Esperienza e rappresentazione
MONDO SENZA TEMPO
Giulio Trapanese
Maggio 2011, Scuola
critica, Biblioteca Brau, Napoli
Questa costituisce una
trascrizione rivisitata della prima di tre parti del seminario
«Esperienza e rappresentazione nel mondo senza tempo» tenutasi nel
Maggio 2011 per il progetto Scuola critica.
1. Mondo senza tempo
[La variabile tempo
riguardo all’esperienza]
Possiamo, per
cominciare, prendere in considerazione un’esperienza di tipo quotidiano:
lo scrivere una lettera. Cinquanta anni fa, mi sarei trovato a sedere,
prendere in mano una penna, iniziare col riflettere, e poi scrivere.
Durante la scrittura, avrei potuto, di volta in volta, cancellare alcune
frasi e, così, riscriverle; tuttavia, questa operazione mi sarebbe
costata almeno una qualche piccola fatica fisica. In fin dei conti
scrivere rappresentava un impegno d’una certa fatica, sia per l’atto
materiale dello scrivere, sia per il lavoro di scelta delle parole e
delle espressioni. Se, invece, facciamo una comparazione con oggi, ci
rendiamo conto che lo scrivere al
pc è qualcosa di molto diverso. Diversità che riguardano il tipo
di attività e, allo stesso tempo, il modo io cui mi proietto verso la
persona cui indirizzo la scrittura. All’interno di quest’esperienza, la
variabile tempo, è in grado di trasformare alla radice, in un modo o
nell’altro, l’esperienza dello scrivere: se anche oggi, nello scrivere
utilizzassi le stesse parole di una volta, l’esperienza soggettiva di
scrivere costituirebbe così un’esperienza essenzialmente diversa.
[La formazione dei
valori]
Un discorso analogo
potrà essere, dunque, fatto nel concepire il modo in cui questo
influisce nella formazione di un valore. Il tempo dovrà quindi essere
considerato un elemento strutturante dell’esperienza e non dovrà più
essere trascurato. Se oggi, infatti, è possibile, più di prima,
conoscere le opinioni e i pareri di chi vive lontano da noi nello spazio
e se è aumentato il numero delle esperienze che sono possibili, non ci è
concesso, tuttavia, sostenere, semplificando, che l’esperienza sia di
per sé aumentata. Questo può essere creduto solo se si esclude
l’elemento del tempo. Dobbiamo tenere conto, invece, di come certe
costellazioni di senso, in cui io creo la mia direzione di vita, non
possono che maturare necessariamente entro un certo arco di tempo. Allo
stesso modo lo stesso valore attribuito da noi ai diversi aspetti della
vita, altro non è che, in buona misura, l’equivalente dell’importanza
che noi vi attribuiamo e che, tale importanza, in un mondo che perde
sempre i riferimenti ad una morale dogmatica, potrà essere fatto
risalire alla quantità di tempo e all’investimento emotivo dedicati alla
cosa particolare. Attribuisco, ad esempio, un certo valore al progetto
di Scuola critica, non
semplicemente per via della rappresentazione intellettuale che io ne ho,
ma sulla base dell’impiego del mio tempo e delle mie energie per essa.
Quindi questo “consumare” la mia vita per qualcosa, rende questa stessa
importante ai miei occhi. Nel momento in cui, infatti, storicamente
nella società il valore è andato perdendo un significato e un peso
assoluto rispetto a riferimenti trascendenti, la vita è portata a
riporre il proprio valore in ciò che essa sarà in grado di fare e come
sarà in grado di costruirsi. Similmente a chi, ad esempio, lavora il
ferro, e conferisce valore alla sua attività perché è la sua vita che si
è formata a contatto con essa, io costruisco un valore morale, perché la
mia vita si sarà ancorata ad un contesto in cui alcuni avvenimenti,
alcune relazioni, alcune esperienze hanno assunto un senso particolare
che ha fatto di me quello che sono.
