IL TEMPIO
ABBANDONATO
Riflessioni sul corpo, la società e la libertà
Ilaria Capalbo
«L’anima è in sommo
grado simile a ciò che è divino, immortale, intelligibile, sempre
identico a se medesimo, mentre il corpo è in sommo grado simile a ciò
che è umano, mortale, multiforme, inintelligibile, dissolubile e mai
identico a se medesimo».
(Platone, Fedone, 80b.)
Quello del corpo è un argomento che può sembrare, al
giorno d’oggi, quantomai inflazionato. Incarnazione di ciò che è
visibile per eccellenza, il corpo si trova infatti da quasi un secolo in
balìa dei cambiamenti che hanno investito la società, in maniera più o
meno manifesta. È stato, nell’ultimo secolo, progressivamente
decodificato secondo definizioni quali
«organismo da sanare, forza-lavoro
da impiegare, carne da redimere, inconscio da liberare, supporto di
segni da trasmettere»[1],
e ad esso sembrano tutt’ora venire assegnati continui significati, ed
affidati innumerevoli messaggi.
Mentre è indubbio che il corpo ha da sempre rappresentato
un impareggiabile veicolo di comunicazione, oltre ad essere simulacro
dell’individuo nella sua complessità, è anche vero che una riflessione
sul corpo e sulla fenomenologia della percezione (così come intesa da
Husserl, cioè un approccio alla filosofia che assegna primaria rilevanza
nell’ambito della conoscenza all'esperienza intuitiva, la quale guarda
ai fenomeni che si presentano a noi come sempre ed indissolubilmente
associati al nostro punto di vista) possono essere utilizzati in una
lettura critica della storia della società occidentale, che passa
inevitabilmente per la scissione delle due entità corpo-spirito e la
negazione e repressione della naturale ambivalenza dell’Io, che è allo
stesso tempo coscienza ed esperienza corporea, fisico ed anima.
Il corpo e il mondo
Scrive Maurice Merleau-Ponty, esponente di primo piano
dell’esistenzialismo del Novecento, che
«se è vero che io ho coscienza del
mio corpo attraverso il mondo, se è vero che esso è, al centro del
mondo, il termine inosservato verso il quale tutti gli oggetti volgono
la loro faccia, è anche vero, per la stessa ragione, che il mio corpo è
il perno del mondo, e in questo senso ho coscienza del mondo per mezzo
del mio corpo»[2].
Di fatto, di tutti gli elementi che compongono l’essere
umano (che la filosofia hanno da sempre cercato di identificare,
talvolta a discapito dell’unità dell’essere), è il corpo quello che ci
mette in connessione con il mondo circostante, ci porta nella realtà e
ci dà modo di interagire con questa. Questa
intenzionalità del corpo, il
suo continuo proiettarsi in un mondo che gli viene continuamente offerto
per il solo fatto di essere venuto
al mondo, si esprime già nell’intervento dei cinque sensi ed in
quella trama senziente fatta di muscoli ed ossa. In questo senso, come
Merleau-Ponty afferma, il corpo è una sorta di «apertura originaria»
dell’individuo verso il mondo, ne è allo stesso tempo abitante e sommo
conoscitore, fautore di quel delicato e partecipato processo che è la
conoscenza.
Si arriva così a determinare un legame tra corpo e mondo
che è biunivoco e indissolubile. Non solo è il corpo che ci dà la
coscienza delle cose, ma esso stesso esiste in un certo modo perché è il
mondo che lo circonda a chiederglielo. Non ci si accorgerebbe, ad
esempio, di avere il senso della vista se non ci fosse la luce
necessaria alla visione, così come non si starebbe in posizione eretta
se il gioco della forza centripeta e di quella di gravità non ce lo
richiedesse, e se il corpo non fosse dotato di uno scheletro osseo e di
muscoli addetti a mantenere tale posizione. In poche parole, quella tra
corpo e mondo non è una relazione opaca, ma «sensuale» e significante.
L’apertura originaria del corpo al mondo assume la
definizione di presenza, che
Merleau-Ponty descrive così nel suo
Fenomenologia della percezione:
«il corpo proprio è nel mondo come
il cuore nell’organismo: mantiene continuamente in vita lo spettacolo
visibile, lo anima e lo alimenta internamente, forma con esso un
sistema»[3].
È precisamente su questo
sistema formato dal legame tra corpo e mondo che vogliamo
interrogarci. Qual è il valore dato al corpo e soprattutto ai suoi
metodi di conoscenza del mondo nella società in cui viviamo oggi? E come
si colloca in questa società il raggio d’azione cha al corpo è dato, per
esercitare la sua funzione conoscitiva?
