Transizione
LA TRANSIZIONE AL TEMPO
DELLA CRISI
Guido Cosenza*
L’organismo economico
nato a seguito della rivoluzione industriale, soffre di intrinseche
disfunzioni interne congenite, che sono all’origine di instabilità
crescenti. Il fenomeno è accentuato dall’interazione con un ecosistema
gravemente alterato dalla attività produttiva umana: le tare dell’uno e
il degrado dell’altro interferiscono pesantemente e generano un quadro
complessivo preoccupante.
Limitiamo inizialmente
l’analisi agli aspetti strutturali (ovviamente anche altri elementi
entrano in gioco a minare l’equilibrio del sistema globale, ci riferiamo
ovvero alle profonde alterazioni sociali determinate dalla odierna
organizzazione della produzione, ma ne tratteremo nel seguito): il
processo produttivo è il fattore principale che ha forgiato l’attuale
configurazione della comunità umana, ne ha indotto nel tempo la
complessa conformazione interna che è sotto gli occhi di tutti; il
carattere dominante, l’espansione progressiva insopprimibile, non
consente all’organismo la sopravvivenza in condizione di stasi, tanto
meno di decrescita, se non subendo profonde trasformazioni.
La ragione è semplice:
il capitale nel corso del processo lavorativo si accresce, nel contempo
la potenza generatrice delle merci aumenta per effetto delle innovazioni
tecnologiche, e la conseguenza è che la produzione si incrementa di
continuo. Se lo sviluppo si arrestasse, parte del capitale resterebbe
inattivo e non si valorizzerebbe, e ciò comporterebbe una violazione
della logica di funzionamento inerente all’apparato produttivo
globalmente operante. Un capitale inattivo si logora ed è soggetto a
dissipazione: questa è una condizione inaccettabile per il presente
ordine economico.
Tuttavia a un certo
stadio del corso espansivo si giunge ineluttabilmente a un punto in cui
il volume di merci confezionato eccede la capacità di assorbimento del
mercato, e il congegno produttivo si inceppa: ha luogo una paralisi
parziale, il capitale investito è in parte fermo, quello di recente
accumulazione non trova opportunità di investimento produttivo.
Ecco la contraddizione
centrale: il capitale nella ricerca di sbocchi alternativi si piega a
degli usi differenti da quello canonico, gli unici che gli sono
consentiti sono, da un lato, per porsi al riparo dalla flessione
inflativa, l’acquisto di beni non finanziariamente deperibili,
dall’altro, invece, il ricorso all’impiego finanziario. Il secondo
espediente è quello prevalente in quando promette di preservare il
carattere specifico del capitale, la riproduzione allargata.
La manovra ha però un
rovescio della medaglia: è esposta ad alti rischi in quanto le
operazioni che si prospettano nascondono rilevanti azzardi. Analizziamo
separatamente le varie possibili opzioni.
• Si procede al
finanziamento dei consumi. Per poter innalzare il volume delle
allocazioni delle merci invendute si è spinti a concedere prestiti in
condizioni di non sicura solvibilità.
• Si incoraggia
l’accensione di mutui con copertura insufficiente.
• Si finanziano
attività produttive dall’esito incerto.
• Si accordano linee di
credito a stati in situazioni economicamente vulnerabili.
E così via. Come
conseguenza si va incontro a elevati tassi di insolvenza con conseguenti
fallimenti e sofferenze gravi delle banche, degli istituti di credito,
delle imprese.
Si è in piena crisi,
l’apparato economico si inceppa, perde vistosamente colpi. È a questo
punto che il potere saldamente nelle mani dei gestori del capitale attua
il piano “salvezza della nazione”.
Le perdite vengono
compensate in un gioco bilanciato, per un verso si effettuano prelievi
di risorse dalla comunità, prevalentemente costituita da coloro
che sono subalterni nel processo di produzione, per un altro si
incentiva nuovamente l’occupazione perché i consumi riacquistino vigore.
