SULLA RIVOLUZIONE DEMOCRATICA DI OGGI
Redazione
Premessa
I giovani usano parole
importanti con grande disinvoltura. Gli anziani, dopo una più lunga
esperienza, finiscono con lo smettere di usarle, di modo che ogni
concetto che rompa in modo drastico con la loro consuetudine e con lo
stato presente delle cose, finisce coll’essere vista di traverso come
una menzogna.
La parola rivoluzione,
inoltre, è una parola, insieme, troppo facile e troppo difficile.
«Bisogna fare una rivoluzione!»
oppure «Una rivoluzione non è
possibile» sono frasi nette, in un senso o nell’altro, magari
necessarie alla vita quotidiana, ma che in un’analisi storica oscurano
la realtà mutevole dei fenomeni. E deformano, al contempo, il ruolo
dell’agire politico degli uomini nella società.
Rivoluzione, d’altra
parte, è anzitutto un termine relativo. Rivoluzionare qualcosa significa
cambiare ciò che essa è. Ma cosa è ciò che bisogna cambiare? Ed inoltre,
le cose hanno bisogno della rivoluzione per cambiare, o non cambiano,
piuttosto, anche da sole? Domande banali; ma non sono forse la realtà e
la nostra ignoranza di essa, altrettanto banali?
Cominciamo con il dare
dei nomi. La nostra “cosa”, che riguarda il nostro studio, che cambi o
che non cambi da sola, che sia ferma o in movimento, si chiama,
crediamo, ancora capitalismo. Tuttavia lo si può chiamare capitalismo
come si chiamava quello di duecento anni fa, solo per omonimia. Si
tratta, infatti, di cose diverse, per quanto mantengano una struttura di
fondo che le accomuna. Potremo, allora, chiamare il nostro capitalismo
di ultimissima generazione, un capitalismo post-umano (l’abbiamo
chiamato così nel nostro editoriale precedente), o anche capitalismo
post industriale, capitalismo basato su un’organizzazione post fordista
della produzione, oppure capitalismo delle immagini, capitalismo di
inizio ventunesimo secolo. I nomi, in ogni caso, non fanno le cose, con
buona pace della società dello spettacolo.
Ed allora? Lo
chiameremo così: capitalismo post-umano. Di modo che tale battesimo ci
possa condurre almeno dritti ad una definizione del capitalismo odierno
che valga per la definizione tutta della società contemporanea. Una
definizione sulla base di cui il senso dell’agire umano sia messo in
rapporto all’influenza che ha la tecnica oggi sulla nostra condizione
umana e sul nostro mondo.
Dunque, capitalismo
post-umano. Per giustificare questa definizione, usiamo un solo esempio,
che se non basterà, potrà, comunque, aiutare. Ci si potrà domandare: chi
svolge, oggi, i velocissimi e complicatissimi calcoli di previsione alla
base delle speculazioni e degli investimenti finanziari, in genere, che
tanto incutono ansia e paura a noi comuni mortali? Sono degli uomini,
delle donne, degli specialisti, dei tecnici, degli intellettuali?
Nient’affatto, si tratta di computer, software. D’altra parte su cosa si
regge, l’attuale condizione di interconnessione dei mercati, e dunque,
della vita su scala mondiale, la quale tanto caratterizza la nostra
condizione di essere umani in questa fase storica se non
sull’incredibile sviluppo, avvenuto degli ultimi decenni, delle
tecnologie di informatizzazione del lavoro e della comunicazione?
Scia del passato e
macerie del presente
La rivoluzione di oggi,
dunque, come quella di domani, non possono essere più concepite sulla
scia di quella della borghesia dei secoli
xviii e
xix. Le predizioni
contenute nel Manifesto del
partito comunista o le aspettative della seconda o della terza
Internazionale, se oggi non sono più attuali è per la semplice ragione
che non più attuale è il quadro di sviluppo complessivo della società
umana che la borghesia ha garantito negli ultimi secoli.
Tale quadro si è dato
nei seguenti punti salienti: imposizione di un tempo lineare evolutivo
della storia, sviluppo delle forze produttive su larga scala, rottura
dei vincoli (sociali, ma soprattutto ideologico-religiosi) che
resistevano a tale sviluppo, rimozione della questione dell’ambiente,
messa a valore del tempo umano in funzione quasi esclusiva
dell’accumulazione di ricchezza sotto forma di capitale, instaurazione
di un atteggiamento d’indifferenza completa rispetto all’influenza dello
sviluppo della tecnica sulla personalità umana, e, in genere,
sovradimensionamento della costruzione del senso individuale rispetto
alle forme collettive alla base dell’agire umano.
