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04
Maggio 2011

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MAGHREB

Redazione

 

Nel cercare degli spunti di riflessione sulle sollevazioni giovanili del Maghreb si potrebbe cominciare con l'osservare alcuni caratteri del movimento in corso, con una certa attenzione anche nell'utilizzo dei termini. Intanto prima di parlare di rivoluzione bisognerebbe cercare di avere chiaro che cosa si intenda con questo termine. Nel frattempo parleremo di sollevazione per indicare il vasto ed esplosivo movimento che sta destabilizzando l'equilibrio più che trentennale dell'intera area di riferimento (ed oltre), senza con questo, voler sminuire in nessun modo l'importanza del fenomeno.

 

Lo sforzo analitico da fare implicherebbe un tentativo di rinuncia all'inguaribile razionalismo di cui spesso siamo vittima. Tale razionalismo è circoscritto dalla convinzione che le sollevazioni popolari di massa siano necessariamente il prodotto di una rabbia sociale ragionata cresciuta in ragione delle ingiustizie subite, oppure, il che è più o meno la stessa cosa, che esse siano conseguenza di un arretramento insopportabile delle condizioni economiche. Questo tipo di impostazione si riduce troppo spesso a spiegare tutto con un angolo visuale deformato da una lente esclusivamente economicista, stabilendo una sorta di equazione fra arretramento economico e sollevazione popolare, che anche se è (sempre) elemento presente, non è detto che esso sia quello scatenante. È difficile infatti trovare situazioni in cui non sia possibile rilevare arretramenti nelle condizioni economiche delle classi sfruttate, più difficile capire perché a volte queste producono sollevazioni di massa ed altre volte no.

 

La sopravvalutazione dell'elemento razionale significa che si è portati a credere che una sollevazione di massa sia sempre preceduta da una presa di coscienza delle condizioni insopportabili in cui si versa, vale a dire credere che essa si manifesti come una decisione razionale frutto di un ragionamento sull'iniquità del sistema economico, dando per acquisito un avanzamento delle coscienze, che però non è affatto scontato. Immaginare in questo modo il processo, non permette invece di ragionare su fattori che magari agiscono sulla storia a partire da spinte propulsive invece che negative, intendendo per negative, le capacità critico-razionali di massa rispetto al sistema e che porterebbero dunque a negarlo.

 

Vorremmo, dal canto nostro, suggerire la possibilità di considerare l'eventualità che il motore della sollevazione non sia l'analisi negativa (critico-razionale) di una situazione data, ma la tensione positiva verso uno scenario indefinito coscientemente che però agisce potentemente a livello inconscio. In altri termini che ci si solleva non perché si abbiano finalmente chiari i limiti assurdi che il Capitalismo pone all'esistenza, ma perché si desidera, pur non sapendo come tradurre in realtà questo desiderio, una vita diversa da quella che si vive. In questo modo potrebbe tentarsi un ragionamento a partire dal dato che sia il desiderio il vero motore della sollevazione piuttosto che l'ingiustizia economico-sociale di una certa situazione, pur presente. Che cioè, la spinta a mobilitarsi sia frutto di una volontà di affermazione di sé, altrimenti negata, di una generazione che sente di non poter accettare di perdere il treno della storia nel momento in cui è essa stessa a dover partire per il proprio futuro. Non è un caso, a nostro avviso, che siano i giovani i protagonisti assoluti di questi moti, forti di una potenza desiderante vigorosa.

