CAPITALISMO POST-UMANO.
Forme della politica nel 2011
Redazione
Parte 1.
Schizofrenie capitalistiche
1.1
Il tempo sgomma, ma la storia non si muove. Pare che l’uomo abbia perso
la sua capacità di agire negli eventi. Esso pur conservando la
presunzione di essere il
soggetto, è piuttosto agito dalle cose, oggetto di un divenire casuale
sfuggitogli di mano. C’era una volta l’ideologia. Essa era contenitore,
raccoglieva, catalizzava, in nome di ideali eterni e sempre futuri.
Molte generazioni hanno dovuto crederci. Troppe hanno dovuto osservarne
il fallimento permanente. Qualcosa si è però stratificato nelle
coscienze, la consapevolezza, se non la salda convinzione, che non si
può fare la Storia. E l’essere umano si è trasformato, senza forse
rendersene conto, in un seguace della religione consumista.
L’ideologia ha così perso la sua forza,
generando una società senza speranza, mentre la politica scopriva la
possibilità di esistere anche in assenza di terre promesse. Il futuro e,
con esso, la storia uscivano dal campo delle possibilità umane e la
politica diventava mero strumento di amministrazione del presente. Da
qui in poi l’uomo vive per l’oggi. Il presente accelera su se stesso,
tanto da cancellare memorie e attese. Tutto si dimentica, niente si
spera. La memoria piatta è la principale strategia politica degli
amministratori del presente.
1.2
Prendiamo il nucleare da fissione[1].
Nell’87 l’Italia lo aveva già rifiutato con un referendum, eppure se n’è
dovuto fare un secondo. Ma dell’oggetto al centro della contesa se n’è
sempre parlato come se il 1987 e il suo referendum non fossero mai
esistiti. Per una pura coincidenza catastrofica il presente (non il
futuro e tantomeno il passato), ha determinato l’esito del secondo
referendum, ma è legittimo chiedersi come sarebbe andata a finire senza
Fukushima. In tutta la vicenda il fatto sostanziale che il nucleare,
così come lo conosciamo, sia scelta folle, non ha avuto peso.
La ragione non ha cittadinanza nelle
scelte politiche. Hanno avuto ragione i sostenitori del nucleare da
fissione a sollevare la problematica della "paura" quale elemento
fondamentale delle scelte politiche, anche se non si può impostare tutta
un’epoca politica sulla paura (gli immigrati che rubano il lavoro, i
meridionali che rubano i fondi statali, gli omosessuali che distruggono
la famiglia, i terroristi che minacciano i nostro bel mondo etc.), per
poi lamentarsi di esserne sfavoriti, quando accade l’incidente.
1.3
Da questo angolo visuale è legittimo chiedersi se non sia stata la paura
di bollette più alte ad aver sortito anche la vittoria dei referendum
sull’acqua piuttosto che il principio di mantenere pubblico un servizio
che riguarda una risorsa naturale. Allora potrebbe perfino darsi che la
legge resta formalmente uguale per tutti (quarto referendum), in seguito
al maremoto giapponese, risvolto assurdo di un evento tragico, come
metafora della bancarotta di una politica ormai terroristica.
Quando l’ideologia era ancora un
catalizzatore di masse, nonostante le sue mistificazioni, all’orizzonte
delle proposte per il futuro, come per la religione, c’era il desiderio
di una vita priva di sofferenze e ansie, una vita pacificata, per la
quale però le condizioni non erano mai mature.
Allora il crollo delle opposte
ideologie, vale a dire il divenire dominante di una soltanto delle due,
corrisponde alla sostituzione del linguaggio politico del desiderio con
quello della paura, anche perché un tempo senza futuro non può
promettere niente. Il dubbio che abbia vinto proprio l’ideologia
sbagliata è, a questo punto, del tutto legittimo.
Ma questa estromissione del desiderio
di un futuro migliore, non può che peggiorare l’esistenza disumanizzando
l’uomo, che «come un animale, che non sa capire, guard[a] il mondo con
occhio lineare…»[2]
Tutto volge al peggio con una paura che
diventa l’agente principale dell’amministrazione di un presente in
continuo peggioramento.
Si precisa allora il senso di una
storia che pare immobile: essa non può esserlo realmente, semplicemente
quando non si va avanti si finisce per andare indietro. Di fronte a
questa inversione di segno del vettore storico si percepisce e si misura
la relativizzazione della posizione dell’uomo al mondo.
1.4
Si prenda a caso una delle recenti crisi finanziarie statali. Lo
sragionamento che passa, senza cortocircuiti alcuni, è il seguente: la
speculazione finanziaria attacca l’economia di un paese, un ente
bancario sovranazionale salva il paese sotto attacco dal fallimento
acquistando titoli di stato, ma a condizione che lo stesso paese
"aiutato" faccia subito qualcosa per dimostrare la sua affidabilità.
