INTERVISTA ALLO SCRITTORE TUNISINO FATHI BEN
HAJ YAHIA
Roberta Rodriquez
«Forse ciò che c’è di bello in questa
rivoluzione è il suo essere seria e ludica, profonda e superficiale allo
stesso tempo. Sono giovani che agiscono con tutto lo splendore e la
poesia, e anche con tutti i limiti e gli errori, di una generazione di
adolescenti. Un po’ come camminare davanti a un precipizio e non
rendersene conto. Ma in fondo è proprio questo entusiasmo che ci guida.
È molto importante vivere momenti collettivi di piacere, anche se questo
può farci rischiare di cadere. Ma io spero di no…».
È in
una calda mattina di metà agosto che incontro Fathi Ben Haj Yahia,
scrittore, attivista politico tunisino e direttore di una piccola scuola
elementare privata, situata nella periferia settentrionale di Tunisi. È
un uomo possente, dal viso tatuato dall’esperienza e dolci profondi
occhi neri. In quanto membro attivo del movimento politico clandestino
di orientamento marxista-leninista,
Perspectives tunisiennes, nel
1973, all’età di vent’anni, fu arrestato, torturato dalla polizia
politica burghibista[1]
e trattenuto per cinque interminabili anni nelle squallide celle delle
galere tunisine riservate ai prigionieri politici.[2]
Oggi continua «a partecipare alla lotta attraverso il lavoro sociale e
le associazioni della società civile, lavorando per la difesa dei
diritti umani [è tra i fondatori della sezione tunisina di Amnesty
International, ndr] e soprattutto attraverso la scrittura, in termini di
lettere di riflessione su quello che accade». I suoi scritti, spesso
clandestini, hanno condizionato generazioni di oppositori ai regimi
dittatoriali di Burghiba prima e di Ben Ali poi. Oggi però gli slogan
della nuova Tunisia non lo convincono, perché conosce i pregi ed i
difetti dei popoli del Mediterraneo.
Descrizione d’una società dal volto alquanto
familiare: una mentalità “arrivista”
Gli
chiedo della censura del regime: «Certo, c’era la repressione, a volte
la prigione e in ogni caso è stato sempre difficile operare per gli
artisti, gli scrittori, i registi di cinema e di teatro e in generale
per tutti i “creatori di cultura”. Ben Ali era incolto e non riusciva a
capire il posto che la cultura occupa nella vita, nella costruzione del
sé innanzitutto. Evitava completamente la cultura […] e al massimo per
lui la cultura si limitava alla famosa cantante che lui adora, e che io
adoro, Amina Fakhet […] la nostra diva tunisina: la cultura è questo per
lui, è un “piacere della vita”. Niente di più profondo».
Ma la
censura per Fathi non è stata l’arma fondamentale del regime, perché
anche se per gli artisti era divenuta inaccessibile ogni forma
d’ispirazione, che doveva essere radiografata dai burocrati
dell’uniformità, ciò che ha ingabbiato il popolo tunisino è stato esso
stesso, che s’è specchiato nel luccicore della classe dirigente. Pur
essendo un regime che controllava militarmente ogni forma politica, il
popolo ha deciso di assecondarlo, piegandosi alla bruttura della
dittatura, pettinandola con la propria ambizione di rivalsa. Ben Ali è
stato un fenomeno creato e sostenuto da molti, un sogno d’emulazione per
buona parte della classe media del Paese.
«Oggi
tutti sembrano dimenticare ed evitano di aprire un grande capitolo di
riflessione: quello della complicità collettiva della società nel creare
un “fenomeno Ben Ali”. Tutti parlano di lui come se fosse qualcosa di
imposto alla società, come se alle spalle di ciascun cittadino ci
fossero sempre stati due poliziotti armati per obbligarlo ad applaudire!
Mentre ciò non è vero! Le cose sono andate diversamente […] c'era molta
avidità, c'era molta della cosiddetta “mentalità
della classe media”, che voleva realizzarsi, che voleva “arrivare”,
che aveva per modello proprio la cerchia di Ben Ali e che aveva
barattato la propria etica in cambio dell'arricchimento rapido, del
sotterfugio, adottando la filosofia dell'arrivare ad un obiettivo per la
strada più corta, “anche a costo
di camminare sui cadaveri dei propri cari”, proprio come dice un
proverbio tunisino.[3]
E la cosa più grave è che questa è una mentalità che si è molto diffusa
nella società, non era solamente del “palazzo”».