[La terza rivoluzione industriale e il mondo dominato dalla velocità dell’elettrone]
Seguendo lo stesso filo, per quanto costituisca un lavoro difficile dal
punto di vista della ricostruzione storica, sarebbe necessario
considerare la trasformazione temporale dell’esperienza umana nel corso
delle rivoluzioni industriali della nostra storia più recente.
Rivoluzioni industriali che possono essere intese come rivoluzioni
sociali di carattere complessivo, a partire dalla prima e arrivando a
quella di oggi, che possiamo in ordine di tempo definire come la terza.
La velocità dello sviluppo odierno del capitalismo finanziario,
costituisce, infatti, evidentemente una velocità non più paragonabile a
quella con cui, con i mezzi della macchina a vapore (prima rivoluzione
industriale), o della macchina elettrica (seconda rivoluzione
industriale) esso si era sviluppato. Da alcuni decenni, infatti, viviamo
all’interno di una società che viaggia letteralmente alla velocità
della’industria elettronica. La macchina elettronica, vale a dire il
computer, infatti, come ci suggerisce il pensatore francese André Gorz,
ha una temporalità del tutto particolare, difficilmente paragonabile a
quella di un’azione umana. Se la macchina a vapore velocizza il lavoro
umano, e raggiunge i 45 km/h (1850), e una macchina elettrica,
parimenti, con una potenza di lavoro maggiore, un computer, d’altra
parte, invece, funziona alla velocità della luce[1].
Tutto ciò rappresenta, senz’ombra di dubbio, un livello di dominio
elevato da parte dell’uomo sulla natura, e connota il tipo di sviluppo
attuale delle forze produttive accelerando incredibilmente la velocità
del lavoro e, soprattutto, quella in genere della comunicazione di
informazioni. Per quanto sia un processo cominciato già prima con le
rivoluzioni scientifiche, oggi, tuttavia, il tempo è divenuto realmente
il parametro decisivo per designare l’importanza di un’innovazione
tecnologica rispetto ad un’altra. Personalmente questo scenario, credo,
non possa lasciarci indifferenti rispetto all’enormità della portata
delle trasformazioni in atto nella società. La trasformazione
elettronica, infatti, riguarda un insieme composito di trasformazioni
della struttura sociale. Oggi, attraverso lo strumento della
comunicazione elettronica, noi fondiamo la nostra comunicazione
principalmente su di uno strumento recentissimo, costituito dalla rete
di internet. Questa rete, a sua volta, rappresenta perfettamente lo
schema paradigmatico della velocità dell’elettronica, e mostra
chiaramente il passaggio dalle precedenti rivoluzioni industriali a
quella presente di natura informatica. Se questo riguardasse solo un
livello di tecnica informatica, noi potremmo interessarcene da
specialisti, ma credo che dobbiamo essere coscienti di essere di fronte
ad una trasformazione assolutamente più ampia, più radicale. Tale
trasformazione riguarda il tempo, anzi in un certo senso il tempo ne
costituisce proprio l’asse principale, ma parallelamente essa ha che
fare anche con l’elemento dello spazio. Lo spazio ed il tempo, infatti,
come ci insegnano i classici della filosofia, non sono separabili l’uno
dall’altro, e, in buona misura, l’uno senza l’altro non potrebbe
esistere. Come ogni ente, infatti, in quanto è, è temporale, così esso è
in quanto occupa uno spazio. Noi anche qui come individui singoli ne
occupiamo una parte; lo stesso le case, le città, ogni ente, oggetto
della nostra esperienza, non può che essere spaziale.
[Lo
spazio cambia con il tempo. 1.
Rapporto fra capitale concentrato e singoli individui]
Se prendiamo in
considerazione, dunque, in modo preciso, la maniera in cui, con la
trasformazione del tempo, determini la trasformazione dello spazio,
possiamo discutere del rapporto che sussiste fra
lo spazio occupato dal capitale concentrato e finanziario e
quello, invece, vissuto e percepito mediamente dall’umanità di oggi.