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Se la massa sociale, come l'inconscio, è instancabilmente produttiva, una sollevazione si rende necessaria quando uno Stato (di fatto) non sia più in grado di incanalare quest'energia sociale, che viene quindi costretta a diventare esplosiva. La differenza che è possibile osservare fra i paesi a capitalismo avanzato (post-fordista e cognitivo) e i paesi a capitalismo “totalitario” e “post-coloniale”, sta forse proprio nella capacità dei primi di generare le condizioni in cui l'energia produttiva della società possa esprimersi più liberamente. Questa capacità non è, beninteso, funzionale a garantire migliori condizioni di vita sociali, ma solo a favorire una migliore socializzazione dell'energia collettiva a fini privati. Sulla scorta degli insegnamenti del fordismo, il quale dovendo garantire nel novecento il tipo umano[1] di operaio adatto all'organizzazione sociale basata sulla catena di montaggio era, per questo, costretto a creare le condizioni di un relativo miglioramento dei salari e di sufficienti garanzie sociali, è plausibile pensare che il post-fordismo fondato sull'appropriazione delle conoscenze sociali (oltre che su tutto il resto), sia per questo stesso motivo costretto a garantire una migliore circolazione delle informazioni e delle risorse intellettuali comuni, una migliore agibilità dei singoli, e quantomeno a non ostacolare questi flussi. Se con il fordismo si trattava di creare una percezione economica del benessere, oggi il problema riguarda la percezione di “libertà”, come presupposto per realizzare un benessere anche economico o addirittura  come suo surrogato.

 

Un capitalismo ipercentralizzato e totalitario, come può essere considerato quello affermatosi sotto i regimi che si osservano in giro per il mondo, e nella fattispecie nel Maghreb, non è per sua natura capace di esistere in contemporanea alla libera circolazione delle idee e delle conoscenze ed è questo suo carattere a porlo fuori dalla storia. Questa circolazione, questo moto incessante, flusso di conoscenze, individui ed energie, se da un lato significa appropriazione indebita di produzione e conoscenza comune da parte del privato, dall'altro significa espressione creativa diffusa, comunque frustrante, comunque limitata, ma in qualche misura possibile. Con tutti i suoi limiti e aberrazioni essa consente un incanalamento positivo delle energie sociali che riescono in tal modo a non accumularsi mai a livelli esplosivi.

 

Il confronto che ha mosso le masse giovanili nel Maghreb oggi è, probabilmente, quello fra questi due mondi, questi due gradi del capitalismo. Si provi a pensare al confronto diretto fra la Tunisia e la Francia, ad esempio, che ha scatenato il primo atto della sollevazione. Una Tunisia che dopo l'indipendenza politica e nonostante essa, ha potuto ritenere le condizioni dei tunisini emigrati in Francia migliori di quelle dei tunisini in patria. Un movimento sembra avere sempre bisogno di una meta, di un obiettivo da raggiungere, perché resta il fatto che si lotta per ciò che si riesce ad immaginare e non per ciò che non si conosce affatto, anche se poi esistono ancora altri fattori, come quello dell'orgoglio e dell'emulazione (se ce l'hanno fatta in Tunisia, possiamo farcela sicuramente anche in Egitto, e in Libia), che si affiancano o si sostituiscono completamente alle motivazioni iniziali, potendo diventare anche l'unico scopo: cacciare il dittatore e basta. Ma per tornare all'origine e cercare di sostanziare l'ipotesi desiderante come innesco dei processi è necessario ricordare un esempio emblematico, anche se per certi versi differente: la caduta del muro di Berlino.

 

Secondo il tipo di lettura proposto, le masse della Germania dell'Est, non determinarono la caduta del regime nel loro paese, perché finalmente consapevoli dei suoi limiti economico-sociali (non ci sarebbero voluti tutti quegli anni per capire che c'era molto più di qualcosa che non andava e non tanto a livello economico), ma molto più probabilmente perché i regimi dell'est persero la loro battaglia politica sul piano della rappresentazione globale. Su questo piano, della rappresentazione, il capitalismo occidentale ha costituito un confronto con il “socialismo reale”, che a livello inconscio è risultato vincente, determinando un moto sociale potentissimo verso di esso. Non importa che infine si trattava di tornare al capitalismo, non è stato questo, probabilmente, il termine della valutazione, che razionalmente non avrebbe retto, importa che in quel momento la Germania dell'est abbia desiderato in massa di poter disporre della libertà di movimento che essa credeva possibile nelle condizioni occidentali e che sapeva impossibile all'Est.

