MAGHREB
Redazione
Nel cercare degli spunti di riflessione
sulle sollevazioni giovanili del Maghreb si potrebbe cominciare con
l'osservare alcuni caratteri del movimento in corso, con una certa
attenzione anche nell'utilizzo dei termini. Intanto prima di parlare di
rivoluzione bisognerebbe
cercare di avere chiaro che cosa si intenda con questo termine. Nel
frattempo parleremo di
sollevazione per indicare il vasto ed esplosivo movimento che sta
destabilizzando l'equilibrio più che trentennale dell'intera area di
riferimento (ed oltre), senza con questo, voler sminuire in nessun modo
l'importanza del fenomeno.
Lo sforzo analitico da fare
implicherebbe un tentativo di rinuncia all'inguaribile razionalismo di
cui spesso siamo vittima. Tale razionalismo è circoscritto dalla
convinzione che le sollevazioni popolari di massa siano necessariamente
il prodotto di una rabbia sociale ragionata cresciuta in ragione delle
ingiustizie subite, oppure, il che è più o meno la stessa cosa, che esse
siano conseguenza di un arretramento insopportabile delle condizioni
economiche. Questo tipo di impostazione si riduce troppo spesso a
spiegare tutto con un angolo visuale deformato da una lente
esclusivamente economicista, stabilendo una sorta di equazione fra
arretramento economico e sollevazione popolare, che anche se è (sempre)
elemento presente, non è detto che esso sia quello scatenante. È
difficile infatti trovare situazioni in cui non sia possibile rilevare
arretramenti nelle condizioni economiche delle classi sfruttate, più
difficile capire perché a volte queste producono sollevazioni di massa
ed altre volte no.
La sopravvalutazione dell'elemento
razionale significa che si è portati a
credere che una sollevazione di massa sia sempre preceduta da una
presa di coscienza delle
condizioni insopportabili in cui si versa, vale a dire credere che essa
si manifesti come una decisione razionale frutto di un
ragionamento sull'iniquità del sistema economico, dando per acquisito un
avanzamento delle coscienze, che però non è affatto scontato. Immaginare
in questo modo il processo, non permette invece di ragionare su fattori
che magari agiscono sulla storia a partire da spinte propulsive invece
che negative, intendendo per negative, le capacità critico-razionali di
massa rispetto al sistema e che porterebbero dunque a
negarlo.
Vorremmo, dal canto nostro, suggerire la
possibilità di considerare l'eventualità che il motore della
sollevazione non sia l'analisi negativa (critico-razionale) di una
situazione data, ma la tensione positiva verso uno scenario indefinito
coscientemente che però agisce
potentemente a livello inconscio.
In altri termini che ci si solleva non perché si abbiano finalmente
chiari i limiti assurdi che il Capitalismo pone all'esistenza, ma perché
si desidera, pur non sapendo come tradurre in realtà questo desiderio,
una vita diversa da quella che si vive. In questo modo potrebbe tentarsi
un ragionamento a partire dal dato che sia
il desiderio il vero motore
della sollevazione piuttosto che l'ingiustizia economico-sociale di una
certa situazione, pur presente. Che cioè, la spinta a mobilitarsi sia
frutto di una volontà di affermazione di sé, altrimenti negata, di una
generazione che sente di non poter accettare di perdere il treno della
storia nel momento in cui è essa stessa a dover partire per il proprio
futuro. Non è un caso, a nostro avviso, che siano i giovani i
protagonisti assoluti di questi moti, forti di una potenza desiderante
vigorosa.
Se la massa sociale, come l'inconscio, è
instancabilmente produttiva, una sollevazione si rende necessaria quando
uno Stato (di fatto) non sia più in grado di incanalare quest'energia
sociale, che viene quindi costretta a diventare esplosiva. La differenza
che è possibile osservare fra i paesi a capitalismo avanzato
(post-fordista e cognitivo) e i paesi a capitalismo “totalitario” e
“post-coloniale”, sta forse proprio nella capacità dei primi di generare
le condizioni in cui l'energia produttiva della società possa esprimersi
più liberamente. Questa capacità non è, beninteso, funzionale a
garantire migliori condizioni di vita sociali, ma solo a favorire una
migliore socializzazione dell'energia collettiva a fini privati. Sulla
scorta degli insegnamenti del fordismo, il quale dovendo garantire nel
novecento il tipo umano[1]
di operaio adatto all'organizzazione sociale basata sulla catena di
montaggio era, per questo, costretto a creare le condizioni di un
relativo miglioramento dei salari e di sufficienti garanzie sociali, è
plausibile pensare che il post-fordismo fondato sull'appropriazione
delle conoscenze sociali (oltre che su tutto il resto), sia per questo
stesso motivo costretto a garantire una migliore circolazione delle
informazioni e delle risorse intellettuali comuni, una migliore
agibilità dei singoli, e quantomeno a non ostacolare questi flussi. Se
con il fordismo si trattava di creare una percezione economica del
benessere, oggi il problema riguarda la percezione di “libertà”, come
presupposto per realizzare un benessere anche economico o addirittura
come suo surrogato.