Ecco allora che la macchina si rimette faticosamente in moto.
Ci si chiede se la
crisi odierna sia così grave da compromettere la ripartenza. I dati a
disposizione propendono ad avvalorare la tesi che la ripresa avrà luogo,
ma sarà sicuramente molto sofferta. Sussistono ancora sufficienti
risorse naturali per alimentare la macchina produttiva e inoltre i danni
all’ambiente, probabilmente irreversibili, non hanno ancora raggiunto il
livello di guardia; tutto ciò esclude che la ripresa sia messa a
rischio. Il quadro complessivo indicherebbe che il collasso per il
momento sia scongiurato.
L’unica altra
evenienza, alternativa alla ripresa del ciclo, collasso escluso,
comporterebbe l’innesco di un diffuso processo di trasformazione
sociale, incentivato dalle condizioni di precarietà sociale e ambientale
che si sono determinate. Questo evento è però da escludere per varie
ragioni.
Innanzitutto le aree in
cui si sperimentano rapporti economici e sociali in grado di surrogare
gli attuali in declino sono estremamente limitate. Esigue e ristrette
sono le areole in cui si tenta di ordire una trama nuova capace di
originare organizzazioni di vita non dissipative delle risorse naturali
e tali da non alimentare spinte estensive.
Inoltre non sono
presenti sul territorio consistenti forze consapevoli dei gravi rischi
che la comunità corre e che siano in grado di farsi carico dell’azione
di trasformazione.
Allo stato attuale
siamo al centro del guado e ci si interroga sul carattere da dare
all’azione da intraprendere.
Innanzitutto va
ribadito che l’appropriazione di beni a scapito prevalentemente delle
fasce sociali soccombenti nel processo produttivo è una scelta obbligata
all’interno dell’ordinamento
vigente, in alternativa solo una azione che contempli la rimozione dello
schema progettuale imperante potrebbe essere risolutiva, ma per tale
operazione non sono mature le condizioni storiche, mancando una adeguata
spinta propulsiva.
Dunque è
inesorabilmente all’interno della crisi il campo d’azione di chi si
propone di contribuire al futuro ineludibile piano di trasformazione
sociale. L’ampia e profonda turbolenza che sconvolge la comunità avrà il
suo decorso naturale, produrrà ingenti danni e numerose vittime, e in
tale frangente emerge con chiarezza l’obiettivo da perseguire: su di noi
incombe il compito di predisporre un terreno favorevole al lungo lavoro
che si prospetta, su cui occorrerà impegnarsi al tempo della imminente
ripresa e della successiva ulteriore crisi che si prevede debba essere
quella terminale. Allora si scioglierà il dilemma: lasciarsi cadere nel
baratro oppure percorrere un tragitto salvifico verso una società in
grado di reggersi in condizioni di equilibrio stabile sia al proprio
interno, calibrando e distribuendo equamente le risorse, sia
all’esterno, interagendo in modalità non invasiva con l’ambiente
circostante.
Come si presenta allora
un piano di lavoro realistico in tempi difficili di crisi?
Sono essenzialmente due
e di natura distinta, gli ingredienti che risulteranno efficaci in un
percorso inteso a modificare gli obiettivi della comunità umana e che
contribuiranno a incidere sulla sua evoluzione. L’uno comporta un
impegno a trasformare la rete di rapporti che intercorre fra gli
individui componenti la comunità; per l’altro occorre promuovere la
riflessione sulle finalità del proprio incedere, nel convincimento che
debbano totalmente mutare di destinazione. Bisognerà affrontare e
propagare i temi della radicale trasformazione di rapporti e obiettivi
alla luce dei profondi disagi in via di accrescimento rapido che la
presente organizzazione economica e sociale determina, e segnalare
l’incalzare della prospettiva di carenze via via più gravi a carico
della comunità.
