Inchieste
UN VIAGGIO NEL
KURDISTAN CHE HO CONOSCIUTO…
Alessandro Paolo
Questo è un viaggio nel Kurdistan che ho
conosciuto, il racconto di narrazioni, esperienze, conversazioni,
scoperte che hanno raggiunto il mio intelletto e accelerato la mia
immaginazione. Questo è un resoconto non esaustivo degli incontri
vissuti durante il viaggio che nell’estate del duemiladieci mi ha
condotto in Turchia prima, in Siria poi. Dedico queste righe, questo
succo avariato della mia memoria, alla persona che mi ha accompagnato in
quelle lunghe peregrinazioni fisiche e mentali. A lei che era lì con me,
a Roberta…
Ricordo ancora lo spettacolo che ci si
parò dinnanzi quando le porte dell’autobus si spalancarono. Un brulicare
di persone sul lungomare di Kadiköy, urla di venditori di ciambelle,
panieri traboccanti di bottigline d’acqua, ciondoli pendenti dalle dita
di bambini roteanti su se stessi come vigili a dirigere il traffico;
famiglie sorridenti, donne sole, accompagnate, velate, svelate, sui
tacchi o ricoperte da capo a piedi. Ma più forte di ogni altra cosa
giungeva alle nostre narici il profumo acre di pesce arrostito, il
balık ve ekmek consumato ovunque lì sul lungomare orientale di
Istanbul. L’incontro con i primi nuovi sapori, tuttavia, coincise con il
nostro primo incontro con uno dei circa venti milioni di curdi che
vivono in Turchia. Arrostiva pesci sul marciapiedi, aveva gli occhi
azzurri e i capelli rossicci, ma da quel volto rugoso non traspariva
alcuna voglia di soffermarsi sulle sue origini. Era chiaramente a
disagio di fronte a quattro occhi stranieri che lo osservavano ricolmi
di meraviglia. «Sono di Mardin», ci disse, e tanto bastava. Rimasi
interdetto, non capivo se era la timidezza, la non curanza o la paura a
trattenerlo dall’esporsi. Ebbi comunque la prima riprova di un fenomeno
socioeconomico che varie altre persone mi avrebbero poi confermato:
molti dei curdi trasferitisi nei principali centri urbani del paese si
accontentano dei lavori più umili, accettano di essere sfruttati da
padroni più giovani di loro, talvolta anche meno istruiti di loro, per
poter guadagnare quel tanto che basta per vivere dignitosamente e
inviare un aiuto alle famiglie rimaste a pregare e a sperare per loro
nelle città e nei villaggi dell’Anatolia orientale. Il vissuto di
K.[1],
il ragazzo curdo che ci ha offerto ospitalità a Istanbul prima
dell’inizio del campo di volontariato, rafforzò queste mie prime
riflessioni. L’idea per cui differenze di classe e di ceto ricalcano
faglie culturali e linguistiche è una chiave di lettura particolarmente
appropriata per comprendere la società turca; un’idea che mi avrebbe
accompagnato nel corso di tutta la mia permanenza nel paese.
Di circa trent’anni,
K. è originario di Şanliurfa.
Trasferitosi a Istanbul da alcuni anni, vive nel quartiere di
Beyoğlu, in una stradina in discesa
dove diversi altri curdi risiedono. Lavora in un ristorante di lusso
nella zona di Sultanahmet, un ristorante per turisti ricchi, che
raggiunge ogni mattina con una motocicletta potente. Mi confessa con
amarezza che da quando si era trasferito in quella palazzina non aveva
mai conosciuto gli altri coinquilini. «Questa reciproca estraneità
sarebbe del tutto inconcepibile nel posto in cui sono nato. Il problema
è che qui gli uomini single come me sono percepiti come una minaccia per
la stabilità familiare. Se consideri poi che la coppia turca di novelli
sposini che abita in questo edificio è estremamente religiosa capirai
perché ogni comunicazione tra di noi è praticamente impossibile».
