Coscienza di classe e consenso oggi
QUATTRO PASSI (Versione completa)
Giulia
Inverardi
Ho curato
attentamente di non deridere, né compiangere, né tanto meno
detestare le azioni umane,
ma di comprenderle[1]
Partiamo
da qui: quattro passi
sull’antica via Valeriana[2].
È una camminata tranquilla, un sentiero qualsiasi. Sicuramente
ne hai uno simile vicino a casa tua: niente salite ripide,
niente tratti accidentati; la via segue il lago, senza perderlo
di vista o arrampicarsi troppo sui monti attorno. È un percorso
distensivo: dopo aver digerito il pranzo della domenica, si
prende una giacca, ci si lasciano alle spalle le tre case tutte
strette fra loro, come pettegole in riunione, e si comincia a
uscire dall’aria bassa. Sei pronto?
Partiamo
da qui: non hai
granché voglia di stare a sentire come vanno le cose, in Italia;
di considerare le ragioni degli scontri avviati dappertutto, da
tutte le categorie sociali, o di concentrarti su quelle
macchinose truffe di cui senti la puzza chimica sempre attorno.
Non hai voglia di sviscerare dati e notizie, anche perché in
proposito hai già le tue idee. Non schermirti o spazientirti;
infondo le cose stanno così, non c’è problema. Sei pronto a
partire?
Immagino: quando qualcuno è certo di poterti spiegare, e lo
pretende, «cosa c’è sotto», «come stanno davvero le cose», un
senso di repulsione ti pulsa per la bocca. Ti pulsa ancora prima
che le frasi siano formulate, prima che scendano in merito: è
l’intenzione di chi parla, la sua aria, a chiuderti stomaco e
orecchie. Ti sembra che le conferenze di questi interlocutori,
le cui facce hanno un'ombra di pericoloso, di insostenibile,
abbiano tutte secondi fini e secondi pregiudizi: sono
programmate solo, da concezioni di partenza, a dimostrare la
stessa partenza, e da quella non prescindono neanche a morire.
Ti sembra soprattutto che siano assurdi, questi dispensatori di
unica verità: si preoccupano di tutto meno che delle persone in
carne ed ossa, oneste, sul tono del
«Io amo l'umanità. È la
gente che non sopporto!»[3]. Sulle nuvole di un mondo
ipotetico, ignorano le situazioni che si possano toccare, quella
dell’uomo della strada. Vogliono parlare del mondo, ma è come se
parlassero di Marte. Ti senti aggredito da loro: allora, abbassi
una saracinesca e su quella le loro parole meccanizzate
scivolano indolori, senza suono.
Qualcuno
ti avrà detto che sei egoista e superficiale, che ignori le tue
responsabilità; se poi invece ti esprimi, che parli per slogan,
che non approfondisci. Io posso confidarti solo che la prima
nausea la conosco anch’io. A me capita così: sono gettata sul
letto, in quell’ora quando il giorno è già andato e la sera non
riserverà rivelazioni o rivoluzioni per te, e non penso a un
problema preciso, ma cerco di tener insieme pezzi di
significato, e troppe cose nella mia vita non vanno come voglio,
mi sento imprigionata, assediata dalle cose che si vogliono da
me, che non si lasciano capire, mi sento non all’altezza,
affogare. In quei momenti, sentir parlare di qualsiasi alta
questione mi urta come un’invasione senza senso. Come è inutile
tutto!, inutile e irritante, ogni considerazione di qualsiasi
avvenimento, se non so nemmeno come tirare a domani, non so
nemmeno se riesco a finire un respiro? Non mi chiedo se sono
egoista, superficiale; c'è solo una voce che dentro mi parla,
lettere scandite e lente, inequivocabile: devo prendere un capo
della matassa mia. I fumi dei fatti importanti, le inafferrabili
dinamiche del potere, e le questioni esistenziali, politiche,
sociali, beh, non esistono o stanno oltre me, le ho già decise e
inchiodate oltre il lago nel quale affogo: io devo solo
concentrarmi per stare a galla, secondo per secondo, respiro per
respiro, secondo per secondo. Tutto il resto è una scenetta
oziosa a teatro, e riguardo a tutto il resto devo avere idee
oltre me, di pietra[4].
La
prima tappa, se ti va
di fare quattro passi con me, è qui, alla «Casa Rossa», come la
chiamano nei paesi attorno: dalla panchina che le sta davanti si
vede ancora la la «pancia» del lago, di là; è una vista che
entrandoti dagli occhi ti allarga il petto con il lago più
grande di te, e pacifica. È bello, vero? Non c’è niente, niente
di più bello del lago.
La
prima tappa, è qui, è
che tu ti fidi di alcune cose. Io non sono l’illuminata dal
Signore, né voglio esserlo. Non cerco la luce riflessa dei
discorsi impegnati. Nessun politico, storico, statista o sistema
mi ha messa in una forma. Non mi sento investita di una missione
di salvazione del mondo. Non amo a priori l’umanità, provo da un
po’ a pensare alla gente. E la gente ora non mi preme proprio di
giudicarla, non miro a giudicare niente e nessuno: te o tuo
padre; il tuo voto politico o la tua religione; il motivo,
l'occasione o il modo in cui le tue convinzioni si sono formate;
come impieghi il tuo tempo, le tue facoltà intellettive, i tuoi
soldi. So che al tuo fondo intimo non posso accedere, so che
ogni persona ha i suoi perché, belli perché segreti.
Soprattutto: non voglio cambiare forzatamente quanto detto
sopra. Non voglio insegnarti nulla, mi ha convinta l’idea che
«nessuno educa nessuno,
come nemmeno nessuno si educa da solo. L’umanità si educa in
comunità, insieme nel mondo»[5].
Qua in questi passi, si parla personalmente di fatti
importanti, non d’aria fritta o drammatica. È come quando con
amici te ne stai in quel bar, e arrivi a parlare senza ansia, di
te e del tuo. In definiva, quel che mi preme è questo: capire[6].
Solo per questo ho voglia di camminare con te.
Ti
spiego il percorso, facendoti un esempio.
Ad un
bar di Iseo, sul lago, un sabato sera, sono seduta con una
persona; in questa occasione scherziamo soprattutto, ma in altre
capita che il senso di dissenso, o il dover aprire gli occhi per
quanto uno dei due ha detto, o lo spaesamento nel dibattere, sia
così bruciante da far sudare gli occhi.
