Questione meridionale
(recensioni)
NOI CREDEVAMO
«Non finito» risorgimentale.
Alessandro D'Aloia
A centocinquanta anni dall'unificazione
d'Italia, Mario Martone ci regala una riflessione critica e disincantata
sulla storia del Paese. Vale proprio la pena tentare di discutere almeno
qualcuno degli innumerevoli spunti che il film offre. Finalmente una
lunga narrazione anticelebrativa di un evento, come l'unificazione
italiana, pieno di contraddizioni irrisolte.
Il racconto si svolge tutto dalla parte
dei protagonisti delle vicende, rimarcando la totale separazione fra
chi, parte attiva dei movimenti, il risorgimento lo ha fatto a costo
della propria esistenza e chi ne ha estorto frutti e meriti storici
senza esservi davvero coinvolto. Il grande tessitore Camillo Benso conte
di Cavour, brilla per assenza dalla storia, insieme al grande Generale
Garibaldi che nessuno ha mai avuto l'onore di intravedere davvero in
qualche scena, giusto come a sottolineare il ruolo dell'individuo nella
Storia: laterale. Si dirà: ma come, non sono stati questi eroi nazionali
a compiere la grandiosa opera? No, come spesso accade dietro ai pochi
nomi che la storiografia ufficiale riesce a digerire c'è il popolo, il
genio collettivo, senza identità e volto. Se responsabilità
individuali ci sono, queste vanno ricercate sempre e solo nelle
inconcludenze e nei sabotaggi dei processi storici. Quello che resta di
quest'opera risorgimentale incompiuta è stato realizzato dal fuoco della
giovinezza degli innumerevoli rivoluzionari, per l'occasione mazziniani,
come Domenico (Lo Cascio), Angelo e Salvatore che nell'unificazione
hanno creduto, vedendovi la possibilità di una terra liberata.
Mazziniani veri, certamente più di Mazzini (Toni Servillo), se per
mazziniano si intende chi voleva l'unità repubblicana, fin da subito.
Giovani guidati, purtroppo, da un vecchio (Mazzini appare avanti
nell'età rispetto agli altri già all'inizio della narrazione), capace di
ritrovare un barlume di rabbia solo in punto di morte, quando fuori
tempo massimo decide di chiudere la «fase diplomatica» e passare
all'azione, tormentato dai fantasmi dei suoi compagni, lanciati, a
migliaia, durante la lunga sconfitta dei repubblicani, in azioni senza
via di scampo. Mazzini ovvero la tragedia di un uomo vecchio da giovane
e finalmente giovane da vecchio.
L'ingenuo Salvatore, contadino
«ignorante» del Sud, resta esterrefatto al cospetto di un Mazzini che in
preda ad una sorta di crisi mistica, cerca di giustificare, utilizzando
parole che potrebbero appartenere ad un prete, il sacrificio della vita
che si chiede a «Procida», nel tentativo delirante di assassinare Carlo
Alberto con un pugnale. Il suo intuito di uomo pratico lo rende
diffidente rispetto al «grande vate» che gli spiega come ogni cellula
dell'organizzazione mazziniana sia sotto il rigido e strettissimo
controllo del centro, di un centro che però è fuori dall'Italia e come
sempre accade «centrato» altrove dalla lotta.
