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04
Maggio 2011

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UNA RIVOLUZIONE IMMAGINARIA

Spunti per liberare il corpo ed un esercizio pratico per tornare a vedere

Ilaria Capalbo

 

«Ogni grande epoca ha un suo fine interiore,

dunque una sua bellezza esteriore.

La bellezza consiste nell’esprimere la sua interiorità.

Per questo non bisogna guardare indietro, né valutare

la nuova bellezza con i metri del passato.

Ogni nuova bellezza potrebbe sembrare deforme:

ciò che in essa non ha l’aspetto del passato è brutto. […]

L’anima cresce, come il corpo, con l’esercizio.

Essa cresce, come il corpo, col movimento.

Il movimento è vita. La vita è movimento.

Ecco, si svela il significato, il senso e lo scopo dell’arte.

Tutta la natura, tutto il mondo, esercitano un’azione sull’anima».

Vasilij Vasil'evič Kandinskij

(Dove va l’arte nuova, apparso sul quotidiano Odesskie Novosti, 9 novembre 1891)

 

Quest'articolo prende spunto da alcune riflessioni alle quali sono approdata subito dopo aver scritto sul corpo e la libertà.

Tutti abbiamo familiarità con il concetto di corpo, così come quello di mondo. Si tratta di due sistemi la cui reciproca esistenza viene garantita da entrambi (il corpo esiste in un certo modo perché è il mondo che glielo richiede, così come il mondo esiste in un certo modo perché è il corpo che così lo percepisce) e il cui legame è altrettanto inscindibile quanto necessario. Nell'articolo “Il tempio abbandonato”[1] sono stati esplorati estensione e limiti di questo territorio, e si è mossa una critica alla società occidentale che negli ultimi secoli ha attuato un vero e proprio esilio del corpo (e dell'esperienza corporea in tutte le sue forme) a favore invece dell'incorporeità, ovvero del pensiero. Questa dolorosa separazione del corpo “fisico” e della parte “mentale” ha portato ad altrettanto dolorose conseguenze, tra cui la degradazione del corpo a mero “strumento” delle funzioni più primitive dell'essere umano (privandolo del suo ruolo conoscitivo, un fondamentale tramite per l'esperienza umana del mondo, dell'altro e della vita) e l'esaltazione di tutto ciò che dell'uomo è pertinente all'idea (e all'ideale).

La condizione di spaccatura all'interno dell'unità umana ha costruito non pochi ostacoli al modo in cui gli individui si mettono in relazione alla realtà nella quale si trovano a vivere. Al giorno d'oggi, si vive il corpo come un accidente, e non come l'elemento che, di fatto, permette a chiunque di intraprendere ogni tipo di azione. Poiché l'uomo è un complesso ed affascinante insieme di sistemi percettivi, conoscitivi ed inquisitivi, egli continua a percepire le voci della realtà, ma in questa sua opera di conoscenza il punto di vista del corpo è stato dimenticato.

Ritrovare un contatto con il corpo e le sue istanze, e sviluppare quella che potrebbe essere definita come una coscienza corporea collettiva potrebbe ben rappresentare un modo radicale di intendere la realtà e di incidere su di essa in modo proficuo.

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L'etica e la dimensione dell'azione (e di conseguenza dell'impegno) sono due settori che vengono fortemente penalizzati dall'omissione del corpo nelle attività che riguardano il discernimento, la critica e soprattutto la responsabilità. Questo tipo di istanze sembra ormai quasi esclusivamente afferire alla dimensione del pensiero. Si conosce la realtà grazie all'enorme quantità di media che ci è messa a disposizione (raramente ormai per esperienza diretta, ciò è tristemente vero anche nel caso delle relazioni con l'altro grazie alla diffusione dei social networks), ci si fa un'opinione, spesso si ricorre a matrici di tipo sociale e culturale per ordinare il flusso di idee e mettere ognuna nel posto giusto. Talvolta non manca l'intervento di sistemi più complessi volti alla decodifica della realtà quali ideologie o dottrine, ugualmente nocive ai fini di una percezione oggettiva. La strada per la conoscenza è piena di variabili.