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Non bisogna infatti pensare che il desiderio non possa ingannare, ma questo non toglie che sia esso il motore dei cambiamenti. L'inganno cui ci riferiamo è quello dell'illusorietà della libertà possibile nel capitalismo, al di là della sua apparenza, che è però una conclusione razionalistica, ragionata e non ancora una percezione o un'intuizione affermata e condivisa a livello di massa. Sono ancora in molti ad essere convinti che il capitale sia l'artefice del migliore dei mondi possibili. L'inganno è sempre dietro l'angolo quando tutto si gioca sul piano della rappresentazione e della relativa percezione, che sono i piani scivolosi dell'inconscio. Un po' come quando ci si innamora, non si sa perché, ma accade e alla fine non è una scelta conseguente a valutazioni razionali.

Di passata, è utile notare come la storia abbia perso una grande occasione, quando i paesi del blocco sovietico, che costituivano una grossissima porzione del globo terrestre, non hanno saputo offrire di sé un'immagine desiderabile.

Se il cosiddetto “socialismo reale” fosse stato bello, il capitalismo sarebbe stato già naturalmente superato, probabilmente senza neanche la necessità di una piena presa di coscienza della sua superiorità (sul piano teorico e non storico) da parte dell'umanità. Invece l'incancrenirsi del socialismo reale nei suoi lineamenti storici dello stalinismo, obiettivamente orribili, ha esautorato nei decenni qualsiasi associazione fra l'idea di liberazione e quella forma storica di “alternativa” al capitale. Il capitalismo si rappresenta diversamente da ciò che è (in questo sta la sua forza), ma se il “socialismo reale” non ha saputo essere bello, esso non ha saputo neanche rappresentarsi come tale, risultando in definitiva indesiderabile tanto sul piano della verità storica (in quanto negazione dei suoi stessi presupposti), quanto su quello della propria rappresentazione. Questo ha determinato un ritorno al capitalismo nei paesi dell'ex blocco sovietico (sconfitti ideologicamente) senza considerare la possibilità di un socialismo diverso da quello “reale” e non certo perché il capitalismo possa essere considerato, su un piano ideale, superiore da un punto di vista analitico e razionale.

 

È possibile che oggi assistiamo ad un processo simile nel Maghreb, per cui al di là della valutazione sulla possibilità che una gestione solo un po' meno totalitaria (ma anche più privatistica) delle risorse di Stato sia il miglioramento auspicabile, non c'è dubbio che il confronto inconscio fra il capitalismo cognitivo (leggi libertà di muoversi senza terrore) e quello totalitario dei regimi, sia completamente a sfavore di questi ultimi, per cui il rischio reale è che il movimento maghrebino sia alla fine giocato interamente all'interno di questo orizzonte così angusto. L'angustia dell'orizzonte in gioco è in qualche modo anch'essa percepita dalle stesse masse magrebine, nella misura in cui una loro parte, seppure  molto minoritaria, approfitta del momento di confusione per lasciare le realtà d'origine al loro destino, invece che restarvi per partecipare attivamente all'edificazione di qualcosa di diverso. Questo può essere interpretato come un sintomo di sfiducia nelle reali possibilità rivoluzionarie delle sollevazioni in atto, tanto più se si tratta di riprodurre in ritardo una copia delle “democrazie” in atto nei paesi considerati più “evoluti”. Insomma le possibilità in campo non sembrano essere così entusiasmanti, almeno per il momento.

Allora il problema fondamentale è: come allargare l'orizzonte del desiderio oggi? Come fornire all'inconscio una possibilità di poter tendere a qualcosa di diverso da ciò che esiste in una pura rappresentazione di sé?