La rivoluzione della
società capitalistica, giunta ad un livello di complicazione superiore a
quella del secolo passato, non potrà più quindi essere però intesa come
uno sviluppo della società posto su basi diverse (proprietà e gestione
pubblica dei principali centri di produzione di ricchezza), ma,
tuttavia, orientato nella medesima direzione. In un certo senso,
infatti, l’analisi di Marx portava a identificare (anche se mai,
giustamente, a definire in modo troppo netto) la società socialista
sulla base dell’approfondimento degli aspetti rivoluzionari venutisi
storicamente ad instaurare con lo sviluppo delle società borghesi e con
quello dell’apparato produttivo del capitalismo.
C’è oggi bisogno,
invece, (e questo si fa sempre più evidente) di tutt’un’altra
rivoluzione, e non di una rivoluzione borghese semplicemente (si fa per
dire!) rovesciata di segno. Oggi possiamo sostenere con fermezza che una
certa modernità ha trovato, infatti, il suo limite, e questo è evidente
nell’odierno passaggio che mette l’insostenibilità evidente di questo
sistema al confronto tuttavia con la sua apparente insostituibilità e la
sua necessità a – storica. Cosa, infatti, potremo mai sostituire ad
esso, oggi, dopo gli esperimenti di socialismo realizzato nel
xx secolo? Non ci hanno
ripetuto, infatti, negli ultimi decenni, che il comunismo era divenuto
un semplice cane morto?
In ogni caso, quello di
cui abbiamo bisogno è un’altra rivoluzione, un altro tipo di
rivoluzione, una rivoluzione che ridefinisca ciò che vuole
rivoluzionare. Perché esso non è oramai, e non è, non può essere,
semplicemente il capitalismo nelle sue manifestazioni esteriori, per
quanto tragiche (quali la precarietà, la disoccupazione, la povertà).
Bisognerà, invece, rifondare un progetto di cambiamento radicale del
rapporto dell’individuo con la società, e della società umana con la
natura e la tecnica.
Noi non crediamo che
questo possa avvenire attraverso la fondazione di un nuovo partito o un
nuovo movimento, o l’astratta esecuzione di una politica di governo
differente e alternativa rispetto a quella del presente. Gli uomini
agiscono, infatti, per quanto siano lodevoli le loro intenzioni, entro
un quadro di possibilità che gli è dato, ed entro una cornice spazio –
temporale anch’essa, a sua volta, data, la quale non solo li condiziona,
ma che, in un certo senso, se guardiamo ad una certa distanza storica,
definisce di questi i stessi ruoli, le stesse scelte, le stesse
caratteristiche, le quali, ad uno sguardo più immediato ed estemporaneo,
noi attribuiamo alle loro soggettività individuali, coscienti e
volontarie.
Queste condizioni di
fatto oggi non sono assolutamente messe in discussione e non sappiamo,
sinceramente, se siano stati tanti i momenti della storia in cui
effettivamente la politica sia riuscita effettivamente a mettere in
discussione le cornici di riferimento di base dello sviluppo sociale
(Marx la chiamerebbe struttura economica, ma il concetto è da intendere
in senso molto più esteso come struttura spazio temporale e di senso
dell’esistenza degli individui umani).
In ogni caso, ciò che
ci sembra necessario è un progetto che riprenda i temi della grande
politica, dove per grande politica si intenda il progetto di cambiamento
di ciò che rende gli uomini e le donne, nella loro essenza, quello che
sono. Sarà necessario, allora, riproporre come temi veri della politica
sia il cambiamento e la rifondazione del tempo dell’esperienza degli
individui, oggi radicalmente modificato dalla rivoluzione tecnologica
dell’informatica nel suo complesso,
sia il tema della spazialità oggettiva in cui si muovono le
nostre vite, vale a dire il tema delle città e della loro natura (esse
sole, infatti, possono essere luoghi di aggregazione sociale, e luoghi
di ripresa del senso della politica); inoltre, andrà messo al centro il
tema del lavoro umano e, in generale, dell’attività umana deputata alla
produzione ed utilità sociale, che nell’attuale fase (in particolare
nelle società occidentali) è andata completamente snaturandosi e
perdendo il senso sociale da cui, nel bene e nel male, essa era sorta.