Il bisogno di una riflessione collettiva
Ed è
proprio questo il punto debole della rivoluzione tunisina che continua a
non essere capito dalla classe politica del Paese. «La corruzione contro
la quale si vuole lottare è complessa e diversamente diffusa nel corpo
sociale. Quindi, più si cerca di scoprirla, più ci si avvicina a se
stessi: c’è anche la mia responsabilità, per tutte le volte in cui sono
ricorso a dei capitani, a degli amici per aiutare mia figlia, per
domandare un servizio a cui non avevo diritto, per sfuggire a una
sanzione che meritavo […] e cerchiamo di espellere la nostra
colpevolezza attraverso le parole, ma è una società ancora pregna
dell’idea che “il responsabile è
l’altro”, che non ha la cultura dello specchio ed il coraggio di
guardarsi in faccia». E i politici tunisini non sono in grado di
affrontare queste questioni “sensibili”, sia perché hanno in parte
partecipato a tutto questo e sia perché quelli che non l'hanno fatto ora
pensano alle elezioni e non intendono sollevare questioni scomode per la
maggior parte dei tunisini: «la politica obbliga ad andare un po' ad
“accarezzare il popolo nel senso del pelo”, ad accontentarlo».
E
quest’uomo forte, speranzoso e disilluso allo stesso tempo, s’infervora
nello srotolare davanti ai miei occhi le incompetenze dei politici
tunisini, il semplicismo e l’incapacità loro e di tutto il popolo
tunisino di comprendere che il problema non è legato alle singole
persone, «non basta sostituire il ministro della giustizia o quello
degli interni, come veniva invocato oggi per radio, perché se poi la
mentalità delle persone resta la stessa il sistema non cambierà mai.
Deve essere fatto un lavoro di analisi su di sé a livello individuale e
soprattutto a livello sociale». Urge dunque avviare una riflessione
collettiva su ciò che è successo ed è necessario iniziare un discorso
che sappia responsabilizzare le persone. Questo «è il compito degli
intellettuali, degli artisti, dei creatori, il cui ruolo in questo
momento è fondamentale, forse molto più dei politici. I politici devono
capire che esistono dei luoghi dell’anima collettiva che devono essere
aperti per loro dagli artisti e dai creatori e che, però, essi devono
poi seguire».
Solo
questo, per Fathi, è il modo di ricostruirsi su scala individuale e
collettiva: «Se si sorvolerà su questo capitolo delle “responsabilità
collettive” per ridurre la responsabilità a delle cerchie ristrette non
si centrerà quella che, per me, dovrebbe essere la rivoluzione. È in
questo senso che la rivoluzione non c'è ancora stata, non ha toccato i
punti sensibili, siamo ancora al livello esteriore».
Una rivoluzione sì, ma ancora incompleta
Gli
chiedo a questo punto se dunque quello che è accaduto in Tunisia per lui
può essere chiamato rivoluzione: la risposta è ampia e lascia molti
spazi aperti. Certo, bisogna mettersi d’accordo sul significato della
parola rivoluzione. Perché si sa che quello che è importante è il
significato che è dietro le parole. E dietro la parola rivoluzione c’è
tantissima storia, è un termine già fortemente connotato: «La parola
rivoluzione è carica dell’idea di rivoluzione francese, dell’idea di
rivoluzione bolscevica, di rivoluzione iraniana, […]. Invece, quello che
avviene oggi, che sia in Tunisia o in Egitto, è difficile da definire.