Semplicemente, una divisione troppo netta delle parti che fanno l'essere umano (Platone per primo le scisse definendole corpo ed anima, ed assegnò a ciascuna di esse un territorio ben delimitato insieme a compiti specifici) rende difficile capire di cosa l'essere umano abbia realmente bisogno. Ed essendo il mondo delle idee incorporeo e spesso soggettivo, anche la percezione di una dimensione sociale (dunque collettiva) è diventata estremamente vaga.

Il panorama a cui siamo messi di fronte è quello di un'umanità disorientata, che è stata progressivamente, nel corso della storia, privata del suo rapporto con il corpo, ovvero della sua parte naturale. Con questa mancanza di fondamenta, è facile subire l'attrazione di qualunque modello venga proposto dall'esterno che rechi con sé la promessa di un nuovo modo di essere. Non stupisce che l'odierno sistema economico possa essersi insediato e stabilizzato, fornendo agli individui un nuovo metodo di decodifica della realtà fondato su falsi bisogni che vengono percepiti dagli individui come necessità reali, mettendo al primo posto il consumo e la produzione di beni. Nell'introduzione al suo volume Il Biocapitalismo, Vanni Codeluppi descrive l'effetto di sostituzione che il modello capitalistico ha sul corpo nel modo seguente: «Il biocapitalismo è la forma più avanzata di evoluzione del modello capitalistico. [...] Il biocapitalismo produce valore estraendolo, oltre che dal corpo operante come strumento materiale di lavoro, anche dal corpo inteso nella sua globalità. Dunque, agisce su tutte le componenti biologiche e sulle dimensioni mentali, relazionali ed affettive degli individui»[2].

Resta da capire come al giorno d'oggi sia possibile un ritorno al corpo, che è poi un ritorno ad una percezione oggettiva e naturale della realtà.

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Il ritorno alla percezione. Queste parole danno l'impressione di stare parlando di un organismo che a lungo è rimasto al buio, tanto da provocare l'atrofia dei suoi sensi. Quest'interpretazione purtroppo non è lontana dalla realtà, poiché molti individui, abituati come sono alla routine ed agli stimoli di cui vengono nutriti dal sistema di cui fanno parte, sembrano aver perso la capacità di vedere e di formulare giudizi in base al risultato della loro visione.

Mi occupo di arte, e mi è subito sovvenuto un bellissimo testo di Rudolf Arnheim, intitolato Arte e Percezione Visiva. Nell'introduzione, Arnheim scrive che «L'arte è, dopo tutto, il prodotto di organismi viventi, e perciò probabilmente non dovrebbe essere né più né meno complessa di questi stessi organismi. Se noi scorgiamo certe qualità in un'opera d'arte eppure non siamo in grado di descriverle, la ragione del nostro insuccesso non è dovuta al fatto che usiamo delle parole per farlo, ma al fatto che i nostri occhi e i nostri pensieri non riescono a scoprire quei principi che ne sono alla base»[3]. Mi sono soffermata a pensare a questo concetto, applicato non solo all'opera d'arte ma a tutta la realtà. Mi sono chiesta quanto di fatto l'arte, ovvero la percezione creativa, collabori alla visione della realtà. Sorprendentemente, mi sono trovata a scoprire che essa rappresenta tra tutti forse il contributo più importante.

L'arte è considerata da molti come qualcosa di frivolo, un contorno all'esistenza umana, nient'altro che uno sfondo interessante su cui posare gli occhi di tanto in tanto. L'opera d'arte viene solitamente vista per quello che è, un pezzo di tela o di argilla o di pellicola, ma raramente si considera ciò che sottende alla sua realizzazione. Un'opera d'arte è sempre frutto di una visione, a prescindere dal medium usato o al messaggio che si vuole trasmettere. Ed è il risultato del punto di vista dell'artista, che egli o ella ha rispetto a qualcosa di reale. È l'atteggiamento dell'artista che si mette in ascolto della realtà ciò che rende possibile l'opera, più che la tecnica o il materiale. Ed è esattamente questo tipo di atteggiamento che rappresenta quel ritorno al corpo, all'oggettivo, di cui parlavamo poc'anzi.