Risultato: il paese da salvare aumenta l’età pensionabile o allude alla
possibilità di rinunciare del tutto ad un certo modello (pubblico) di
pensione, e si taglia tutto il tagliabile (servizi pubblici). Tradotto:
la speculazione finanziaria deve poter continuare a fare il proprio
mestiere e per questo tutti dovranno lavorare di più (si veda ad esempio
il caso delle direttive imposte all’Italia dalla
bce). Nel frattempo si
distrugge ciò che resta dello Stato sociale, del welfare. La destra
prima tuona contro l’Europa poi ringrazia per l’aiuto offerto, la
sinistra attacca la destra per la sua inaffidabilità politica: non si
può il giorno prima attaccare l’Europa e il giorno dopo ringraziare (non
si può essere europeisti ad intermittenza, come amano dire nel PD). Non
una sola voce osa mettere in discussione il
diktat di questa o quell’entità
sovranazionale. Un quadretto molto edificante per tutti noi.
1.5
Quando gli organismi sovranazionali impongono austerità ad un paese in
crisi (Grecia, Spagna, Italia) in nome di chi parlano, e cosa vogliono
salvare? Al di là degli interessi economico-finanziari in gioco, è
possibile credere che le misure che si vogliono imporre siano benefiche
per i destinatari? Qual è il concetto di beneficio odierno? Ma se il
dubbio espresso è legittimo, la vera domanda è: come mai l’uomo decide
contro la propria vita? Perché mai riesce a pensare che per continuare a
vivere deve accettare di stare peggio? Oggi come trent’anni fa, non si
fa altro che lavorare, dalla mattina alla sera, se non di più, eppure
non basta a stare bene come trent’anni fa. Ognuno lavora e se non
contrae debiti per conto proprio, paga qualcuno (la politica) che lo
indebiti suo malgrado. Più si lavora è più il valore del proprio lavoro
diminuisce, proprio mentre la tecnologia avanza, tanto da costituire la
base tecnica della liberazione dell’uomo dalla fatica, eppure le ricette
di risanamento prevedono tutte che si debba lavorare di più per
guadagnare di meno. Ma allora a
Cosa serve la tecnologia?
Tanto più ci si affanna, tanto più il
debito cresce. Esso è infinito ed eterno (senso di colpa originario).
Davvero è pensabile che sia estinguibile o che
voglia esserlo? È
lontanamente sensato pensare di continuare a pagarlo?[3]
Non sarà proprio ciò che tutti vogliono evitare (default) a consentire
una certa de-finanziarizzazione dell’economia, e la probabilità di
utilizzare fondi statali per opere finalmente necessarie, locali e
diffuse?
Se, d’altra parte, la spirale dei
debiti pubblici non sarà interrotta, bisognerà anche chiedersi se il
capitalismo non abbia davvero niente di meglio da proporre che un
assoggettamento eterno dell’umanità al capitale, chi o
cosa comanda davvero sul
globo e perché l’uomo appaia sempre più come uno schiavo dei suoi
prodotti storici. O Dio insieme all’Universo ha creato anche il mercato
capitalista e la speculazione finanziaria, oppure è stato l’uomo a farlo
per ridursi infine a lavorare per esso. Davvero un’espressione di alto
ingegno.
1.6
Queste considerazioni esprimono il paradosso del nostro tempo. Siamo
arrivati ad un livello di sviluppo tecnologico inaudito, ma proprio tale
sviluppo fa sì che la natura del lavoro su scala globale si sia
manifestata fino a pervertirsi nella sua origine. Come è completamente
spezzato il nesso che lega il lavoro alla sua retribuzione, così sembra
essere completamente spezzato il nesso fra avanzamento tecnologico e
progresso sociale. La legittima spinta alla liberazione di tempo e alla
diminuzione della fatica fisica ha portato al fraintendimento generale
dei mezzi e dei fini dell’attività lavorativa degli uomini. L’elemento
tecnico del capitalismo accelerato di oggi determina la mania
all’accumulazione forsennata di potenza e velocità, in sostanza,
finalizzata unicamente a se stessa. Il fatto storico di oggi è
costituito dall’andamento dell’economia capitalistica su scala globale,
e tale andamento si determina sulla base del continuo trasformarsi del
rapporto fra uomo e natura, costituito dalla scoperta e dalla diffusione
della tecnica. Dunque la tecnologia è il fatto storico degli ultimi
decenni, se non dell’intero secolo trascorso.
1.7
Le domande di senso sulle sorti del capitale tecnologico non possono
essere ovviamente oggigiorno dirette alla politica, la quale ridottasi
ad amministrare il presente non si pone più compiti radicali. Siamo in
un epoca, infatti, in cui non ci si può aspettare più niente dalla
politica ufficiale, la quale non ha davvero la possibilità di cambiare
il corso degli eventi. In sostanza diventa necessario abbandonare
definitivamente l’ordine di idee per cui il progresso è determinato da
una qualsiasi delle forze politiche in campo. Un’amministrazione
efficiente può migliorare l’aspetto di una città, alcune condizioni
locali marginali, come organizzare una buona raccolta differenziata, ma
sembra non poter discutere su questioni più profonde e fondamentali,
come liberare gli uomini dal lavoro coatto e dall’umiliazione quotidiana
della bassa remunerazione, ad esempio. È fin troppo evidente come le
redini del gioco siano sempre più esterne alla politica (eletta), come
il politico sia una funzione
dell’economico, in un’epoca
in cui l’economico è sostanzialmente finanziario e la cui leva
speculativa, in ragione del suo crescente peso specifico, rappresenta la
concreta governance del
globo.