Dunque, Tempo -
esperienza, Spazio - città, Lavoro - senso sociale, sono i tre temi
necessari della politica per un cambiamento strutturale, necessari alla
introduzione di un senso politico diverso per le nostre società. Sullo
sfondo di questi temi, si staglia quello di una nuova relazione
dell’uomo con la natura, attraverso, a sua volta, una relazione
completamente differente con il
mostrum della tecnica, che oggi sembra dominare, con i propri tempi
e con quelli umani che essa ha modificato, le scelte delle società, le
priorità dei valori, i paradigmi della politica. Forse, controllo
cosciente delle e sulle forze produttive, di cui scriveva Marx, oggi non
può che significare esattamente questo: inizio di una discussione e di
una pratica critica rispetto alla tecnica (vera risorsa produttiva di
oggi) ed elaborazione di un diverso modello di sviluppo (in un senso
ampio, non produttivistico) per le nostre società future.
Detto questo, però, se
la rivoluzione di oggi non può sorgere all’ombra di quelle di ieri (le
rivoluzioni borghesi con i loro paradigmi culturali) bisogna pure
aggiungere, se non vogliamo scadere in un progetto del tutto idealistico
e astratto, che essa, d’altro canto, parte dalle macerie, (cioè da ciò
che esse hanno distrutto lasciandocene in eredità i cocci) lasciate in
eredità dallo sviluppo storico delle nostre società borghesi.
Una società
frammentata, individualizzata, desacralizzata in ogni suo aspetto anche
più insignificante, al punto da aver sottratto la possibilità anche alle
idee di orientare la vita degli individui; una società sminuzzata in una
serie di pieghe di per sé inconsistenti, ma divenuti ostacoli
insormontabili per la coscienza comune di oggi fossilizzata su di un
eterno presente, e su una rimozione violenta della percezione della vita
di tipo storico (non parliamo della scienza storica, ma della percezione
comune che le cose della vita umana sono nel tempo e che quindi hanno un
loro corso). Una società che stenta e che fa difficoltà a cambiare
valori, vigendo la considerazione comune che non siano i valori che ci
fanno essere ciò che siamo. Una società che perverte la considerazione
del lato materiale della vita unicamente nel senso del piacere, e che lo
fa sulla base della necessaria e costante inclinazione ad un piacere da
ricercare a tutti i costi, e che annulla l’ideale, il simbolico e i
valori sostenendo che non riguardano più la coscienza moderna, poiché
questa sembrerebbe poter facilmente sorvolare sulle cose che gli sono
date senza porsi troppi problemi.
Dunque, si tratta di
macerie rilevanti. Certo c’è anche dell’altro, e un’infinità di casi un
po’ diversi e di esperienze minoritarie che contrastano con questa
immagine, ma la generalità delle cose sta così, ed è essa che potrebbe
anche portare la situazione attuale, non cambiando, a degenerare, e a
trasformare radicalmente la nostra condizione di umani. Una
trasformazione in atto sulla base dei vari processi di genocidio
culturale che in questo momento ci sono nelle nostre società e che
stanno recidendo il filo culturale tra le generazioni ad una velocità
incredibile, alla velocità degli elettroni appunto con la quale i
giovani degli anni ottanta e novanta sono stati portati su.
D’altra parte, la
politica, non è semplicemente teoria, e, se non vuole, arrendendosi alle
forze che oggi si dirigono in una direzione contraria, abdicare ad una
rifondazione autentica del suo senso, essa deve riconoscere e prendere
atto di ciò che c’è, di ciò che si muove, sapendo che lo sguardo, anche
il più acuto, non riesce a concepire la varietà e la ricchezza di tutte
le cose che si vanno muovendo al di sotto dell’apparenza dei fenomeni
sociali che si osservano.
Così, bisogna assumere
la lente e mettersi a guardare meglio quello che è successo, dal punto
di vista delle nuove forme di organizzazione e di espressione della
politica, che hanno fatto la loro comparsa nel corso degli ultimi mesi.