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Un'interpretazione della realtà, anche in forma critica, passa sempre per la visione. E l'aspetto creativo, che da troppi è considerato “futile” o “poco reale” (paradossalmente i più grandi detrattori della creatività sono talvolta coloro che si occupano di lotta sociale, i quali invece promuovono una visione “impegnata” e dunque “realistica” di ogni situazione) è invece fondamentale per ogni tipo di azione, e di rivoluzione. Perché? La creatività parte dalla realtà, sempre. Parte dalla visione, e dal corpo. E dà alla realtà un'interpretazione che ne potenzia gli aspetti benefici. L'immaginario arriva ad una completezza che il simbolico e il reale non ci danno. È una dimensione dell'essere che permette la creazione di altri mondi possibili. Quando invece l'immaginario non parte dalla realtà ma da un'ipotesi, dalla volontà di fuga, dal desiderio di qualcosa che può essere immaginato ma è troppo lontano dalla situazione reale per essere messo in pratica, allora condanna chi vi si abbandona ad una vita di impotenza, frustrazione ed immobilità.

La nostra piccola rivoluzione, la rivoluzione immaginaria, partirebbe dai fili d'erba, dal'inclinazione della luce al tramonto, dalla bellezza delle linee che compongono il corpo di una persona amata, per restituirci una comprensione più profonda di ciò che è realmente affine alla nostra natura di esseri umani. Ci farebbe vedere che il mondo che ci circonda non è solo una serie di meccanismi che ci privano della libertà, ma che siamo noi ad assegnare a tali meccanismi un valore più alto di quello che assegniamo, ad esempio, alla contemplazione della bellezza. Ci aiuterebbe nell'esercizio della responsabilità. Certo non avrebbe un effetto immediato, ma pianterebbe un seme di coscienza e autodeterminazione in ogni individuo, oltre che riavvicinare lo stesso a ciò che di più reale vi è in lui. E scusate se è poco.

 

L'esercizio ce lo regala Paul Klee, esponente dell'astrattismo e docente alla Bauhaus. È famoso per la grazia infantile dei suoi disegni, come se riuscisse a mettere sulla tela una realtà fatta d'incanto.

 

«Disegniamo un tracciato topografico, un breve viaggio nel regno di una migliore conoscenza. Superato il punto fermo, si ha la prima azione motoria (la linea). Dopo poco, una sosta, per riprender fiato (linea spezzata, ovvero, se ci fermiamo più volte, linea articolata). Occhiata all'indietro, per vedere quanta strada abbiamo fatto (contromovimento). Si riflette sulla via da seguire (fascio di linee). Un fiume vorrebbe ostacolarci il cammino, e noi ci serviamo di una barca (movimento ondulatorio). Più a monte avremmo trovato un ponte (arcate).

Al di là del fiume troviamo uno che come noi vuol raggiungere il luogo di una migliore conoscenza. Dapprima siamo uniti dalla gioia (convergenza), ma un po' alla volta si manifestano divergenze. D'ambedue le parti, una certa eccitazione (espressione, dinamica e psiche della linea).

Attraversiamo un campo non arato (superficie percorsa da linee), poi un fitto bosco. L'altro si smarrisce, cerca.

Del tutto calmo non sono più neppure io: sopra un nuovo paesaggio fluviale, grava un banco di nebbia (elemento spaziale) che però dopo poco si dirada.

Dei canestrai tornano a casa sul loro carro (la ruota); con loro, un bimbo gaiamente riccioluto (movimento a spirale). All'orizzonte un lampo (linea a zigzag), ma sul nostro capo ancora qualche stella (una seminata di punti).

Ben presto siamo alla nostra prima tappa. Prima di addormentarci, parecchie cose riappariranno sotto forma di ricordi, che un viaggetto del genere lascia molte impressioni. Le linee più varie; […] La serena uniformità del primo tratto, poi gli ostacoli, i nervi! Il tremito trattenuto, la carezza di augurali venticelli. Prima del temporale, l'assalto dei tafani! L'ira, la strage.

Le buone cose quale filo conduttore, anche nel folto, anche nel buio. Il lampo richiamava quel diagramma della febbre. Di un bambino malato… un tempo»[4].

 

MAGGIO 2011

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[1] Cfr. “Il tempio abbandonato. Riflessioni sul corpo, la società e la libertà”, in Città Future 03.

[2] V. Codeluppi, Il Biocapitalismo. Bollati Boringhieri, Milano, 2008, p.15.

[3] R. Arnheim, Arte e percezione visiva, Feltrinelli, Milano, 1946, p.13.

[4] P. Klee, Confessione creatrice, Abscondita, Milano, 2004, pag. 15.