Negli ultimi decenni di rivoluzione elettronica, tale differenza è
andata aumentando. Prima, infatti, nel XIX sec., il raggio di
penetrazione del capitale si limitava nei confini di una fabbrica, o in
una regione particolare (il capitalismo aveva infatti un’estensione
regionale) e, dal loro canto, gli individui vivevano in un certo
quartiere di città o in una piccola zona di campagna. Lo spazio, nel
complesso, rimaneva uno spazio delimitato entro i confini di una qualche
regione, o, al massimo, d’una certa nazione. Oggi, invece, seguendo tale
schema prospettico, possiamo sostenere con forza che la situazione si
presenta diversamente. Il capitale finanziario, infatti, ha un dominio
quasi assoluto rispetto allo spazio oggettivamente occupato e
potenzialmente occupabile dalla maggior parte della popolazione che
abita la terra. Vorrei chiarire meglio la questione facendo leva su
questo punto: se il capitale nel suo complesso, al tempo del XIX sec.,
esprimeva una data proporzione fra il capitale investito nelle macchine
e quello a disposizione dell’investimento (diciamo un rapporto
equivalente ad x), oggi, invece, la proporzione fra capitale investito
in una produzione come macchine o altro e il capitale finanziario
centralizzato dematerializzato è assolutamente maggiore. Possiamo dire
si tratti di 20, 30, 100 x. Da questo punto di vista, quindi, con
l’aumento della valorizzazione del capitale, è andato aumentando , in
pari tempo, la sproporzione fra ricchezza realmente investita e la
ricchezza che può essere potenzialmente investibile. Quest’ultima, in
particolare, si presenta nelle vesti di ricchezza finanziaria. Dunque lo
spazio cambia di pari passo con il tempo; allo stesso modo vedremo come
cambi il rapporto che intercorre spazialmente e dunque politicamente tra
il centro e la periferia. Al giorno d’oggi, infatti, come è evidente a
tutti, oltre a mezzi di trasporto più veloci, abbiamo potentissimi e
pervasivi mezzi di comunicazione (non solo quindi la televisione).
Questi mezzi possiamo dire costituiscano il centro per tutti, cosa che
prima, in effetti, non avveniva. Se prima c’era un centro nazionale, e,
parimenti, un centro economico e un centro sociale, le periferie erano
collegate a questi centri, ma non vi era una penetrazione immediata del
centro all’interno della periferia. Una penetrazione, invece, che, ad
esempio, avviene senz’altro almeno dal 1950 in poi grazie allo strumento
della televisione. Ogni periferia del mondo, infatti, come ogni
periferia di Italia, ed ogni periferia della regione, non essendo di per
sé il centro economico, finanziario o culturale, si trova oggi sempre
comunque, potenzialmente entro il centro. Essa è invasa dal centro, per
via proprio di questa diramazione, e a partire da un centro immateriale,
quale lo ha garantito la televisione, che oggi garantisce, in modo più
radicale, la rete di internet. Credo, a questo proposito, che Pasolini
avesse già inquadrato bene la questione, e che la sua risposta ci
indichi una via interessante per inquadrare la questione di oggi. Già
nella metà degli anni settanta egli, aveva intuito e aveva descritto la
fine della condizione della solitudine della periferia. Nell’articolo
“Due proposte su scuola e
televisione” Pasolini scriveva infatti che sarebbe stato necessario
tornare a quella distanza e quella solitudine cui era proiettata la vita
dei giovani, affinché non venisse completamente eroso il senso di
comunità, il senso di appartenenza, ed il piano dei valori possibili.