 

C'è un'importanza del confronto fra rappresentazioni, che è purtroppo sottovalutata e anche per questo ci si affida alla sola ragione, confidando nell'evidenza dell'irrazionalismo del capitalismo senescente, che però essendo una caratteristica intrinseca del medesimo “oggetto capitalismo” non è ancora la prefigurazione di un “oggetto oltre il capitalismo”. Ma dove si potrà produrre una tale prefigurazione? Qui torna, per altri versi, la centralità di un assioma marxiano che stabiliva la necessità della rivoluzione a partire dalle condizioni dei paesi a capitalismo più evoluto. In sostanza pare che fino a quando lo sviluppo ineguale del capitalismo possa fornire ancora scenari di desiderabilità interni al sistema, è difficile che i movimenti che si daranno riescano poi ad andare oltre al già visto e conosciuto in termini di obiettivi generali, a meno che da qualche parte dove il capitalismo “le ha già provate tutte”, non si produca finalmente un nuovo evento, un nuovo riferimento per tutti. La sincera speranza, in relazione ai movimenti del Maghreb, è quella di essere sonoramente smentiti, ma per il momento ancora non sembra di poter osservare tensioni di cambiamento capaci di portarci tutti altrove.

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Questo perché molto semplicemente, quando i giovani maghrebini, abbiano ottenuto condizioni di agibilità paragonabili a quelli dei giovani “occidentali”, probabilmente sentiranno di aver già vinto e potranno essere tentati di fermarsi, prima ancora di osare di mettere in discussione la proprietà privata delle risorse dei propri paesi, prima ancora di tentare la trasformazione della loro sollevazione contro il regime, in rivoluzione (potremmo dire in “rivoluzione per il socialismo”, ma questo implicherebbe prima che fosse chiaro cosa si intenda per socialismo). La forza di un movimento e la sua determinazione non corrispondono automaticamente alla grandezza degli obiettivi, senza voler significare che anche un grammo di “libertà” in più non sia un obiettivo degno per la lotta. Ma la grandezza degli obiettivi, di contro, non ha forza se non si costituisce come scenario di confronto desiderabile, e perciò vincente, nei confronti del capitalismo.

 

Allora se la mancanza di uno scenario complessivo di superamento del capitalismo non permette una lotta che sia a tutto tondo contro lo sfruttamento privato (diretto o anche mediato pubblicamente) di risorse comuni è difficile aspettarsi questo dalle lotte e perciò il problema della rivoluzione oggi è quello di costruire tale scenario, dove per costruzione sarebbe utile intendere la messa in pratica di organizzazioni concrete di alternative sistemiche in grado di manifestarsi attraverso esperienze e non rappresentazioni. Se la rappresentazione è l'arma vincente del capitale, l'esperienza (e la sua possibilità) è l'arma essenziale contro di esso. Allora o la liberazione dell'energia sociale riesce a trovare applicazione oltre il proprio sfruttamento privato, oppure il capitalismo resta l'unica rappresentazione in grado di canalizzare ed assorbire tale energia a suo giovamento. In realtà non si chiede che questo: che l'industriosità delle masse riesca a promuoversi come fine a se stessa, facendo finalmente meglio tutto ciò che già fa, ma costretta al servizio del capitale e in condizioni surreali.

 

Se le masse come l'inconscio sono instancabilmente produttive, si chiede loro di organizzare da sé la produzione (di merci e di immateriale, in una parola: di valore). Questo può essere definito rivoluzionario. Ma allora non basta far cadere un regime, ma è necessario annullare qualsiasi frustrazione (castrazione) dell'energia creativa, qualsiasi sua irreggimentazione in anguste compatibilità di sistema, in ridicole strettoie proprietarie. Oggi si produce solo il valore che può essere realizzato come profitto, ma il potenziale è molto maggiore. I giovani del Maghreb avranno bisogno di tempo per capire che il passo in avanti che stanno facendo è solo il primo passo di un percorso più lungo. Servirà tempo per capire che aver ottenuto, ad esempio, di poter disporre di internet come si fa negli altri paesi è ancora lontano dall'aver ottenuto di utilizzare internet per organizzare socialmente la produzione cui tutti concorrono, che poter esprimere liberamente un pensiero è ancora lontano da poterlo realizzare, che saper fare molte cose, utilizzando strumenti sofisticati, è ancora lontano da poterli indirizzare ad impieghi utili a tutti, in altri termini che il virtuale non è ancora un reale.