Salvatore sarà poi assassinato per
iniziativa individuale del suo amico Angelo (altro che rigido controllo
dall'alto), che lo crede responsabile del fallito attentato a Carlo
Alberto non sapendo che è stato Procida stesso a rinunciare al gesto
suicida in nome della propria esistenza. Angelo è il modello del
militante fanatico che sposa la causa a costo di tutto e che resterà
bruciato dal fuoco di quella che più che una scelta ideologica, diventa
per lui una passione del tutto fuori controllo. Terrorista a vita e
infine traditore egli stesso, per una sorta di contrappasso nell'inferno
della sua vita. Nell'ardore di gioventù senza riflessione, l'unica voce
razionale viene da Cristina Di Belgioioso, una nobildonna sui generis
molto attiva nei circoli cospiratori dell'epoca, alla quale i mazziniani
si rivolgono per finanziamenti. Nel tentare di far ragionare il suo
inquieto amante (Angelo), lei sostiene che non si fanno rivoluzioni con
un manipolo di esaltati che tramano contro il potere ma alle spalle e
del popolo, senza preparare le masse ad un nuovo ruolo nella società che
si vuole costruire. Nella sua rivendicazione di una necessaria
educazione di massa al cambiamento si sentono gli echi precoci del
problema fondamentale di tutte le istanze rivoluzionarie, problema
peraltro sempre rimasto senza soluzione definitiva e, nella fattispecie,
preconizzazione della tragedia subita da Pisacane.
Ma è Domenico a condurci silenziosamente
lungo la vicenda della propria sconfitta, che però non è solo sconfitta
personale. Sempre distante dai fanatismi mistici e diffidente verso le
autorità riconosciute delle varie lobbie del movimento unitario, come ad
esempio quello dei monarchici, che disprezza profondamente, è l'unico a
guardare negli occhi il popolo e a pensare che questo vada coinvolto
direttamente nelle decisioni. Così quando si trova nelle carceri
borboniche insieme ai monarchici e ai contadini, non condivide
l'esclusione di questi ultimi dalle discussioni politiche, con l'alibi
nobiliare che non ci capirebbero niente, ma vorrebbe la loro presenza
convinto che potrebbero non solo capire tutto, ma anche dare un
contributo alle discussioni. Domenico non condivide la presunta
superiorità di classe dei monarchici, ma è sempre solo e in minoranza,
costretto a soffrire in privato, anche quando si tratta di capire ormai
solo a quale corona affidarsi per il processo unitario. Egli è l'unico a
sostenere che il focolaio del processo di unificazione doveva partire
dal Sud, che era lo stato preunitario più grande e potente d'Italia e
non dal Piemonte e dai Savoia, esponenti di un potere limitato, troppo
parziale e specifico, oltre che periferico. Così liberare il meridione
dai Borbone equivaleva ad avere metà nazione già unificata e con i mezzi
adatti ad estendere la repubblica sul resto del paese. Alla fine il
Risorgimento sarà monarchico e settentrionale e non repubblicano e
meridionale, ma lui sarà ugualmente in prima linea con il suo fucile,
anche quando, già anziano, c'è la possibilità apparente di liberare Roma
con le armi al seguito dei garibaldini. Ma anche in quest'avventura è
costretto a vedere cose che non vanno, come quando due gendarmi,
«dirigenti» garibaldini, riprendono alcuni militanti semplici che
ammazzano il tempo, nell'attesa dell'arrivo del generale, inscenando una
satira contro alcuni parlamentari venduti, tra i quali Francesco Crispi
(Zingaretti), prima cospiratore repubblicano poi convinto
parlamentare monarchico. Domenico reagisce all'episodio dicendo:
«ma come neanche qui si può
parlare liberamente?». Egli è contro la gerarchia, diffidando delle
autorità, e vorrebbe tutti uguali almeno nell'esercito volontario delle
camice rosse, che accorre ogni volta che si tratta di impugnare le armi
a costo della vita. L'avventura rossa finirà sotto il «fuoco amico»
dell'esercito italiano che li attacca per metterli in fuga e non farli
arrivare a Roma, sotto l'ordine assurdo di Garibaldi di non rispondere
al fuoco dell'esercito italiano. La vanità del generale costa la vita a
molte camicie rosse. Le azioni dei mazziniani prima e dei garibaldini
poi sembrano non avere nessuna utilità pratica se non quella di dare
autorità ai vertici di queste stesse organizzazioni, che con le loro
azioni sconclusionate vogliono solo dimostrare di avere delle basi
militanti sul territorio. La militanza attiva è per i dirigenti soltanto
merce di scambio politico.