Dagli anni ottanta, almeno, queste sono
meta-condizioni universalmente imposte ed accettate all’interno delle
quali ci destreggiamo (è proprio il caso di dire) fra diverse
amministrazioni politiche. In questo quadro generale bisogna
interrogarsi sul senso della politica ufficiale e della sua utilità
sociale. Cosa ci si può aspettare? Come mai continuiamo ad entusiasmarci
come tifosi per le tornate elettorali? Cosa può significare una vittoria
elettorale? Cosa possiamo definire vittoria? Ma soprattutto è ancora
possibile dire di aver vinto?
1.8
E così introduciamo il tema delle amministrative recenti, con Milano e
Napoli come punte del "riscatto della sinistra". Premettendo che siamo
tutti contenti per come sono andate le cose, e per il venir meno del
consenso di massa alla peggior destra degli ultimi anni, si può però
davvero pensare a questi esiti elettorali come alla possibilità di poter
cambiare le cose? Pur considerando soltanto le vicende napoletane,
pensiamo che l’amministrazione comunale avrà già fatto molto quando avrà
ristabilito una normalità sanitaria sul territorio urbano (e non è certo
poco di questi tempi, in cui il caos generalizzato pare sia la
normalità). Ma come potrebbe lontanamente pensare di affrontare i
problemi della disoccupazione, della camorra, della speculazione
edilizia, del traffico, dell’inquinamento etc., senza che si tocchino
alcuni punti strutturali dell’organizzazione sociale di oggi? Queste
sono questioni che esulano dalle possibilità di qualunque forza politica
istituzionale, per risolvere le quali diventa necessaria una
ri-politicizzazione della società in prima persona, in grado di porre
fine alla fiducia nella delega politica, come strumento di democrazia.
Non pensiamo sia qualunquismo dire che
esistono questioni intangibili per la politica, quando questa è
trasformata in cinghia di trasmissione del capitale finanziario.
1.9
Nelle campagne elettorali e soprattutto
in quelle per le amministrative, i politici di professione sono sovente
più vicini alla gente, salvo eclissarsi subito dopo, chi con più, chi
con meno sfacciataggine. Ma basta questo breve contatto per creare
quella sorta d’illusione di vicinanza che, nella misura in cui ci
coinvolge, tradisce solo la nostra volontà, altrimenti frustrata, di
partecipazione alla politica. Allora è chiaro che la forma delle
democrazie parlamentari, con il loro apparato professionale di partiti
grandi e piccoli, non riesce più a contenere la domanda di democrazia e
partecipazione diretta della società. C’è un potenziale politico che
resta inespresso a causa dell’inadeguatezza delle forme istituzionali
con le quali si è ingabbiata la politica.
Tutto ciò fa sì che i margini della
vittoria siano enormemente ridimensionati rispetto alla fase ideologica
del ‘900 con il mezzo della politica ufficiale, generando una
schizofrenia crescente fra gli estremi di un entusiasmo cieco per le
inutili tornate elettorali (per altro sempre più numerose) e la
rassegnata normalità quotidiana, fatta di concretezze che non entrano
nemmeno più nei dibattiti dei salotti televisivi.
1.10
Impossibilità di cambiare davvero le determinanti dell’esistenza e
conseguente sospensione delle lancette della storia, nonostante la
velocità degli accadimenti, sembrano essere anche le condizioni di fondo
che cercano di imbrigliare le vicende maghrebine in un drammatico
dejà vu, in cui il futuro è
sospeso nell’attesa, nientemeno, delle prossime elezioni politiche
(Tunisia ed Egitto, almeno per ora). In questa sospensione del tempo, i
maestri del differimento temporale intorbidano i possibili decorsi
positivi dei sommovimenti. Essere riusciti ad imporre le elezioni
politiche come unica possibilità di disegnare il post-dittatura è già un
risultato insperato per la conservazione della maggioranza delle
condizioni materiali precedenti. Infatti in Tunisia, la casta politica
che sosteneva la dittatura, non è stata cancellata e guida il presente.
Lo stesso si può dire della casta militare egiziana, che rappresenta
anche gran parte della plutocrazia nazionale, la quale può già
permettersi di impedire gli scioperi per legge. E che dire del Cnt
(Consiglio nazionale di transizione) libico? Da chi è composto, come si
è formato ed autoproclamato garante del popolo libico contro il
dittatore? Le dispute armate libiche hanno l’aria di essere orchestrate
al di sopra delle teste della popolazione, la quale se non partecipa
direttamente alla cacciata militare del dittatore, non prende parte
neanche ai tavoli sui quali si firmano gli accordi per il futuro
sfruttamento delle risorse nazionali.
Questi poteri attuali, in realtà non
avrebbero nessuna necessità di chiudere la fase di transizione, visto
che la stanno già governando materialmente senza essere rappresentanti
di nessuno. Un esempio lampante di
governance rampante,
applicata a livello dello stato nazionale. Se il movimento maghrebino
accetta questo terreno di lotta è praticamente inviluppato in partenza
in una rete che non lascia vie d’uscita. C’è una capacità dei poteri
costituiti di riuscire sempre, in qualche modo, a dettare le regole del
gioco, lasciando agli altri l’illusione di poter “vincere” legalmente,
mentre passa sotto traccia il fatto sostanziale che la vera posta non è
la “vittoria”, ma l’insieme delle regole che la condizionano. Una
rivoluzione potrà darsi e vincere solo se riuscirà a dettare essa le
regole della contesa, perché nessun campo di gioco ammette la
coesistenza di due sistemi di regole.