 

Allora una sollevazione ha bisogno anche di tempo per poter divenire una rivoluzione, al di là di un semplice passaggio di potere, mentre la velocità stratosferica degli eventi oggi, sembra voler negare la possibilità di concedere i tempi necessari. Se tre o quattro settimane possono bastare, in alcuni casi, a far cadere un regime che dura da trent'anni, è evidente che esse sono insufficienti a liberare il potenziale creativo enorme di questa massa di giovani. Un tempo fulmineo non può stratificare un'esperienza più complessa. Il fatto stesso che la coscienza possa fare passi da gigante in tre settimane, non significa che l'esperienza segua necessariamente la coscienza. Si può avere perfetta coscienza di una necessità di cui non si possiede alcuna esperienza. E questo è uno dei motivi fondamentali del perché non si dovrebbe sopravvalutare né la razionalità, né il potere della coscienza, che di solito portano a demandare il problema dell'organizzazione della nuova forma di vita sociale a partire dal momento in cui sarà in discussione la vecchia, senza vedere che la vecchia non sarà mai in discussione se non si intravede già la nuova, se l'esperienza è legata solo a vecchie pratiche sociali e per niente a nuovi modi di fare. La rivoluzione deve assumere un carattere di permanenza, per andare fino in fondo e considerato che probabilmente un limite, un fondo, non esiste, la rivoluzione deve diventare un esercizio permanente contro l'insorgere di un potere separato. Questo implica una posizione di avversità non solo al potere del dittatore, ma a qualsiasi potere separato dalla società e dalla produzione di valore sotto qualsiasi forma. Implica la fine dei capi, la fine di chi nel processo produttivo, a tutti i livelli, riveste la funzione esclusiva di impartire ordini e direttive a chi realizza materialmente il valore. Di passata è utile notare come questo significhi tanto essere contro la proprietà privata, quanto essere contro la gestione pubblica del capitale e delle risorse statali (oltre il privato ed il pubblico[2]). Nei regimi maghrebini di cui si parla il ruolo dell'oppressore era giocato quasi interamente dallo Stato, vale a dire dal Pubblico, piuttosto che dal Privato. Le sollevazioni del Maghreb sono prima di tutto rivolte contro il Pubblico (non poi così lontane dall'esempio della Germania Est), mentre come già si inizia ad intravedere, soprattutto in Libia, il Privato si prepara a tornare al centro della scena[3].

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Allora il problema della sollevazione maghrebina è il problema della rivoluzione oggi: l'assenza di un riferimento positivo che sia vincente in un confronto con la rappresentazione capitalistica. La sollevazione del Maghreb, come ogni processo in atto, offre, ci sembra, anche numerosi spunti e indicazioni tattiche di carattere generale.

 

Il movimento nel Maghreb ha mostrato i propri punti di forza nella sua imprevedibilità, che è anche stata la sua incontrollabilità. In questo caso l'imprevedibilità appare legata ad una certa “disorganizzazione”, nel senso che non essendo organizzata secondo schemi tradizionali la sollevazione non poteva essere controllata ed addomesticata in nessun modo. La sua disorganizzazione è in qualche relazione con la mancanza di un'opposizione politica alla quale si riconosceva una certa autorità. Probabilmente se i regimi crollati avessero consentito l'esistenza di un'opposizione politica nei loro paesi (ma allora sarebbero già stati simili ai regimi cosiddetti “democratici”), la stessa presenza dell'opposizione avrebbe fornito un canale di riduzione della rabbia a routine parlamentare, differendo il suo potenziale esplosivo, ammesso che si fossero date le condizioni di un'accumulazione di rabbia sociale. Quindi il paradosso apparente è che la forza esplosiva dei movimenti maghrebini sta nella loro disorganizzazione politica, nel loro essere esterni all'ordine politico parlamentare oltre che al resto. Ma anche che l'opposizione politica parlamentare è dunque vitale per la continuità del potere borghese. Allora sembra che la permanenza di un moto politico deve anche assumere un secondo attributo: l'anti-istituzionalismo. Le istituzioni borghesi servono ad invischiare, a diffondere gestione separata di potere, al fine di creare consenso all'appropriazione privata del valore comune. Il consenso appare per quello che è: la socializzazione della corruzione.