[2. Rapporto fra centro
e periferia]
L’invasione della
periferia da parte del centro oggi, dunque, è totale. Il concetto stesso
di periferia si è dovuto, quindi, inevitabilmente trasformare. L’annosa
discussione su quale sia il palazzo del potere ha assunto tinte diverse
per antonomasia. Il palazzo del potere, per antonomasia, non è più
quello posizionato al centro delle capitali degli Stati. Infatti, negli
ultimi decenni, il centro del potere ha perso la propria centralità e si
è oggettivamente de – materializzato; la conseguenza è stata che oggi
non si riesce più a riconoscere semplicemente chi sia al governo delle
sorti di una nazione, o di uno stato. I diversi centri, il centro
politico, che fino a pochi decenni fa, poteva essere identificato, con
il Parlamento o quello economico incarnato dalla direzione della
fabbrica, si oscurano rispetto ad un dominio più impersonale. Si
intravede qualcosa di più potente, e, allo stesso tempo, di più astratto
che sovrasta al di sopra delle istituzioni costituite. Il potere
effettivo, dunque, che si è creato e sempre più va creandosi in questi
decenni, ha una matrice transnazionale ed una natura
economico-finanziaria. Il flusso finanziario, infatti, è di per sé
immateriale, non localizzato. Al tempo stesso esso ha un movimento
velocissimo, quasi istantaneo, il quale sostiene il suo carattere
astratto. Dunque, se ad esempio, sono un investitore di un capitale
potrò, con gli strumenti attuali della tecnologia, effettuare
spostamenti di capitali finanziari, nei più diversi scenari del mondo,
avendo individuato i luoghi migliori dove investire, rispetto al mio
profitto. In virtù di tale sistema di connessione generale sostenuto
dalla rete, mi sarà possibile agire e reagire istantaneamente ai flussi
di denaro circolante nell’intero globo. Ciò, dunque, sarà alla base
della maggiore separazione tra i piani spazio-temporali della vita del
capitale e quella degli individui, i quali, in buona misura, vivono
ancora con “i tempi del quotidiano” la loro esperienza.
[Modernità e
centralizzazione. Dallo Stato alla formazione del sistema economico –
finanziario. Il concetto di sistema oggi]
Possiamo passare adesso
al tema della connessione e del controllo onnilaterale. Alcuni dei
filosofi francesi del ‘900, infatti, hanno decostruito l’immagine della
storia moderna intesa come formazione di uno Stato unitario e
centralizzato. Se, ad esempio, per la filosofia di Hegel, ciò costituiva
un fenomeno positivo, per questi filosofi, invece, il confronto diviene
assai più problematico. Per Hegel, infatti, la centralizzazione statale
rendeva possibile come progetto il livellamento delle condizioni sociali
e l’identificazione del popolo in una nazione. Per M. Foucault, invece,
tale processo corrispondeva ad una forma di restrizione di libertà e,
d’altro canto, alla segregazione sociale di alcune parti rispetto ad
altre. Questa discussione sullo sviluppo dello stato moderno io credo ci
possa portare a mettere a tema la questione del sistema. Che cosa è
infatti un sistema? Molte
volte, nella storia, ci si è riferiti al sistema come ad un organismo
sociale complessivo, nel tentativo voler contrapporre allo status quo
esistente un altro modello di società; se ne è parlato nell’ultimo
secolo, ad esempio, negli anni ’40 del Novecento nella Cina con la
rivoluzione di Mao, o, ancor prima, nel ’17 in Russia. Se sistema è
evidentemente un concetto generale neutro, tuttavia, direi, che il
concetto di sistema assume un valore diverso rispetto al 1840, al 1920 o
anche al 1980. Il tema che vorrei introdurre è che il cosiddetto
“sistema” oggi sia assai più sistema, dal momento che osserviamo una
penetrazione onnilaterale della finanza capitalistica sul globo e
prendiamo atto quotidianamente della sua possibilità di controllare, e,
almeno in potenza, le scelte e le decisioni dell’intera popolazione
mondiale. Si tratterebbe, dunque, di un potere immenso. Un potere
attivo, dal punto di vista economico – finanziario, ma anche,
conseguentemente, dal punto di vista del controllo delle
rappresentazioni umane; quest’ultimo livello di potere opererebbe
attraverso la distruzione delle rappresentazioni, le quali, per secoli,
hanno dominato e definito la mente degli individui. Riguardo a tale
invasione, e tale conseguente estinzione, già Marx ed Engels scrissero
nel Manifesto del 1848 alcune pagine intense e, in un certo senso,
profetiche[2],
arrivando, ad esempio, a sostenere come non esistessero più, già al loro