Dietro
di noi c’è una coppia, non li vedo, ma dalle voci posso capire
che sono giovani, avranno la mia età. Parlano anche loro. Il
ritmo e il tono però restano sempre identici, come una piccola
mitragliatrice umana, anche quando il volume della voce si alza.
Ecco
quello che sento:
«Quei sei sulla gru ci costano 25.000 € al giorno…ma oh!»[7]
«Dovremmo tirarli giù a
sassate…»
C’è
qualcosa di rituale, nella cadenza. Sembra che i due cementino
l’inattaccabilità delle parole nello specchio della faccia
accesa dell’altro.
«Hai proprio ragione…Come a
Napoli…Poi noi paghiamo per pulirgli le strade, mentre là loro
smerdano tutto, ma è che proprio loro non hanno il senso della
pulizia…»
«Finisce che paghiamo sempre
noi, come a Roma! Chi paga a Roma per i danni di quegli
studenti? Vorrei vedere io se spaccassero le loro di vetrine!»
«Ma quelli non han niente da
fare tutto il giorno…roba da matti…io li manderi in miniera!»
«Ma sai che sono già stati
assolti!»
«Eh, ma guarda che comunque non
avrebbero fatto nemmeno due giorni di carcere, tra buona
condotta e stronzate simili…»
«Hai ragione, è uno schifo! E
noi dovremmo rispettare i giudici, fidarci di loro! Io ci sputo
sopra a quella magistratura!»
«Brava! Quanto hai ragione!»
«Eh beh, io dico quello che
penso!».
Mentre
camminiamo, vorrei dirti cosa suscita in me l’ascolto di frasi
simili: all’inizio solo ira, perché come si può limitare la
propria presa di posizione, la propria bella voglia di
intervenire sul mondo, al ripetere suoni? Senza declinare le
situazioni, senza vedere il contesto, senza sapere così tante
cose o senza volerle collegare, rendere valide? In un secondo
momento, vago per la stanza da un lato all’altro, mi prende la
tristezza e cerco geometrie che la sopiscano. Infine, mi fermo
con gli occhi vuoti: né arrabbiarsi, né giudicare, né essere
tristi ha senso. Mi rendo conto che il mio Paese è allo sfascio
completo, uno sfascio mai visto, e che niente di quel che mi
viene spontaneo - rabbia, tristezza, indignazione - è utile.
L’esempio è per farti capire che non voglio altro che capire.
La
seconda tappa, a
questa svolta nella strada, è intima: i bassi alberi di castagno
si prendono i rami, e il tunnel sotto di loro respira un’aria
arancione come le foglie, da fiaba o da ultraterreno.
La
seconda tappa te la
racconto, perché è personale: vorrei farti vedere qualcosa di
me, diciamo col cuore in mano, ma meno retoricamente, e
brevemente. Non ti voglio sfiancare, anche perché se decidessi
di tornare indietro, forse ora ti perderesti, o ti chiederesti
se più in là ci sarebbe stato qualcosa di interessante, per te.
Da
piccola odiavo la politica. Tutti la odiavano, per verità
universale: la politica è una faccenda sporca di sotterfugi e
tangenti, dietro sorrisi ideologici, quanto più lontana dagli
uomini. Crescendo, ho iniziato a far caso a qualche frase e
idea, ma solo nei due mesi che precedevano le elezioni, per il
vago sentore che fosse importante scegliere, anche «il male
minore». Oggi, penso che la politica italiana ospiti «mali
maggiori», «mali minori» e pochi uomini almeno limpidi; anche,
che sia giunta ad uno stadio di putredine e «malizia» non
immaginabili anche solo vent'anni fa. Ad oggi ho focalizzato,
dopo molti fuori percorso, una manciata di principi miei
autenticamente, pilastri del mio modo di intendere azioni e
idee, sullo scacchiere della realtà. Sono i luoghi in cui il mio
impulso incontra la mia ragione. Cerco invece di scovare ed
evitare gli a priori, anche quelli più seducenti per me, che
sono ben diversi da quei pochi pilastri: la destra la sinistra,
il giusto lo sbagliato, il bianco il nero. Mi piace, a questo
proposito, Albert Camus, e le sue tranquille confessioni che
rispecchiano una mente libera[8],
anche perché la libertà di scelta è proprio ciò che dà valore
alla scelta stessa. Raramente qualche politico si fa portavoce
di un mio principio o sente il dovere di aiutarmi a comprendere,
a farmi un’opinione attorno ad un tema essenziale, fornendomi
dati e punti di vista numerosi. Questo aspetto mi sembra molto
grave: è un vero abbandono.
Scusa,
mi dilungo. Voglio dire che se la politica si prende carico del
benessere della società, nessuno escluso, nessuno per primo o
secondo, la trovo nobile come niente altro; se essa è solo la
maschera di interessi e bassezze personali, mi fa schifo: questa
è una banalità fondamentale, un 2+2 da non sottovalutare! Anche
nel secondo caso, comunque, cerco di non limitarmi a bollare la
politica come schifosa: prendere atto della realtà delle cose
non può essere un fine, dovrebbe essere il mezzo per muovere il
passo fuori casa. Migliorare le cose non è sempre possibile, ma
agire lo è sempre, e le azioni che contrastano lo stato paludoso
delle cose sono le sole che danno senso alla vita. A qualsiasi
vita, di qualsiasi tipo siano le convinzioni di chi agisce. È il
senso della compatita utopia: non raggiungerla per forza, ma far
qualcosa, qualcosa!, verso di essa[9].
Beh,
torniamo al cammino. Ho studiato in una facoltà umanistica: le
cose che mi riescono meglio riguardano la scrittura; penso che
leggere sia uno dei piaceri della vita più pieni, e che nella
letteratura siano sparse, come stelle di firmamento, imperdibili
lezioni di rispetto, di conoscenza, di multiformi verità sulla
vita, sull’uomo. La letteratura è la strada più certa per
distruggersi e ricostruirsi, all’infinito, un poco meglio, e
questo oltre ad emozionarmi è anche un utile sociale invisibile,
ma tangibile[10].