Divorziato e con due figli, K. mi
accompagna in sentieri discorsivi molto accidentati. Mi racconta degli
scontri di Diyarbakır risalenti ad alcuni mesi prima, quando un partito
curdo (il DTP) era stato messo al bando per poi rinascere poco dopo come
BDP, partito per la pace e la democrazia. A cena con alcuni suoi amici
curdi la discussione si fece accesa. Uno di loro era un movie-maker
impegnato nella realizzazione di un cortometraggio incentrato sulla
storia di una bambina curda arrestata nel corso di alcune proteste e
ancora oggi detenuta in un carcere per adulti. Accanto a lui un
panettiere ci confessava che suo fratello era sulle montagne del
Kurdistan a combattere con il PKK. Il Partito Curdo dei Lavoratori,
fondato nel 1978 da Abdullah Ocalan, da quasi trent’anni combatte una
guerra civile contro il governo di Ankara per l’autodeterminazione del
popolo curdo; nel corso del tempo al progetto onirico di una
confederazione curda in Medio Oriente, mai del tutto dileguatosi nei
piani dei più ferventi sognatori, si è affiancato il progetto di
autonomia e parità di diritti da conquistare all’interno dei confini
degli stati esistenti. Una dialettica tra progetti politici contrastanti
che si è complicata ancor di più da quando un Governo Regionale Curdo è
nato effettivamente in Iraq. «Noi lottiamo per un’entità politica in cui
tutti abbiano gli stessi diritti, la stessa opportunità di esprimersi,
di tramandare le proprie tradizioni, la propria lingua, la storia dei
propri antenati. Lottiamo per un’uguaglianza che non c’è», mi disse il
panettiere. Eppure, replicai io, «non potrebbe accadere che questo
nazionalismo pancurdo sfoci poi in uno Stato altrettanto
assimilazionista qualora la lotta per l’autoemancipazione abbia
successo? Non si rischierebbe di acculturare forzatamente minoranze non
curde o addirittura di espellere tali minoranze al fine di ottenere un
territorio etnicamente omogeneo? Non si rischierebbe insomma di ricreare
il male che si sta oggi combattendo? Lo Stato, se ci pensi, è esclusivo
per sua stessa natura». Il suo disappunto non tranquillizzò le mie
perplessità. Ma una cosa importante compresi a quel punto: avrei dovuto
procurarmi gli scritti di Ocalan al più presto.
«Troppe persone nella Turchia
Occidentale pensano che l’est del paese è abitato soltanto da
terroristi. I mass-media sono un potente vettore di diffusione di questi
ottusi stereotipi». Le parole di D., la
ragazza turca di Edirne che avrebbe coordinato il nostro campo di
volontariato a Mardin, non potevano essere più chiare. Una frattura
separa due alterità speculari che si negano e al contempo si rigenerano
a vicenda; una linea divisoria che, interiorizzata da quando si è
bambini, suggerisce alla coscienza giudizi di valore ogni qualvolta
quell’alterità incrocia la nostra esistenza. Un’alterità
essenzializzata, ridotta ad ammasso generalizzante, una tendenza di cui
anche chi, come D., si commuove al
pensiero di quelle terre lontane difficilmente può sbarazzarsi del
tutto. Anche nel bene, alla Turchia occidentalizzata si oppone
l’Oriente, quell’indistinto contenitore simbolico composto da costumi,
profumi, melodie, strumenti musicali e lingue che non sono i propri.
Sempre e ovunque, l’io ha bisogno dell’altro per autocostruirsi, poco
importa se l’altro, in realtà, è una miriade di altri. Tra i curdi
stessi, inutile dirlo, esistono tante differenze quante sono le vallate
in cui vivono e gli alberi sotto cui si riparano. Una delle principali
differenze sta nel modo in cui viene vissuto il sistema culturale e
religioso islamico. Alcuni dei curdi che ho conosciuto, per esempio,
erano ferventi musulmani, altri quantomeno agnostici.
S., un ventiduenne curdo di
Mardin, ogni mattina seguiva le lezioni di inglese che noi volontari
internazionali tenevamo al Gençlik
ve Kültür Evi della cittadina. Pregava cinque volte al giorno e ogni
venerdì andava in moschea. Nella sua famiglia, ad ogni modo, la pratica
religiosa si coniugava all’attività politica. Suo padre era il capo
della sezione locale del BDP e, al fresco del terrazzo dove ero stato
invitato a passare la notte, mi rivelava che le sue telefonate erano
costantemente intercettate dalle autorità di polizia. Una persona
sicuramente scomoda in una cittadina amministrata dall’AKP, il partito
al governo. Nella sala degli ospiti, la foto dello zio di
S., ucciso dalla polizia, concentrava
la malinconia di una parete spoglia. Eppure quell’uomo stanco che fumava
e tossiva era un hāfiż,
conosceva cioè il Corano a memoria. Nel corso della sua vita si era
anche sposato una seconda volta, usanza accettata dalla prima moglie, la
madre di S., che silenziosa mi
sorrideva accanto. Una donna del tutto impassibile alla poligamia del
marito, la quale forse in cuor suo gioiva del fatto che dalla seconda
moglie il suo uomo aveva deciso di divorziare poco dopo le nozze. Il
sorriso luccicante che mi porgeva rivelava una pratica molto comune
presso le donne curde di umile estrazione: in occasione del matrimonio,
il pagamento del “bride price”
da parte del marito alla famiglia della sposa viene in molti casi
convertito, su richiesta di quest’ultima, nell’impianto di alcuni denti
d’oro, in modo tale da assicurarle una rendita vita natural durante.