tempo, letterature nazionali ma s’andasse costituendo una letteratura
universale; o, ancora, ebbero la capacità di indicare con lucidità
impressionante il processo secondo il quale il capitale e la borghesia
penetrarono nella vecchia infrastruttura, profanando, in tal modo, ogni
cosa considerata sacra fino ad allora. Già Marx, dunque, osservò come
gli uomini abbiano occhi disincantati alla propria posizione, ai propri
rapporti e come sia stato di fatto superato il tradizionale isolamento
degli individui nel mondo sulla base del processo di centralizzazione e
connessione, attraverso il quale il dominio di classe della borghesia è
divenuto via via predominante su quello di qualunque classe presente in
società. Il punto di vista della classe borghese, è divenuto via via il
punto di vista universale. Questa rappresentò un’intuizione di Marx che
ad oggi, possiamo dire, è stata ampiamente sottovalutata. Pasolini,
d’altra parte, nel 1975, in uno dei suoi ultimi articoli, tradusse
questa intuizione coll’espressione di genocidio culturale. A questo
proposito, al termine, de I
giovani infelici, del 1975 egli scrisse: «Perché c’è – ed eccoci al
punto – un’idea conduttrice sinceramente o insinceramente comune a
tutti: l’idea cioè che il male peggiore del mondo sia la povertà e che
quindi la cultura delle classi povere deve essere sostituita con la
cultura della classe dominante. In altre parole la nostra colpa di padri
consisterebbe in questo: nel credere che la storia non sia e non possa
essere che la storia borghese». Si tratta, senz’altro, dell’intuizione
di Marx, per la quale il punto di vista della borghesia si fa il punto
di vista culturale di tutti[3].
Possiamo interpretare questo fenomeno come un tipo di colonialismo
culturale, il quale, a sua volta, costituisce in questo modo il
grimaldello per il colonialismo più propriamente economico. A proposito
del concetto di sistema, il genocidio rappresenta, in buona misura, la
cifra odierna della globalizzazione economica.
[Modernità e sviluppo
forze produttive in rapporto al tempo. Razionalizzazione e messa a
produzione del tempo]
D’altra parte, Marx nei
tre libri de Il Capitale non
ha sviluppato pienamente il tema del tempo come elemento strutturale
posto alla base del sistema capitalistico. Se è vero che nel
Capitale Marx pone questa premessa, è pur vero che essa non viene
sviluppata dal punto di vista filosofico. Il capitalismo, infatti, è
sorto e si è sviluppato per come lo conosciamo fino ai giorni nostri,
poiché storicamente, una serie di tradizioni feudali e dai più diversi
risvolti religiosi, ha subito un progressivo sgretolamento. Gli uomini,
così, liberatisi dei vincoli personali di riconoscenza o debito
personale, alla base dei quali si reggeva anche la condizione di
subordinazione servile, sono entrati vicendevolmente in nuove forme di
relazione sociale. L’analisi del capitale ad opera di Marx presuppone
dalla sua la liberazione dal feudalesimo inteso come dipendenza
personale di alcuni rispetto ad altri e dipendenza di alcuni uomini che
lavorano per altri, dopo averne riconosciuta l’autorità. Un contadino
feudale non è, infatti, solo un individuo che lavora una parte della
propria giornata per il padrone; egli, inoltre, non può fare delle
scelte personali, se non sotto concessione di quest’ultimo. Ad esempio,
egli non aveva la libertà di sposarsi, o non poteva andarsene dalla
propria terra e viaggiare, senza un permesso formale del proprio
padrone. Vi era, insomma, ancora quella che si definisce la proprietà
giuridica sulla persona. Che vuol dire questo? Che la desacralizzazione
di questa prospettiva e di questo legame fra uomo e uomo ha fatto sì che
si che nel corso della storia si venissero liberando delle energie
sociali; il capitalismo ha avuto il merito storico di mettere a frutto
queste energie. Come si può notare, dunque, si tratta d’una logica del
tutto immanente e profana, nel senso che nessun individuo trova
costretto a fare una cosa per un vincolo che non sia (anche se certo,
apparentemente) la sua volontà. Per fare un esempio tratto dal mondo di
oggi, se, infatti, lavoro ad un
call center nessuno mi costringe a continuare a farlo, così come,
non ci sono vincoli personali che m’impediscono di lasciare questo
lavoro. Non c’è fra me il proprietario del
call center un vincolo di tipo morale o religioso. Io, infatti, non
gli riconosco alcuna autorità che non sia quella di un individuo che
detiene il potere economico di comprare il mio lavoro.