Mi piace sapere cosa accade intorno a me: non posso soffrire che
qualcuno provi ad alterare avvenimenti e parole del mondo, e
dunque ciò che sono e voglio, utilizzando la menzogna, facendosi
beffe di me o di qualcuno, dietro di noi. Una rabbia struggente
esce, come se mi torchiassero qualcosa di molle infondo
all’anima, quando un uomo infierisce su un altro più debole,
magari alzando la voce; quando un uomo non ha voce per
lamentarsi; quando un uomo si addormenta in scelte, lavori,
espressioni facciali espulse da altri, per paura di guardare se
stesso e le condizioni della vita.
Ecco,
stai camminando con una persona così, una «buona persona» credo,
non ottima, spesso irritante. Sono benintenzionata in genere, e
so che questo, in genere, non basta. Sono arrivata, prima di
iniziare a passeggiare con te, a questo crocevia di punti: il
punto a cui è giunta la mia vita; quello a cui è giunta la vita
delle persone attorno; quello a cui è giunto il mio Paese.
Arrivata, mi è sembrato fosse ora di cominciare a passeggiare
con altre persone: quelle vicine di primo grado o di quinto
grado, o lontane. È ora: per capire anzitutto, perché se non lo
faccio la mia vita non ha senso. Sì, direi che questa
passeggiata con te è ciò che dà un senso valido alla mia vita.
Ora
siamo ad un buon punto, la
terza tappa: siamo a Tassano, è un bel borgo tutto ciottoli e travi
di legno antico, anche odore di mucca, sì, per essere onesti.
Questo è
il punto della terza tappa: se la rabbia non è utile, se la tristezza e i buoni
intenti nemmeno, cos’è utile a migliorare le cose? Cosa resta,
poiché dura in me la convinzione che cercare di migliorare
attorno è l’unica cosa da fare? Secondo me, è utile prima di
tutto cercare di capire. Secondo me bisognerebbe, prima di
parlare, capire: capire perché oggi in genere gli uomini, più
sono oppressi e penano per sopravvivere, meno hanno voglia di
ascoltarti, di sapere «come stanno davvero le cose».
Attento,
ora c’è un fiumiciattolo da saltare. Attento. Perché, voglio
capire, un uomo intelligente giudica pesante ogni discussione
vitale, ed evita come la peste il dibattito o il dato certo?
Perché si rifugia in luoghi comuni che, analizzati con lucidità,
giudicherebbe un'offesa alla sua capacità di ragionamento?
Perché non si accorge di costruire le proprie opinioni con armi
innescate da altri contro obiettivi altrui? Perché io mi chiudo
a conoscere i fatti? Tu, hai idee?
Io ne ho
solo un paio, che non spiegano perché blocchiamo nel ghiaccio la
possibilità di avvicinarci alla felicità, mentre fuori il mondo
già brucia, e non bastano a spiegare ogni caso personale. Ma
fare un passo è meglio che non camminare.
Allora,
un’idea è questa: tanti, dopo aver subito il danno, non vogliono
subire anche la beffa. Sapere il dato certo, l’inganno provato,
equivarrebbe per loro a vedere la beffa, ed essere umiliati per
come proprio quelli che han votato, o scelto, a cui hanno
affidato debolezze e ultime speranze (doppia beffa), si fan
beffe di loro, ingannando e rubando, avendo anche la faccia di
bronzo di affermare falsità enormi, che contraddicono
all'estremo quanto, sotto sotto, hanno tramato. È solo un'idea.
Un’idea
deriva dalla teoria sulla dinamica oppressori - oppressi del
pedagogo Freire. Gli oppressi (diciamo: tu) ospitano dentro di
sé l’oppressore: inconsciamente per te, essere realizzato non
può equivalere che ad essere oppressore, con certi
comportamenti, con qualcuno da opprimere. Ad un tratto nella
retrocessione dalla società civile, tu non riesci più a
identificare il tuo vero oppressore, che viene estromesso allora
dal quadro (anche perché si spaccia per tuo simile, per operaio
oppresso). Tuttavia, la colpa della tua condizione va
attribuita: quando trovi il tuo presunto oppressore, non puoi
far altro che opprimerlo, per farti tu forte. Il drogato, o lo
straniero, appare allora come fonte di pericolo, come agente
della tua oppressione, non come tuo simile umano con problemi
spesso vicini ai tuoi: ti senti legittimato a combatterlo, a non
concepire per lui sviluppi e dinamiche umane. Egli diviene tuo
inferiore, da condurre all’inoffensività: è oppressore, ai tuoi
occhi, da trasformare in oppresso, mentre tu sei oppresso che,
per fuggire ed esorcizzare tale situazione, anela a farsi
oppressore. Credo che in particolare
Un’idea
riguarda la voce perentoria che, all’emergere del dibattito,
come la saracinesca si abbassa e tutto scivola: quella, è
istinto di autoconservazione. La voce non è l’oracolo delle
verità incontestabili, ma non è neanche cattiva: è istintiva.
Dice a tutti che non si può far attenzione ai fatti generali e
agire, perché la propria vita è in emergenza. Ognuno ha la
propria emergenza, tu hai la tua: i soldi dell’assicurazione che
non sai dove raccattare; il sudore di inadeguatezza nei
confronti del tuo capo; l’intolleranza sorda verso un tuo
congiunto; la tragedia di non essere il figlio preferito ogni
giorno; la prigionia che la tua interpretata indifferenza ti ha
tessuto attorno; la tua bruttezza pesante come una condanna.
Questi sono i problemi veri; il resto, sono esagerazioni: il
mondo è sempre andato avanti, con qualsiasi governo, guerra o
idea corrente, e non smetterà di andare avanti perché tu non ci
badi, anzi l’opposto. C’è, nella voce tirannica, una verità
cupa: proprio perché non ci badi, il mondo va avanti (così
com’è); infatti, è sempre andato avanti fra salite dall’orrore e
discese nell’orrore, sempre attuali e mai chiuse. La verità
positiva è invece, a mio parere, il ribaltamento di questo, che
è un circolo vizioso: non badi alle grandi questioni per
emergenza delle tue personali - proprio la tua non attivazione
rende le prime sempre più gonfie - esse, impunite, soffocano le
tue personali questioni cascandoci su a peso assassino - ti
ritrovi fucilato per aver espresso la tua personale questione.
Per fucilato, intendo metaforicamente, ma non si trova faccia a
un plotone d'esecuzione un operaio a cui si chiede scegliere fra
il rinunciare ai suoi diritti, rischiando e morendo, o al suo
lavoro, rischiando e morendo? O il piccolo imprenditore, che o
soccombe a tassazione folle e concorrenza delle grandi catene, o
evade, o s’indebita? Non vedo la libertà del non condannato.
