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05
Ottobre 2011

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Recensioni

GEERT LOVINK, ZERO COMMENTS. TEORIA CRITICA DI INTERNET (BRUNO MONDADORI, MILANO 2008)

Massimo Ammendola

 

Nel 2005 la rete si era ripresa dal crollo delle Dot-com (new economy) e, in linea con l'economia globale, si stava reincarnando nel Web 2.0: era, ovvero, alla ricerca di nuovi profitti, di nuove periferie da colonizzare.

I media erano diventati sociali: blog, wiki e social network venivano presentati come la nuova frontiera del lavoro volontario: produrre profitto, sfruttando il volontariato degli utenti, senza che questi se ne rendano neanche conto. La produzione di notizie coinvolgeva ormai in pianta stabile i cittadini.

 

«Il passo successivo fu la scelta di “You” come Persona dell'anno di “Time”, che riflette l'aumento fenomenale del numero di siti di social networking come MySpace (leggi: News Corporation di Rupert Murdoch) e YouTube (leggi: Google). [...]

Da allora, sempre più persone stanno cominciando a mettere in discussione il modello economico del Web 2.0. Perché gli utenti dovrebbero continuare a pubblicare tutti quei dati privati, dai quali una manciata di aziende ricava miliardi di dollari di profitti? Perché dovrebbero cedere gratuitamente i loro contenuti mentre un pugno di imprenditori del Web 2.0 sta facendo i milioni? Che prezzo siamo disposti a pagare per la gratuità? Perché non usiamo la nostra “immaginazione collettiva” per escogitare modelli sostenibili per una cyberinfrastruttura pubblica? È ora di rompere il consenso liberista. È tempo di tornare a essere utopisti e cominciare a edificare una sfera pubblica al di fuori degli interessi a breve termine delle corporations e della volontà di regolamentazione dei governi. È ora di investire nell'educazione, ricostruire la fiducia e svincolarsi dalla retorica securitaria post-undici settembre».

 

È ciò che si augura Geert Lovink, direttore dell'Institute of Network Culture presso il Politecnico di Amsterdam.

Nella sua raccolta di saggi, Zero Comments, pubblicata in Italia da Bruno Mondadori, in maniera graffiante, analizza e critica questa fase globalizzata della cultura di Internet, giunta dopo il crollo delle Dot-com e l'undici settembre, e che con il Web 2.0 è anch’essa ormai giunta al termine.

Per la cultura dominante anglo-americana questa “globalizzazione” di Internet è stata ancora più evidente a causa della sua ignoranza, voluta e organizzata, e della sua scarsa conoscenza delle lingue straniere: i contenuti in lingua inglese sono infatti scesi ben al di sotto del limite del 30%; oggi la maggior parte del traffico è in spagnolo, mandarino e giapponese.

Inoltre, la crescita ha portato a un'ulteriore “nazionalizzazione” del cyberspazio, soprattutto attraverso l'uso delle lingue nazionali, in contrasto con la presunta assenza di frontiere della rete – che forse non è mai esistita: le aziende occidentali di information technology sono più che contente di aiutare i regimi autoritari con i firewall nazionali.

Le tecnologie come Internet vivono del principio del continuo cambiamento. La dittatura del nuovo continua a dettare legge, ed è l'eco delle Dot-com a far apparire il Web 2.0 così antiquato anche se molto recente. Possiamo disprezzare la sua implacabile instabilità come un trucco di marketing e chiederci perché continuiamo ad eccitarci per l'ultimo gadget o l'ultima applicazione; oppure, invece di ignorare il rumore del mercato e distaccarcene, possiamo riconciliarci col solito vecchio “cambiamento” e goderci le “rivoluzioni” preconfezionate. Nel cambiamento permanente che domina anche Internet, sono stati introdotti massicci sistemi di controllo, mentre decine di milioni di nuovi utenti dando scrolloni inaspettati a questo mezzo di comunicazione, interpretano ciò che è dato e si appropriano allegramente dei servizi, anche in forme che gli analisti di mercato potrebbero non avere mai immaginato.