[Il Capitale di Marx:
il tempo come misura del valore, della merce come della vita]
Cosa vuol dire questo?
Vorrà dire che la modernità ha a che fare con questo tipo di sviluppo
della società e con questa forma di conquista del tempo della vita
dell’al di qua. Tale conquista richiede un altro rapporto con il tempo,
vale a dire implica la sua razionalizzazione, e la sua minuziosa messa a
valore ai fini di un’accumulazione. Potremmo dire che il capitalismo
rappresenta una razionalizzazione e una messa a valore di quel tempo
degli individui che s’è andato liberando con lo sviluppo della
tecnologia. Nel Capitale il tempo è considerato, infatti, l’unico reale criterio e
l’unica misura della merce; di qui, possiamo dire, dal momento che il
tempo diviene il tempo di misura del valore delle cose, che esso è
misura della vita tout court.
Se quest’oggetto vale tanto sul mercato, infatti, è perché per farlo è
necessario, tra la produzione dei mezzi, il lavoro umano, la
manutenzione delle macchine, il trasporto ed il resto, una determinata
quantità di tempo di lavoro. Dunque, la vita sussunta entro questo
oggetto prodotto – quasi si trattasse di un prelevamento di sangue –
corrisponde così ad un certo tempo x e tale x è, appunto, il suo valore.
Il tempo è allora ciò che fa di una merce ciò che è, e allo stesso
tempo, ciò che fa di me stesso quello che sono; io infatti mi vendo
sulla base del tempo della mia vita e sulla base dei bisogni materiali
necessari a mantenere e riprodurre la mia vita. Ancora una volta la
logica del capitale si dimostra completamente laica e spoglia di
abbellimenti esteriori o teologici. Il tempo è l’unica misura della
merce. Il cambiamento della struttura classica del tempo è, allora, il
carattere nativo, diciamo, e originario della struttura del capitalismo.
Ho voluto, dunque, introdurvi il tema della trasformazione del tempo e
l’oggettivazione della sua misura ad opera della mentalità
capitalistica, passando attraverso una veloce descrizione del processo
che parte con la prima
rivoluzione industriale, passa per la seconda, ed arriva infine alla
terza.