Un capitalismo ipercentralizzato e
totalitario, come può essere considerato quello affermatosi sotto i
regimi che si osservano in giro per il mondo, e nella fattispecie nel
Maghreb, non è per sua natura capace di esistere in contemporanea alla
libera circolazione delle idee e delle conoscenze ed è questo suo
carattere a porlo fuori dalla storia. Questa circolazione, questo moto
incessante, flusso di conoscenze, individui ed energie, se da un lato
significa appropriazione indebita di produzione e conoscenza comune da
parte del privato, dall'altro significa espressione creativa diffusa,
comunque frustrante, comunque limitata, ma in qualche misura possibile.
Con tutti i suoi limiti e aberrazioni essa consente un incanalamento
positivo delle energie sociali che riescono in tal modo a non
accumularsi mai a livelli esplosivi.
Il confronto che ha mosso le masse
giovanili nel Maghreb oggi è, probabilmente, quello fra questi due
mondi, questi due gradi del capitalismo. Si provi a pensare al confronto
diretto fra
Secondo il tipo di lettura proposto, le
masse della Germania dell'Est, non determinarono la caduta del regime
nel loro paese, perché finalmente consapevoli dei suoi limiti
economico-sociali (non ci sarebbero voluti tutti quegli anni per capire
che c'era molto più di qualcosa che non andava e non tanto a livello
economico), ma molto più probabilmente perché i regimi dell'est persero
la loro battaglia politica sul piano della rappresentazione globale. Su
questo piano, della rappresentazione, il capitalismo occidentale ha
costituito un confronto con il “socialismo reale”, che a livello
inconscio è risultato vincente, determinando un moto sociale
potentissimo verso di esso. Non importa che infine si trattava di
tornare al capitalismo, non è stato questo, probabilmente, il termine
della valutazione, che razionalmente non avrebbe retto, importa che in
quel momento
Non bisogna infatti pensare che il
desiderio non possa ingannare, ma questo non toglie che sia esso il
motore dei cambiamenti. L'inganno cui ci riferiamo è quello
dell'illusorietà della libertà possibile nel capitalismo, al di là della
sua apparenza, che è però una conclusione razionalistica, ragionata e
non ancora una percezione o un'intuizione affermata e condivisa a
livello di massa. Sono ancora in molti ad essere convinti che il
capitale sia l'artefice del migliore dei mondi possibili. L'inganno è
sempre dietro l'angolo quando tutto si gioca sul piano della
rappresentazione e della relativa percezione, che sono i piani scivolosi
dell'inconscio. Un po' come quando ci si innamora, non si sa perché, ma
accade e alla fine non è una scelta conseguente a valutazioni razionali.
Di passata, è utile notare come la
storia abbia perso una grande occasione, quando i paesi del blocco
sovietico, che costituivano una grossissima porzione del globo
terrestre, non hanno saputo offrire di sé un'immagine desiderabile.
Se il cosiddetto “socialismo reale”
fosse stato bello, il capitalismo sarebbe stato già naturalmente superato,
probabilmente senza neanche la necessità di una piena presa di coscienza
della sua superiorità (sul piano teorico e non storico) da parte
dell'umanità. Invece l'incancrenirsi del socialismo reale nei suoi
lineamenti storici dello stalinismo, obiettivamente orribili, ha
esautorato nei decenni qualsiasi associazione fra l'idea di liberazione
e quella forma storica di “alternativa” al capitale. Il capitalismo si
rappresenta diversamente da ciò che è (in questo sta la sua forza), ma
se il “socialismo reale” non ha saputo
essere bello, esso non ha saputo neanche
rappresentarsi come tale, risultando in definitiva indesiderabile
tanto sul piano della verità storica (in quanto negazione dei suoi
stessi presupposti), quanto su quello della propria rappresentazione.