Ci riferiamo a quello che ha rappresentato apparentemente un fenomeno
nuovo e (solo?) apparentemente unitario; vale a dire il fenomeno degli
indignati, quello, più in generale, dei movimenti contro la crisi e la
gestione finanziaria delle banche e degli speculatori. Il movimento
Occupy, il movimento degli indignati, i movimenti che si sono
manifestati, ad esempio, in Grecia rispetto alle assurde politiche di
austerità che sono state proposte nel corso degli ultimi anni, crisi
dopo crisi e riconoscimento dopo riconoscimento della necessaria
insolvenza della nazione greca del proprio debito nazionale. Gli stessi
movimenti che in Primavera
hanno portato in Italia alle vittorie amministrative in alcune città
importanti come Milano, Napoli e Cagliari e, a distanza brevissima, alla
vittoria dei Referendum contro le privatizzazioni delle aziende
dell’acque e contro il nucleare. Si tratta di movimenti che in parte noi
stessi come Città Future
abbiamo preso in considerazione nel nostro ultimo editoriale, e che
molti hanno voluto vedere legati agli altri movimenti, quelli
insurrezionali, avutisi in Tunisia, Egitto in altri paesi nord-africani
e medio orientali (insurrezioni e processi tuttora in corso, rispetto a
cui la questione libica assume poi dei tratti tutti suoi e di una
drammaticità particolare, che tuttavia può gettare una certa luce anche
sugli altri).
Forme della politica e
la democrazia possibile
Non crediamo, affatto,
che questi processi siano unitari, ma tuttavia la sincronicità e
l’emulazione non sono un evento da poco nella nostra società
globalizzata odierna. D’altra parte, se è vero che ogni paese ha la sua
storia, è pur vero che l’interconnessione di oggi ci pone oggettivamente
tutti, in modi diversi, di fronte alla questione della crisi del (e su
questo del c’è molto da discutere: solo del o nel capitalismo?)
capitalismo come una questione strutturale, e determinante da tutti i
punti di vista. Inoltre, in ogni caso queste diverse manifestazioni
politiche presentano in ogni caso dei caratteri comuni che a loro volta
pongono degli interrogativi comuni perché riguardano il modo e le forme
dell’organizzazione politica dal punto di vista dei suoi elementi
fondanti.
Crediamo, intanto, sia
necessario mettere a tema queste questioni:
1) Osserviamo,
all’interno di una dichiarata crisi ideologica della politica, la più
circoscritta, ma non meno radicale, crisi delle forme partitiche di
organizzazione della coscienza politica su scala di massa. Non vogliamo,
dunque, dire che non esistano più partiti, o che essi non abbiano più
alcuna influenza (anzi ciò che ne è rimasto svuotato del suo senso ne ha
dunque anche di più, in un certo senso), o che tra gli
Occupy, o gli indignati, o
nella primavera italiana (tra l’altro assai poco incisiva su equilibri
più generale almeno al momento attuale) non ci fossero partiti anche con
una posizione determinante ai fini dell’esito e della loro riuscita.
Piuttosto vogliamo sottolineare come la crisi dell’influenza dei partiti
nell’organizzazione politica dell’alternativa sia oggi un dato
assolutamente evidente, e, in larga misura, anche generalizzato, che se
può non stupire (a noi non stupisce affatto, ad esempio) tuttavia non
vuol dire che debba essere preso per quello che è senza porsi ulteriori
domande. Non crediamo, infatti, ci si possa accontentare di un giudizio
di sufficienza, e privo di qualsiasi considerazione storica sul
significato dei partiti nel xx secolo, del tipo:
«Prima c’erano i partiti, ed oggi ci sono i movimenti». Come se cose
diverse, possano svolgere esattamente in effetti la stessa funzione ed
illuderci che la loro differente natura non determini anche un tipo ed
una qualità di politica differente all’interno delle società in cui
operano.
2) Ruolo della rete
nell’organizzazione dei movimenti di contestazione. Si tratta d’un
discorso strutturale, ma anche particolare rispetto alla possibilità,
all’efficacia, e al senso della forma politica oggi, quello della rete
non può essere considerato un discorso d’appendice, del tipo
«e poi, alla fine di tutto, dobbiamo considerare che, oggi, rispetto a
prima abbiamo la rete, e la realtà virtuale…», che nei fatti non cambia radicalmente quanto avviene nella realtà
(come se si trattasse appunto solo di un campo di rappresentazione
slegato da quello della realtà, e non di una rappresentazione che è
reale e che fa la realtà, più di quanto la presunta realtà oggi non
faccia se stessa). La questione della rete, inoltre, deve essere senza
dubbio messa in relazione con l’aspetto di interconnessione su scala
globale degli eventi, il quale, a sua volta, si va traducendo anche
nello spirito di sostanziale emulazione degli uni nei confronti degli
altri, e di una ripresa di temi, motivi, parole, ispirazioni, non del
tutto neutra rispetto alla natura di ciò che accade nei singoli e magari
foriera anche di una certa confusione spesso fra realtà delle cose ed
apparenza (discrasia certo che non nasce oggi quanto a realtà del
movimento e coscienza che esso ha di sé, ma oggi rischia di aumentarsi e
incrementarsi).