Parte 2.
Gli indignati in giro per il
mondo e la politica necessaria
2.1
Allora pensiamo che un esercizio utile di analisi dei tempi in corso sia
il cercare di capire cosa sta producendo la politica non ufficiale in
questo periodo. Cosa ci possa insegnare il 2011 con le sue modalità e
forme politiche emergenti e se queste abbiano o meno la possibilità di
diventare un nuovo modello di riferimento per tutti. Bisogna
concentrarsi su quanto il Maghreb, l’Egitto, i sommovimenti greci con lo
sciopero generale, le primavere elettorali con le amministrative e il
referendum qui in Italia, la protesta degli indignados in Spagna, a loro
volta divenuti modello di altre proteste in giro per il mondo, esprimano
un elemento nuovo sulla scenario globale e su quanto, fra di essi, il
filo di collegamento sia costituito dall’elemento della crisi economica,
da un lato, e dai modi nuovi, dall’altro, dell’organizzazione del
movimento politico. Rispetto, all’argomento se sia possibile considerare
questi movimenti da un punto di vista unitario, possiamo anticipare di
essere sostanzialmente d’accordo con quanto scritto anche da A.Negri e
J. Revel recentemente[4],
per quanto crediamo che il legame più forte fra le diverse esperienze
riguardi senz’altro la tipologia e la forma dell’organizzazione della
protesta, nel nuovo scenario, più che i suoi contenuti di per sé.
2.2
Dopo anni in cui il sistema sembrava essere incontestabile nei suoi
assunti fondamentali, forse per la prima volta su scala di massa si
diffonde una percezione più chiara che c’è qualcosa che non va alla
radice di questo ordine di cose. Il movimento no-global l’aveva già
mostrato, ma esso era rimasto, tutto sommato, un movimento
d’avanguardia, in cui i termini più generali (critica all’ispirazione
neoliberista della globalizzazione) e quelli più particolari (condizioni
specifiche di lavoro e di vita nei singoli paesi) non si legavano in
modo chiaro. L’ondata restauratrice degli anni’80 e ‘90 era ancora forte
e con essa una fiducia generale nella crescita del sistema sulle sue
stesse basi. In questo movimento, invece, il legame fra il piano più
generale e le singole esperienze di vita si fa più riconoscibile e
offre, quindi, una possibilità maggiore per la prassi.
2.3
Da questo punto di vista oggi si sono poste le condizioni per una
critica al paradigma attuale del sistema. Il fatto che si tratti d’un
sistema profondamente irrazionale nel senso che non s’addice più alle
possibilità che si sono aperte in questo tempo, è una percezione che si
diffonde su scala sempre più ampia. Si fa evidente lo squilibrio
esistente fra lavoro eccessivo e disoccupazione, fra lavoro socialmente
necessario e quello necessario solo all’affermazione dell’immagine della
merce, l’accelerazione brutale nell’utilizzazione delle risorse
energetiche accumulatesi lentamente in natura per millenni, la
concentrazione di potere e ricchezza nelle mani di pochissimi, spesso
anonimi, individui su scala globale. Queste sono assurdità non solo
sempre più presenti drammaticamente nella vita degli individui, ma anche
nella coscienza di un numero sempre maggiore di persone. Quello che
certo, però, ancora resta oscuro è come sia possibile fare altrimenti,
quale modello provare a sostituire a quello esistente. Su questo punto,
d’altra parte, si misurano anche i limiti politici dei movimenti di cui
stiamo discutendo.
2.4
Il cuore di queste proteste è costituito dal riferimento al concetto di
democrazia, al quale specie la parte occidentale dei movimenti si è
riferita nel senso di una democrazia autentica, ben diversa da
quell’impotente rispetto allo strapotere delle multinazionali e dei
poteri finanziari. In Spagna, come si evince anche dall’articolo
pubblicato in questo numero[5],
il movimento è sorto inizialmente sulla spinta dell’organizzazione
Democracia real, in Grecia, d’altro canto, lo sfregio più forte
percepito dal popolo è stato quello d’aver visto i proprio governi,
prima quello di destra, poi quello di sinistra, essere allo stesso modo
succubi dei ricatti degli organismi internazionali di gestione
finanziaria e delle banche di altri paesi. In Italia i fenomeni delle
amministrative e dei referendum hanno spiccato per la partecipazione che
si è venuta esprimendo anche attraverso i nuovi mezzi di comunicazione.
Nei paesi del Nord Africa, il discorso è diverso, ma anche lì la prova
di forza popolare è stata vissuta come un riscatto democratico rispetto
alle decennali dittature.