Questo ha determinato un ritorno al capitalismo nei paesi dell'ex blocco
sovietico (sconfitti ideologicamente) senza considerare la possibilità
di un socialismo diverso da quello “reale” e non certo perché il
capitalismo possa essere considerato, su un piano ideale, superiore da
un punto di vista analitico e razionale.
È possibile che oggi assistiamo ad un
processo simile nel Maghreb, per cui al di là della valutazione sulla
possibilità che una gestione solo un po' meno totalitaria (ma anche più
privatistica) delle risorse di Stato sia il miglioramento auspicabile,
non c'è dubbio che il confronto inconscio fra il capitalismo cognitivo
(leggi libertà di muoversi senza terrore) e quello totalitario dei
regimi, sia completamente a sfavore di questi ultimi, per cui il rischio
reale è che il movimento maghrebino sia alla fine giocato interamente
all'interno di questo orizzonte così angusto. L'angustia dell'orizzonte
in gioco è in qualche modo anch'essa percepita dalle stesse masse
magrebine, nella misura in cui una loro parte, seppure
molto minoritaria, approfitta del momento di confusione per
lasciare le realtà d'origine al loro destino, invece che restarvi per
partecipare attivamente all'edificazione di qualcosa di diverso. Questo
può essere interpretato come un sintomo di sfiducia nelle reali
possibilità rivoluzionarie delle sollevazioni in atto, tanto più se si
tratta di riprodurre in ritardo una copia delle “democrazie” in atto nei
paesi considerati più “evoluti”. Insomma le possibilità in campo non
sembrano essere così entusiasmanti, almeno per il momento.
Allora il problema fondamentale è: come
allargare l'orizzonte del desiderio oggi? Come fornire all'inconscio una
possibilità di poter tendere a qualcosa di diverso da ciò che esiste in
una pura rappresentazione di sé?
C'è un'importanza del confronto fra
rappresentazioni, che è purtroppo sottovalutata e anche per questo ci si
affida alla sola ragione, confidando nell'evidenza dell'irrazionalismo
del capitalismo senescente, che però essendo una caratteristica
intrinseca del medesimo “oggetto capitalismo” non è ancora la
prefigurazione di un “oggetto oltre il capitalismo”. Ma dove si potrà
produrre una tale prefigurazione? Qui torna, per altri versi, la
centralità di un assioma marxiano che stabiliva la necessità della
rivoluzione a partire dalle condizioni dei paesi a capitalismo più
evoluto. In sostanza pare che fino a quando lo sviluppo ineguale del
capitalismo possa fornire ancora scenari di desiderabilità interni al
sistema, è difficile che i movimenti che si daranno riescano poi ad
andare oltre al già visto e conosciuto in termini di obiettivi generali,
a meno che da qualche parte dove il capitalismo “le ha già provate
tutte”, non si produca finalmente un nuovo evento, un nuovo riferimento
per tutti. La sincera speranza, in relazione ai movimenti del Maghreb, è
quella di essere sonoramente smentiti, ma per il momento ancora non
sembra di poter osservare tensioni di cambiamento capaci di portarci
tutti altrove.
Questo perché molto semplicemente,
quando i giovani maghrebini, abbiano ottenuto condizioni di agibilità
paragonabili a quelli dei giovani “occidentali”, probabilmente
sentiranno di aver già vinto e potranno essere tentati di fermarsi,
prima ancora di osare di mettere in discussione la proprietà privata
delle risorse dei propri paesi, prima ancora di tentare la
trasformazione della loro sollevazione contro il regime, in rivoluzione
(potremmo dire in “rivoluzione per il socialismo”, ma questo
implicherebbe prima che fosse chiaro cosa si intenda per socialismo). La
forza di un movimento e la sua determinazione non corrispondono
automaticamente alla grandezza degli obiettivi, senza voler significare
che anche un grammo di “libertà” in più non sia un obiettivo degno per
la lotta. Ma la grandezza degli obiettivi, di contro, non ha forza se
non si costituisce come scenario di confronto desiderabile, e perciò
vincente, nei confronti del capitalismo.