Seduto a sgranocchiare dell’uva, ripensavo a quando
S. giorni prima mi aveva confessato di
voler diventare insegnante di lingua turca nelle scuole elementari, lì
dove i maestri affrontano il compito più arduo di insegnare la lingua di
Atatürk a bambini curdi che non l’hanno mai parlata. Ancora oggi questo
pensiero mi risuona nel cranio come un corto circuito: non è
l’autodeterminazione linguistica una delle maggiori rivendicazioni della
causa curda? Come potevano conciliarsi le aspirazioni del figlio e
l’attivismo politico del padre?
A poche centinaia di metri da casa di
S., giù lungo la strada, negli stessi
dormitori scolastici dove noi alloggiavamo, c’erano quattro ragazzi
curdi, prova vivente di uno sviluppo da molti considerato cruciale nella
storia della Turchia contemporanea. Si trattava di alcuni tra i primi
professori di lingua e cultura curda istituzionalmente riconosciuti e
retribuiti come tali. A Mardin per un corso di perfezionamento, di lì a
pochi mesi avrebbero insegnato lingua e letteratura curda nelle scuole
superiori e nelle università del paese. Diversi da
S.
quanto alle ambizioni d’insegnamento, nascondevano nel profondo
un’analogia significativa: i quattro erano musulmani devoti. Questo
particolare, a detta degli altri amici curdi del centro con cui
commentavo la vicenda, era il discrimine fondamentale in virtù del quale
le istituzioni li avevano designati futuri professori della principale
lingua minoritaria del paese. Sarebbero stati, infatti, centinaia di
migliaia i curdi ad aver presentato domanda per questo nuovo e ambito
impiego pubblico, ma le selezioni non sarebbero state improntate
unicamente a valutazioni di merito. Il binomio lealtà verso l’integrità
nazionale e attaccamento alle pratiche religiose avrebbe costituito, con
molta probabilità, il criterio sottaciuto di selezione.
Eppure, come è ovvio, nulla è bianco o
nero quando si considera questo genere di fenomeni.
F., un ragazzone curdo di trent’anni
originario di Mardin, sarebbe diventato a breve muftī qualora la sua
carriera nell’establishment religioso fosse proseguita. Un tempo
studente di teologia, per diversi anni aveva persino condotto la
preghiera del venerdì come imam, prima di avere un radicale
ripensamento. Per ragioni a me oscure, aveva deciso di abbandonare gli
studi religiosi per dedicarsi alla sociologia. Quando l’ho conosciuto le
nostre conversazioni su poesia, letteratura, politica e filosofia
rendevano estremamente piacevoli alcuni di quei pigri pomeriggi
infuocati. Gli impertinenti condizionamenti del mio senso comune mai mi
avrebbero spinto a immaginare che una persona con cui potevo
tranquillamente parlare di anarchia e Noam Chomsky avesse una storia
così dissonante alle spalle. Identità evidentemente cangianti e
molteplici: ancora una volta giungeva il pronto monito ad aspettarsi
tutto da tutti e nulla da nessuno, a non correre avventatamente dietro
etichette da apporre e ordini mentali da costruire.
«Al momento il problema più grande del
popolo curdo è il rigore religioso, un approccio all’Islam che rende
passivi, muti, che inibisce ogni impulso alla rivolta. Sono ancora
troppi i curdi che non comprendono o non vogliono accettare le idee
rivoluzionarie di Ocalan». A., una
delle persone più belle e interessanti conosciute durante il viaggio,
era implacabile verso il suo popolo. L’avevamo incontrato in Siria un
po’ per caso, attraverso un lungo giro di improbabili conoscenze, al
termine del nostro campo di volontariato. Non potevamo immaginare il
meraviglioso sentimento di amicizia che sarebbe nato tra di noi.
