Lo scienziato come intellettuale: una nota
Giuseppe Genovese
Lo scienziato come intellettuale, il tecnico come
scienziato, il tecnico come intellettuale: nulla di più astruso per
l’attuale concezione della cultura. Analizziamo qui il primo di questi
tre passaggi, certamente il più immediato, atto a rompere lo schema, e
togliere l’inerzia necessaria a generare una nuova visione del ruolo del
sapere nella società.
È più di un secolo che la
cultura e la scienza
viaggiano su binari paralleli, ma fortemente distanti. Sono paralleli in
quanto entrambe riflesso o espressione delle esigenze della nostra
società industriale, consumistica, etc.; distanti, data l’incredibile
mancanza di comunicazione tra il ceto degli intellettuali che detengono
la cultura (letterati,
filosofi, giuristi, artisti) e gli scienziati (similmente al distacco
con la classe dirigente politica). Tale comunicazione, quando anche
avviene, è naturalmente portata a degenerare ogni messaggio, a creare
incomprensioni e insoddisfazione reciproca, con il risultato di un
progressivo allontanamento sociale oltreché culturale, tra quelle che
vanno diventando sempre più delle caste chiuse e sterili, sorde l’una ai
moniti dell’altra.
Nel bagaglio culturale condiviso v’è il ricordo dell’epoca
in cui la separazione del sapere non era così marcata. Resta da capire
dove nasce questo divide et impera
che ha frazionato la sfera del sapere ed isolato i pensatori. Certamente
la specializzazione all’origine dell’isolamento nasce dalla concreta
esigenza di gestire un patrimonio culturale piuttosto vasto, quale
quello della società occidentale agli inizi dell’era industriale. Del
resto un simile livello intellettuale, una simile profondità di
concetto, è stata indiscutibilmente raggiunta tramite l’idea classica
dell’unità del pensiero (o meglio, tutte le sue dibattute varianti). È
possibile dunque che viviamo una tappa fisiologica di quella che è la
naturale evoluzione della nostra civiltà: nondimeno pare fondamentale
preoccuparsi di quale sarà il passo successivo.
Quest’idea, che ha radici profonde nel sentire comune, per
cui la scienza è qualcosa di più vicino alla tecnica (sempre associata
ad una manualità) che alla filosofia naturale, da un lato toglie
prestigio al ruolo intellettuale dello scienziato, dall’altro lo
promuove socialmente (ed economicamente), in una struttura organizzativa
in cui è proprio il sapere tecnico ad essere preponderante. Ma di che
prestigio si tratta? Ovvero: qual è il ruolo dello scienziato nella
società?
Siamo portati a vedere gli scienziati come degli
esperti (depositari di un
sapere accessibile a pochi), a cui fare riferimento per ricevere delle
informazioni in maniera passiva, senza possibilità di interazione o
confronto; ghettizzati culturalmente, e preservati in una formalina
mentale, come una risorsa alla quale si attinge ogni qual volta risulti
utile o necessario. A costoro non è richiesta partecipazione alla vita
sociale, facoltà critica su ciò che fanno, ciò non è nella deontologia
della scienza. Gli si dice: la scienza per la scienza. E loro perseguono
la scienza per la scienza. I capitali investiti sono enormi, enormi gli
interessi economici in gioco, perché scienza vuol dire tecnologia e la
tecnologia è industria. È di gran moda coinvolgere gli scienziati in
dibattiti sulla moralità della scienza (nucleare, ingegneria genetica,
etc. ): ma sin dalle università e dalle accademie, l’atteggiamento
tramandato è di infastidito imbarazzo, come se lo stesso tema non sia un
problema scientifico, ma politico, economico, sociale (insomma umano).
Il risultato dell’impoverimento culturale e morale della
figura dello scienziato, il suo ruolo subalterno da un punto di vista
culturale, ma predominante dal lato socio-economico, ha causato una
lenta ma progressiva deriva nello sviluppo della scienza stessa (non la
scienza, ma la scienza per la
scienza), che, orfana di un pensiero critico globale, si perde in
particolarismi e bugie, propone una visione del mondo frammentata e
disorganica, spesso formulando teorie (troppo spesso scambiate per
verità) incredibili, a cui pure si crede (intellettuali compresi, anzi,
su tutti); e infine con disinvoltura si investono milioni di euro in
tali ricerche. Tutto ciò avendo, volutamente e colpevolmente, relegato
gli studiosi della filosofia naturale, al rango di
esperti, sacerdoti depositari
di una verità data (la verità scientifica). Tutto ciò avendo voluto
separare lo studio della natura dal resto del pensiero, perdendo così la
parte più antica e semplice dello sviluppo della nostra civiltà.
Rinunciando anche alla possibilità di studiare i metodi stessi di
indagine, di interrogarsi sul senso delle teorie scientifiche, di
leggerle soltanto come un quadro possibile per il reale; e come tale
vedere chi le promuove come il depositario di una verità acquisita,
intoccabile e proprio per questo spesso anche mal tollerata (in un
atteggiamento simile a quello che si ha verso l’autorità).
La scienza è una
branca del sapere che non vive di vita propria, eppure si è sviluppata,
oltremodo nel secolo passato, nell’auto-illusione di vivere di vita
propria. Recuperare il valore civile della scienza, il ruolo sociale e
intellettuale dello scienziato, rappresenta una sfida per tutti: per la
cultura, e gli intellettuali tradizionali, che se da un lato devono
rivedere la propria concezione del sapere, decentralizzando la
cosiddetta cultura classica, sviluppando una visione che la vede
complementare ed in perpetuo interscambio con quella
scientifico-tecnologica (la scienza non è modernità più di quanto non lo
sia la letteratura), dall’altro si troverebbero essi stessi investiti di
un nuovo (e quanto giusto) ruolo di responsabilità, partecipando agli
sviluppi della scienza attraverso un confronto continuo, non sui temi
della scienza stessa, ma sulla globale, profonda, visione del mondo;
questo stesso confronto, che inesorabilmente promuove lo scienziato al
ruolo di intellettuale, in quanto non persegue più la scienza per la
scienza, ma la scienza per la conoscenza, contemporaneamente lo chiama
ad assolvere a tutti i doveri civili ed culturali dell’intellettuale. Lo
porta a rientrare nel mondo come parte attiva, a doversi calare nella
totalità del reale, e dovere e volere mediare tra la naturale
specializzazione dei suoi studi ed il senso delle cose.
MAGGIO 2011