Allora se la mancanza di uno scenario
complessivo di superamento del capitalismo non permette una lotta che
sia a tutto tondo contro lo sfruttamento privato (diretto o anche
mediato pubblicamente) di risorse comuni è difficile aspettarsi questo
dalle lotte e perciò il problema della rivoluzione oggi è quello di
costruire tale scenario, dove per costruzione sarebbe utile intendere la
messa in pratica di organizzazioni concrete di alternative sistemiche in
grado di manifestarsi attraverso esperienze e non rappresentazioni. Se
la rappresentazione è l'arma vincente del capitale, l'esperienza (e la
sua possibilità) è l'arma essenziale contro di esso. Allora o la
liberazione dell'energia sociale riesce a trovare applicazione oltre il
proprio sfruttamento privato, oppure il capitalismo resta l'unica
rappresentazione in grado di canalizzare ed assorbire tale energia a suo
giovamento. In realtà non si chiede che questo: che l'industriosità
delle masse riesca a promuoversi come fine a se stessa, facendo
finalmente meglio tutto ciò che già fa, ma costretta al servizio del
capitale e in condizioni surreali.
Se le masse come l'inconscio sono
instancabilmente produttive, si chiede loro di organizzare da sé la
produzione (di merci e di immateriale, in una parola: di valore). Questo
può essere definito rivoluzionario. Ma allora non basta far cadere un
regime, ma è necessario annullare qualsiasi frustrazione (castrazione)
dell'energia creativa, qualsiasi sua irreggimentazione in anguste
compatibilità di sistema, in ridicole strettoie proprietarie. Oggi si
produce solo il valore che può essere realizzato come profitto, ma il
potenziale è molto maggiore. I giovani del Maghreb avranno bisogno di
tempo per capire che il passo in avanti che stanno facendo è solo il
primo passo di un percorso più lungo. Servirà tempo per capire che aver
ottenuto, ad esempio, di poter disporre di internet come si fa negli
altri paesi è ancora lontano dall'aver ottenuto di utilizzare internet
per organizzare socialmente la produzione cui tutti concorrono, che
poter esprimere liberamente un pensiero è ancora lontano da poterlo
realizzare, che saper fare molte cose, utilizzando strumenti
sofisticati, è ancora lontano da poterli indirizzare ad impieghi utili a
tutti, in altri termini che il virtuale non è ancora un reale.
Allora una sollevazione ha bisogno anche
di tempo per poter divenire una rivoluzione, al di là di un semplice
passaggio di potere, mentre la velocità stratosferica degli eventi oggi,
sembra voler negare la possibilità di concedere i tempi necessari. Se
tre o quattro settimane possono bastare, in alcuni casi, a far cadere un
regime che dura da trent'anni, è evidente che esse sono insufficienti a
liberare il potenziale creativo enorme di questa massa di giovani. Un
tempo fulmineo non può stratificare un'esperienza più complessa. Il
fatto stesso che la coscienza possa fare passi da gigante in tre
settimane, non significa che l'esperienza segua necessariamente la
coscienza. Si può avere perfetta coscienza di una necessità di cui non
si possiede alcuna esperienza. E questo è uno dei motivi fondamentali
del perché non si dovrebbe sopravvalutare né la razionalità, né il
potere della coscienza, che di solito portano a demandare il problema
dell'organizzazione della nuova forma di vita sociale a partire dal
momento in cui sarà in discussione la vecchia, senza vedere che la
vecchia non sarà mai in discussione se non si intravede già la nuova, se
l'esperienza è legata solo a vecchie pratiche sociali e per niente a
nuovi modi di fare. La rivoluzione deve assumere un carattere di
permanenza, per andare fino in fondo e considerato che probabilmente un
limite, un fondo, non esiste, la rivoluzione deve diventare un esercizio
permanente contro l'insorgere di un potere separato. Questo implica una
posizione di avversità non solo al potere del dittatore, ma a qualsiasi
potere separato dalla società e dalla produzione di valore sotto
qualsiasi forma. Implica la fine dei capi, la fine di chi nel processo
produttivo, a tutti i livelli, riveste la funzione esclusiva di
impartire ordini e direttive a chi realizza materialmente il valore. Di
passata è utile notare come questo significhi tanto essere contro la
proprietà privata, quanto essere contro la gestione pubblica del
capitale e delle risorse statali
(oltre il privato ed il pubblico[2]).