Dobbiamo interrogarci sulla possibilità che un avvenimento possa
meritare il nome di rivoluzione pur non avendo gli stessi attributi, gli
stessi elementi e le stesse caratteristiche di quello che è successo
nell’Unione Sovietica o in Francia o in Iran. È questo il problema oggi:
gli avvenimenti tunisini ed egiziani, questo magma che ha sconvolto e
modificato le nostre realtà, non ha ancora stabilito il suo lessico, non
ha ancora trovato le sue parole. Come lo possiamo chiamare, aldilà del
momento di esaltazione dei primi giorni, aldilà di questo consenso, di
questo incontro sul bisogno di “strappare una maschera di ossigeno”,
come per qualcuno che ha difficoltà a respirare e cerca la sua bottiglia
di ossigeno? C’era bisogno di respirare, c’era bisogno di evacuare
qualcosa che pesava sulle anime, sulle persone, sul Paese. E su questo
tutti erano d’accordo. Tutti, o quasi». Certo in Tunisia non c’è stata
una rivoluzione come quella francese o come quella bolscevica, «ma in un
certo senso anche questa è una rivoluzione, sicuramente lo è per tutti
quelli che l’hanno vissuta qui, nel senso che ha modificato e negato
l’assetto precedente dello Stato tunisino, ha creato una grande frattura
e ora nessuno in Tunisia permetterebbe che le cose tornino come erano
prima. Quindi, in questo senso, c’è stata una rivoluzione […] anche se
una rivoluzione “alla tunisina”, che è entrata nella configurazione
mentale del popolo tunisino».[4]
Eppure
Fathi di questa rivoluzione tunisina non ne è soddisfatto e crede che la
vera Rivoluzione deve ancora essere fatta: «Per me una rivoluzione, per
essere una vera rivoluzione, nei suoi discorsi e programmi politici deve
pensare al futuro della Nazione, deve toccare le questioni reali, come
la ricostruzione dell’identità collettiva della società, il rapporto con
l’ambiente, le relazioni tra i generi». Dunque è o non è una
rivoluzione? Potrebbe esserlo se toccherà questi punti sensibili.
Altrimenti sarà stato giusto un movimento riformatore, spinto dalla
ciclica esigenza di cambiare ciò che c’è da troppo tempo, ma che avrà
modificato la realtà tunisina solo parzialmente.
La rivoluzione tunisina negli occhi dei
bambini.
L’accusa di un tradimento e la scoperta di una menzogna: non era la
nonna di Cappuccetto Rosso, ma il lupo cattivo.
Incontro Fathi Ben Haj Yahia proprio nel suo ufficio presso la
Tahar Haddad, la piccola scuola elementare che dirige. Le pareti
sono tappezzate di cartelloni con grossi disegni colorati, gli scaffali
sono pieni di piccoli libri dalle scritte sia arabe che francesi e
ovunque, appesi o sui ripiani, ci sono fogli, avvisi, circolari
scolastiche, pagelle, fotografie, elenco di nomi, orari delle lezioni e
quant’altro. C’è un disordine creativo che ci avvolge e ci fa subito
sentire a nostro agio. Chiedo a Fathi qual è stata la reazione dei
bambini della sua scuola elementare di fronte alla rivoluzione e lui ne
è particolarmente felice: «Adoro questa domanda! È la prima volta che me
lo chiedono […] pensare ai bambini, non ne abbiamo troppo l'abitudine...
eh!», sorride. Poi mi racconta una storia.
«Precisamente il quindicesimo giorno della rivolta, quando la situazione
era completamente nel caos, soprattutto qui nella periferia nord, non
lontano dal palazzo presidenziale e dove le zone altolocate e molto
ricche (come Carthage, luogo del lusso e del potere) sono circondate dai
quartieri popolari che si trovano dietro la stazione ferroviaria –
dunque immaginate un po' la cristallizzazione dell'odio e del
“contenzioso” che c'era qui: spari di pallottole quasi quotidiani, posti
di polizia incendiati in media ogni due-tre giorni – [...] in questo
caos abbiamo deciso di riaprire la scuola! Ho chiesto a tutti i genitori
d’accompagnare i propri figli a scuola, ogni mattina, come atto
militante rivoluzionario, per partecipare alla normalizzazione della
città e del Paese. La maggior parte di loro mi ha seguito.
Ma
quando i bambini sono tornati nelle classi ho chiesto alle maestre di
non cominciare subito le lezioni e di promuovere invece un piccolo
dialogo con i bambini: la prima cosa da fare era dar loro la parola, per
aiutarli ad esprimersi e a formulare quello che avevano vissuto.