Martone non vuole scoraggiare gli animi
rivoluzionari con l'ennesimo racconto di una storia finita male, infatti
il sorriso della madre di Domenico, la quale non parla più da anni, è
tutto per lui da sempre in lotta e perdente, piuttosto che per il
fratello prete da sempre allineato ma ugualmente sconfitto, poiché
ridotto in miseria dal notaio del paese con la requisizione di tutti i
beni di famiglia nonostante la sua condizione di uomo di chiesa.
Come a dire: partiamo sconfitti in ogni
caso, tanto vale non esserne complici.
Ma il film è coraggioso anche e
soprattutto sotto il profilo estetico, capace di tagli sulla
contemporaneità a partire dalla sua impostazione teatrale e da film in
costume. Una forma da «opera non riuscita» come l'opera storica (il Risorgimento) di cui narra. Così si traballa sulla
poltrona quando nella scena sulla decapitazione di Angelo e Felice
Orsini (altro carbonaro ex mazziniano messosi in proprio, per azioni
terroristiche) a Parigi per il loro «nuovo colpo» volto ad assassinare
Napoleone III, anche questo fallito, si vedono delle scale metalliche
del tutto «moderne», che stonano con la minuziosa ricostruzione degli
ambienti e delle scene. Un taglio folgorante sull'attualità della
decapitazione, lì corporale, qui metaforica. Siamo come tanti corpi
senza testa che camminano. Ma non finisce qui. Quando Domenico viaggia
con il figlio di Salvatore verso gli altri garibaldini, assistiamo
esterrefatti ad una sosta sotto una struttura «non finita» in purissimo
cemento armato ammuffito. Siamo al Sud, dove di ferri d'armatura
svettanti verso il cielo se ne vedono a migliaia, in una terra sospesa a
metà di un processo storico non finito. Quei pilastri di cemento armato
sono l'immagine della democrazia di oggi, figlia di una pianta innestata
con le radici marce per metà secca, per metà carnivora. Una narrazione
capace, attraverso espedienti estetici, di attraversare il tempo, in
modo del tutto originale e farci riflettere sui guasti odierni con una
prospettiva storica, come quando in fuga dal fuoco dell'esercito
italiano, sembra di vedere un ragazzo con tutte le caratteristiche di un
extracomunitario di oggi (con giubbetto arancione dotato di chiusura
lampo), braccato da una legalità violenta e superiore, confondersi con i
garibaldini nelle sue stesse condizioni di assoggettamento ad un potere
legale mortifero e cieco, del tutto estraneo alla vita. Il potere è
sempre esterno e sovrastrutturale rispetto al popolo, sembra volerci
suggerire Martone, tanto per gli extracomunitari di oggi quanto per i
meridionali di ieri. Sbaglia chi crede di andare a vedere un film
rituale, condito da un cast eccezionale, sulla storia risorgimentale,
questo è un film sull'Italia di oggi, e sull'estorsione continua,
dall'origine all'attualità, della forza vitale di un meridione
assoggettato a tradimento.
Probabilmente la chiave di lettura
proposta, non è l'unica possibile, ma è certamente plausibile e al di là
dell'obiettivo «repubblicano» dei protagonisti, ciò che pare veramente
notevole è la considerazione critica rispetto al concetto di democrazia
nello stato nazionale, simboleggiata dalla struttura non finita in
cemento armato, che è allo stesso tempo visione e realtà e che ci
interroga sulla possibilità o meno di poter considerare mai concluso un
reale processo democratico. La repubblica italiana è infine sorta più
tardi, ma nonostante essa si dia come forma istituzionale, è all'oggi
che appartengono le immagini del non finito territoriale,
dell'extracomunitario braccato e dei corpi morti senza testa
assoggettati ad un potere altrui e violento sempre pronto a
ghigliottinare qualsiasi aspirazione di cambiamento reale.
DICEMBRE 2010