Il punto, però, sarebbe ora di
approfondire all’interno del movimento questa discussione sul termine di
democrazia. Sta diventando ormai evidente ad un numero sempre maggiore
di individui che c’è una bella differenza fra le parole che vengono
scritte in una costituzione e la realtà dei fatti, e, ancora, d’altra
parte, che c’è democrazia e democrazia. Noi come redazione di Città
Future crediamo che il dibattito sulla democrazia possa essere
affrontato prendendo in considerazione, anzitutto, i tre seguenti
termini del dibattito:
2.4.a
La democrazia può prescindere dai modi in cui si ripartisce il lavoro
all’interno della società, e quindi lasciando che per molti sia
impossibile una reale partecipazione politica (se si esclude che
guardare la televisione o stare su
Facebook possa rappresentare
questa partecipazione) per via della rincorsa alla sopravvivenza, o che
per pochissimi essa sia una professione o sostanzialmente una fonte di
guadagno?
2.4.b
Si può dunque, discutere di democrazia, se non si affronta di petto il
tema del tempo, cioè della liberazione di tempo di lavoro a fini d’un
ritorno alla presa diretta con la realtà, evitando il ritorno di tale
tempo liberato (solo potenzialmente libero) dentro l’alveo della
valorizzazione totalizzante del sistema di dominio di oggi? Si può
discutere di democrazia se non si affronta il nodo per il quale l’uso di
massa delle nuove tecnologie comportando l’annullamento del tempo e la
rarefazione dell’esperienza, significano anche la dematerializzazione
dello spazio politico? Tale spazio dematerializzato, infatti, non può
essere mai uno spazio democratico di autentica condivisione e gestione
della società dal basso.
2.4.c
Oggi, il passaggio ad una nuova democrazia – diciamo una forma più alta
di democrazia – può avvenire solo attraverso la rottura del dominio
della rappresentazione. Rappresentazione intesa, in questo campo
politico, anzitutto come prevalenza del sistema rappresentativo astratto
in cui la separazione fra governanti e governati, non certo più fondata
su basi mistiche, si fonda tuttavia, su una rigida differenziazione di
possibilità fra chi detta legge e chi la esegue.
2.5
La democrazia di oggi non ha consistenza proprio alla luce della
rivelata – oggi più che mai – impotenza del politico sull’economico. Il
senato virtuale (Chomski), come lo stanno a dimostrare gli eventi di
quest’estate, è nei fatti l’unico senato realmente decisivo, il quale
esercita la sua sovranità sull’intero globo. Lo sviluppo tecnologico e
il livello di produttività raggiunto oggi hanno determinato una
concentrazione di capitale tale che esso può mantenere al proprio
servizio, almeno dagli anni ottanta, l’intera casta politica e
subordinarne a sé l’intera ideologia. La separazione fra classe politica
e cittadini riflette, in altre vesti, il dominio dell’economia sulla
politica. La parola "democrazia" è stata da tempo svuotata di
significato, dato che le azioni politiche vengono realizzare
praticamente sempre fuori dalla delega dei cittadini. Oggi, più che mai,
quindi ogni discorso o è strutturale o, nei fatti, non ha senso.
2.6
Come interpretare allora la richiesta di una democrazia reale? Intanto
essa può essere una "richiesta" e a chi? Se non si è capaci di imporre
(e ci vuole forza) una nuova idea di democrazia economicamente
determinante si finisce per cadere nell’illusione dell’emendabilità
democratica delle istituzioni attuali, come se ciò fosse possibile
indipendentemente da quello che le plutocrazie globali continuano a
fare, come se il politico non avesse relazione con l’economico e appunto
come se il campo della disputa potesse ammettere un doppio sistema di
regole. Mentre dire che è necessario ricondurre l’economico al politico
significa esattamente ristabilire il giusto verso di questa
interdipendenza ineludibile.
In questi termini, la richiesta di una
democrazia ripulita, migliore, ma slegata da un rapporto intimo con
l’economico rischia di diventare un obiettivo minimo, moderato, ben poco
"radicale".
E allora il dato positivo della
protesta attuale che dall’avanguardia dei no-global si allarga ad una
composizione sociale complessa e moltitudinaria, nella lettura proposta
da Negri, ha per ora almeno il suo rovescio di medaglia nel limite
politico-propositivo di questa massa composita come analizzata da Slavoj
Zizek[6].
«Reclamano le
"verità inalienabili a cui dovremmo tener fede nella nostra società: il
diritto a una casa, al lavoro, alla cultura, alla salute,
all’istruzione, alla partecipazione politica, alla libera crescita
personale e ai diritti dei consumatori per una vita sana e felice".
Respingendo la violenza, chiedono una "rivoluzione etica. Invece di
mettere il denaro al di sopra dell’essere umano, faremo in modo che il
denaro torni al nostro servizio. Siamo persone, non prodotti. Io non
sono il prodotto di quello che compro, del perché lo compro e da chi".
Quali saranno gli agenti di questa rivoluzione? Gli indignados liquidano
l’intera classe politica, di destra e di sinistra, in quanto corrotta e
guidata dalla sete di potere. Eppure il manifesto consiste in una serie
di richieste rivolte a – a chi? Non alla gente: gli indignados non
dicono (ancora) di voler essere gli agenti del cambiamento che
reclamano. E questa è la fatale debolezza delle recenti proteste:
esprimono una vera rabbia che non è capace di trasformarsi in un
concreto programma di cambiamento sociopolitico. Esprimono uno spirito
di rivolta senza rivoluzione. Un movimento che faccia pressione sui
partiti politici. Però questo evidentemente non basta a imporre una
riorganizzazione della vita sociale. Per farlo serve un organo forte,
capace di prendere decisioni rapide e di metterle in atto con tutto il
rigore necessario. […] La sinistra odierna deve affrontare la questione
della “negazione determinata”: quale nuovo ordine deve sostituirsi a
quello vecchio dopo l’insurrezione, quando si è spento il sublime
entusiasmo della prima ora».
