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04
Maggio 2011

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Lo scienziato come intellettuale: una nota

Giuseppe Genovese

 

Lo scienziato come intellettuale, il tecnico come scienziato, il tecnico come intellettuale: nulla di più astruso per l’attuale concezione della cultura. Analizziamo qui il primo di questi tre passaggi, certamente il più immediato, atto a rompere lo schema, e togliere l’inerzia necessaria a generare una nuova visione del ruolo del sapere nella società.

È più di un secolo che la cultura e la scienza viaggiano su binari paralleli, ma fortemente distanti. Sono paralleli in quanto entrambe riflesso o espressione delle esigenze della nostra società industriale, consumistica, etc.; distanti, data l’incredibile mancanza di comunicazione tra il ceto degli intellettuali che detengono la cultura (letterati, filosofi, giuristi, artisti) e gli scienziati (similmente al distacco con la classe dirigente politica). Tale comunicazione, quando anche avviene, è naturalmente portata a degenerare ogni messaggio, a creare incomprensioni e insoddisfazione reciproca, con il risultato di un progressivo allontanamento sociale oltreché culturale, tra quelle che vanno diventando sempre più delle caste chiuse e sterili, sorde l’una ai moniti dell’altra.

Nel bagaglio culturale condiviso v’è il ricordo dell’epoca in cui la separazione del sapere non era così marcata. Resta da capire dove nasce questo divide et impera che ha frazionato la sfera del sapere ed isolato i pensatori. Certamente la specializzazione all’origine dell’isolamento nasce dalla concreta esigenza di gestire un patrimonio culturale piuttosto vasto, quale quello della società occidentale agli inizi dell’era industriale. Del resto un simile livello intellettuale, una simile profondità di concetto, è stata indiscutibilmente raggiunta tramite l’idea classica dell’unità del pensiero (o meglio, tutte le sue dibattute varianti). È possibile dunque che viviamo una tappa fisiologica di quella che è la naturale evoluzione della nostra civiltà: nondimeno pare fondamentale preoccuparsi di quale sarà il passo successivo.

Quest’idea, che ha radici profonde nel sentire comune, per cui la scienza è qualcosa di più vicino alla tecnica (sempre associata ad una manualità) che alla filosofia naturale, da un lato toglie prestigio al ruolo intellettuale dello scienziato, dall’altro lo promuove socialmente (ed economicamente), in una struttura organizzativa in cui è proprio il sapere tecnico ad essere preponderante. Ma di che prestigio si tratta? Ovvero: qual è il ruolo dello scienziato nella società?

Siamo portati a vedere gli scienziati come degli esperti (depositari di un sapere accessibile a pochi), a cui fare riferimento per ricevere delle informazioni in maniera passiva, senza possibilità di interazione o confronto; ghettizzati culturalmente, e preservati in una formalina mentale, come una risorsa alla quale si attinge ogni qual volta risulti utile o necessario. A costoro non è richiesta partecipazione alla vita sociale, facoltà critica su ciò che fanno, ciò non è nella deontologia della scienza. Gli si dice: la scienza per la scienza. E loro perseguono la scienza per la scienza. I capitali investiti sono enormi, enormi gli interessi economici in gioco, perché scienza vuol dire tecnologia e la tecnologia è industria. È di gran moda coinvolgere gli scienziati in dibattiti sulla moralità della scienza (nucleare, ingegneria genetica, etc. ): ma sin dalle università e dalle accademie, l’atteggiamento tramandato è di infastidito imbarazzo, come se lo stesso tema non sia un problema scientifico, ma politico, economico, sociale (insomma umano).

Il risultato dell’impoverimento culturale e morale della figura dello scienziato, il suo ruolo subalterno da un punto di vista culturale, ma predominante dal lato socio-economico, ha causato una lenta ma progressiva deriva nello sviluppo della scienza stessa (non la scienza, ma la scienza per la scienza), che, orfana di un pensiero critico globale, si perde in particolarismi e bugie, propone una visione del mondo frammentata e disorganica, spesso formulando teorie (troppo spesso scambiate per verità) incredibili, a cui pure si crede (intellettuali compresi, anzi, su tutti); e infine con disinvoltura si investono milioni di euro in tali ricerche. Tutto ciò avendo, volutamente e colpevolmente, relegato gli studiosi della filosofia naturale, al rango di esperti, sacerdoti depositari di una verità data (la verità scientifica). Tutto ciò avendo voluto separare lo studio della natura dal resto del pensiero, perdendo così la parte più antica e semplice dello sviluppo della nostra civiltà. Rinunciando anche alla possibilità di studiare i metodi stessi di indagine, di interrogarsi sul senso delle teorie scientifiche, di leggerle soltanto come un quadro possibile per il reale; e come tale vedere chi le promuove come il depositario di una verità acquisita, intoccabile e proprio per questo spesso anche mal tollerata (in un atteggiamento simile a quello che si ha verso l’autorità).

La scienza è una branca del sapere che non vive di vita propria, eppure si è sviluppata, oltremodo nel secolo passato, nell’auto-illusione di vivere di vita propria. Recuperare il valore civile della scienza, il ruolo sociale e intellettuale dello scienziato, rappresenta una sfida per tutti: per la cultura, e gli intellettuali tradizionali, che se da un lato devono rivedere la propria concezione del sapere, decentralizzando la cosiddetta cultura classica, sviluppando una visione che la vede complementare ed in perpetuo interscambio con quella scientifico-tecnologica (la scienza non è modernità più di quanto non lo sia la letteratura), dall’altro si troverebbero essi stessi investiti di un nuovo (e quanto giusto) ruolo di responsabilità, partecipando agli sviluppi della scienza attraverso un confronto continuo, non sui temi della scienza stessa, ma sulla globale, profonda, visione del mondo; questo stesso confronto, che inesorabilmente promuove lo scienziato al ruolo di intellettuale, in quanto non persegue più la scienza per la scienza, ma la scienza per la conoscenza, contemporaneamente lo chiama ad assolvere a tutti i doveri civili ed culturali dell’intellettuale. Lo porta a rientrare nel mondo come parte attiva, a doversi calare nella totalità del reale, e dovere e volere mediare tra la naturale specializzazione dei suoi studi ed il senso delle cose.

 

MAGGIO 2011

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