Altre
idee[11]?
Sì, ma vorrei ascoltare le tue, alla vetta.
La
quarta tappa è questa:
il cielo bianco sul lago blu, di quel blu che mantiene la
leggerezza dell’azzurro ma anche il senso profondo del nero.
La
quarta tappa è questa:
siedi, alleggerisci la tua testa, lasciala volteggiare. Sì, so
che hai le tue idee e non intendi cambiarle, non c’entra questo:
prova solo a lasciare tutto indietro, a levitare, emergendo da
stracci e funi, detti e dettami. Io ci provo, perché non si può
volere una società migliore per tutti gli uomini, partendo dal
disprezzo per gli uomini, liquidando i loro comportamenti come
frutto di ignoranza unicamente
[12],
senza essere liberi di nuovo, come fosse il primo giorno del
mondo, da superbie ed etichette rassegnate. Sali leggero, per
questa strada che abbiam fatto: trova uno spiazzo tra alberi e
secondo terreno di foglie, un po’ decoro un po’ nascondiglio;
districati dal sole che intorpidisce, e tra quelli che
costruiscono coi lego finti nemici nella donna alla guida, nel
vicino di casa silenzioso, in quello dell’altra squadra,
nell’omosessuale che attenta all’istituzione-famiglia, nel rom
che non rispetta nulla[13].
Ecco lo spiazzo, continua a levitarci su, ad un metro dalla sua
erba folta, gobba di gatto brillante. Questo piano dà su tutto
il lago, vedi? Da questo prato terrazzato lo sguardo è libero;
non ti senti bene, fantasticamente, ora che puoi scarcerare i
tuoi occhi, lanciarli, fotografare le cose dall’alto, averle in
mano e girarle fra le tue dita onnipotenti?
Sì,
quelle frasi mi fanno rabbia, ma la rabbia è vuota e passa, la
rabbia si fa disprezzo solo contro chi non difende che i propri
privilegi medievali, coi denti e la violenza; contro chi è
ovattato e orgoglioso della propria intangibilità per diritto
divino; contro chi con sopruso e risata sganasciata succhia il
sangue altrui. Contro gli oppressori pieni di scaltrezze, non
contro gli oppressi. Io credo tu non sia uno di questi, che
dalla barca spaccherebbero i remi sulle mani di chi non vuol
nemmeno essere tratto a bordo, ma solo traghettato in salvo.
Allora, sali ancora.
La
quinta tappa, sul
sentiero accanto al borgo all’estremo del monte, mondo in
piccolo, è questa: salire la rampa. Sì, lo so, ti avevo detto
che non c’erano salite, ma non è l’Everest! È una breve ascesa
di tornanti, solo un paio; salire non è impossibile.
Questa è
la quinta tappa: usa
questa lista come una scala. È una lista di fatti. È un po’ che
faccio liste, e poi c’è il protagonista del romanzo
Naif.super, di Erlend Loe,
che, in preda ad una crisi esistenziale delle peggiori, cerca il
bandolo della matassa anche con la pratica quotidiana di
stendere liste, banali in apparenza, ma utilissime. Tieni, te la
passo: con questa come scala, se vuoi, puoi arrivare alla
prossima tappa. Io ti lascio: spero di vederti su. Se puoi,
parti dalla vista di prima, dal cielo bianco sopra il lago blu;
forse qualche passo lo condividerai con facilità, altri ti
faranno salire la nausea, ma tu sali di un passo ancora, sali
finché non arriverai, fino all’ultimo passo. Poi, potrai sempre
ridiscendere, senza segni, come non fosse successo nulla.
Lista di alcuni 2+2 da fare[14]
(«La libertà consiste nella
libertà di dire che due più due fanno quattro. Se è concessa
questa libertà, ne seguono tutte le altre»[15]).
È
necessario sapere che 2+2 = 4, come è necessario sapere che:
Vedere le cose come stanno può
essere quasi impossibile, ma vedere come non stanno è spesso
abbastanza semplice,
ed è il minimo sindacale: ditelo, a chi vi vuol far
credere che la società è per forza fondata su compromessi, a chi
deride gli sforzi di miglioramento[16].
L'immondizia a Napoli non si
accumula perché i napoletani sono degli zozzoni:
nel business dei rifiuti, hanno anzitutto responsabilità
spaventose le industrie del nord, «soccorse» dalle mafie.
La mafia si rafforza anche
grazie all'accoglienza della società del nord:
l’omertà e la condiscendenza non sono connaturate ai geni dei
meridionali, ma sono tipiche anche della ricca Lombardia, con le
sue confische di beni mafiosi in ben 120 comuni[17].
Al sud gli uomini protestano
perché muoiono di rifiuti[18],
non perché non han di meglio da fare, né perché la camorra li
aizzi[19]:
è allora surreale orecchiare lo slogan leghista «noi al nord i
vostri rifiuti non li vogliamo!», perché tradotto, suona: «non
ri-vogliamo i rifiuti tossici delle nostre fabbriche, li abbiamo
venduti apposta alla mafia!».
Non è mai giusto e sicuro
giudicare da un fatto singolo e
personale un'intera città, religione, popolazione.
Le generalizzazioni sono rischiose: portando spesso a
erronee conclusioni, cacciano in situazioni ridicole proprio chi
le formula.
L'immedesimazione non è facile[20],
ma è fattibile:
come negare che siamo nati in Europa per caso, e se fossimo nati
in Africa ora saremmo clandestini, ora saremmo guardati con
disprezzo per l’incolpevole nascita, ora «noi» saremmo «loro»[21]?
Tutti i biondi vanno guardati
con sospetto,
perché stuprano: è un esercizio che fa balzare avanti
l’insensatezza spietata delle discriminazioni. È la stessa cosa:
uno non è criminale perché ha l’aspetto e qualche conseguente
tendenza predeterminata «da marocchino» (i 2+2 sono banali, ma
basilari); magari, non c’è nato in Marocco, o è cattolico, o è
un islamico più pacifico di te, ma dal solo aspetto fai
un’equazione e prevedi sicura cattiveria[22].
Immaginati ora biondo, che biondo = stupratore: no, non importa
che tu non abbia mai neanche pensato di stuprare, importa che tu
sia biondo.