2.7
Aldilà del tono generale fortemente apolitico, lascia poi seriamente
perplessi, il fatto che uno degli slogan adottati dagli indignados sia:
«Non siamo anti-sistema, il sistema è anti-noi». Il sistema sarà sempre
contro di noi, dato che rispetta e ha come obiettivo solo il profitto.
Dire che il sistema ci piace, ma noi non piacciamo al sistema,
probabilmente fa dormire sogni tranquilli ai vari Berlusconi, Trichet,
Bernanke, Lagarde, Bersani (e compagnia cantando).
Senz’altro meno politicamente corrette
sono le esplosioni di violenza che ci sono state quest’estate in Gran
Bretagna: manifestazioni di scontento unicamente per mezzo di violenza
distruttiva, proteste di grado zero, prive di rivendicazioni; come ha
riportato il sopracitato Zizek:
«Zygmunt Bauman ha scritto che queste
rivolte sono atti di “consumatori deprivati ed esclusi dal mercato”: più
di ogni altra cosa sono la manifestazione di un desiderio consumistico
messo in atto con violenza nell’incapacità di trovare soddisfazione nel
modo “appropriato” – attraverso l’acquisto. In quanto tali, contengono
un momento di sincera protesta, che prende la forma di una risposta
ironica all’ideologia consumistica: “Ci spingete a consumare e nello
stesso tempo ci private dei mezzi con cui farlo adeguatamente – così lo
facciamo nell’unico modo che abbiamo a disposizione!”».
E allora la domanda che nasce spontanea
è: che differenza c’è tra i riots
inglesi e i vari movimenti di indignati, oltre il pacifismo? Gli
indignati in effetti chiedono di poter consumare in pace, meglio, con un
lavoro, una casa, in questo sistema che ci piace, ma a cui non
piacciamo…
Come mai, ad esempio, gli indignati
israeliani che protestano per il caro vita non si indignano allo stesso
modo per le condizioni, molto più gravi, che lo stato israeliano impone
alla popolazione palestinese?[7]
2.8
I movimenti di quest’ultimo anno, quindi, incarnano di per sé,
probabilmente, ancora solo un punto di partenza d’una coscienza critica
più generale, in grado magari di concepire, per quanto concerne gli
indignati, una produttività sociale ancorata ai bisogni umani e non più
al consumo cieco, che potrà svilupparsi nel prossimo periodo, una
coscienza che metta in discussione alcuni punti che si sono affermati
fino a divenire incontestabili negli ultimi trent’anni: la convinzione
che il conflitto possa cessare una volta per tutte, che il sistema
capitalistico porti con sé la possibilità d’uno sviluppo illimitato, che
la politica sia una questione di interesse di pochi, sostanzialmente
ancorati a vecchie ideologie. Il problema sarà ora capire come
continuare ed entro quale quadro di mutati rapporti sociali e forme
tecnologiche di riproduzione del consenso si collochi lo scontro che ci
attende. Anzitutto, dunque, bisogna mettere a fuoco la questione delle
forme di organizzazione e, in particolare, il ruolo dei partiti.
2.9
Abbiamo assistito, infatti, ad un progressivo venir meno del ruolo dei
partiti e delle organizzazioni tradizionali nella convocazione di eventi
e manifestazioni di protesta e proposta. Abbiamo, su piani diversi,
registrato un ruolo nullo della politica ufficiale tanto nelle
sollevazioni popolari che hanno spazzato via i regimi in parte del
Maghreb, tanto nella costruzione di proposte alternative all’attuale
sistema socio-economico in altri paesi, e parallelamente, una crescita
della confusione politica legata a movimenti a-politici e la sordità
della politica istituzionale alle istanze dei movimenti. Tuttavia se
questo è il quadro, è in questa situazione che bisogna trovare un modo
di fare passi avanti. La prima cosa da osservare è: a cosa serve
mantenere, con costi sociali enormi, una casta politica ad ogni livello
dello Stato ed oltre, visto che concretamente ogni qualvolta si debba
protestare contro una data aberrazione del sistema, bisogna farlo da sé?
Succede infatti che ogni occasione di protesta produce un movimento
specifico, il quale resta però ancorato al suo terreno senza
collegamenti verso altri terreni di protesta. Ognuno lotta da sé e per
sé e perde. Anche la natura dei movimenti resta in qualche modo
costretta nella protesta senza rappresentare tentativi concreti,
strutturanti e strutturali, di messa in atto delle proposte teoriche. Si
chiede e si rivendica ancora molto, ma senza pensare ad una prassi
capace di tradurre in realtà una rivendicazione.
