008; Il nemico insidioso. Lo squilibrio dell'ecosistema e il fallimento della politica, Manifestolibri, Roma 2010; e con Chiesa Giulietto e Sertorio Luigi,

La menzogna nucleare. Perché tornare all'energia atomica sarebbe gravemente rischioso e completamente inutile, Ponte alle Grazie, Milano 2010.