Secondo l’autore, la rete contiene opportunità straordinarie, che vanno al di là dei sogni proibiti degli imprenditori che vogliono semplicemente fare il tutto esaurito il più in fretta possibile. Se si vuole analizzare il Web 2.0, la sfida è produrre riflessioni rigorose: nonostante la nuova generazione di applicazioni e la crescita spettacolare della popolazione della rete, e nonostante l'aumento del coinvolgimento degli utenti, molti dei problemi di Internet sono rimasti sempre gli stessi: il controllo da parte delle corporations, la sorveglianza e la censura, i “diritti di proprietà intellettuale”, i filtri, la sostenibilità economica, la “governance”. Nel primo saggio, «Orgoglio e gloria del Web 2.0», Lovink si sofferma su due aspetti: la tentazione di partecipare all'economia “free” – ovvero “libera/gratuita” – e le questioni relative al controllo interno dei social networking, e il motivo per cui i giovani pensano di avere buone ragioni per ignorare questi problemi.

Il critico della rete Nicholas Carr si chiede se ci sia un argomento da contrapporre alla moda del Web 2.0:

 

«Tutto ciò che il Web 2.0 rappresenta – partecipazione, collettivismo, comunità virtuali, dilettantismo – diventa indiscutibilmente buono, deve essere alimentato e applaudito, diventa simbolo del progresso verso una condizione più luminosa. Ma è davvero così?».

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Lo si vede nelle lodi a Wikipedia e nell‘adorazione per il software open source, nonché nella produzione dei blog, come alternativa ai media mainstream.

Decostruire il richiamo di questo tecno-liberismo su una rivista accademica o una mailing list non basta, perché il discorso anarco-capitalista sul “cambiamento” non verrà nemmeno scalfito. Nessun dissidente si è mai levato in arene pubbliche più grandi per opporsi all'ipocrisia che sta dietro alle parole “free” e “open”.

Jimmy Wales, il fondatore di Wikipedia, ha stilato una lista ancor più visionaria delle Dieci cose che saranno gratuite, ispirata al discorso di David Hilpbert al Congresso internazionale di matematica tenutosi a Parigi nel 1900, che proponeva ventitré importanti problemi matematici irrisolti. Oltre agli ovvi Dizionario ed Enciclopedia free, nella lista ci sono anche libri scolastici di base, mappe, comunità, editoria scientifica, musica e arte ma anche programmazione televisiva, motori di ricerca e formati di file. Per Lovink, però, non c'è alcun collegamento immediato tra gratuità e libertà. L'ideologia del free (nel senso di free beer, birra gratis) attrae e accontenta milioni di persone mistificando e nascondendo il fatto che i suoi promotori, e in genere la classe virtuale, in qualche punto della catena intascano i soldi. L'ideologia del free, nonostante le buone intenzioni, sta evitando il problema dell'economia della cosiddetta “società della conoscenza”, mentre i crociati del free evitano sistematicamente di discutere il loro modello economico, e parlano dell'altro – l'utente, il programmatore, il cittadino, il blogger ecc. – che deve essere liberato.

L'attenzione per i dilettanti giovani e innocenti che vogliono solo divertirsi e il risentimento contro i professionisti non sono casuali: è più difficile che i dilettanti si alzino e reclamino una parte del surplus in rapida crescita (in termini sia simbolici che monetari) creato da Internet. I vizi dell'architettura di Internet devono essere resi noti e non restare indiscussi, di modo che le sue virtù possano avere la meglio. L'ideologia del free come componente chiave della rete, infatti, fa parte del viscido linguaggio del business. Nel saggio The destruction of the Public Sphere, Ross McKibben afferma che l'arma più potente del managerismo di mercato è stata il suo vocabolario, concepito nelle business school, che è poi penetrato nello stato e ora infesta tutte le istituzioni e, per quanto possa sembrare ridicolo, determina il modo in cui le nostre élite politiche ed economiche pensano il mondo. «Cederai tutto gratuitamente (accesso libero, no copyright); ti farai pagare solo per i servizi supplementari, che ti renderanno ricco». Ecco il primo dei “Dieci comandamenti liberali comunisti” pubblicati da Oliver Malnuit sulla rivista francese “Technikart”. Slavoj Zizek ha citato i comandamenti di Malnuit e ha classificato Bill Gates e George Soros come comunisti liberali:

 

«Il nome di questa nuova realtà nella neolingua comunista liberale è smart. Smart significa dinamico e nomade contro burocratico e centralizzato, dialogo e collaborazione contro autorità centrale, flessibilità contro routine, cultura e conoscenza contro vecchia produzione industriale, interazione spontanea contro gerarchia stabile. […] Il loro dogma è una versione nuova, postmoderna, della mano invisibile del mercato del vecchio Adam Smith: il mercato e la responsabilità sociale non sono antitetici ma possono essere riuniti con reciproco vantaggio».