Il tempio
abbandonato
Viviamo in una società che ha oggettivato il corpo in
tutte le sue possibili accezioni.
Ciò è potuto accadere, nel corso di secoli, perché si è
attuato un distaccamento progressivo (ad opera anche di alcune teorie
filosofiche che hanno dimenticato quasi del tutto l’esperienza corporea,
e che molto hanno influito sul pensiero occidentale) dalla ragione,
dall’intelletto e da tutto ciò che riguarda la sfera del pensiero.
L’Occidente sembra aver costruito un nuovo modo d’essere che è pensiero
incorporeo, che si contrappone al corporeo e perciò distoglie l’uomo da
quella parte di natura che in egli si vivifica, vale a dire il corpo
stesso. In questo senso l’Occidente promuove un modo di vivere che è
contro la natura, al di là
delle più ovvie ed immediate considerazioni riguardo a come lo stile di
vita che va per la maggiore in questo tipo di società sia evidentemente
dannoso per l’ambiente e per la vita in generale.
Il risultato di questo processo è stata la svalutazione
del corpo a favore della ragione (che pure secondo Kant è incompleta,
poiché conosce a priori e
per categorie), dell’opinione,
del pensiero. Scrive Benasayag, filosofo e psicanalista, che
«oggi viviamo il corpo come un accidente e non come un predicato incluso
in noi. Non cessiamo di comprendere delle cose sul mondo in cui viviamo
ma questa comprensione si fonda sulla negazione del punto di vista del
corpo»[4]. Si è
perso il contatto con ciò che di più reale esiste nell’uomo, a favore di
qualcosa di etereo, che proprio in virtù della sua
in-corporeità sembra essere diventato più legittimato a conoscere il
mondo.
Un corpo così svalutato si è ben prestato
all’oggettivazione ed alla strumentalizzazione (quando non allo
sfruttamento vero e proprio) da parte di quelle tecnostrutture che sono
proprie della società in cui viviamo. Anche secondo la psicanalisi, che
pur ne ha ristabilito l’importanza e l’enorme potenziale comunicativo,
il corpo non è che la voce silenziosa (sebbene trovi sempre il modo di
risultare eloquentissima, per carità) di una dimensione psicologica che
è altro dal corpo, tuttavia vi
è strettamente connessa. Ma, come dice Sartre,
«il corpo è l’unico oggetto
psichico»[5],
ed in questo senso la psicanalisi ha fornito una variazione sul tema
della frattura corpo-mente.
Parlando del corpo all’interno dell’odierna società, a
chiunque sia dotato di un minimo senso critico verrà subito in mente la
mercificazione delle forme femminili da parte di media e pubblicità
(ormai senza distinzione), la diffusione di sostanze mirate
all’alterazione se non all’inibizione della capacità percettiva del
corpo, l’introduzione sul mercato di alimenti dannosi per la salute. Chi
si sia poi ulteriormente interrogato sulle problematiche che affliggono
il mondo dei nostri giorni potrebbe inserire in questa «lista nera»
anche la svalutazione del desiderio a mero veicolo di una sessualità
disordinata ed indifferente all’altro, o la produzione di sostanze volte
a «guarire» il corpo, a ridurre e ad eliminare ogni tipo di fastidio
fisico, o a far sì che il corpo diventi più attraente, più snello, più
piacevole secondo i canoni di bellezza di oggi.
Queste azioni intraprese verso il corpo e contro di esso,
incredibilmente deleterie per il genere umano, sono possibili in questa
società perché il corpo ha perso il suo ruolo centrale nell’esistenza
dell’individuo. Il panorama che si presenta è quello di un diffuso
abbandono del corporeo, cioè della realtà, in favore dell’incorporeo, di
ciò che non ha forma, dell’ideale. Un abbandono che non è indifferente
all’oggetto abbandonato, poiché ne presuppone il degrado. L’affermazione
che sta poi alla base di quest’abbandono, ciò che sottende alla
possibilità di ritrovarsi a dover fare i conti con due punti di vista
diversi, quello della mente e quello del corpo, è fallace. L’esperienza
corporea non è scissa da quella dell’intelletto e della ragione, né ha
meno valore dell’altra ai sensi della conoscenza del mondo, né è da
considerarsi retaggio di qualcosa di primitivo (nel senso di
«animalesco») e pertanto poco adatta al sofisticato homo sapiens.