[Il tempo e il lavoro]
Concludo questa prima
parte, con due ultime osservazioni. La prima riguarda il concetto di
tempo vissuto. Questo discorso non costituisce un’appendice estrinseca,
ma possiamo dire che, invece, rientri, nel concetto di sistema di cui
diremo dopo, sistema che per adesso possiamo cominciare a definire
“biopolitico” o “sistema totale”. Il tempo sarà posto in rapporto alla
mutata situazione nel mondo del lavoro oggi, vale a dire rispetto al
rapporto che intercorre tra il momento del lavoro e quello del non
lavoro all’interno dell’esistenza di un individuo. Quello che deve
risultare chiaro, è che oggi il nostro approccio rispetto al lavoro è
senz’altro diverso, nella misura in cui la giornata di lavoro, fino a
qualche decennio fa, costituiva un arco temporale delimitato in modo
netto entro un inizio e una fine. Un lavoratore di fabbrica, infatti, ai
tempi dei primi insediamenti produttivi in Inghilterra a metà Ottocento,
lasciava la propria casa molto presto la mattina (quando non si trovava
a dover lavorare di notte), e si dirigeva in fabbrica, dove si
raccoglievano tutti i lavoratori e si concentravano i mezzi della
produzione. Tuttavia, una volta uscito dal luogo di lavoro, non avendo
più i mezzi del lavoro a
disposizione, egli non poteva nei fatti più continuare a lavorare. Il
tempo del lavoro, dunque, per circa almeno un secolo e per quello che
riguarda il lavoro operaio, prevalentemente maschile, è stato
decisamente concentrato al di fuori dei luoghi domestici. Privato e
pubblico per forza di cose
si sono trovati ad essere nettamente separati. Il tempo di lavoro ad
essere separato da quel (poco, poi magari un po’ di più) tempo di non
lavoro. Se è vero che il tempo di non lavoro è sempre stato poco, in
ogni caso quel tempo costituiva uno scarto rispetto al dominio del
sistema totale del capitalismo. Allora l’operaio tornava a casa e in
quello spostamento compieva un passo all’indietro di alcuni secoli,
rispetto al livello di tecnologia presente nella sua abitazione privata.
Tuttavia, per quanto nella sua casa magari mancasse tutto e mancasse
anche quella stessa elettricità che, invece, si utilizzava nelle
fabbriche, proprio tale differenza determinava una netta separazione
netta fra tempo del lavoro e tempo del non lavoro (tempo cioè di messa a
valore e tempo di non messa a valore). Il tempo di una razionalizzazione
produttiva si presentava separata da quel tempo, invece, occupato da una
cultura di tipo familiare, una cultura molto più tradizionale e radicata
in usanze della comunità d’appartenenza.
[Appendice. Il miraggio
d’una solitudine lontana dal mondo]
Dunque, il secondo
punto che vi riporto riguarda quello che Pasolini, indicava, già negli
anni ’70, come un miraggio,vale a dire la provincia, la periferia, il
non industriale. Cioè, in altre parole, il non ancora sottoposto alla
logica capitalistica, il non ancora borghese (quello che possiamo
intuire nelle immagini delle sue riprese in Africa per i suoi film). Una
sorta di solitudine, lontana dalla realtà di un mondo completamente
conosciuto, sorvegliato e, dunque, pienamente dominabile. Al giorno
d’oggi la sensazione di stare lontano dalla cerchia del potere, possiamo
dire dal centro, vale a dire dallo sguardo del sistema, non è più
possibile, così come, parimenti, la vita non può più mantenersi
all’interno di un’aura di reale mistero, senza riferimenti o spiegazioni
certe per ogni cosa. La condizione di trovarsi isolati, senza essere,
però, soli, non è più una condizione di tipo comune. Pasolini, nello
stesso articolo del 1975, dove sostiene la necessità di abolire la
televisione e la scuola, risponde infatti a chi si domanda cosa
succederebbe senza televisione, che, in verità, in seguito a ciò non
sorgerebbe alcun vero problema. I ragazzi e le persone in genere
sarebbero così costretti ad abbandonarsi nuovamente alla vita dei loro
quartieri, e alle loro notti. In questo modo egli intendeva, dunque, la
necessità della separazione e della distanza, la distanza da quella
internità forzata, costituita dall’essere sempre coinvolti e aggiornati
su ciò che accade[4].