3) Infine la
rivendicazione, che a noi in quanto tale appare rilevante e senza ombra
di dubbio essenziale, come abbiamo anche già scritto, della necessità di
trasformare la democrazia (laddove democrazia formale c’è) in qualcosa
di diverso, trovare una strada differente per sostanziare le parole di
una costituzione che attribuiscono pure la sovranità al popolo ma che
nei fatti non gli garantiscono le possibilità reali di esercitare tale
diritto. Questo all’interno di un contesto in cui i veri poteri sembrano
sfuggire continuamente al riconoscimento della gente comune. Chi
comanda, infatti, oggi? Gli stati? Le banche? Gli speculatori
finanziari? E chi sono questi speculatori finanziari? Dove vivono?
Democrazia reale, si gridava in Spagna (dove tra l’altro c’era già anche
un vecchio famoso slogan «lo
llaman democrazia y no lo es», evidentemente ripreso e adattato
all’esproprio odierno della democrazia ad opera della finanza). Si
tratta dunque di approfondire il tema della declinazione del concetto di
democrazia all’interno di un sistema che oramai si è modificato nella
direzione di un’internazionalizzazione del potere economico e di una de
- materializzazione al confronto di soli alcuni decenni fa.
Noi crediamo che questi
siano alcuni, non certamente tutti e non per forza esattamente quelli
fondamentali, tra i temi che la politica dei movimenti ha posto sulla
scena e che oggi ci ritroviamo fra le mani, all’interno di una baraonda
di posizioni e un pulviscolo confuso di idee, opinioni, rimandi al
passato, e proiezioni in avanti, che solo un’attenta analisi può
aiutare, almeno, a districare.
Il nostro fine, d’altra
parte, non è certo quello di compiere una minuziosa analisi storica
dall’esterno rispetto al movimento reale che esiste in questo momento.
Né tanto meno di presentare ricette bell’e fatte a chi poi dovrà porsi
il compito di renderle attuabili praticamente. Vogliamo tuttavia mettere
a discussione tra coloro che sono interessati, e si sentono chiamati in
causa da ciò che sta accadendo, una serie di questioni che, se
apparentemente complicano le cose, in verità potrebbero renderle più
semplici una volta prese in considerazione.
Ci chiediamo ad
esempio, rispetto ai punti appena messi in rilievo: siamo certi che è
possibile intendere la politica rivoluzionaria nello stesso senso di
come era intesa nel momento in cui erano ancora in piedi una serie di
ideologie, ed era in piedi, più in generale, una società ancora
fortemente fondata su ideologie e convinzioni politiche, quando, d’altra
parte, oggi è evidente che un certo quadro complessivo mette in
discussione questo tipo di cornice ideologica? E ancora, il tema della
rete può sopperire effettivamente alla distanza (in tutti i sensi)
presente fra gli individui nelle attuali società, o è un tentativo di
compensazione, sì necessario, ma insufficiente a
contrastare lo sgretolamento dello spazio condiviso della politica e, in
generale, dello stare insieme? A questo punto come bisognerebbe
ripensare le forme della condivisione della politica e della
condivisione tout court?
Ancora, pensiamo che sia possibile discutere di democrazia oggi senza
mettere in discussione oltre il regime di dominio della proprietà
privata concentrata del capitale, ma quello, marcatamente odierno,
dell’estensione dello spazio astratto del capitale e del suo dominio
sull’intero globo rispetto a quello concreto e circoscritto della vita
degli individui? Può esistere davvero una reale democrazia in un mondo
di interconnessioni globali così accentuate, o si può al massimo sperare
nella pacifica coesistenza di organismi statali affiancati da macro
organismi finanziari? Il problema è che la democrazia in sé è un
concetto superato, o bisogna ripensare, per affermare una prospettiva
democratica, lo spazio, il tempo e la qualità dell’esperienza nel teatro
globalizzato del nostro mondo di oggi?
DICEMBRE 2011