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03
Gennaio 2011

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Questione meridionale (recensioni)

NOI CREDEVAMO

«Non finito» risorgimentale.

Alessandro D'Aloia

 

A centocinquanta anni dall'unificazione d'Italia, Mario Martone ci regala una riflessione critica e disincantata sulla storia del Paese. Vale proprio la pena tentare di discutere almeno qualcuno degli innumerevoli spunti che il film offre. Finalmente una lunga narrazione anticelebrativa di un evento, come l'unificazione italiana, pieno di contraddizioni irrisolte.

Il racconto si svolge tutto dalla parte dei protagonisti delle vicende, rimarcando la totale separazione fra chi, parte attiva dei movimenti, il risorgimento lo ha fatto a costo della propria esistenza e chi ne ha estorto frutti e meriti storici senza esservi davvero coinvolto. Il grande tessitore Camillo Benso conte di Cavour, brilla per assenza dalla storia, insieme al grande Generale Garibaldi che nessuno ha mai avuto l'onore di intravedere davvero in qualche scena, giusto come a sottolineare il ruolo dell'individuo nella Storia: laterale. Si dirà: ma come, non sono stati questi eroi nazionali a compiere la grandiosa opera? No, come spesso accade dietro ai pochi nomi che la storiografia ufficiale riesce a digerire c'è il popolo, il genio collettivo, senza identità e volto. Se responsabilità individuali ci sono, queste vanno ricercate sempre e solo nelle inconcludenze e nei sabotaggi dei processi storici. Quello che resta di quest'opera risorgimentale incompiuta è stato realizzato dal fuoco della giovinezza degli innumerevoli rivoluzionari, per l'occasione mazziniani, come Domenico (Lo Cascio), Angelo e Salvatore che nell'unificazione hanno creduto, vedendovi la possibilità di una terra liberata. Mazziniani veri, certamente più di Mazzini (Toni Servillo), se per mazziniano si intende chi voleva l'unità repubblicana, fin da subito. Giovani guidati, purtroppo, da un vecchio (Mazzini appare avanti nell'età rispetto agli altri già all'inizio della narrazione), capace di ritrovare un barlume di rabbia solo in punto di morte, quando fuori tempo massimo decide di chiudere la «fase diplomatica» e passare all'azione, tormentato dai fantasmi dei suoi compagni, lanciati, a migliaia, durante la lunga sconfitta dei repubblicani, in azioni senza via di scampo. Mazzini ovvero la tragedia di un uomo vecchio da giovane e finalmente giovane da vecchio.

L'ingenuo Salvatore, contadino «ignorante» del Sud, resta esterrefatto al cospetto di un Mazzini che in preda ad una sorta di crisi mistica, cerca di giustificare, utilizzando parole che potrebbero appartenere ad un prete, il sacrificio della vita che si chiede a «Procida», nel tentativo delirante di assassinare Carlo Alberto con un pugnale. Il suo intuito di uomo pratico lo rende diffidente rispetto al «grande vate» che gli spiega come ogni cellula dell'organizzazione mazziniana sia sotto il rigido e strettissimo controllo del centro, di un centro che però è fuori dall'Italia e come sempre accade «centrato» altrove dalla lotta.

Salvatore sarà poi assassinato per iniziativa individuale del suo amico Angelo (altro che rigido controllo dall'alto), che lo crede responsabile del fallito attentato a Carlo Alberto non sapendo che è stato Procida stesso a rinunciare al gesto suicida in nome della propria esistenza. Angelo è il modello del militante fanatico che sposa la causa a costo di tutto e che resterà bruciato dal fuoco di quella che più che una scelta ideologica, diventa per lui una passione del tutto fuori controllo. Terrorista a vita e infine traditore egli stesso, per una sorta di contrappasso nell'inferno della sua vita. Nell'ardore di gioventù senza riflessione, l'unica voce razionale viene da Cristina Di Belgioioso, una nobildonna sui generis molto attiva nei circoli cospiratori dell'epoca, alla quale i mazziniani si rivolgono per finanziamenti. Nel tentare di far ragionare il suo inquieto amante (Angelo), lei sostiene che non si fanno rivoluzioni con un manipolo di esaltati che tramano contro il potere ma alle spalle e del popolo, senza preparare le masse ad un nuovo ruolo nella società che si vuole costruire. Nella sua rivendicazione di una necessaria educazione di massa al cambiamento si sentono gli echi precoci del problema fondamentale di tutte le istanze rivoluzionarie, problema peraltro sempre rimasto senza soluzione definitiva e, nella fattispecie, preconizzazione della tragedia subita da Pisacane.