Nessun uomo
lascia la propria famiglia, lingua, convenzioni, e il rispetto
che si ha nel proprio paese,
per una voglia spensierata di far del male, ma solo per
sopravvivere.
Non sarà possibile nemmeno
arginare l’immigrazione,
con frontiere o armi, finché uomini moriranno di povertà:
nessun uomo, per nessuna legge, può avere più diritto alla vita
e respingere un altro uomo che scappa per vivere. Non possono
restarsene o tornarsene nel loro paese, questi uomini, e non è
«un problema loro», ma di chi contribuisce a questo ordine del
mondo. Gli Stati, poi, sono muraglie d’aria arbitrarie, dotate
solo del valore che noi gli attribuiamo nel tempo, e questo
valore non può fondarsi sulla morte di uomini disperati, né
fermarli[23].
La frase «la protesta degli
immigrati sulla gru ci costa 25.000 € al giorno», non va
trangugiata: va
presa, messa lì e guardata in faccia e poi nell’insieme che la
regge; ad esempio, un clandestino, lavorando per quindici anni
in nero, fa «risparmiare» al suo datore di lavoro, non di rado
lo Stato, ben più che 25.000 €; puoi anche moltiplicare la cifra
risultante per i 500.000 clandestini, o molti più[24],
che vivono in Italia.
Per essere ascoltati davvero,
occorre toccare ciò che chi detiene il potere ha a cuore, soldi
e ordine pubblico (oppure, si abolisce il diritto di sciopero):
le proteste necessariamente ottengono tanta più attenzione
quanto maggiore è il danno economico che arrecano; anche quando
Prima di salire sulla gru,
quei sei uomini erano
altrettanti Sig. Nessuno. Avevano interrogato
instancabili le autorità, chiedendo giustizia a una porta
chiusa, cercando quel dialogo che dopo, da sotto la gru, gli ipocriti
rappresentanti delle stesse autorità hanno invocato, come se
quei sei fossero trogloditi incapaci di dialogo, e mai
l’avessero reclamato.
Quando nessuno ti ascolta,
quando la tua vita non vale nulla per nessuno, quando non
esisti, la tua protesta non potrà essere sottovoce:
pretenderlo, sarebbe cieco e sordo[25].
Qualsiasi politico avrebbe
dovuto difendere la protesta della gru, e dire «grazie»: qualsiasi partito che abbia sinceramente a cuore l’ordine sociale,
avrebbe dovuto vedere che quella gru era l’unico modo per sei
uomini di denunciare ingiustizie, e ringraziare per il
contributo e la riflessione suscitati. La politica questo
dovrebbe fare: ascoltare cosa non va nella società e agire, per
la sicurezza e il benessere, quelli veri, di tutti.
Il silenzio politico ed
istituzionale è stato un frastuono significativo:
non si risponde = non si risolve. Altro che fermezza lombarda: è
stata un’irresponsabilità pericolosa, i cui danni si
manifesteranno a lungo, sempre più forte.
Quei ragazzi sono esattamente
come te: come
voi, che vi alzate già depressi all’idea di andare a lavoro, che
vi scoraggiate all’idea di non avere soldi a sufficienza per
pagare una bolletta, che vi preoccupate per un figlio malato.
Le uniche differenza fra voi e
loro, sono due.
Uno,
facendo le vostre stesse
cose, loro sono bollati come criminali: voi tirate a
campare sfruttati, loro tirano a campare sfruttati, in più hanno
addosso la marchiatura dei criminali. Due,
loro hanno alzato la testa:
i loro occhi alti han fatto tremare me, allenata ad abbassarli e
lasciar correre, a fingere di non cogliere le sempre nuove
oppressioni, per non dover mostrare che no, non ce l’ho il
coraggio di oppormi davvero.
Fare paragoni «al peggio»
(«al loro paese li avrebbero già tirati giù a sassate»)
è inutile e imbarazzante, a meno che si aspiri ad avere la
«qualità» democratica del Congo: però, poi le tutele spariscono
per tutti, per te e per la tua vita pure.
L’Italia si tiene stretta i suoi
stranieri clandestini,
per garantirsi manodopera quasi a costo zero[26]
e docile, così privata di diritti. Non importa se, a forza di
anni, discriminazione e condizioni sociali da terzo mondo,
questi uomini disperati si ribelleranno, magari violentemente;
conviene troppo, questa schiavitù difesa dietro proclami di
legalità e preminenza degli italiani, quando invece si sta
tessendo, illegalmente, il danno anche degli italiani.
Il reato di clandestinità
aumenta la criminalità, invece di contrastarla.
Chiudere un uomo in un ruolo è il modo migliore per far sì che
ci resti: tu, se fossi marchiato a priori come criminale,
preferiresti sfiancarti raccogliendo pomodori, o fare vita
agiata con qualche servizio alle mafie? Tu, se non ti fosse
concesso nemmeno di guadagnare il rispetto della città in cui
vivi, cosa faresti, inquadrato nel cemento come cattiva persona,
senza essere interpellato, senza possibilità di revisione?
La provenienza di un uomo non
può costituire motivo di classificazione:
un immigrato, uomo,
non può avere meno diritti individuali rispetto a te,
uomo. Questo significa
cose concrete: lui non può essere mantenuto in schiavitù, e tu
nemmeno; lui non può subire discriminazione per la sua
religione, e tu nemmeno. Lui, ha diritto a vivere: forse è
banale, forse no, se immagini una scena infernale con te stesso,
uomo profugo, su un
barcone, mentre un altro uomo ti «respinge».
Il reato di clandestinità,
invece,
discrimina un essere umano ancora prima che abbia commesso un
atto, nella sua natura di individuo: rende un
uomo diverso, da me e
da te, senza che abbia fatto nulla[27].
In un paese normale chi
delinque, di
destra o di sinistra, bianco o nero,
è giudicato, punito e recuperato: se qualcosa di diffuso
nella giustizia italiana non funziona, se le persone
«malintenzionate» (italiane o meno) trovano qui zone franche, la
responsabilità non è di chi in Italia non viveva né votava, di
chi un’Italia depenalizzata non ha contribuito a crearla.