 

Ciò che qui è magari frutto di disorganizzazione politica potrebbe essere considerato come requisito necessario di una cosciente forza politica rivoluzionaria. Una forza politica di rottura dovrebbe allora ispirarsi all'azione senza volto di una massa che autodetermina le tappe del proprio dissenso, capace di scendere in piazza a proprio piacimento, senza attendere nessuna convocazione da parte di “direzioni politiche” qualsiasi. Una massa capace di materializzarsi e smaterializzarsi alla velocità dell'incontrollabilità. Argento vivo, metallo pesante allo stato liquido.

 

Se ci si riflette, anche le manifestazioni politiche cui assistiamo in Italia ultimamente non sono frutto di organizzazione politica. Ad eccezione del sindacato, si sta affermando una tendenza per cui non c'è più nessuna direzione di partito a stabilire o a convocare le manifestazioni, pertanto il partito non è considerato più la sede di un qualche agire politico. Oggi pare addirittura che la riuscita di una manifestazione sia legata indissolubilmente alla sua a-partiticità e non che questo non comporti a sua volta problemi e limiti. Sembra che la (bio)politica non abbia più bisogno dei politici per organizzarsi. Questo assume il carattere della naturale reazione all'immobilismo insopportabile della politica ufficiale costretta in infiniti equilibrismi castranti di natura prettamente elettoralistica. Se questa situazione, come pare, diventa normale, ci troviamo di fronte alla necessità di pensare ad un diverso ambiente di circolazione delle idee politiche rispetto alla tradizionale detenzione da parte dei partiti, del privilegio di essere i depositari delle visioni alternative rispetto allo status quo. In effetti, la sensazione generale è che tali visioni non erano già da un po' più reperibili nei tradizionali contenitori politici. I dirigenti politici credevano di poterne fare a meno, dimenticando che la politica non può rinunciare a ciò che muove il desiderio irriducibile delle masse.

 

Questa “disorganizzazione” non è però ancora assurta a modello organizzativo, nel senso che è ancora frutto di spontaneismo piuttosto che esercito (ed esercizio politico) diffuso e consapevole.

 

L'impossibilità concreta di ricondurre un movimento ad un qualche leader di partito, ad una qualche organizzazione istituzionalizzata, ad un soggetto individuabile, equivale all'impossibilità di esercitare un controllo sul dissenso, all'impossibilità della sua riduzione rappresentativa. In questo requisito, che potremmo definire come capacità di sottrazione al controllo, è possibile intravedere la dirompenza di una forza collettiva selvaggia che richiama alla mente la potenza distruttiva delle rivolte nelle banlieue parigine. Una forza rivoluzionaria ha bisogno di questa potenza e i giovani tunisini, egiziani e libici hanno mostrato che questa forza può essere indirizzata contro il potere costituito.

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Il nesso fra Maghreb e banlieue parigine è solo tattico, nel senso che c'è un'analogia nelle modalità con le quali i gruppi si manifestano nei luoghi, ma in orizzonti di obiettivi abbastanza opposti. Se il Maghreb è mosso dal desiderio di una maggiore libertà, le banlieue erano una manifestazione di pura (e giustificata) rabbia sociale, quasi fine a se stessa, lì sì determinata da un'inaccettabilità di condizioni di vita, di relegamento al margine nel medesimo ambito urbano. Le rivolte parigine rappresentano già la negazione dell'orizzonte delle sollevazioni maghrebine, in quanto sono già la dimostrazione del destino riservato agli immigrati e a tutti gli sfruttati nei paesi a capitalismo evoluto, la mancanza di libertà in un paese “libero”. Le rivolte parigine sono un raro momento di verità sulla desiderabilità del capitalismo post-fordista. Ma come detto le sollevazioni non procedono in effetti sulla scorta della coscienza.