Studente di economia all’Università di Damasco, ha ventidue anni ed è
originario di Qamishli, città nella regione nordorientale della Siria a
maggioranza curda, dove diversi scontri a fuoco tra la popolazione e
l’esercito hanno avuto luogo negli ultimi sei anni. In particolare due
anni fa’, quando la Turchia, con l’avallo statunitense, cominciò a
bombardare obiettivi strategici del PKK in territorio iraqeno, i curdi
di Qamishli insorsero: tre persone che nemmeno manifestavano furono
uccise dalle pallottole di stato. Il padre di
A., che ci accolse in casa come dei figli e si prese cura di noi
anche quando ci assalì la febbre, lavora come ingegnere per la compagnia
statale che gestisce l’estrazione e la raffinazione del petrolio
nell’area di Rumeylan, un centro abitato non lontano da Qamishli, dove
risiede con il resto della famiglia. La casa sorge in un complesso
residenziale costruito dal governo appositamente per i dipendenti dei
vicini siti estrattivi: dimora e posto di lavoro sono distanti poche
centinaia di metri, ma tutto intorno grate e filo spinato isolano il
complesso dall’esterno, obbligando i residenti a percorrerlo in lungo e
in largo per passare attraverso l’unico valico d’ingresso, presidiato da
guardie armate e dall’enorme mezzobusto in bronzo del vecchio presidente
Hāfiż al-Asad. Analoghi culti di personalità diverse in Turchia e Siria,
dove, tuttavia, le minoranze curde vivono destini piuttosto differenti.
In Turchia i curdi possono organizzarsi in partiti purché non siano
dichiaratamente separatisti, possono possedere terre, possono ambire a
gestire amministrazioni comunali e provinciali, possono godere di molti
basilari diritti di cittadinanza, da quello di registrare i nomi dei
propri figli a quello di lasciare il paese. In Siria tutto questo non
accade, o quantomeno non accade per tutti. Il paese è governato dal
discendente di una dinastia di rivoluzionari panarabi e fagocitato da un
partito unico ormai indistinguibile dall’apparato di stato. I proclami
in arabo della propaganda ufficiale che ho visto stagliarsi sulle mura
di tutti gli edifici pubblici e istituzionali per le vie di Qamishli non
lasciavano adito a dubbi: la scritta “la democrazia è un obbligo”,
contornata dalle onnipresenti citazioni delle parole del leader maximo,
conviveva, per effetto di una sorprendente mutazione semantica, con “chi
è diventato presidente resterà se stesso, il dottore, il generale, ma
prima di ogni altra cosa il cittadino”. In Siria tutti gli incarichi
dirigenziali nell’amministrazione pubblica, nelle scuole, negli
ospedali, nelle università, nei centri culturali, nella polizia e
nell’esercito sono riservati unicamente ad arabi iscritti nelle file
dell’Hizb ul-Ba’th. Nelle sedi
del potere, come in Turchia d’altronde, parlare curdo è reato. In
prospettiva storica il governo siriano è sempre stato poco propenso a
fare concessioni alla minoranza curda residente nel paese, nonostante,
per ragioni di rivalità geopolitica, fino alla fine degli anni Novanta
abbia sostenuto Ocalan e la lotta armata del PKK. Nel 1958, quando il
Ba’th prese il potere in Siria, gran parte dei proprietari terrieri
curdi del nord del paese furono espropriati dei loro terreni. Nel 1962
un censimento condotto in quelle province tra la popolazione curda
concesse arbitrariamente la cittadinanza ad alcuni e la negò ad altri,
lacerando famiglie e creando gli status di
ajnabī e
maktūm (in arabo, rispettivamente “straniero” e “invisibile”). Da
allora il paese si è popolato di forestieri e fantasmi. Nel corso del
decennio successivo la politica della “cintura araba” ha visto Damasco
impegnata in un’opera ambiziosa e mai del tutto riuscita di ingegneria
demografica: un dislocamento di famiglie arabe dalla aree di Raqqa e
Deir al-Zour verso le aree a maggioranza curda al fine di
controbilanciarne il peso. Eppure, nell’area nordorientale della Siria,
di gran lunga la zona più povera del paese, l’influenza dello Stato non
si fa sentire come altrove. La corruzione qui è un affare quotidiano:
non c’è ufficiale pubblico che non si lasci corrompere, non c’è
funzionario che non arrotondi, non c’è documento che non richieda
ingranaggi da oliare. E insieme alla corruzione dilaga il contrabbando.