Le masse stanno imparando ad
organizzare eventi estemporanei di raduno e protesta in modo autonomo,
cioè a fare a meno delle strutture di organizzazione tradizionali, per
quanto riguarda le convocazioni di manifestazioni, ma non ancora a porsi
come leve di pressione economica autonome rispetto ai meccanismi di
cattura del valore che esse producono, che è l’attributo principale del
concetto di sciopero, e tantomeno a porsi come soggetti autonomi di
decisione circa l’impiego della propria forza lavoro, che dovrebbe
essere l’attributo principale del concetto di politica.
Parte 3.
Sulla rete del futuro
3.1
Crediamo che tutto quanto osservato
negli ultimi anni e particolarmente nel 2011 non sarebbe stato possibile
senza l’ausilio di internet, che diventa in un modo o nell’altro,
l’infrastruttura informatica della protesta. È possibile allora pensare
che internet sostituirà i partiti? E se auspicabilmente sì, in che modo
ciò potrà avvenire?
Riteniamo tuttavia che la preistoria
dell’era informatica nella quale viviamo non abbia ancora mostrato la
sua potenzialità politica. La stessa accelerazione storica delle nostre
società fa sì che i metodi di ieri non possano essere più quelli di
domani, che tante cose siano venute maturando, e che, per questo,
riferirsi in modo acritico ad alcuni dei metodi tradizionali può
risultare assolutamente inefficace. La velocità della vita nei centri
costituiti da alcune mega città stato (come le ha definite giustamente
D’Eramo, su Il manifesto del 22 Agosto) leve del settore terziario e
della finanza, e d’altra canto, invece, quella delle periferie, luoghi
di produzione e di esercizio del dominio catastrofico dal punto di vista
culturale, rimangono diversi, ma esprimono all’interno di ciascuna
nazione, piani che s’intersecano (centri e periferie esistono in ogni
nazione, ricca o povera che sia) e sono legati proprio da questa forma
distruttiva di apparente dinamismo costituita dalla rete di
rappresentazioni mediate di fatti (quindi affermazioni di realtà) che si
diffondono per tutto il globo.
3.2
Se c’è una cosa che i movimenti
politici del 2011 ci hanno dimostrato è che internet non fa certo una
rivoluzione, ma non c’è una rivoluzione senza uno strumento di
comunicazione in grado di svincolarsi dal dominio della rappresentazione
unica, riuscendo, però, a competere con essa dal punto di vista della
velocità e della capillarità. Se questo può aprire una discussione
antropologica sul senso e il destino della comunicazione e, quindi, tout
court della vita umana oggi, da un punto di vista strettamente politico,
che è qui quello che ci interessa, ciò costituisce un fatto e come tale
deve essere assunto anche in questo editoriale. Detto questo, si dovrà
procedere con l’analisi mettendo a fuoco anche il fenomeno di Internet
da un punto di vista strutturale.
3.3
Se Internet è prodotto e consumato dai suoi utenti, a vario titolo, ciò
che ancora lo condiziona in modo determinante, infatti, è la sua
struttura proprietaria, in cui altri, diversi dai produttori-consumatori
di contenuti, hanno trovato o inventato il modo di assorbire il valore
economico dei flussi informatizzati. Miliardi di persone utilizzano
piattaforme messe a disposizione da pochissime multinazionali
“progressiste”[8],
che hanno il potere di controllo e di censura su quantità colossali di
dati e persone, al di là dei più rosei sogni di qualsiasi novecentesco
Grande Fratello. Eppure in tutto questo ancora non emerge una concezione
alternativa di piattaforma informatica, ancora non si vede chi pensa a
costruire piattaforme di massa capaci di porsi al di fuori del controllo
dei terzi, in una parola: indipendenti. Ancora non esiste un tentativo
di un’organizzazione informatizzata capace di inglobare, in un
unicum, le funzioni
tradizionali del sindacato e dei partiti, una struttura almeno
nazionale, e interrelata internazionalmente, volta a coordinare i
movimenti in una certa direzione. Come immaginare «l’organo forte capace
di prendere decisioni rapide e di metterle in atto con tutto il rigore
necessario», di cui parla Zizek, ma anche Negri quando pone la necessità
del passaggio dalla semplice protesta all’autopoiesi della moltitudine?
I partiti tradizionali non costruiranno mai strumenti tali da mettere in
discussione la loro centralizzazione interna e le loro stupide
gerarchie. Si è mai visto un partito non stalinista?
3.4
In altre occasioni[9],
abbiamo parlato degli informatici e del loro potere tecnico incredibile
in quest’epoca, ma completamente al soldo delle grandi multinazionali
dell’informatica. Ciò che non si comprende è perché mai si debba
accettare di mettere a disposizione altrui la propria intraprendenza e
creatività, quando nulla impedirebbe di sfruttare la rete per altri
scopi. Vorremmo notare, di passata, che alcune strutture informatiche
non etero-dirette sono già in opera da un po’ di tempo, senza che se ne
sia compresa la potenzialità. Si prenda, ad esempio, il caso
e-mule o quello dei
torrent. Al di là
dell’utilizzo che se ne fa, esso mostra la possibilità di mettere in
rete le risorse dei propri Pc direttamente e senza mediazione. Di colpo
ogni Pc esistente sul globo diventa una sorta di server in grado di
scambiare contenuti attraverso un motore di ricerca capace di sondare
fra ciò che gli utenti decidono di condividere. La limitazione è che si
tratta di una sorta di secondo canale, “privato” del web, senza la
possibilità di entrare nella ricerca generalista e “pubblica” dei server
messi a disposizione dai servizi di hosting. Il risultato è che i
contenuti condivisi non compaiono su Google, ma solo nella piattaforma
specifica. Su scala differente è un po’ la differenza che c’era fra le
radio ufficiali e quelle libere e fra le televisioni di stato e quelle
private negli anni settanta. In realtà si tratta di un dispositivo
informatico talmente geniale da restare sottoutilizzato perché troppo
avanzato per la preistoria informatica. L’utenza attuale di Internet è
ancora un pubblico troppo televisivo, troppo spettatore e poco regista.