 

Nell'epoca del post-fordismo cognitivo la circolazione delle conoscenze e delle esperienze si fa possibile attraverso internet e la mediazione del pc (strumento totale) strumento di lavoro, ma anche di svago, strumento di creatività e strumento di annullamento della differenza fra tempo di lavoro e tempo di vita. Se i giovani passano la maggioranza del loro tempo davanti ad uno schermo di computer è attraverso questo mezzo che devono poter organizzare la loro politica, il che equivale a dire che è attraverso questo mezzo che devono poter trovare il modo di dare uno scopo sociale al loro tempo e alle loro capacità. Un pc inoltre amplifica oltremodo lo spettro delle cose possibili, che solo qualche anno fa non si potevano fare, e quanto più si può realizzare in potenza, tanto più cresce la frustrazione nel non poterlo fare concretamente. Abbiamo una molteplicità di capacità creative (intese in senso lato) enormemente amplificate dagli strumenti informatici, ma in un contesto sociale che sembra non aver bisogno di tale creatività, e che vuole solo irreggimentarla per poterla sfruttare a suo piacimento.

I giovani sognano di poter realizzare questa loro potenza. Questa creatività supera gli ambiti del profitto economico.

 

Anche qui fintanto che la politica e le sue sedi tradizionali, non siano più stimolanti di ciò che si può pensare di fare con un computer, perché un giovane dovrebbe interessarsi di politica? Il problema non è l'attrazione del computer, spesso comunque senza sbocco sociale, ma il disarmante squallore delle sedi di partito (dove ancora ce ne sono) in cui ad un giovane non viene lasciata possibilità di fare assolutamente niente di utile a sé e agli altri, oltre che a non essere per niente divertente.

 

Oggi una politica fuori da internet è una politica esterna alla vita dei giovani. Ma l'internità ad internet non può essere considerata come una pura presenza di vetrina, dove un partito propaganda le proprie posizioni senza organizzare la propria attività. O internet è strumento di costruzione pratico, luogo di applicazione delle creatività, mezzo politico, o esso non sfugge alla regola della pura rappresentazione. La politica deve essere luogo del fare se vuole canalizzare energie sociali, perché, insistiamo, la società è instancabilmente produttiva. Internet dovrebbe essere considerato come il nuovo “organizzatore collettivo”, attraverso il quale raffinare le modalità di determinazione e partecipazione dei singoli a progetti comuni. Passare dal darsi appuntamento a darsi obiettivi politici, costruendo esperienze di auto-coordinamento, fabbricando pratiche di lavoro collettivo, socializzando ciò che si sa già fare. La (bio)politica non è cosa diversa dall'attività sociale.

 

Queste sono le possibilità di oggi e cresceranno sempre più, alimentando a loro volta il desiderio di massa e la sua potenza.

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In conclusione non sembra inutile soffermarsi su un altro paio di constatazioni possibili.

La strutturazione a rete che di fatto si afferma sempre più come pratica dell'azione collettiva, rappresenta anche altre possibilità, come ad esempio quella del superamento dell'opposizione fra locale e globale. Poter accostare le modalità dei movimenti parigini nelle banlieue, con le manifestazioni studentesche europee e con le sollevazioni contro i regimi del Maghreb (per fare solo alcuni esempi), significa che le pratiche locali efficaci si globalizzano oggi molto velocemente, per cui anche l'agire politico sfuma i propri livelli di intervento lasciando cadere le tradizionali gerarchie fra movimenti considerati nazionali, regionali e cittadini. Ad ognuno di questi livelli è possibile applicare ciò che si impara da altri livelli e nel contempo raffinare le esperienze, al punto che non è più scontato presumere che il livello della politica nazionale sia necessariamente più importante ed efficace del livello della politica locale, o viceversa, dato che i diversi ambiti comunicano strettamente nell'esperienza collettiva. Non si tratta neanche di opporre esperienze tradizionali, come ad esempio quelle sindacali ed operaiste (sempre valide e infine determinanti), contro nuove modalità meno collaudate, dato che anche queste cominciano a marciare in osmosi, si tratta semplicemente di prendere il meglio che dalle diverse pratiche si può ottenere, per costruire una macchina da guerra contro lo Stato privato.