Gli asini giungono dall’Iraq, dalle catene montuose, carichi di
sigarette. Contrabbandieri iraqeni e siriani fanno passare le merci
aldilà delle recinzioni. Per farlo, naturalmente, occorre comprarsi la
cecità delle torrette di guardia e l’indifferenza delle stazioni locali
di polizia. C’è un’espressione con cui viene indicato questo gioco di
complicità da queste parti: “comprarsi la strada”. Una volta in Siria,
oltrepassata la linea politica, i carichi di stecche iniziano il lungo
viaggio verso Aleppo, da dove vengono poi smistati a Damasco e verso
nord in Turchia.
Sulla tratta che i contrabbandieri
siriani percorrono abitualmente c’è un piccolo villaggio in mezzo alle
campagne, a una trentina di chilometri da Qamishli, dove i carichi di
sigarette vengono temporaneamente depositati. In questo villaggio, che
in famiglia viene chiamato scherzosamente con il nome di uno stato
sudamericano, vivono alcuni zii di A.
con le rispettive famiglie, insieme a mucche, cavalli, pecore, rane e
galline. Addossati sul retro di un pick-up a ingannare la fame con semi
di girasole, vi giungemmo dopo il tramonto. Trascorremmo lì un giorno e
due notti, accomodati sui grandi soppalchi di legno che d’estate vengono
montati nei giardini o sui tetti di ogni abitato per poter addormentarsi
in un minimo di frescura. Disteso su uno dei materassi, avvolto nella
coperta di lana, ho perso coscienza sotto l’immensità del più bel cielo
stellato mai visto in vita mia. «Il contrabbando qui non è un fenomeno
violento – ci rassicurò A. – non ci
sono sparatorie né uccisioni. La gente in questa regione è povera ed ha
bisogno di soldi. È la povertà che genera il contrabbando e la povertà è
causata a sua volta dalla negazione dei diritti. I miei zii, per
esempio, pur essendo cittadini, hanno cominciato a contrabbandare
sigarette per necessità, perché i raccolti si facevano anno dopo anno
sempre più scarsi, perché il clima più caldo e il terreno più arido non
assicuravano più una fonte di sussistenza sufficiente. Anch’io una volta
mi sono trovato a lavorare per loro, a pattugliare in auto una delle
aree dello scambio». E in quell’occasione poté assistere coi suoi occhi
alla rodata arte del traffico illecito. Il fratello di
A., studente di legge a Damasco, aveva
trascorso in passato ben quattro mesi tra quelle case in mezzo ai campi.
La polizia lo aveva trattenuto sette ore nell’ufficio degli
interrogatori, a Hasaki, mentre A. e il
padre lo aspettavano all’esterno. Negli anni precedenti era stato
particolarmente attivo con il PYD, l’equivalente siriano del PKK e
organo politico del KJK Rojava, ramo occidentale del comando
rivoluzionario curdo che coordina la lotta in Siria, Turchia, Iraq e
Iran. Dopo l’interrogatorio il fratello
era sparito dalla circolazione, trovando rifugio per quattro mesi nel
villaggio degli zii. Aveva saputo da un informatore del padre che se
fosse tornato a casa la polizia lo avrebbe arrestato. Quattro mesi
quindi lontano dagli studi, dalla famiglia, dagli amici, quattro mesi di
convalescenza per guarire dalle pressioni morbose a cui lo avevano
sottoposto entro le quattro mura di quell’ufficio.
Il padre e alcuni dei fratelli e delle
sorelle di A., i più grandi d’età
almeno, sono tutti politicamente ben informati. In casa loro era persino
custodita in gran segreto la copia in arabo di un libro di Ocalan.