 

Zizek continua affermando che i comunisti liberali sono pragmatici, infatti odiano l'approccio astratto.

 

«Oggi non esiste una classe operaia sfruttata, ci sono solo problemi concreti da risolvere: la fame in Africa, la condizione delle donne musulmane, la violenza del fondamentalismo religioso».

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I comunisti liberali distribuiscono con una mano parte di quello che hanno arraffato con l'altra. Qui siamo al cuore dell'ideologia in Internet, che ci impedisce di vedere quanto paghiamo veramente, troppo felici di entrare nell'economia del dono rappresentata dal free. Zizek menziona la necessità, per problemi come razzismo, sessismo e antisemitismo, di costruire alleanze con i comunisti liberali. E Internet? Non è il momento, scrive Lovink, di abbandonare le alleanze coi liberisti, proporre l'esodo e opporsi a loro e ai loro doppi fini? Felix Stalder e Konrad Becker, di Vienna, riassumono lo scontro per la libertà dei media in modo netto: «l'obiettivo è ideare nuovi modi per permettere all'informazione di scorrere liberamente da un luogo all'altro, da persona a persona. Piuttosto che accrescere la frammentazione, informazioni e culture devono essere risorse prodotte e usate in modo collaborativo, non controllate dai singoli proprietari. La gente deve essere libera di appropriarsi dell'informazione, a seconda dei suoi desideri e bisogni storici e personali, invece di essere obbligata a consumare i prodotti standardizzati del McMondo». Per Lovink si possono continuare a diffondere questi appelli per la libertà solo se si oppongono al free; non si può continuare a supportare Creative Commons, l'open source e piattaforme di sapere aperto a tutti se le loro premesse ideologiche non vengono messe in discussione.

Infatti, c'è una ragione ben precisa se i «contenuti generati dagli utenti» del Web 2.0 sono gratuiti: gli utenti non devono pagare i servizi online per la semplice ragione che sono spiati, e i profili di milioni di giovani ingenui cui piace divertirsi vengono analizzati e confrontati con il loro comportamento in rete. Molti direbbero: e allora? Secondo alcuni hacker la privacy non esiste più, era un sogno borghese. Nella vastità del mondo là fuori, sorveglianza e controllo sono visti come risorse illimitate: non ce n'è mai abbastanza. Ci sono sempre nuove tecniche e nuovi campi di intrusione da coprire. Sinora gli attivisti hanno protestato contro i nuovi metodi di controllo e sorveglianza, ma si sta diffondendo una nuova mentalità che invece di cercare di frenare il potere sui corpi soggetti al controllo – la strategia usata più comunemente dai cittadini – relativizza la libertà e non si interessa della sorveglianza. Questa tesi è un remix delle scoperte di Danah Boyd, ricercatrice statunitense che ha esaminato la cultura giovanile sui siti di social network come Friendster e MySpace e i risultati ottenuti in relazione al modo solitamente passivo con cui lagniamo della continua crescita delle invisibili tecnologie del controllo. Secondo Boyd ora ci si incontra online. I ragazzini chattano con l'Instant messaging (Im) per ore, tenendosi compagnia e scambiandosi notiziole divertenti prese dalla rete, oltre ai propri pensieri del giorno. Questi strumenti sono diventati importanti per mantenere «comunità intime full-time, sempre attive», per stare vicino agli amici anche quando sono fisicamente distanti; così tutto ciò permette ai giovani di consolidare i gruppi sociali. Il paradosso con il quale dobbiamo fare i conti è che l'apertissima e pubblica Internet viene usata per scambi intimi tra amici e pari e che tutte queste conversazioni possono, e lo saranno, essere conservate e indicizzate per i decenni a venire.