Piuttosto, il corpo è ingenuo.
Ingenuus, ovvero «nativo», «originario», «libero», «naturale».
Trattenersi a riflettere sull’ingenuità del corpo significa riuscire a
vederlo nella sua condizione originale, libera dalle definizioni della
società ed anche dal senso negativo che il termine
ingenuo porta con sé,
ricordando che «il deterioramento
della parola è il sintomo di una perdita, la perdita di una primigenia
innocenza che lo sviluppo della ragione, ruotando su se stessa nel più
iperbolico dei circoli viziosi, finisce col tradire, smascherando il
vuoto che la sottende, per aver obliato il mondo-della-vita. Questo
mondo, prima di ospitare formule e idee, ospita corpi e cose, in quelle
relazioni naturali che solo l’astrattezza del pensiero puro, nella
solitudine del suo isolamento, può giudicare meno reali delle sue
costruzioni»[6].
La libertà del
corpo
Alla luce di queste considerazioni, viene da chiedersi se
oggi il corpo, cioè l’uomo, sia libero o sia semplicemente disponibile
per la manipolazione a opera di quelle
tecnostrutture che sembrano
definire per intero l’ambito delle sue attività e delimitare
rigorosamente l’orizzonte dei suoi possibili progetti. Si tratta della
«macchina» di cui parla Marcuse nel suo
Eros e civiltà, che
contrappone al corpo in una continua azione di dialettica e di scontro:
«Il
corpo contro la «macchina» – non
contro il meccanismo costruito per rendere la vita più sicura e meno
dura, per attenuare la crudeltà della natura, ma contro la macchina che
si è sostituita al meccanismo: la macchina politica, la macchina delle
grandi società industriali, la macchina culturale ed educativa, che
hanno saldato in un tutto razionale bene e male […]. Il corpo contro la
macchina: uomini, donne e bambini che combattono con gli strumenti più
primitivi e tengono in iscacco le macchine più brutali e distruttive di
tutti i tempi»[7].
Qui il corpo, ovvero l’uomo, è ben contrapposto ad
un’altra entità, peraltro incredibilmente minacciosa, meglio
identificata successivamente come il
sistema che fa capo
all’organizzazione della società moderna. Il sistema descritto da
Marcuse (come ogni sovrastruttura della realtà) è un insieme di
significati che sono stati assegnati agli elementi del mondo ed ai
gesti del corpo. Questi significati si sono cristallizzati in regole ben
definite, il cui scopo, nella fattispecie di questo sistema, è quello di
servire al funzionamento di un certo tipo di economia. Le regole hanno
ormai preso il sopravvento sull’operato dell’uomo, e il corretto
andamento di questa «macchina economica» sembra essere così cruciale per
la società che il benessere di coloro che in realtà rendono possibile il
concetto stesso di società è passato in secondo piano. Dunque, se è vero
che l’uomo vive in un mondo dominato da
tecniche che si applicano
per se stesse, da un’economia
che ha progressivamente costruito un set normativo che attiene alla
produzione ed al consumo di merci, alla quantità controllata di tempo
libero e di tempo di lavoro, alla gestione dei beni necessari per
nutrirsi, vestirsi ed usufruire di un tetto, viene da chiedersi come sia
possibile per il corpo dell’uomo gestire il suo spazio di relazione con
il mondo, se è vero, come afferma Marcuse, che
«[…] per tale via
emergono forme di pensiero e di comportamento a una dimensione in cui
idee, aspirazioni e obiettivi che trascendono come contenuto l’universo
costituito dal discorso e dall’azione vengono o respiniti o ridotti ai
termini di questo universo, perché ridefiniti in modo nuovo dalla
razionalità del sistema in atto e dalla sua estensione quantitativa»[8].
Una dimensione, che ingloba ogni aspetto dell’esistenza.
Se la si pensa visivamente, vien facile immaginarsela come una linea
retta orizzontale, infinita, immutata.
La soluzione ultima all’unidimensionalità proposta da
Marcuse sposa l’ideale estetico di Schiller, ed è tesa verso una
liberazione dell’uomo dalla «serietà» della realtà, in modo che questi
possa «giocare» con se stesso, le sue potenzialità e la natura.
Ciò a cui Marcuse auspica è, in sostanza, il ritorno ad
una corporeità naturale, ingenua, libera dalle costrizioni di un sistema
che ne ha fatto una grande vittima. Una corporeità sfaccettata, libera
da accezioni, che viene espressa in un approccio naturale alla vita, e
risuona alla percezione del mondo.