Eppure il relativo benessere e le aspettative dei genitori circa il
futuro dei figli frenavano in questi ultimi ogni proposito di partire e
raggiungere la guerriglia. Mi assicurò il padre, d’altronde, che il
sostegno al PKK lo davano comunque per altri canali. «Periodicamente
giungono agenti del PKK a raccogliere finanziamenti, persone
insospettabili», mi disse. La famiglia di A.,
comunque, rappresentava ai miei occhi una realtà estremamente
interessante. Considerata nelle sue interazioni sociali, critica e
complicità, sovversione e rassegnazione trovavano in essa una coerenza
spiazzante. La condizione di famiglia relativamente benestante
innescava, tra l’altro, un curioso gioco di percezioni con il resto
della famiglia. I ricchi parenti di Rumeylan, che tanto ricchi poi non
erano dovendo sostenere con un solo stipendio così tante bocche da
sfamare, venivano quasi derisi dal resto della famiglia, zii contadini
compresi: «Dicono di noi che viviamo in una prigione». In risposta gli
altri erano rappresentati come dei poveracci ignoranti, «sempre pronti
ad elemosinare aiuti economici in nome della solidarietà familiare». Un
atteggiamento di reciproca dissacrazione mai sfociato, tuttavia, in
rapporti di ostilità. L’eterogeneità di classe e di ceto tra i curdi in
Siria, anche all’interno della stessa cerchia familiare, è dunque una
realtà palpabile. Era stato facile rendersene conto anche tra le
stradine affollate del bazar di Qamishli, dove una ragazzina con un
neonato tra le braccia, curda in mezzo ad altri curdi, girovagava di
tasca in tasca alla ricerca di qualche spicciolo.
Gli incontri che
S., un lontano zio di
A., convenuto al funerale di un’anziana
parente protrattosi, com’è d’uso, per tre giorni proprio durante il
nostro soggiorno, organizzò per noi durante la settimana che
trascorremmo in città, mi scossero particolarmente. Si trattava di
incontri predisposti nell’ombra, in luoghi appartati e per poche ore al
giorno: tutto, ovviamente, al fine di non destare sospetti. Ogni qual
volta veniva nella casa semidisabitata dove passavamo gran parte del
nostro tempo o ci prelevava con la sua automobile per portarci altrove,
S. era sempre attento a percorrere
strade secondarie. Alcune delle persone incontrate e intervistate, gran
parte dei quali ajānib, erano
attivisti di organizzazioni politiche segrete considerate illegali nel
paese. Lo stesso S. faceva parte di
un’organizzazione per la tutela dei diritti umani in Siria, anch’essa
inesorabilmente fuori legge. Questo significava che qualora i servizi
segreti ci avessero scoperti saremmo stati entro pochi giorni espulsi
dal paese. Stavamo giocando con il fuoco, ma il gioco si faceva
elettrizzante. Un pomeriggio, guidati da A.
e S.,
giungemmo in una casa dove dieci persone stavano aspettando il nostro
arrivo sedute sui materassi del soggiorno. Erano quasi tutte donne, le
più giovani delle quali avevano il capo scoperto. Eravamo delle casse di
risonanza per la loro indignazione, l’occasione propizia per denunciare
al mondo la negazione d’identità della minoranza curda in Siria;
incarnavamo la certezza e la speranza che altrove questo dramma non
sarebbe più stato ignorato. Due delle donne invitate erano
ajānib, ma aldilà di questo
comune fardello non avrebbero potuto essere più dissimili.
La più giovane, sui trentacinque anni,
aveva il viso contratto e un paio di occhi enormi, lucenti, che
rimandavano a un sorriso appena accennato. Solo in un secondo momento
compresi che una delle sue due gambe era in realtà una protesi di
metallo. Figlia di un ajnabī,
lo era stata anche lei sin dalla nascita. A quindici anni aveva lasciato
la scuola e aveva iniziato a collaborare con il PYD, distribuendo
volantini di controinformazione, partecipando alle riunioni clandestine,
leggendo i libri di Ocalan. Le sue amare parole dipingevano una
situazione disperata: «Nel pensiero di molti curdi in Siria è invalsa
l’idea per cui non si avrà mai la possibilità di trarre beneficio dagli
studi, per cui si sceglie di non studiare». A diciannove anni aveva
lasciato illegalmente la Siria (chi è
ajnabī non può avere il
passaporto siriano e non ha in nessun caso la possibilità di uscire dal
paese in maniera regolare) e si era arruolata nel PKK. Visse come
guerrigliera tra le montagne per nove anni fino a che una slavina la
travolse e tornò in città per farsi curare. Da allora, con una gamba in
meno, non ha più fatto ritorno sui monti del Kurdistan. Per cinque mesi
ha subito le angustie del carcere duro, prelevata durante una riunione
segreta da almeno venti poliziotti delle Forze Nazionali Antiterrorismo
in tenuta antisommossa. Per i primi due mesi non ebbe accesso a un
avvocato, rinchiusa in una cella d’isolamento poco più ampia di un metro
quadrato, senza luce né aria, privata della possibilità di parlare con
gli altri detenuti. Era un prigioniero politico, sebbene dallo stato
siriano tale dicitura non sia contemplata; in effetti se lo stato avesse
voluto lei effettivamente avrebbe potuto non essere mai esistita. Da
quando è stata rilasciata le autorità continuano a monitorare ogni sua
mossa. Ancora oggi mi chiedo per quale insolito allineamento astrale
quel pomeriggio non siamo stati scoperti. A maggior ragione che sia lei
sia l’altra donna convenuta all’incontro facevano ancora parte della
branca femminile del PYD, la Yakitiya Star.