Essere sempre, in definitiva, sommersi e, dunque, costretti e
controllati dalla forza di uno dei diversi centri di potere. Al di là
dei giudizi che si possono dare su Pasolini, è, però, vero che quella
solitudine e quella lontananza dal mondo, al giorno d’oggi sembrano non
esistere più, essere scomparsi del tutto. Tutto il mondo oggi, almeno in
potenza, pur solo attraverso la
connessione mediatica, infatti, nutre l’illusione (e, in effetti, non è
solo un’illusione) d’essere dentro, collegato, connesso. Il genocidio
culturale dunque di cui parla Pasolini, al giorno d’oggi, in un mondo
che si distingue per la velocità del suo sviluppo e dei suoi
cambiamenti, è molto più che realizzato; possiamo dire sia già
addirittura storia, oltre la quale oggi noi ci troviamo a ragionare.
Domande
Vincenzo:
Quello che mi ha colpito di più e su cui vorrei soffermarmi di più
riguarda il corpo. Questo, infatti, non è più rispetto alla natura, ma
rispetto al capitale, cioè vive non in funzione della vita, ma è
considerato sempre in funzione dello sviluppo del capitale. In questo
modo, la realtà del corpo stesso è quindi sempre una sovrastruttura
costruita dal potere; l’invadenza del potere si esprime proprio lì dove
la persona non si può più difendere. I significati, infatti, si vanno a
generare, in un modo talmente veloce che l’individuo stesso non ha
neanche il tempo di valutarli con una certa coscienza.
Giulio:
Rispetto alla disintegrazione dei rapporti fra gli uomini, e la
profanazione dei rapporti entro cui si inserisce la logica del capitale,
vorrei ribadire come il capitalismo si ponga in stretto rapporto con il
corpo. Il suo rapporto con il lavoratore ha, infatti, a che fare
specificamente con il corpo. Nel momento in cui non ho più il legame
fatto di vincoli e rappresentazioni morali, per cui ti sono suddito per
una serie di convinzioni che mi sono state passate, io mi porrò nelle
mie relazioni anzitutto come un corpo. Ma questo corpo, d’altra parte,
cosa può essere? Se assumiamo ciò che dice Foucault, vediamo come esso
sia anzitutto un corpo che produce. Per questa ragione il filosofo
francese, nel testo che vi ho riportato, scrive di non capire perché i
rapporti di dominazione che noi analizziamo in termini di classi,
debbano essere visti come rapporti di dominazione ideologica, quando,
invece, il capitale riesce a dominare attraverso la dominazione
effettiva dei corpi, e la possibilità di mettere a lavoro il corpo.
Dunque la questione del corpo non è una questione che s’inserisce come
una tentazione radicale o estremista. Il corpo, nell’analisi del
biocapitalismo, ma ha
piuttosto questo senso: la scomparsa dei vincoli più tradizionali tra
gli uomini, rivela la natura più sincera della posizione dell’uomo nel
mondo. Gli uomini e le donne hanno necessariamente un corpo, anzi, sono
questo corpo; il corpo ha una sua propria vita, dei propri bisogni,
delle esigenze, delle materialità, ed esprime, in senso proprio,la
finitezza. Al tempo stesso questo corpo, però, è anzitutto un corpo che
ha delle energie, e queste energie possono tanto essere dissipate quanto
essere messe a lavoro. A questo punto allora comincia il vero dominio
sul corpo. Il mettere al lavoro il corpo.
DICEMBRE 2011
[1]
Scientificamente questa osservazione non è precisa, perché
l’elettronica funziona sulla base del movimento di elettroni
all’interno di conduttori (come i cavi di rame, ad esempio)
che ne rallentano in piccola parte la velocità. In ogni
caso tuttavia si tratta d’una velocità elevatissima che
s’avvicina a quella della luce.
[2]
Mi domando come potremmo noi oggi essere tanto profetici quanto
lo sono stati loro, forse dovremmo esserlo rispetto al tema
della tecnica, rispetto a cui ci troveremmo ad immaginare
scenari apocalittici.
[3]
D’altra parte economico e culturale oggigiorno riescono a
fondersi completamente, d’altra parte l’economico non ci sarebbe
comunque senza una penetrazione culturale e questo oggi come
oggi è sempre più evidente
[4]
Poi bisognerebbe capire cosa significa questo essere sempre
aggiornati.