Ma la proposta marcusiana, pur così legata al corpo, non
passa per la liberazione dell’uomo e del suo corpo
all’interno della realtà, poiché ogni azione dell’uomo all’interno
della società in cui egli viene al
mondo equivarrebbe ad un suo ulteriore asservimento alle tecniche di
tale società. Opta piuttosto per una liberazione dell’uomo
dalla realtà, che non conosce altre regole che quelle utili alla
produzione ed al consumo dei beni.
Facendo ciò, Marcuse non si accorge di legarsi
irrimediabilmente a quella concezione di libertà che da Platone a Hegel
è nota come libertà dello spirito,
la cui caratteristica è proprio quella di distogliersi dalla realtà data
per considerare le alternative soppresse. Abbiamo visto tuttavia che il
corpo, e di conseguenza l’uomo, gode (e soffre, in questo caso) di una
relazione indissolubile con la realtà che lo circonda. Auspicare perciò
ad una libertà che sia ab-soluta,
sciolta cioè dalla realtà esistente, sarebbe come negare l’esistenza
dell’uomo in quella realtà. Il pensiero e l’intelletto possono indulgere
nella creazione di un mondo ideale, sentendosene a pieno diritto
creatori ed abitanti, legislatori e cittadini. Ma la libertà dei corpi,
e degli uomini, è libertà in situazione.
La realtà in cui ci troviamo oggi è tutt’altro che
malleabile. Non è incoraggiante pensare che Marcuse abbia usato tinte
cineree per descrivere la trappola di questo sistema in un testo che
risale a quasi cinquant’anni fa, solo immaginando le evoluzioni che la
«macchina» da lui descritta potesse avere. Vero è che l’unidimensionalità,
intesa come l’impossibilità di fuga da un insieme di tecniche che
in-formano la società e tutti
gli individui che vivono all’interno di essa è un concetto che può
benissimo estendersi a qualunque tipo di aggregazione comunitaria in
qualsiasi epoca storica (a scopo illustrativo, fa sempre effetto pensare
alla desolante unidimensionalità della vita delle donne in una qualsiasi
delle società discriminanti e sessiste che sono esistite - e continuano
indisturbate ad esistere - nel corso della storia dell’umanità, a
partire dall’antica Grecia per finire ai liberalissimi tempi moderni)
dove non c’è un’uscita di sicurezza, una formula di
opt-out che non si paghi con
un prezzo troppo salato, che molto spesso menoma i diritti fondamentali
della persona e di frequente ne implica la distruzione.
La novità di questo tempo è che mai, nella sua storia,
l’umanità si è dovuta trovare a fare i conti con un sistema così
sofisticato di regole e di azioni volte a preservare ciò che è invece
così apertamente contro ogni logica di buonsenso, decenza e addirittura
sopravvivenza. Questo sistema (che è interamente basato sull’economia,
dunque su regole che non tengono conto del corpo se non nella sua
capacità di produrre beni o mettere in circolo moneta) ha abolito
l’ostracismo. Ha trovato un posto anche per il dissenso, inserendolo tra
i ranghi dei comportamenti «possibili» all’interno di esso, definendone
le mosse ed il raggio di azione e frustrandolo nelle intenzioni, grazie
a quelle tecniche di manipolazione che sono ormai entrate a far parte
della quotidianità.
Come fare, dunque, a preservare quella libertà che l’uomo
e il suo corpo hanno per natura
in un ambiente che alla libertà è così ostile?
Per trovare una risposta che soddisfi almeno in parte
questa domanda è necessario abbandonare per un attimo il punto di vista
del pensiero astratto, che non trovandosi
in situazione con il mondo
com’è il corpo, si sente limitato da qualsiasi tipo di restrizione
reale. In realtà il problema così affrontato è mal posto. Il corpo non
intrattiene con il mondo un legame di alterità che può essere descritto
come una relazione causa-effetto. La causalità è esattamente il tipo di
relazione con cui l’intelletto, scientificamente, fornisce una
spiegazione a tutte le cose. Ma abbiamo visto come corpo e mondo siano
congiunti piuttosto da una connessione che fornisce a ciascuno la
propria identità, la reciproca
presenza. Ciò ha luogo perché è il corpo, che esistendo al mondo,
attribuisce ad esso e ad i suoi elementi un significato specifico.