La comunità umana nel
corso del suo processo evolutivo subisce un progressivo incremento di
complessità interna, ogni società evolve da valori bassi a valori
elevati della complessità. Questa grandezza contabilizza il peso in
termini sociali ed economici dell’architettura interna e in particolare
della impalcatura di sostegno che regge l’articolato tessuto sociale. Il
valore attualmente raggiunto è notevolmente alto e comporta un volume
elevato di risorse per alimentare la struttura che col tempo si è andata
appesantendo. In generale l’epoca della transizione è innescata fra gli
altri fattori anche dall’eccessivo valore non più sostenibile raggiunto
dalla complessità e segna il passaggio, il più delle volte turbolento e
drammatico, da valori elevati a valori ridotti di questa grandezza, cioè
il transito da una conformazione dell’organismo sociale molto articolata
ad una semplificata.
Tali considerazioni
implicano che la diminuzione di valore della complessità nel corso della
transizione non può che comportare, per le articolazioni imponenti di
cui si compone l’organismo attuale, la semplificazione, l’alleggerimento
della trama funzionale, cioè la decomposizione in comunità esigue
sostanzialmente autonome. Così avvenne al tempo della caduta dell’Impero
Romano d’Occidente, e così non potrà non verificarsi ora, anche se si
presenteranno modalità di cambiamento di stato drasticamente differenti.
Un primo dato che
emerge è che un processo di decomplessificazione controllata avrebbe
chance di attuarsi senza eccessivi traumi in un tessuto extraurbano, nei
luoghi in cui si siano già configurate aggregazioni con un qualche grado
di autosufficienza, laddove sopravviva in qualche misura lo spirito
originario della comunità. Si può prevedere che sia lì che possa
principiare la formazione di zone di tessuto rigenerato, centri di
condensazione intorno ai quali si potrà diramare la nuova tessitura. Il
processo dovrebbe quindi aver inizio nei borghi, da tali formazioni
dovrebbe propagarsi riorientando lentamente l’orditura immediatamente
circostante, determinando una rete semplificata di connessioni.
Da questa analisi
impariamo che è nei piccoli centri il terreno fecondo del lavoro di
trasmutazione sociale.
Affrontare il tema in
relazione alla città risulta più impegnativo. Intanto le città
costituiscono luoghi in cui la variabile complessità raggiunge i massimi
del suo valore – picchi in un panorama di valori relativamente limitati.
Se ne deduce che tali agglomerati umani dovranno di necessità subire una
metamorfosi radicale. È difficile valutare ciò che accadrà nel corso
della notevole diminuzione in grandezza della complessità, ma è comunque
inevitabile che si verifichi un fenomeno di frammentazione oppure di
notevole riduzione in dimensione degli attuali organismi urbani.
Tale evento potrà
presentarsi secondo due schemi, e al momento non possiamo dire di più:
in una prima modalità la città dovrebbe subire un processo di
evaporazione, spopolarsi, come avvenne all’epoca della transizione
all’era medievale, fino a raggiungere una dimensione drasticamente
ridotta la cui ampiezza sarà dettata dal processo di osmosi col
territorio circostante. L’osmosi darà luogo all’accrescimento di
comunità limitrofe. Le dimensioni saranno determinate dal bilanciamento
delle varie sollecitazioni, i campi di forza attivi nella regione. Nelle
zone in origine urbana si prevede che dovrebbero risultare popolati
pressoché solo i centri, in abbandono, deserte, le periferie,
testimonianza vivente di una delle tante barbarie compiute dall’umanità
lungo la sua storia accidentata.
La seconda opzione che
si presenta nell’iter evolutivo dei centri urbani è la
compartimentazione. Alcune realtà potrebbero perdere il loro carattere
unitario e dar luogo a una aggregazione in cellule con un elevato grado
di autonomia, come tanti grani associati da una rete labile di
interconnessioni (struttura a melograno). In tal caso dovrà avvenire una
profonda riorganizzazione del tessuto urbano con la presenza di
addensamenti in corrispondenza dei grani, poi formazione di aree libere
da edifici ecc…
Cosa suggeriscono
questi schemi per un lavoro di sperimentazione?