Ho
fatto un giro in tutte le classi e quello che è venuto fuori dai bambini
è stata l’impressione, quasi unanime, di aver vissuto un
film, una telenovela, ma dall’aspetto
sconcertante perché allo stesso tempo vi erano dentro e la telenovela si
svolgeva all’esterno dello schermo: in tutto questo loro non sapevano se
erano unicamente spettatori oppure attori, o comparse. Questa confusione
di ruoli, questo rapporto sconcertante, appassionante, eccitante
all’immagine, creava una serie di immagini nella testa dei bambini, ed
erano delle immagini che stavano lì così com’erano, non c’era nessuno
che li aiutasse ad organizzarle. Ad esempio: «Mio zio Tareq mi ha
portato a fare una foto con un militare ed io ero in piedi sul carro
armato» oppure «ero nascosto sotto il letto perché c’era un cecchino
sull’altro tetto e tutti i giovani del quartiere lo cercavano e poi […]
un mattino, non so, è scomparso, così, per magia». E a questo punto
nella mente del bambino resta il dubbio se il cecchino sia realmente
esistito oppure no. E le immagini ritornano come fantasmi della mente.
Quando si filmano dei chilometri di pellicola, ad un certo punto c’è il
bisogno di fare il montaggio, di organizzare, di strutturare: invece per
loro non c’era nessun regista che li aiutasse ed era difficile fare
l’operazione da soli perché in un certo senso subivano queste immagini.
Ad un
certo punto sono tornato qui nel mio studio e una mezz’ora dopo una
piccola bimba di nove anni si è presentata davanti alla porta, era un
po’ timida e mi guardava: «che succede?», le dico. «Posso […], avrei
voglia di parlare». Non aveva parlato quando era in classe. È venuta a
sedersi qui e ha cominciato a piangere, ma piano, non con spasmi o cose
del genere. Le ho chiesto ancora: «Che succede?». «Non lo so […] ho
paura». «Paura di cosa? Dimmi, cosa ti fa paura? Fa bene parlarne, hai
visto, con i compagni, abbiamo scherzato». «Non so se posso raccontare
tutto». Insomma, le ho dato fiducia e lei ha cominciato a dire: «Ho
fatto un sogno terribile. Dormivo e all’improvviso ho sentivo un rumore
in salotto, sono andata all’uscio della mia porta, ho guardato: c’era
Zine el-Abidine [Ben Ali, ndr] con un coltello insanguinato che
camminava in salotto e proprio di fronte c’era mio padre, dietro la
porta, spaventato. Io allora provavo a chiamarlo per chiedergli
aiuto ma la mia voce non usciva. Poi, non so come, c’è stato un baccano,
lui è caduto o un piatto è caduto e mi sono svegliata».
Io
l’ho rassicurata un po’, poi ho cominciato a scrivere e ad analizzare
quello che era successo. E ho fatto un’ipotesi che forse può spiegare
molte cose: i bambini non sembrano dire – o in ogni caso la bambina,
attraverso questo sogno – non sembra forse dire: questo signore che ci
avete per tanto tempo presentato come buono e gentile, come Babbo Natale
e come “padre del Paese”, si è invece rivelato un lupo cattivo, come
quello di Cappuccetto Rosso? Non era la nonna, non era quel signore
buono e gentile, ma era il lupo nei panni della nonna. Quindi c’è la
scoperta delle bugie dell’adulto. E ancor peggio della bugia è la
codardia, la paura, il padre impotente, incapace di proteggere la sua
bambina.
E
questa giovane generazione sembra anche dirci: ieri vi guardavamo con i
nostri occhi mentre applaudivate, mentre benedivate Ben Ali e oggi,
così, da un giorno all’altro, è diventato il mostro che è diventato. Per
la comprensione di un bambino questo non è normale, non si può passare
in modo così brutale e istantaneo ad un rinnegamento di se stesso, da
un’immagine al suo negativo. Credo che questo nei bambini crei
inevitabilmente dei traumi. E crea un altro rapporto con i loro genitori
e in generale con le generazioni che li hanno preceduti. È l’idea
dell’autorità che viene messa in discussione».
SETTEMBRE 2011
[1] Habib Burghiba, eroe del movimento nazionalista sotto il protettorato francese e personalità di spicco sulla scena politica tunisina sin dall’inizio degl’anni Trenta, è stato il primo presidente tunisino dopo l’indipendenza del Paese (1956) ed ha mantenuto tale carica per oltre trent’anni, fino a quando è stato deposto da un colpo di stato incruento attuato da Zine el-Abidine Ben Ali il 7 novembre 1987. Per una lettura approfondita sulla storia tunisina, si veda K. Perkins, A History of Modern Tunisia, Cambridge University Press, Cambridge 2004.