Più grande di età, nonché di stazza, la
donna velata di nero ci aveva osservati sin dal primo istante dalle
profondità dei sui occhi azzurri. Un desiderio di raccontare traboccava
da quelle labbra tatuate, prassi decorativa in disuso presso le donne
curde sposate. I servizi di sicurezza l’avevano arrestata per ben tre
volte negli ultimi due anni, trattenuta ogni volta in un carcere e per
periodi di tempo diversi. Del tutto isolata dalla famiglia, aveva fatto
ricorso allo sciopero della fame per poter quanto meno accedere a un
telefono e chiamare il marito. Sotto interrogatorio per giorni, ricorda
di una compagna di cella condannata a trent’anni per un omicidio mai
commesso. In barba agli agenti che continuavano a seguirla, portava
ancora al collo il ciondolo col volto di Ocalan. “Quando penso alle
condizioni in cui si trova a vivere oggi Ocalan non mi impressiona più
il ricordo di ciò che ho vissuto in carcere. Perché sebbene mi trovassi
in una fetida prigione, almeno ero in compagnia di qualcuno, mentre il
mio presidente è completamente solo su quell’isola. Io potrei scrivere
un libro sulle sofferenze della detenzione, figuratevi lui”; e con
queste parole la donna ci salutò. Mentre seduti attorno all’enorme
vassoio spezzavamo il pane azzimo con cui poter afferrare il cibo,
ripensavo alla devastante evidenza del fatto che gran parte dei curdi
siriani che combattono nel PKK sono in maggioranza
ajānib. Mi chiedevo se
A., da cittadino, mentre ascoltava e
traduceva per noi i racconti di quelle donne, provasse nel suo intimo la
bruciante sensazione di colpevolezza di chi ha un privilegio senza
averne merito. Ancora oggi non posso fare a meno di restare stupefatto
al pensiero di quanto fossero diverse le esperienze, le scelte, le
abitudini di quelle due donne curde, entrambe innamorate dello stesso
ideale. L’ex guerrigliera era in effetti diversa da tutte le donne curde
che avevo visto fino ad allora, tanto a Mardin quanto a Qamishli.
Incarnava una parità fra generi, una rilassatezza nel modo di rivolgersi
agli uomini che stonava con l’ambiente culturale che la circondava. La
rivoluzione parte da noi stessi, ma è probabilmente difficile da
conciliare con un marito di cui preservare l’onore. La donna velata,
potremmo dire, aveva due sposi, quello in carne ed ossa seduto sul
materasso accanto a lei e quello ideale, oggetto di un amore mistico,
che portava al collo, in mezzo ai due seni: l’estremo gesto, forse, per
perdonare a se stessa la viltà che fino a quel momento si era interposta
fra sé e le montagne. L’altra donna, al contrario, non si era mai
sposata. La guerriglia le aveva fatto assaporare la libertà dall’inerzia
del sistema patriarcale e maschilista dominante. La guerriglia
probabilmente era stata la sua emancipazione.