Ma è Domenico a condurci silenziosamente lungo la vicenda della propria sconfitta, che però non è solo sconfitta personale. Sempre distante dai fanatismi mistici e diffidente verso le autorità riconosciute delle varie lobbie del movimento unitario, come ad esempio quello dei monarchici, che disprezza profondamente, è l'unico a guardare negli occhi il popolo e a pensare che questo vada coinvolto direttamente nelle decisioni. Così quando si trova nelle carceri borboniche insieme ai monarchici e ai contadini, non condivide l'esclusione di questi ultimi dalle discussioni politiche, con l'alibi nobiliare che non ci capirebbero niente, ma vorrebbe la loro presenza convinto che potrebbero non solo capire tutto, ma anche dare un contributo alle discussioni. Domenico non condivide la presunta superiorità di classe dei monarchici, ma è sempre solo e in minoranza, costretto a soffrire in privato, anche quando si tratta di capire ormai solo a quale corona affidarsi per il processo unitario. Egli è l'unico a sostenere che il focolaio del processo di unificazione doveva partire dal Sud, che era lo stato preunitario più grande e potente d'Italia e non dal Piemonte e dai Savoia, esponenti di un potere limitato, troppo parziale e specifico, oltre che periferico. Così liberare il meridione dai Borbone equivaleva ad avere metà nazione già unificata e con i mezzi adatti ad estendere la repubblica sul resto del paese. Alla fine il Risorgimento sarà monarchico e settentrionale e non repubblicano e meridionale, ma lui sarà ugualmente in prima linea con il suo fucile, anche quando, già anziano, c'è la possibilità apparente di liberare Roma con le armi al seguito dei garibaldini. Ma anche in quest'avventura è costretto a vedere cose che non vanno, come quando due gendarmi, «dirigenti» garibaldini, riprendono alcuni militanti semplici che ammazzano il tempo, nell'attesa dell'arrivo del generale, inscenando una satira contro alcuni parlamentari venduti, tra i quali Francesco Crispi (Zingaretti), prima cospiratore repubblicano poi convinto parlamentare monarchico. Domenico reagisce all'episodio dicendo: «ma come neanche qui si può parlare liberamente?». Egli è contro la gerarchia, diffidando delle autorità, e vorrebbe tutti uguali almeno nell'esercito volontario delle camice rosse, che accorre ogni volta che si tratta di impugnare le armi a costo della vita. L'avventura rossa finirà sotto il «fuoco amico» dell'esercito italiano che li attacca per metterli in fuga e non farli arrivare a Roma, sotto l'ordine assurdo di Garibaldi di non rispondere al fuoco dell'esercito italiano. La vanità del generale costa la vita a molte camicie rosse. Le azioni dei mazziniani prima e dei garibaldini poi sembrano non avere nessuna utilità pratica se non quella di dare autorità ai vertici di queste stesse organizzazioni, che con le loro azioni sconclusionate vogliono solo dimostrare di avere delle basi militanti sul territorio. La militanza attiva è per i dirigenti soltanto merce di scambio politico.

Martone non vuole scoraggiare gli animi rivoluzionari con l'ennesimo racconto di una storia finita male, infatti il sorriso della madre di Domenico, la quale non parla più da anni, è tutto per lui da sempre in lotta e perdente, piuttosto che per il fratello prete da sempre allineato ma ugualmente sconfitto, poiché ridotto in miseria dal notaio del paese con la requisizione di tutti i beni di famiglia nonostante la sua condizione di uomo di chiesa.

Come a dire: partiamo sconfitti in ogni caso, tanto vale non esserne complici.

Ma il film è coraggioso anche e soprattutto sotto il profilo estetico, capace di tagli sulla contemporaneità a partire dalla sua impostazione teatrale e da film in costume. Una forma da «opera non riuscita» come l'opera storica (il Risorgimento) di cui narra. Così si traballa sulla poltrona quando nella scena sulla decapitazione di Angelo e Felice Orsini (altro carbonaro ex mazziniano messosi in proprio, per azioni terroristiche) a Parigi per il loro «nuovo colpo» volto ad assassinare Napoleone III, anche questo fallito, si vedono delle scale metalliche del tutto «moderne», che stonano con la minuziosa ricostruzione degli ambienti e delle scene. Un taglio folgorante sull'attualità della decapitazione, lì corporale, qui metaforica. Siamo come tanti corpi senza testa che camminano. Ma non finisce qui. Quando Domenico viaggia con il figlio di Salvatore verso gli altri garibaldini, assistiamo esterrefatti ad una sosta sotto una struttura «non finita» in purissimo cemento armato ammuffito. Siamo al Sud, dove di ferri d'armatura svettanti verso il cielo se ne vedono a migliaia, in una terra sospesa a metà di un processo storico non finito. Quei pilastri di cemento armato sono l'immagine della democrazia di oggi, figlia di una pianta innestata con le radici marce per metà secca, per metà carnivora. Una narrazione capace, attraverso espedienti estetici, di attraversare il tempo, in modo del tutto originale e farci riflettere sui guasti odierni con una prospettiva storica, come quando in fuga dal fuoco dell'esercito italiano, sembra di vedere un ragazzo con tutte le caratteristiche di un extracomunitario di oggi (con giubbetto arancione dotato di chiusura lampo), braccato da una legalità violenta e superiore, confondersi con i garibaldini nelle sue stesse condizioni di assoggettamento ad un potere legale mortifero e cieco, del tutto estraneo alla vita. Il potere è sempre esterno e sovrastrutturale rispetto al popolo, sembra volerci suggerire Martone, tanto per gli extracomunitari di oggi quanto per i meridionali di ieri. Sbaglia chi crede di andare a vedere un film rituale, condito da un cast eccezionale, sulla storia risorgimentale, questo è un film sull'Italia di oggi, e sull'estorsione continua, dall'origine all'attualità, della forza vitale di un meridione assoggettato a tradimento.

Probabilmente la chiave di lettura proposta, non è l'unica possibile, ma è certamente plausibile e al di là dell'obiettivo «repubblicano» dei protagonisti, ciò che pare veramente notevole è la considerazione critica rispetto al concetto di democrazia nello stato nazionale, simboleggiata dalla struttura non finita in cemento armato, che è allo stesso tempo visione e realtà e che ci interroga sulla possibilità o meno di poter considerare mai concluso un reale processo democratico. La repubblica italiana è infine sorta più tardi, ma nonostante essa si dia come forma istituzionale, è all'oggi che appartengono le immagini del non finito territoriale, dell'extracomunitario braccato e dei corpi morti senza testa assoggettati ad un potere altrui e violento sempre pronto a ghigliottinare qualsiasi aspirazione di cambiamento reale.

 

DICEMBRE 2010

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