UNA RIVOLUZIONE IMMAGINARIA
Spunti per liberare il corpo ed un
esercizio pratico per tornare a vedere
Ilaria Capalbo
«Ogni grande epoca
ha un suo fine interiore,
dunque una sua
bellezza esteriore.
La bellezza
consiste nell’esprimere la sua interiorità.
Per questo non
bisogna guardare indietro, né valutare
la nuova bellezza
con i metri del passato.
Ogni nuova bellezza
potrebbe sembrare deforme:
ciò che in essa non
ha l’aspetto del passato è brutto.
[…]
L’anima cresce,
come il corpo, con l’esercizio.
Essa cresce, come
il corpo, col movimento.
Il movimento è
vita. La vita è movimento.
Ecco, si svela il
significato, il senso e lo scopo dell’arte.
Tutta la natura,
tutto il mondo, esercitano un’azione sull’anima».
Vasilij Vasil'evič Kandinskij
(Dove va l’arte nuova,
apparso sul quotidiano Odesskie Novosti, 9 novembre 1891)
Quest'articolo prende spunto da alcune riflessioni alle
quali sono approdata subito dopo aver scritto sul corpo e la libertà.
Tutti abbiamo familiarità con il concetto di corpo,
così come quello di mondo. Si tratta di due sistemi la cui
reciproca esistenza viene garantita da entrambi (il corpo esiste in un
certo modo perché è il mondo che glielo richiede, così come il mondo
esiste in un certo modo perché è il corpo che così lo percepisce) e il
cui legame è altrettanto inscindibile quanto necessario. Nell'articolo
“Il tempio abbandonato”[1]
sono stati esplorati estensione e limiti di questo territorio, e si è
mossa una critica alla società occidentale che negli ultimi secoli ha
attuato un vero e proprio esilio del corpo (e dell'esperienza corporea
in tutte le sue forme) a favore invece dell'incorporeità, ovvero
del pensiero. Questa dolorosa separazione del corpo “fisico” e della
parte “mentale” ha portato ad altrettanto dolorose conseguenze, tra cui
la degradazione del corpo a mero “strumento” delle funzioni più
primitive dell'essere umano (privandolo del suo ruolo conoscitivo, un
fondamentale tramite per l'esperienza umana del mondo, dell'altro e
della vita) e l'esaltazione di tutto ciò che dell'uomo è pertinente
all'idea (e all'ideale).
La condizione di spaccatura all'interno dell'unità umana
ha costruito non pochi ostacoli al modo in cui gli individui si mettono
in relazione alla realtà nella quale si trovano a vivere. Al giorno
d'oggi, si vive il corpo come un accidente, e non come l'elemento che,
di fatto, permette a chiunque di intraprendere ogni tipo di azione.
Poiché l'uomo è un complesso ed affascinante insieme di sistemi
percettivi, conoscitivi ed inquisitivi, egli continua a percepire le
voci della realtà, ma in questa sua opera di conoscenza il punto di
vista del corpo è stato dimenticato.
Ritrovare un contatto con il corpo e le sue istanze, e
sviluppare quella che potrebbe essere definita come una coscienza
corporea collettiva potrebbe ben rappresentare un modo radicale di
intendere la realtà e di incidere su di essa in modo proficuo.
L'etica e la dimensione dell'azione (e di conseguenza
dell'impegno) sono due settori che vengono fortemente penalizzati
dall'omissione del corpo nelle attività che riguardano il discernimento,
la critica e soprattutto la responsabilità. Questo tipo di istanze
sembra ormai quasi esclusivamente afferire alla dimensione del pensiero.
Si conosce la realtà grazie all'enorme quantità di media che ci è
messa a disposizione (raramente ormai per esperienza diretta, ciò è
tristemente vero anche nel caso delle relazioni con l'altro grazie alla
diffusione dei social networks), ci si fa un'opinione, spesso si
ricorre a matrici di tipo sociale e culturale per ordinare il flusso di
idee e mettere ognuna nel posto giusto. Talvolta non manca l'intervento
di sistemi più complessi volti alla decodifica della realtà quali
ideologie o dottrine, ugualmente nocive ai fini di una percezione
oggettiva. La strada per la conoscenza è piena di variabili.