Due settimane prima, a Mardin, avevamo
conosciuto un uomo che, come quella donna, si era lasciato il paese
natale alle spalle. La sua storia mi ha marchiato la mente e mi ha fatto
piangere. Una vita che è emblema a mio avviso di quanto disumano e
arbitrario possa essere il potere, di quanto pervasivi e devastanti
siano i più asettici esercizi biopolitici. Raccontare la sua esperienza
vuole essere la fine di un grido di rabbia che non gli renderà
giustizia. M. ha quasi quarant’anni, è
scapolo ed è nato a Qamishli. Ajnabī per discendenza, aveva assaggiato
sin da ragazzino le durezze di un lavoro che pochi erano disposti ad
offrirgli. Per anni e anni si era ingegnato nelle occupazioni più umili
e faticose, si era trasferito a Damasco per un certo periodo, ma le cose
non erano migliorate. Non molti anni fa’ trovò finalmente il modo e i
soldi per pagare degli intermediari e corrompere delle guardie di
frontiera. Così, una notte, oltrepassò il confine ed entrò
clandestinamente in territorio turco. Andò ad Ankara all’ufficio
dell’Alto Commissariato per i Rifugiati e presentò richiesta d’asilo. In
attesa del responso, le autorità di polizia gli consegnarono dei
documenti provvisori che lo obbligavano a risiedere e lavorare
unicamente all’interno della provincia di Mardin. Se non avesse
rispettato l’ingiunzione lo avrebbero arrestato per immigrazione
irregolare e verosimilmente deportato. Da due anni, quindi,
M. aspetta. Aspetta e spera una
risposta, lo status di rifugiato nella migliore delle ipotesi, anche se
in Turchia, ci dice, è veramente molto difficile ottenerlo. Solo cinque
paesi, a suo dire, riconoscono lo status di rifugiato non appena metti
piede sul loro territorio: Svezia, Norvegia, Stati Uniti, Canada e
Australia. Si dia il caso, tuttavia, che M.
non solo non possiede abbastanza denaro per comprare un biglietto aereo,
ma in quanto ajnabī non ha
passaporto. Da due anni al mattino si sveglia, percorre a piedi la
distanza che lo separa dal luogo di lavoro, torna a casa, mangia e va a
dormire esausto. Una giornata cadenzata da impegni sempre uguali a se
stessi, da quel lavoro come sarto che svolge con maestria e che gli
consente di guadagnare un po’ di soldi e di risiedere in Turchia. Eppure
la sua è la situazione di un uomo spezzato, condannato a non far più
ritorno nella città della sua infanzia, a non avere che pochi sporadici
contatti telefonici con la famiglia, a vivere in balìa di lentezze e
negligenze burocratiche. Le sue parole ci colmavano di tristezza, ci
rendevano incapaci di rispondere, di commentare, ci facevano sentire
nell’impotenza più assoluta, eppure non potevamo fare a meno di
ascoltarlo. Abbiamo cercato di aiutarlo per quel che potevamo, abbiamo
scritto al Kurdish Human Rights Projects, una ONG londinese che ha
pubblicato un libro dal titolo eloquente:
Kurds in Syria: the Forgotten
People. Abbiamo tentato, ma invano: da Londra non hanno fatto altro
che inviarci i contatti di altre due organizzazioni per i diritti umani
con sede a Istanbul. Ma da queste non è giunta risposta alcuna. «Non
preoccupatevi amici miei – ci disse una sera
M. – so bene che ormai non mi resta che aspettare». Ci
abbracciava sempre con affetto, con un sorriso bellissimo, finché un
giorno, alla tristezza per l’immensa ingiustizia che le nostre vite a
confronto creavano, si aggiunse la tristezza dell’addio. Alcuni giorni
dopo, camminando lungo la via principale di Qamishli, aldilà di quello
stesso confine che tante persone continuano ancora a eludere, Roberta
fantasticava: «Ti immagini M. tra
queste strade, Ale? Ti immagini se ora ci incrociasse camminando verso
di noi?». Francamente, non riuscivo proprio a figurarmelo.
Il potere uccide, il potere seziona, il
potere crea barriere, inibisce il movimento, l’intelletto, la parola.
Uomini e donne oggi in Siria subiscono tutto questo sulla loro carne,
vittime di un discrimine inventato tra legale e illegale, tra cittadino
e non cittadino. Queste persone esistono e vogliono esistere, ma se la
situazione non cambia continueranno a scappare dalla gabbia che li
accolse aldilà dell’utero. Dal canto loro le autorità siriane non
potranno che guadagnarci dalla scomparsa di qualche decina di migliaia
di curdi in più, ajānib,
maktūmīn o cittadini che siano. Con le tangenti in tasca e il sacro
territorio nazionale rimasto inviolato, volgeranno lo sguardo altrove,
lasciando che i dannati di quella terra si disperdano via, lontano, come
granelli di sabbia portati dal vento.
GIUGNO 2011
[1]
Tutti i nomi del presente racconto sono stati ridotti alle
rispettive iniziali per ovvi motivi di sicurezza.