Questa è l’essenza del ritorno alla corporeità. Nel
momento in cui la logica del pensiero cade, lasciando spazio alla
constatazione che il corpo non godrà mai della stessa libertà di cui
gode l’intelletto (con il relativo sgomento e sensazione di impotenza
che questa consapevolezza porta con sé), è necessario ristabilire il
contatto con un corpo che è creatore della realtà, in quanto ad essa, e
ad ogni elemento di essa, assegna dei significati. Galimberti spiega
l’attribuzione di significato con quest’efficace similitudine:
«Il suicida che non
vede l’orrore del precipizio non è colui a cui mancano motivi per
respingere la situazione, ma è colui che ha già deciso di percepire
questi motivi come inefficaci, e l’orrore del precipizio come
determinante il suo comportamento futuro. La sua scelta non è tra
possibilità reali, perché nel momento in cui il suicida si affaccia alla
finestra, l’orrore del precipizio è già stato caricato di un significato
che non è più quello di un richiamo alla prudenza, ma di un seducente
invito nel nulla»[9].
Se il corpo è libero in quanto donatore di significato ad
oggetti ed azioni, vuol dire che non c’è limite alla nostra libertà se
non ciò che essa stessa ha determinato come limite nel momento in cui ha
attribuito alle cose il loro significato.
Si può parlare dunque di
coscienza corporea, pertanto originaria e libera dalle costrizioni
della morale di ogni epoca. Una coscienza che è per l’uomo e non
tradisce la sua natura, ed è etica
in quanto coinvolge tutti gli esseri umani sotto il comune denominatore
della loro umanità, mettendo alla base di ogni determinazione la dignità
del corpo. Una coscienza che rivendica il legame con la realtà e la
responsabilità di ogni individuo verso il mondo, poiché non vi è
oggetto esistente o azione compiuta in quel mondo che non passi
attraverso il vaglio della corporeità, della presenza, dell’esistenza.
Lo sviluppo di una coscienza corporea a livello collettivo
è la chiave per estendere il raggio d’azione della libertà del corpo
alla realtà. La consapevolezza del corpo, delle sue potenzialità, di ciò
di cui esso ha bisogno per adempiere al suo ruolo dovrebbero essere
vissuti come gli unici canoni di lettura della realtà, e perciò
determinare le scelte di ogni essere umano.
È questa la sostanza dell’impegno. Il ritorno al corpo,
che poi è un ritorno all’individualità. Scrive Benasayag, a tal
proposito, che
«Il problema
dell’impegno si riassume tutto in questa esigenza: il ritorno al corpo.
L’azione da inventare parte dalla base di un corpo contingente. Non si
tratta di mettere il proprio corpo in gioco in una situazione eroica, ma
di accettare il fatto di essere collocati in una situazione. In altre
parole, porsi questa domanda: siccome mi trovo in una situazione, che
cosa faccio? Si tratta in un certo senso di ridiventare
un’individualità. Nella mia individualità posso occuparmi di tutto il
pianeta e averne una coscienza sempre meno confusa. La via
dell’emancipazione passa oggi di qui: riprendere in mano questa
esperienza fondamentale, il corpo contingente»[10].
Mettere in gioco e in prima linea il corpo, ecco l’etica
dell’impegno. Non c’è situazione a cui non possiamo assegnare un
significato e verso di cui non siamo responsabili, e non c’è evento
deciso da altri che non metta in gioco la nostra scelta, se diventiamo
consapevoli di avere una scelta. Solo nella morte non vi è scelta,
perché, come la nascita, è un evento che viene dall’esterno per
disimpegnare il nostro corpo dal mondo e trasformarlo in pura
esteriorità. Solo qui cessa ogni situazione e ogni libertà. È il
silenzio del corpo.
GENNAIO 2011
[1]
U. Galimberti, Il Corpo,
cap. 8. Pag. 116
[2]
M. Merleau-Ponty,
Fenomenologia della percezione. Pag. 130
[3]
M. Merleau-Ponty,
Fenomenologia della percezione. Pag. 277
[4]
M. Benasayag, Contro il niente. Abc dell’impegno. Pag. 48
[5]
J.P. Sartre, L’essere e il nulla. Pag. 58
[6]
U. Galimberti, Il Corpo.
Pag. 116
[7]
H. Marcuse, Eros e civiltà. Pag. 38
[8]
H. Marcuse, L’uomo a una dimensione. Pag. 32
[9]
U. Galimberti, Il Corpo.
Pag. 218
[10]
M. Benasayag, Contro il
niente, ABC dell’impegno. Pag. 49