Semplicemente, una divisione troppo netta delle parti che
fanno l'essere umano (Platone per primo le scisse definendole corpo
ed anima, ed assegnò a ciascuna di esse un territorio ben
delimitato insieme a compiti specifici) rende difficile capire di cosa
l'essere umano abbia realmente bisogno. Ed essendo il mondo delle
idee incorporeo e spesso soggettivo, anche la percezione di una
dimensione sociale (dunque collettiva) è diventata
estremamente vaga.
Il panorama a cui siamo messi di fronte è quello di
un'umanità disorientata, che è stata progressivamente, nel corso della
storia, privata del suo rapporto con il corpo, ovvero della sua parte
naturale. Con questa mancanza di fondamenta, è facile subire
l'attrazione di qualunque modello venga proposto dall'esterno che rechi
con sé la promessa di un nuovo modo di essere. Non stupisce che
l'odierno sistema economico possa essersi insediato e stabilizzato,
fornendo agli individui un nuovo metodo di decodifica della realtà
fondato su falsi bisogni che vengono percepiti dagli individui
come necessità reali, mettendo al primo posto il consumo e la produzione
di beni. Nell'introduzione al suo volume Il Biocapitalismo, Vanni
Codeluppi descrive l'effetto di sostituzione che il modello
capitalistico ha sul corpo nel modo seguente: «Il biocapitalismo è la
forma più avanzata di evoluzione del modello capitalistico. [...] Il
biocapitalismo produce valore estraendolo, oltre che dal corpo operante
come strumento materiale di lavoro, anche dal corpo inteso nella sua
globalità. Dunque, agisce su tutte le componenti biologiche e sulle
dimensioni mentali, relazionali ed affettive degli individui»[2].
Resta da capire come al giorno d'oggi sia possibile un
ritorno al corpo, che è poi un ritorno ad una percezione oggettiva e
naturale della realtà.
Il ritorno alla percezione. Queste parole danno
l'impressione di stare parlando di un organismo che a lungo è rimasto al
buio, tanto da provocare l'atrofia dei suoi sensi. Quest'interpretazione
purtroppo non è lontana dalla realtà, poiché molti individui, abituati
come sono alla routine ed agli stimoli di cui vengono nutriti dal
sistema di cui fanno parte, sembrano aver perso la capacità di vedere
e di formulare giudizi in base al risultato della loro visione.
Mi occupo di arte, e mi è subito sovvenuto un bellissimo
testo di Rudolf Arnheim, intitolato Arte e Percezione Visiva.
Nell'introduzione, Arnheim scrive che «L'arte è, dopo tutto, il
prodotto di organismi viventi, e perciò probabilmente non dovrebbe
essere né più né meno complessa di questi stessi organismi. Se noi
scorgiamo certe qualità in un'opera d'arte eppure non siamo in grado di
descriverle, la ragione del nostro insuccesso non è dovuta al fatto che
usiamo delle parole per farlo, ma al fatto che i nostri occhi e i nostri
pensieri non riescono a scoprire quei principi che ne sono alla base»[3].
Mi sono soffermata a pensare a questo concetto, applicato non solo
all'opera d'arte ma a tutta la realtà. Mi sono chiesta quanto di fatto
l'arte, ovvero la percezione creativa, collabori alla visione della
realtà. Sorprendentemente, mi sono trovata a scoprire che essa
rappresenta tra tutti forse il contributo più importante.
L'arte è considerata da molti come qualcosa di frivolo, un
contorno all'esistenza umana, nient'altro che uno sfondo interessante su
cui posare gli occhi di tanto in tanto. L'opera d'arte viene solitamente
vista per quello che è, un pezzo di tela o di argilla o di pellicola, ma
raramente si considera ciò che sottende alla sua realizzazione. Un'opera
d'arte è sempre frutto di una visione, a prescindere dal medium
usato o al messaggio che si vuole trasmettere. Ed è il risultato del
punto di vista dell'artista, che egli o ella ha rispetto a qualcosa di
reale. È l'atteggiamento dell'artista che si mette in ascolto della
realtà ciò che rende possibile l'opera, più che la tecnica o il
materiale. Ed è esattamente questo tipo di atteggiamento che rappresenta
quel ritorno al corpo, all'oggettivo, di cui parlavamo poc'anzi.