Lamentare la presunta preminenza
concessa agli stranieri non è utile; lo è reclamare in prima
persona, insieme, i propri diritti:
al lavoro, alla casa, alla salute. Difendere i diritti dei più
deboli, significa esigere quelli di tutti. Chi «mette prima» una
categoria, e non l’uomo più bisognoso, sbaglia, e va criticato
per questo; ciò non incrina però il principio generale e la
modalità per ottenere giustizia: la lotta unita per tutti, non
con un uomo più povero come nemico, ma con chi si arricchisce
sulle povertà di tutti come interlocutore messo alle strette,
finalmente.
Nemmeno in tempo di guerra, i
naufraghi venivano respinti per la loro nazionalità:
non si chiedeva loro da dove provenissero, ma in quanto
naufraghi erano tratti in salvo e rispettati[28]. Le
eccezioni efferate che ci saranno state non nascondono il fatto
che l’avanzare degli anni ha incrociato il regresso della
coscienza e del senso di umanità.
Si dovrebbero criticare i
comportamenti, non la persona che li compie, la sua nazionalità,
le sue scelte politiche, sessuali, sociali:
ha prodotto pregiudizi e discriminazioni, ad esempio, aver
indicato, soprattutto negli anni ’80, le
categorie sociali a
rischio contagio HIV, invece dei
comportamenti a rischio.
Chi commette ingiustizie o reati
usando una bandiera politica o un ideale come scudo, va punito
per l’atto,
sempre. Molti, preferiscono tener buono l’aneddoto, per
lamentare l’indiscriminata perversione di cooperative, toghe,
studenti, operari rossi.
Non si dovrebbero ritenere
indegni i carabinieri, ma alcuni loro comportamenti, e chi li
forma: i distinguo devono essere impeccabili, perché giuste denunce non
vengano strumentalizzate da bassi uomini e uomini bassi.
In Italia gli alti gradi delle
forze armate sono malati di nostalgia fascista:
questo porta loro, e in alcuni casi anche i loro sottoposti, ad
avere un’idea molto distorta dell’ordine pubblico[29].
Purtroppo
l’ordine pubblico è spesso un’ottima scusa per schiacciare chi
reclama a voce troppo alta i propri diritti.
Il diritto di espressione non è
una vaghezza,
ma la vita di un uomo:
è grave come niente che abbiano subito arresti o intimidazioni
uomini che urlavano «Forza ragazzi!» a quattro altri uomini (v.
nota 7). Non puoi dire, finisce che non puoi essere, tu, te
stesso. Cosa ti rimane?
Inneggiare al Duce è reato
(si sa mai),
perché
il fascismo non è stato una
«dittatura dolce»,
un’allegra sbronza fra amici: ha fatto «cose buone» solo in
misura inevitabile; ha ucciso uomini, violato la loro dignità,
brutalmente.
I regimi comunisti pure han
fatto milioni di vittime, ma l’Italia ha vissuto una storia
opposta: il Partito Comunista ha condotto le maggiori battaglie per i diritti
dei lavoratori, ad esempio.
È lecito non condividere e
respingere l’ideologia comunista, non parlarne a vanvera.
Io cerco di non parlarne a vanvera, finché non avrò letto Lenin,
Marx e qualche buona fonte storica, almeno.
Travaglio, in un paese
«normale», sarebbe di destra
(sua esternazione): è il paese che è anomalo!
Mettersi al fianco del criminale
non è un’offesa, ma il solo atto utile alla vittima:
inveire contro il crimine
come atto genetico di un mostro o di un imbecille, non dà altro
che un’illusione di sicurezza; crogiolarsi nella rievocazione
del dolore è sterile; entrare ossessivamente nella vita della
vittima è solo una catarsi egoistica, per riscoprirsi vivi.
Patire con la vittima dovrebbe
essere scontato e privato, patire col carnefice è il difficile: perché, se non per protagonismo, sbattere all’aria le lacrime per la
bambina morta, invece di tenere il senso di compassione in gola,
e lasciarlo andare nella solitudine del crepuscolo? Patire col
carnefice non è simpatia verso il male, ma ricerca del bene, del
meglio che brilla nascosto.
«Dentro ciascuno di noi, c’è un
io criminale»[30]:
è un passo ostico, perché uno dei pregiudizi più rassicuranti è
che ci sono i buoni e ci sono i cattivi. Ci vorrebbe
un’educazione all’immedesimazione evoluta, che ci permetta
d’immaginarci in condizioni non immaginabili, immersi in
pensieri non formulabili ora, nella nostra pelle; pensieri e
condizioni che ci porterebbero forse a comportamenti criminali,
certo a comprenderne molti lati, molte facce, tutte le pene.
Purtroppo
non è un luogo comune che
in carcere, in Italia, ci
finiscano soprattutto i poveri cristi: quelli che non
han soldi o potere per depenalizzare il reato che hanno
commesso, ad esempio; quelli che sono allo sbando della società,
abbandonati da essa, ancora più abbandonati e pressati ai
margini varcata la soglia della prigione.
Vivere in diciassette in una
sola cella lede la dignità della persona[31]
in mille diabolici modi:
puoi immaginare di stare per 22 ore in una stanza chiusa, col
tanfo di sudore altrui, sdraiato a cinque metri d’altezza col
soffitto a due spanne (letto a castello a quattro piani), su un
materasso fetido, senza lenzuola, infestato dalle pulci, di
usare un unico bagno senza porta senza carta igienica con altre
16 persone, di avere una sola saponetta in un mese, di contrarre
malattie quasi scomparse nel mondo civile, di pagare il peggior
olio il doppio del prezzo corrente, di non poterti alzare perché
in piedi ce ne stanno pochi, puoi immaginarti di stare così per
ore, giornate che colano in mesi, senza desiderare di impiccarti[32]?
Il carcere è diventato la
discarica sociale dell’Italia:
lo Stato ha rinunciato alla funzione di recupero e reinserimento
sociale di chi delinque, e si limita a creare un luogo di
isolamento e mortificazione, un lager di crudeltà, dal quale si
esce con nelle ossa una rabbia moltiplicata, erompente.
Lo Stato non può continuare ad
essere più criminale del criminale stesso:
il carcere non può trasformarsi nel paradosso delle società
moderne, che in esso combattono la criminalità con un sistema
pedagogico criminogeno, e spingono a pensare che chi è dentro
sia nel midollo diverso da noi, e meriti un castigo, una via
crucis di dolore, non rieducazione.
L’esasperazione non ha bisogno
di placet, ma di giustizia.