Qui si incontra un
primo vincolo che deriva dall’analisi dei mali che hanno funestato la
società che stiamo per lasciare: l’origine delle disfunzioni è nel
carattere dell’attuale organizzazione economica. Il nucleo funzionale
del sistema è costituito dallo stretto legame di sudditanza fra la
produzione e lo scambio: la produzione non per soddisfare bisogni ma per
alimentare il mercato. Tale nesso è all’origine della spinta espansiva
che caratterizza il modo di produzione capitalista.
Il primo compito allora
nel lavoro sul territorio è di spezzare o almeno indebolire questo
legame stretto, il rapporto di subordinazione della produzione allo
scambio. In molti luoghi extraurbani si vanno prefigurando agglomerati
che attenuano la loro dipendenza dal giro mercantile, producono
autonomamente l’energia loro necessaria, spesso si distaccano dalle
connessioni della rete di distribuzione che si dirama dalle
megacentrali, inoltre confezionano una parte rilevante dei mezzi di
sussistenza e li distribuiscono con criteri che scalzano o almeno
riducono, i precedenti rapporti mercantili.
Il cambiamento
realizzato produce una ricaduta spontanea sui rapporti sociali, la
comunità allenta i legami col tessuto imperante e depotenzia l’apparato
dominante.
Il passo successivo da
studiare verte sui possibili interventi da condurre all’interno delle
città. Una prima considerazione ci porta a valutare la fattibilità del
rafforzamento dei rapporti di vicinato – inventarsi comunità locali,
determinare una sorta di vita di quartiere che prefiguri quei grani,
presumibili punti di arrivo della futura decomposizione del tessuto
preesistente, sarà essenziale connettersi con realtà esterne che si
accingono a invalidare legami mercantili, che hanno intrapreso lo
sganciamento dai centri di produzione tradizionali, centralizzati e
spesso dislocati in aree distanti.
La città è un luogo
complesso in cui si sono sedimentate calcificandosi strutture sociali e
produttive inerenti al capitale, comprese le relative sovrastrutture
ideologiche, esse si sono materializzate in un complesso urbano
mostruoso. In molti luoghi del pianeta tali formazioni saranno
inaccessibili al processo di decomposizione in comunità ridotte per cui
il fenomeno di decomplessificazione porterà, come abbiamo già ampiamente
argomentato in precedenza, all’evento alternativo del diradarsi della
trama del tessuto sociale, dello svaporare di parte della orditura. Il
processo si svolgerà determinando inevitabilmente lo spopolamento di
larghe aree urbanizzate.
Gli episodi di
sfollamento comporteranno un trauma per il tessuto limitrofo agli
agglomerati cittadini. Il processo di assorbimento e riequilibrio di
ingenti masse di popolazioni in movimento a carico di comunità
extraurbane dovrà essere gestito in modo che lo svolgimento sia piano e
ordinato, evitando il prodursi del fenomeno valanga. Sarà necessario
studiare come arginare l’evento.
Le considerazioni che
abbiamo riportato in queste note sono desunte da dati storici in
relazione ai fenomeni in atto alla luce dei modelli teorici elaborati in
questi anni, ma la realtà prende spesso il sopravvento battendo strade
inedite. Siamo solo agli inizi di un processo che in buona parte ci
sfugge e la sperimentazione è l’unico strumento che possa indirizzarci,
è già sporadicamente praticato.
NOVEMBRE 2011
*Dipartimento di
Scienze Fisiche, Università di Napoli Federico. È autore di
La Transizione. Analisi del
processo di transizione a una società postindustriale ecocompatibile,
Feltrinelli, Milano 2008; Il
nemico insidioso. Lo squilibrio dell'ecosistema e il fallimento della
politica, Manifestolibri, Roma 2010; e con Chiesa Giulietto e
Sertorio Luigi,
La menzogna nucleare.
Perché tornare all'energia atomica sarebbe gravemente rischioso e
completamente inutile,
Ponte alle Grazie, Milano 2010.