Nei regimi maghrebini di cui si parla il ruolo dell'oppressore era
giocato quasi interamente dallo Stato, vale a dire dal
Pubblico, piuttosto che dal
Privato. Le sollevazioni del Maghreb sono prima di tutto rivolte
contro il Pubblico (non poi così lontane dall'esempio della Germania
Est), mentre come già si inizia ad intravedere, soprattutto in Libia, il
Privato si prepara a tornare al centro della scena[3].
Allora il problema della sollevazione
maghrebina è il problema della rivoluzione oggi: l'assenza di un
riferimento positivo che sia vincente in un confronto con la
rappresentazione capitalistica. La sollevazione del Maghreb, come ogni
processo in atto, offre, ci sembra, anche numerosi spunti e indicazioni
tattiche di carattere generale.
Il movimento nel Maghreb ha mostrato i
propri punti di forza nella sua imprevedibilità, che è anche stata la
sua incontrollabilità. In questo caso l'imprevedibilità appare legata ad
una certa “disorganizzazione”, nel senso che non essendo organizzata
secondo schemi tradizionali la sollevazione non poteva essere
controllata ed addomesticata in nessun modo. La sua disorganizzazione è
in qualche relazione con la mancanza di un'opposizione politica alla
quale si riconosceva una certa autorità. Probabilmente se i regimi
crollati avessero consentito l'esistenza di un'opposizione politica nei
loro paesi (ma allora sarebbero già stati simili ai regimi cosiddetti
“democratici”), la stessa presenza dell'opposizione avrebbe fornito un
canale di riduzione della rabbia a routine parlamentare, differendo il
suo potenziale esplosivo, ammesso che si fossero date le condizioni di
un'accumulazione di rabbia sociale. Quindi il paradosso apparente è che
la forza esplosiva dei movimenti maghrebini sta nella loro
disorganizzazione politica, nel loro essere esterni all'ordine politico
parlamentare oltre che al resto. Ma anche che l'opposizione politica
parlamentare è dunque vitale per la continuità del potere borghese.
Allora sembra che la permanenza di un moto politico deve anche assumere
un secondo attributo: l'anti-istituzionalismo. Le istituzioni borghesi
servono ad invischiare, a diffondere gestione separata di potere, al
fine di creare consenso all'appropriazione privata del valore comune. Il
consenso appare per quello che è: la socializzazione della corruzione.
Ciò che qui è magari frutto di
disorganizzazione politica potrebbe essere considerato come requisito
necessario di una cosciente forza politica rivoluzionaria. Una forza
politica di rottura dovrebbe allora ispirarsi all'azione senza volto di
una massa che autodetermina le tappe del proprio dissenso, capace di
scendere in piazza a proprio piacimento, senza attendere nessuna
convocazione da parte di “direzioni politiche” qualsiasi. Una massa
capace di materializzarsi e smaterializzarsi alla velocità
dell'incontrollabilità. Argento
vivo, metallo pesante allo stato liquido.
Se ci si riflette, anche le
manifestazioni politiche cui assistiamo in Italia ultimamente non sono
frutto di organizzazione politica. Ad eccezione del sindacato, si sta
affermando una tendenza per cui non c'è più nessuna direzione di partito
a stabilire o a convocare le manifestazioni, pertanto il partito non è
considerato più la sede di un qualche agire politico. Oggi pare
addirittura che la riuscita di una manifestazione sia legata
indissolubilmente alla sua a-partiticità e non che questo non comporti a
sua volta problemi e limiti. Sembra che la (bio)politica non abbia più
bisogno dei politici per organizzarsi. Questo assume il carattere della
naturale reazione all'immobilismo insopportabile della politica
ufficiale costretta in infiniti equilibrismi castranti di natura
prettamente elettoralistica. Se questa situazione, come pare, diventa
normale, ci troviamo di fronte alla necessità di pensare ad un diverso
ambiente di circolazione delle idee politiche rispetto alla tradizionale
detenzione da parte dei partiti, del privilegio di essere i depositari
delle visioni alternative rispetto allo status quo. In effetti, la
sensazione generale è che tali visioni non erano già da un po' più
reperibili nei tradizionali contenitori politici. I dirigenti politici
credevano di poterne fare a meno, dimenticando che la politica non può
rinunciare a ciò che muove il desiderio irriducibile delle masse.