Se un uomo lucido subisce ingiustizie, ruberie, soprusi, chi
governa quello Stato di ingiustizia, ruberia, sopruso, di
frequente dando per primo esempi di disonestà[33],
non potrà parlare di rispetto e «toni pacati» senza coprirsi di
ridicolo o avanzare subito concreti atti di giustizia.
Non si può precludere sempre più
ogni strada all’azione e al dialogo, senza aspettarsi che
l’ineguaglianza ormai troppo palese armi gli uomini, e non di
dialogo: estenuati, sono costretti a salire su una gru per farsi corpo e anima,
a scendere nella piazza a dar fuoco a quanto i telegiornali non
vedono, a urlare «Riprendiamoci il nostro futuro!» a chi chiede
tranquillità sghignazzando, perché col nostro futuro si sta
fabbricando una vita d’oro al di sopra di ogni possibilità.
La questione se la violenza sia
giusta o sbagliata, in certi casi è mal posta e fuori luogo[34].
Non si può chiedere se lo scoppio di temporale sia giusto o
sbagliato; se sia giusto o sbagliato lo scoppio di rabbia, dopo
che le condizioni sociali sono state strattonate fino
all’estenuazione, fino alla tortura. È questione di giustezza[35].
Senza parole ferme sarà
impossibile capire cosa si fa di noi.
Si dà dell’assolto al
prescritto, ma non è uguale, né una minuzia da avvocatini:
quell’uomo non è innocente. Parlano di
missioni di pace per
missioni di guerra, ma
non è uguale, né una crociata cartacea di ragazzini che giocano
alla pace. È la verità nelle parole. La spoliazione e il
volontario pressapochismo linguistici sono pericolosi, come un
governo che chiami Ministero della Pace quello della Guerra[36],
senza che ce ne accorgiamo.
Chi detiene il potere ti spinge
ad essere fatalista, ad accettare come immutabile la realtà che
ti dà. Le parole
sono vuote di senso, i concetti si fondono, l’accettabile e il
non accettabile si avvolgono, la bugia diventa verità poi bugia
poi convenzione: questo carosello ti getta fumo negli occhi e ti
obbliga a riferirti ad una realtà creata, come se fosse l’unica
possibile, in cui puoi aspirare al massimo ad evadere un po’ il
Fisco, credendoti furbo e libero[37].
Se
in quel tal Stato c’è una
bassa percentuale di praticanti l’Islam, ma al TG ti mostrano
l’unica donna col velo del quartiere, tu finirai per trarre
conclusioni errate, suggerite da un modo di informare
pilotato.
Soprattutto in TV si dice solo
ciò che fa comodo a chi può fare i propri comodi.
Al contrario, non bisogna finire mai di diffidare e
approfondire, di scoprire e contrastare, con la frequentazione
di organismi indipendenti, di giornali senza padroni, di
organizzazioni umanitarie, i cui dati non sono alterati da
interessi grevi e mire.
Informarsi e dotare la testa di
più dati, non è «di sinistra», è da uomini:
il senso dell’informarsi sta appunto nel farsi un’idea propria,
nel farsi idee diverse da quelle altrui, purché consapevoli;
prendere informazioni equivale a mettersi nell’unica condizione
per discutere soluzioni vere, conservatrici o progressiste,
migliori o peggiori.
Informarsi è arduo, capire
ancora di più, farsi un’idea indipendente ancora di più, ma è
l’unico modo per essere uomini a testa alta. «L’istruzione
costa, l’ignoranza di più»,
scrivono gli studenti in protesta sui loro striscioni.
Nell’incertezza della vita umana, l’unica certezza è che la dignità
passa attraverso la libertà, e la libertà attraverso
l’informazione, e l’informazione richiede un minimo di sforzo:
chi non lo fa, non solo vive al di sotto di quanto merita, di
quanto è, ma danneggia anche la società, anche me, e te.
Ben arrivato.
Spero che i passi non ti siano stati troppo pesanti. Se sei qui
con me, io sono già del tutto contenta. La
sesta tappa, per
questo sentiero dolce come le sue curve nella penombra, è questa
ultima camminata, io e te, una passeggiata nella passeggiata:
sono i quattro passi pianeggianti che ci porteranno là, alla
piana dell’arrivo, sul lago.
La
sesta tappa, è vedere
che reazione la mia idea di informazione suscita in te.
Un’informazione
è un nome che suona di niente affollato.
Non è ombra che svicola: è una
cosa
reale,
lì che trepida perché tu ne senta il corpo vivo,
prendila
in mano, come un gatto!
Non è
buontempo: è la rabbia
per le
cose che ci nascondono,
la
rabbia perché ci trattano da idioti:
ci
trattano da idioti!
Non è
definizione da accademia: è la tua
dignità
che ti
rubano ogni giorno dalle mani,
ogni
giorno; infinitamente più spesso
di
quanto un uomo ti rubi il portafogli.
Non è un sistema intricato che ti
ammanta:
è un’arma
che
guadagni per difendere te stesso e chi vuoi:
è
l’unica difesa che puoi avere, che funzioni,
armati!
Non è
una cifra, un delitto immaginato al caffè: è
una vita
lunghe
storie di paure,
primo
giorno di scuola, amori ridicoli e sguardi sul mare.
Non è
concetto sudato da sbrigare:
è un
petto che respira, un sorriso che permane,
sei tu
che respiri e sorridi, con la tua vita addosso.
Non è
professionismo dell’indignazione: è
un uomo
muto con
negli occhi un movimento, non lasciarlo scorrere;
nella
bocca ha le tue armi pronte,
sopra
giorni desolati di lotte per sé e per te, senza aiuti.
Non è un
codice a mille ideogrammi: è l’unica
trave
a
reggere ancora il muro che ti permette di respirare.
Se metti
trave su trave, diventi tu un puntello,
importante per te, importantissimo per tutti,
e man
mano non è più un muro di difesa,
ma quel
che preferisci, che muro vuoi?
Cose,
rabbia, uomini, dignità,
armi,
vite, travi:
a che
altro puoi aspirare per dare senso toccabile alla tua vita,
per
renderti qualcosa che non muore come muore il vento
-un
secondo c’è, il secondo dopo è come se non ci fosse stato-
che aggiustare cose e vita?
Ci siamo!