Lo sviluppo di Internet si dà nel tramonto della televisione ma
l’eredità di quest’ultima sarà ben presente, direttamente o
indirettamente, per molto tempo.
3.5
Al di là però delle questioni tecniche,
la cosa sorprendente è che con il sistema a rete tratteggiato i
contenuti sono tutti equivalenti, da quelli più diffusi e rispondenti a
quelli meno diffusi e anche meno rispondenti (contenuti non rispondenti
nel senso che sono diversi da ciò che si era cercato, quando non
pericolosi per i Pc). A ben vedere questa è una sorta di garanzia di
democraticità del sistema, visto che tutto, dall’ottimo al deteriore, vi
trova cittadinanza. Inoltre la presenza del deteriore, è la garanzia
stessa di una mancanza di censura, che sarebbe impossibile in un sistema
che si autogoverna e in cui deve essere l’utente a imparare le
contromisure possibili per non incorrere in sorprese.
Notiamo questa potenzialità per ora
inespressa, per evidenziarne le caratteristiche di purezza concettuale.
Rete al 100%, senza controllo, senza gerarchia, senza possibilità di
etero-direzione, con tutti i vantaggi e gli svantaggi che ne derivano. È
in questo modo che bisognerebbe immaginare la base tecnica di un
“partito informatizzato”, puro strumento di connessione in cui nessuna
idea possa affermarsi al di fuori del suo piano di efficacia concreta.
Quello che un tale "partito" potrà fare è ovviamente tutto da scoprire,
certa è la necessita di riprendersi il Web (e l’aria), per tornare a
progettare il mondo concreto senza accontentarsi dei simulacri virtuali
della fuga. Internet è mezzo e non fine. Aspettiamo la piattaforma
informatica della prossima rivoluzione, capace di rimettere la
creatività dell’uomo al proprio servizio e, con questo, di spezzare i
meccanismi di cattura ed estorsione del valore comune prodotto dalla
società nel suo complesso. Spazio virtuale di progettazione reale, in
cui l’auto-organizzazione del proprio tempo di lavoro e dei suoi fini
sia la prassi, allo stesso tempo politica ed economica, costitutiva
dell’approccio verso il reale.
SETTEMBRE 2011
[1]
È il caso, di ricordare che esistono due modalità diverse, di
ottenere energia dall’atomo, per fissione (scissione) del suo
nucleo oppure per fusione. La stessa idea di fusione può essere
declinata in due modi diversi, ovvero a caldo o a freddo, con
accelerazioni stratosferiche di particelle nel primo caso (e
altrettanto esosi costi energetici) e molto più "naturalmente"
nel secondo. A tale proposito invitiamo a leggere l’articolo di
Roberto Germano, su questo stesso numero, a pag. … nel quale si
introduce il cambiamento di paradigma a cui alcune scoperte in
campo quantistico dovrebbero indurre la comunità scientifica,
visto la portata che implicano in tema energetico, capaci, a
nostro avviso, di rifondare su basi finalmente positive l’intera
discussione sul nucleare, inteso come “fusione” e “a freddo”.
[2]
C.S.I., Sogni e sintomi,
nell’album Linea
Gotica, Black Out,
1996.
[3]
Da questo punto di vista ci pare che il dibattito avviato da Il
manifesto, sul default statale controllato, con gli articoli di
Andrea Fumagalli, Il
diritto alla bancarotta come contropotere finanziario, 1
Settembre 2011 e di Guido Viale,
Come far fronte al
default, 13 Settembre 2011, sia di massimo interesse, oltre
a costituire l’unico barlume di ragionevolezza nel vero e
proprio delirio auto-flagellatorio rimbalzato nei media
nazionali di queste settimane.
[4]
Il comune in rivolta,
Il manifesto, 14 Agosto 2011,
http://uninomade.org/il-comune-in-rivolta/
[5]
Indignados: alcune note
sul movimento 15-M in Spagna, pp. …
[6]
Saccheggiatori di tutto
il mondo, unitevi, Review of Books, 19-08-2011,
http://mirudue.blogspot.com/
[7]
Yael Lerer, Israele:
indignati sì, ma solo per se stessi. Le Monde diplomatique,
Settembre 2011.
[8]
Si veda a tal proposito anche la recensione al libro di Geert
Lovink, Zero Comments.
Teoria Critica di Internet, pp. ….
[9]
Programmazione cognitiva,
in Città Future n.
02.