Questa “disorganizzazione” non è però
ancora assurta a modello organizzativo, nel senso che è ancora frutto di
spontaneismo piuttosto che esercito (ed esercizio politico) diffuso e
consapevole.
L'impossibilità concreta di ricondurre
un movimento ad un qualche leader di partito, ad una qualche
organizzazione istituzionalizzata, ad un soggetto individuabile,
equivale all'impossibilità di esercitare un controllo sul dissenso,
all'impossibilità della sua
riduzione rappresentativa. In questo requisito, che potremmo
definire come capacità di
sottrazione al controllo, è possibile intravedere la dirompenza di
una forza collettiva selvaggia che richiama alla mente la potenza
distruttiva delle rivolte nelle banlieue parigine. Una forza
rivoluzionaria ha bisogno di questa potenza e i giovani tunisini,
egiziani e libici hanno mostrato che questa forza può essere indirizzata
contro il potere costituito.
Il nesso fra Maghreb e banlieue parigine
è solo tattico, nel senso che c'è un'analogia nelle modalità con le
quali i gruppi si manifestano nei luoghi, ma in orizzonti di obiettivi
abbastanza opposti. Se il Maghreb è mosso dal desiderio di una maggiore
libertà, le banlieue erano una manifestazione di pura (e giustificata)
rabbia sociale, quasi fine a se stessa, lì sì determinata da
un'inaccettabilità di condizioni di vita, di relegamento al margine nel
medesimo ambito urbano. Le rivolte parigine rappresentano già la
negazione dell'orizzonte delle sollevazioni maghrebine, in quanto sono
già la dimostrazione del destino riservato agli immigrati e a tutti gli
sfruttati nei paesi a capitalismo evoluto, la mancanza di libertà in un
paese “libero”. Le rivolte parigine sono un raro momento di verità sulla
desiderabilità del capitalismo post-fordista. Ma come detto le
sollevazioni non procedono in effetti sulla scorta della coscienza.
Nell'epoca del post-fordismo cognitivo
la circolazione delle conoscenze e delle esperienze si fa possibile
attraverso internet e la mediazione del pc (strumento totale) strumento
di lavoro, ma anche di svago, strumento di creatività e strumento di
annullamento della differenza fra tempo di lavoro e tempo di vita. Se i
giovani passano la maggioranza del loro tempo davanti ad uno schermo di
computer è attraverso questo mezzo che devono poter organizzare la loro
politica, il che equivale a dire che è attraverso questo mezzo che
devono poter trovare il modo di dare uno scopo sociale al loro tempo e
alle loro capacità. Un pc inoltre amplifica oltremodo lo spettro delle
cose possibili, che solo qualche anno fa non si potevano fare, e quanto
più si può realizzare in potenza, tanto più cresce la frustrazione nel
non poterlo fare concretamente. Abbiamo una molteplicità di capacità
creative (intese in senso lato) enormemente amplificate dagli strumenti
informatici, ma in un contesto sociale che sembra non aver bisogno di
tale creatività, e che vuole solo irreggimentarla per poterla sfruttare
a suo piacimento.
I giovani sognano di poter realizzare
questa loro potenza. Questa creatività supera gli ambiti del profitto
economico.
Anche qui fintanto che la politica e le
sue sedi tradizionali, non siano più stimolanti di ciò che si può
pensare di fare con un computer, perché un giovane dovrebbe interessarsi
di politica? Il problema non è l'attrazione del computer, spesso
comunque senza sbocco sociale, ma il disarmante squallore delle sedi di
partito (dove ancora ce ne sono) in cui ad un giovane non viene lasciata
possibilità di fare assolutamente niente di utile a sé e agli altri,
oltre che a non essere per niente divertente.
Oggi una politica fuori da internet è
una politica esterna alla vita dei giovani. Ma l'internità ad internet
non può essere considerata come una pura presenza di vetrina, dove un
partito propaganda le proprie posizioni senza organizzare la propria
attività. O internet è strumento di costruzione pratico, luogo di
applicazione delle creatività, mezzo politico, o esso non sfugge alla
regola della pura rappresentazione. La politica deve essere luogo del
fare se vuole canalizzare energie sociali, perché, insistiamo, la
società è instancabilmente produttiva. Internet dovrebbe essere
considerato come il nuovo “organizzatore collettivo”, attraverso il
quale raffinare le modalità di determinazione e partecipazione dei
singoli a progetti comuni. Passare dal darsi appuntamento a darsi
obiettivi politici, costruendo esperienze di auto-coordinamento,
fabbricando pratiche di lavoro collettivo, socializzando ciò che si sa
già fare. La (bio)politica non è cosa diversa dall'attività sociale.