Per la ricercatrice americana, esistono tre importanti classi di spazio: pubblico, privato e controllato.

La mancanza di mobilità e di accesso a spazi in cui possano passare il tempo senza essere ostacolati spinge i ragazzi a passare tempo online, dove per gli adulti la casa è la sfera privata dove rilassarsi con famiglia e amici, la sfera pubblica è il mondo condiviso con persone estranee in cui si deve esibire il nostro volto migliore, e il lavoro è uno spazio controllato da capi che dettano regole e comportamenti. Per i teenager la segmentazione è diversa: la maggior parte del loro spazio è controllato. Gli adulti dotati di autorità controllano casa, scuola e molti degli spazi in cui si fanno attività. Ai ragazzi si dice dove stare, come farlo. Dato che non sentono di avere controllo sulla casa, molti di loro la vedono come il proprio spazio privato. E quasi nessuno si rende conto che i social network o le chat sono luoghi della vita pubblica. Non ci si rende conto che le proprie conversazioni private sono sotto controllo. Si crea un minaccioso panopticon personale e privato, dovuto alla sorveglianza tentata dagli adulti, che influenzano direttamente le vite dei giovani, e che li spinge alla fuga online, senza preoccuparsi dei governi e delle corporations che li controllano.

Gli attivisti non hanno ancora affrontato questa realtà complessa, e come prima risposta potrebbero condannare l'attitudine pro-corporation dei più giovani in quanto ingenua, immatura e consumistica. Una lettura in stile Noam Chomsky di quanto sia malvagio l'impero di Rupert Murdoch, proprietario di Fox e MySpace, non diminuirebbe il numero di visitatori. Il problema sta nel sistema di proprietà dei media e nel ruolo ambiguo dei venture capitalist e di chi investe nelle start-up di Internet. I social network vanno visti innanzitutto come spazi sociali, e solo secondariamente come media. Lo spazio privato è spazio dei giovani, per Boyd, e lo si trova tra gli interstizi dello spazio controllato. Camere da letto con la porta chiusa. Di solito per i ragazzi gli spazi pubblici degli adulti sono spazi controllati. Online, la maggior parte dei ragazzi teme non il potenziale aggressore o il futuro datore di lavoro, ma i genitori e gli insegnanti. Questa dinamica spesso distrugge il valore più importante della relazione tra genitore e figlio: la fiducia.

Negli altri due saggi del libro, dopo aver attaccato le storture e i pericoli del Web 2.0, su cui ci siamo maggiormente soffermati per l’importanza dei temi trattati, Lovink rispettivamente va all’attacco dei blog e della New media art (che, in un mondo dell’arte sempre più mercificato, viene data per morta, «una sottocultura in via di estinzione», poiché fallimentare dal punto di vista commerciale).

Spunti interessanti vengono anche dal secondo saggio «Bloggare: l’impulso nichilista», una critica all’inutilità dei blog, e alla loro tendenza cinica e nichilista, dove il blogger medio è un individuo narcisista, in una cultura frammentata dove tutti sono più o meno segretamente infelici. Un circo, quello dei blog, in cui la maggioranza di chi scrive, è conservatrice. Altro che anti-sistema! Come l’aura di libertà che attornia la rete Internet ci farebbe pensare… La mera illusione di potere, nei confronti dell’industria dell’informazione, non conduce automaticamente ai contenuti migliori.

«I blog aiutano gli utenti a passare dalla verità al nulla».

Eppure, ammette Lovink, i blog hanno colmato il divario tra Internet e la società, nel post-undici settembre, sono stati i catalizzatori di una prima democratizzazione della rete. Ma il critico olandese torna a graffiare, ammettendo che la partecipazione della massa significa anche normalizzazione (per mezzo delle leggi) e banalizzazione.

I blog, insomma, sono dei diari resi pubblici, rappresentano un flusso senza fine di confessioni, in cui si mescolano pubblico e privato, un cosmo di micro-opinioni che tentano di interpretare gli eventi, e hanno in sé un cinico nichilismo, in risposta ai crescenti livelli di complessità del mondo e della vita.

 

AGOSTO 2011

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