Un'interpretazione della realtà, anche in forma critica,
passa sempre per la visione. E l'aspetto creativo, che da troppi
è considerato “futile” o “poco reale” (paradossalmente i più grandi
detrattori della creatività sono talvolta coloro che si occupano di
lotta sociale, i quali invece promuovono una visione “impegnata” e
dunque “realistica” di ogni situazione) è invece fondamentale per ogni
tipo di azione, e di rivoluzione. Perché? La creatività parte dalla
realtà, sempre. Parte dalla visione, e dal corpo. E dà alla realtà
un'interpretazione che ne potenzia gli aspetti benefici. L'immaginario
arriva ad una completezza che il simbolico e il reale non ci danno. È
una dimensione dell'essere che permette la creazione di altri mondi
possibili. Quando invece l'immaginario non parte dalla realtà ma da
un'ipotesi, dalla volontà di fuga, dal desiderio di qualcosa che può
essere immaginato ma è troppo lontano dalla situazione reale per
essere messo in pratica, allora condanna chi vi si abbandona ad una vita
di impotenza, frustrazione ed immobilità.
La nostra piccola rivoluzione, la rivoluzione immaginaria,
partirebbe dai fili d'erba, dal'inclinazione della luce al tramonto,
dalla bellezza delle linee che compongono il corpo di una persona amata,
per restituirci una comprensione più profonda di ciò che è realmente
affine alla nostra natura di esseri umani. Ci farebbe vedere che il
mondo che ci circonda non è solo una serie di meccanismi che ci privano
della libertà, ma che siamo noi ad assegnare a tali meccanismi un valore
più alto di quello che assegniamo, ad esempio, alla contemplazione della
bellezza. Ci aiuterebbe nell'esercizio della responsabilità. Certo non
avrebbe un effetto immediato, ma pianterebbe un seme di coscienza e
autodeterminazione in ogni individuo, oltre che riavvicinare lo stesso a
ciò che di più reale vi è in lui. E scusate se è poco.
L'esercizio ce lo regala Paul Klee, esponente
dell'astrattismo e docente alla Bauhaus. È famoso per la grazia
infantile dei suoi disegni, come se riuscisse a mettere sulla tela una
realtà fatta d'incanto.
«Disegniamo un tracciato topografico, un breve viaggio nel
regno di una migliore conoscenza. Superato il punto fermo, si ha la
prima azione motoria (la linea). Dopo poco, una sosta, per riprender
fiato (linea spezzata, ovvero, se ci fermiamo più volte, linea
articolata). Occhiata all'indietro, per vedere quanta strada abbiamo
fatto (contromovimento). Si riflette sulla via da seguire (fascio di
linee). Un fiume vorrebbe ostacolarci il cammino, e noi ci serviamo di
una barca (movimento ondulatorio). Più a monte avremmo trovato un ponte
(arcate).
Al di là del fiume troviamo uno che come noi vuol
raggiungere il luogo di una migliore conoscenza. Dapprima siamo uniti
dalla gioia (convergenza), ma un po' alla volta si manifestano
divergenze. D'ambedue le parti, una certa eccitazione (espressione,
dinamica e psiche della linea).
Attraversiamo un campo non arato (superficie percorsa da
linee), poi un fitto bosco. L'altro si smarrisce, cerca.
Del tutto calmo non sono più neppure io: sopra un nuovo
paesaggio fluviale, grava un banco di nebbia (elemento spaziale) che
però dopo poco si dirada.
Dei canestrai tornano a casa sul loro carro (la ruota);
con loro, un bimbo gaiamente riccioluto (movimento a spirale).
All'orizzonte un lampo (linea a zigzag), ma sul nostro capo ancora
qualche stella (una seminata di punti).
Ben presto siamo alla nostra prima tappa. Prima di
addormentarci, parecchie cose riappariranno sotto forma di ricordi, che
un viaggetto del genere lascia molte impressioni. Le linee più varie;
[…] La serena uniformità del primo tratto, poi gli ostacoli, i nervi! Il
tremito trattenuto, la carezza di augurali venticelli. Prima del
temporale, l'assalto dei tafani! L'ira, la strage.
Le buone cose quale filo conduttore, anche nel folto,
anche nel buio. Il lampo richiamava quel diagramma della febbre. Di un
bambino malato… un tempo»[4].
MAGGIO 2011
[1]
Cfr.
“Il tempio abbandonato. Riflessioni sul corpo, la società e
la libertà”, in Città Future 03.
[2] V.
Codeluppi, Il Biocapitalismo. Bollati Boringhieri,
Milano, 2008, p.15.
[3]
R. Arnheim, Arte e percezione visiva, Feltrinelli,
Milano, 1946, p.13.
[4]
P.
Klee, Confessione creatrice, Abscondita, Milano, 2004,
pag. 15.