[2] Fathi Ben Haj Yahia racconta questa sua esperienza in prigione nel libro El-Habs kadheb… wel-hayy yirwwah, tradotto in francese col titolo La Gamelle et le Couffin, Les mots passant, Tunis 2009. Il titolo tunisino può essere tradotto in italiano come segue: La prigione è una menzogna … e il sopravvissuto torna a casa.
[3]
E mi vien tristemente d’aggiungere: proprio come ha detto Terry
de Nicolò, giovane ragazza italiana pronta a “prostituirsi” per
arrivare ad “essere qualcuno”. «Più in alto
vuoi andare, più devi passare sui cadaveri. Ed è giusto che sia
così! Se vuoi ventimila euro al mese ti devi mettere sul campo e
ti devi vendere tua madre».
Cfr.
Il Fatto
Quotidiano,
16 settembre 2011,
Intervista
choc di Terry De Nicolò,
http://www.ilfattoquotidiano.it/2011/09/17/intervista-choc-di-terry-de-nicolo/158125/
[4]
In un’altra intervista, rilasciata nel marzo del 2011 a Inside
Tunisia, Fathi Ben Haj Yahia completa efficacemente il proprio
pensiero in merito alla definizione della rivoluzione tunisina:
«Cerchiamo di spiegare con le nozioni del
xx secolo una
rivoluzione che ha aspetti post-moderni. Il primo aspetto è
l’emergenza dell’individuo, in una società tunisina che è più
avanzata comparativamente alle altre società arabe, con tutto
quello che questo implica in termini di distruzione dei rapporti
tradizionali d’autorità. Questo dato sociologico è legato
all’alto livello di scolarizzazione e all’urbanizzazione. Il
rivoluzionario tunisino è un giovane istruito che ha la
sensazione di coltivare la sua individualità. È una gioventù che
ha un rapporto leggero con l’esistenza. La mia impressione, il
14 gennaio, era quella di giovani davanti ai loro videogiochi
che sono arrivati in strada portando con loro questo aspetto
ludico.
La
gioventù che ha partecipato alla rivoluzione, o diciamo alla
fragilità del momento che ha fatto crollare l’edificio, cercava
soprattutto di respirare, voleva essere libera e aveva bisogno
di marcare e sentire l’esistenza. Se il 13
avessi chiesto a uno di questi giovani “Cosa vuoi?”
nessuno avrebbe risposto che voleva un sistema politico
socialista, islamico o chissà che altro. Gli altri aspetti
post-moderni sono legati all’assenza di programma pre-concepito,
di leader e di rappresentazione.
Ma poi è arrivata un’altra generazione che con i suoi diversi background ideologici cerca di dare il proprio significato alla rivoluzione. Certi vedono una rivoluzione di tipo liberale, occidentale, altri vedono la componente sociale o panaraba. Dovremmo lasciare spazio alla passione, mentre in molti sono tornati alla retorica: quando parlano si ritirano come individui per prendere la parola in nome del popolo. È vero che la rivoluzione è stata un momento in cui tutti i tunisini si sono incontrati e cristallizzati in un interesse comune, ma dovremmo fare a meno di questa idea di popolo. Gli interessi del giovane imprenditore cittadino e del disoccupato rurale non sono gli stessi. Invece di discutere di un nuovo patto sociale, ognuno interviene in nome di tutti. È una categoria di pensiero marxista usata anche dagli islamisti. Questo "io mi permetto di dichiarare quello che è nell'interesse del popolo" impedisce il dialogo. Cercare di dare un senso alla rivoluzione attraverso le vecchie categorie ideologiche è come fare cadere un velo nero sulla liberazione di energia che ha dato la spallata al vecchio regime». Cfr. Inside Tunisia, 4 marzo 2011, La libertà è un rischio. Incontro con Fathi Ben Haj Yahia, http://insidetunisia.it/2011/03/la-liberta-e-un-rischio-incontro-con-fathi-ben-haj-yahia/