 

Infine la questione della violenza. Come sembrano sterili ed accademici i dibattiti di solo qualche tempo fa sulla non-violenza. Il Maghreb dimostra che la violenza ed il suo utilizzo dipendono semplicemente dalle condizioni in cui si svolgono gli eventi e che quindi l'utilizzo della violenza è un effetto degli eventi e non una loro causa. Laddove i regimi si sono sciolti come neve al sole, non si è data necessità di armare il movimento, tantomeno se ne darà l'occasione se le sollevazioni non evolveranno in rivoluzione per il potere, cosa non affatto scontata. Dove invece (Libia) il regime ha risposto con la forza, il movimento ha reagito nell'unico modo che gli era possibile, armandosi a sua volta, anche se restano grossi squilibri di potenza. La violenza non dipende mai dalle masse, ma sempre dallo Stato, da chi cioè controlla la violenza, tanto che lo Stato si identifica in gran parte con il detentore formale del controllo della violenza. In un processo rivoluzionario, che se tale è sempre volto a distruggere lo Stato, il problema del controllo della violenza è perciò sempre presente.

 

Non è possibile tuttavia pensare ad una rivoluzione in cui la lotta per il controllo della violenza non sia totalmente autonoma. Questa mancanza di autonomia “militare” delle forze in movimento è probabilmente la più evidente censura sul decorso rivoluzionario delle sollevazioni in Egitto e in Libia. Nel primo caso perché la casta militare è rimasta un corpo separato dal resto della società, coprendo il vuoto di potere, che difficilmente cederà in futuro. Nel secondo caso, perché un ad movimento perfino armato, ma incapace di evitare “aiuti” esterni, non sarà concesso, sempre dall'esterno, nessuna vera vittoria, ma solo consensuale subordinazione, con possibilità di marginale partecipazione al restaurato potere privato. Anche qui il controllo della violenza sarà sempre esterno alla società, tanto che sia nazionale tanto che sia internazionale, fino a quando non si possa considerarlo come sottratto ad un corpo sociale specifico.

 

MARZO 2011

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[1] Cfr. A. Gramsci. Quaderno 22 Americanismo e fordismo.

[2] Cfr. «Il Comune di M. Hardt e T. Negri. Uno spettro s'aggira per il globo», in questo stesso numero.

[3] Bisogna infatti sapere che Jamahiriya è l'appellativo con cui, vari anni dopo aver preso il potere, Gheddafi volle ribattezzare la Libia. Quest'appellativo è un neologismo coniato dal termine arabo jamāhīr, che si può tradurre con “masse”. Il significato letterale è dunque “regime delle masse”. Infatti, la Libia è chiamata, per volere di Gheddafi, “Repubblica Socialista Popolare” (per intero “Grande Jamāhīriyya Araba Libica Popolare Socialista”). Fonte: Wikipedia. Ed inoltre che: il governo libico, in base a un sistema noto come Epsa-4, concedeva licenze di sfruttamento alle compagnie straniere che lasciavano alla compagnia statale libica (NOC) la percentuale più alta del petrolio estratto: circa il 90%! I contratti Epsa-4 erano quelli che, su scala mondiale, contenevano i termini più duri per le compagnie petrolifere. Per questo il Consiglio nazionale di transizione ha creato la “Libian Oil Company” destinata a sostituire la NOC, quando i “volenterosi” avranno preso il controllo delle zone petrolifere, con il compito di concedere licenze a condizioni estremamente favorevoli per le compagnie britanniche, francesi e statunitensi. Per lo stesso motivo la Banca Centrale Libica (B.C.L.) che era al 100% di proprietà statale sarà sostituita dalla “Central Bank of Libia” con il compito di gestire i fondi sovrani libici - oltre 150 miliardi di dollari che lo stato libico aveva investito all'estero - e non senza dare un colpo alla Banca africana di investimento; alla Banca centrale africana; al Fondo monetario africano; spianando la strada alle banche d'investimento statunitensi ed europee. Fonte: Il Manifesto del 1° Maggio 2011, «L'attacco a Tripoli? Le strategie della guerra economica».