Queste sono le possibilità di oggi e
cresceranno sempre più, alimentando a loro volta il desiderio di massa e
la sua potenza.
In conclusione non sembra inutile
soffermarsi su un altro paio di constatazioni possibili.
La strutturazione a rete che di fatto si
afferma sempre più come pratica dell'azione collettiva, rappresenta
anche altre possibilità, come ad esempio quella del superamento
dell'opposizione fra locale e globale. Poter accostare le modalità dei
movimenti parigini nelle banlieue, con le manifestazioni studentesche
europee e con le sollevazioni contro i regimi del Maghreb (per fare solo
alcuni esempi), significa che le pratiche locali efficaci si
globalizzano oggi molto velocemente, per cui anche l'agire politico
sfuma i propri livelli di intervento lasciando cadere le tradizionali
gerarchie fra movimenti considerati nazionali, regionali e cittadini. Ad
ognuno di questi livelli è possibile applicare ciò che si impara da
altri livelli e nel contempo raffinare le esperienze, al punto che non è
più scontato presumere che il livello della politica nazionale sia
necessariamente più importante ed efficace del livello della politica
locale, o viceversa, dato che i diversi ambiti comunicano strettamente
nell'esperienza collettiva. Non si tratta neanche di opporre esperienze
tradizionali, come ad esempio quelle sindacali ed operaiste (sempre
valide e infine determinanti), contro nuove modalità meno collaudate,
dato che anche queste cominciano a marciare in osmosi, si tratta
semplicemente di prendere il meglio che dalle diverse pratiche si può
ottenere, per costruire una
macchina da guerra contro lo Stato privato.
Infine la questione della violenza. Come
sembrano sterili ed accademici i dibattiti di solo qualche tempo fa
sulla non-violenza. Il Maghreb
dimostra che la violenza ed il suo utilizzo dipendono semplicemente
dalle condizioni in cui si svolgono gli eventi e che quindi l'utilizzo
della violenza è un effetto degli eventi e non una loro causa. Laddove i
regimi si sono sciolti come neve al sole, non si è data necessità di
armare il movimento, tantomeno se ne darà l'occasione se le sollevazioni
non evolveranno in rivoluzione per il potere, cosa non affatto scontata.
Dove invece (Libia) il regime ha risposto con la forza, il movimento ha
reagito nell'unico modo che gli era possibile, armandosi a sua volta,
anche se restano grossi squilibri di potenza. La violenza non dipende
mai dalle masse, ma sempre dallo Stato, da chi cioè controlla la
violenza, tanto che lo Stato si identifica in gran parte con il
detentore formale del controllo della violenza. In un processo
rivoluzionario, che se tale è sempre volto a distruggere lo Stato, il
problema del controllo della violenza è perciò sempre presente.
Non è possibile tuttavia pensare ad una
rivoluzione in cui la lotta per il controllo della violenza non sia
totalmente autonoma. Questa mancanza di autonomia “militare” delle forze
in movimento è probabilmente la più evidente censura sul decorso
rivoluzionario delle sollevazioni in Egitto e in Libia. Nel primo caso
perché la casta militare è rimasta un corpo separato dal resto della
società, coprendo il vuoto di potere, che difficilmente cederà in
futuro. Nel secondo caso, perché un ad movimento perfino armato, ma
incapace di evitare “aiuti” esterni, non sarà concesso, sempre
dall'esterno, nessuna vera vittoria, ma solo consensuale subordinazione,
con possibilità di marginale partecipazione al restaurato potere
privato. Anche qui il controllo della violenza sarà sempre esterno alla
società, tanto che sia nazionale tanto che sia internazionale, fino a
quando non si possa considerarlo come sottratto ad un corpo sociale
specifico.
MARZO 2011
[1]
Cfr. A. Gramsci. Quaderno
22 Americanismo e fordismo.
[2]
Cfr. «Il Comune di M. Hardt e T. Negri.
Uno spettro s'aggira per il globo», in questo stesso numero.
[3]
Bisogna infatti sapere che
Jamahiriya
è l'appellativo con cui, vari anni dopo aver preso il
potere, Gheddafi volle ribattezzare