Ecco l’arrivo,
questa grande spianata di erba, ora che è quasi sera più che verde
blu, stellata di riflessi che ballano distesi, lunghi. Forse ti
aspettavi di più, ma non è bellissimo ciò che vediamo da qui? Luci e
luci, più chiare di sempre, nel nero fondo del lago e delle
montagne, e stelle nel cielo e nell’acqua e sulla terra, e uomini.
L’arrivo
è questo: le stelle e gli uomini che ci hanno raggiunto qui, saliti
per la nostra stessa piccola montagna, in passi paralleli, fra i
branchi di alberi e le collane di fruscii di bosco. Siediti, qui
vicino, nell’erba morbida, e guarda tutto quanto può stare nel tuo
sguardo. Non essere sottotono, guarda a sorsi avidi, guarda quanto è
bello nella sua varietà ciò che puoi bere, bevilo tutto a farti
restare indietro l’anima. Ecco la vetta: sedersi qui, dopo la
salita, e pensare, tu, che cosa pensi, ora? Che cosa vuoi fare? Puoi
continuare come se niente fosse, o dedicherai due minuti di ogni
tuoi giorno a pensare a 17 te in una cella? E poi cosa farai, spinti
quei pensieri fino alla verità non sfumabile? Cosa facciamo ora?
L’arrivo non è che questo: la partenza di personali strade secondo i
più intimi pensieri, ma declinato, questo sacrosanto tuo modo di
intendere, secondo basilari informazioni fattuali e principi di
rispetto, che tutti dobbiamo condividere senza eccezioni e
tentennamenti. Informazioni e principi inviolabili, perché tutelano
la vita di tutti: sono la garanzia sulla nostra natura residua di
esseri umani. La tua strada forse si immetterà in una opposta alla
mia, ma avrai la mia simpatia e stima, se la sceglierai tu, dopo
aver fatto questa salita e averla contestata magari, ma avendone
visto brillare le stelle, quei principi inviolabili di libertà e
rispetto.
E se alla fine, sul
far della sera, in quell’ora che non riserva rivelazioni e
rivoluzioni per te, stanco per i grovigli e i pesi, ti sembrerà
tutto difficile, se tutto ti sembrerà così complicato da non essere
risolvibile, se ti sentirai premuto a terra, alla convinzione che
non puoi far nulla, di essere inferiore e solo, non importante né tu
né il mondo intero, se ti parrà che tutto è così più grosso di te, o
che di niente importi, pensa ad una frase di un amico di Don Gallo:
«Sì, forse il potere è fortissimo. Ma non è che ci sembra così
grande perché noi ora siamo in ginocchio?»[38].
Postilla: io scendo per di qui, e tu?
Forse
esistono uomini con cui non puoi parlare, costruendo così, con voci
reciproche, noi e il mondo; uomini che implicitano a poco a poco la
paternità degli slogan che ripetono, che imballeranno sempre la vita
in cartoni e disinformazione, senza osservarla. Esistono uomini così
disabituati ad essere interpellati da non saper più declinare la
complessità dei singoli fatti, da non poter far altro che scagliarsi
da un lato, contro qualcuno, come fosse una ponderata presa di
posizione. Esistono uomini che stabiliscono una volta per tutte la
coerenza del proprio collage di luoghi comuni, e che si fanno
opinioni come armi, forgiate nella presunzione di un qualche senso
di forza veritiera: dire che un uomo merita la pena di morte, per
loro, è coraggio fiero, e buon senso, senza alcun margine di dubbio
o spessore.
Forse non è
questo il momento della conciliazione. Forse ora è più urgente avere
occhi saldi sui fatti, su violenza e incoerenza, che cercare
mediazioni senza luoghi. La povertà che mangia il lavoro, la casa a
milioni di italiani[39],
le ingiustizie gettate una sull'altra fino al cielo, i soprusi sulla
carne e sull’anima spesso sotto l’egida dello Stato, tutto ciò è
schiacciante: evidenzia l'irrisolutezza di ogni atto a metà, della
testa che si scuote molle dal divano. Persino la felicità personale
suona male. Tutto ciò, tinge d’inutilità qualsiasi intento di
soluzione. Perché è questo che sono le nostre parole: ininfluenti.
Siamo stati silenziati.
Allora, a
che scopo parlare? A che conclusione porta la somma «Esistono uomini
con cui non puoi più parlare + Le parole ora sono ininfluenti»?
= Non
bisogna parlare per target; non bisogna parlare solo a chi
sicuramente ci ascolterà; bisogna parlare forte, ma dopo aver
ascoltato più forte. Bisogna sentire le mille ragioni delle persone
con cui non si può più parlare, sì, lo stesso! Bisogna parlare
perché siamo esseri in grado di parlare e agire insieme: i frutti
dell’azione saranno tanto maggiori, se questa sarà stata spiegata,
per quanto possibile, e accompagnata dalla parola.
In realtà, la
difficoltà di far emergere la verità possibile (vincere una
battaglia, donare un pesce), ma anche di risuscitare la voglia di
verità (vincere la guerra, donare una canna da pesca) è antica, e
tocca ogni ambito: politico, sociale, religioso. È umana, credo. È
la stessa la paura, la beffa insostenibile che si aggiunge ad una
vita di danni da affrontare. La resistenza viene proprio dal
panorama che si aprirebbe se si cedesse al dialogo. Penso alla
religione, e alla muraglia di non ascolto che ci si para spesso
davanti: pesa su questa bilancia il nulla che noi poniamo sull’altro
piatto, talmente devastante da far saltare in aria persino Dio. Ciò
che conta è la dimensione psicologica, nota o solo subodorata, nella
quale si piomberebbe: cosa c’è di più terrorizzante del crollo della
propria vita? Ora: come ci si sente, privi di qualsiasi certezza, di
qualsiasi garanzia? No, non liberi. All’inizio, ci si sente di
merda, e tanto peggio, quanto più nella vita si è stati sfortunati,
sforniti di mezzi culturali, economici, o strettamente personali,
per far fronte a quel che resta, quando cadono le sovrastrutture: il
nulla devastante. La difficoltà della strada, però, non deve né
confondere il discorso, né nasconderne l’importanza.
Non confondere il
discorso.
Mi si dice che la verità non esiste, che è individuale e storica. Io
sono convinta che lo stesso, nel rispetto della meravigliosa
diversità della natura umana, bisogna fare assolutamente, tutti,
alcuni passi. Sì, ogni persona ha il proprio sentire, il proprio
vissuto; inoltre, cosa sia reale volontà, aspirazione, e cosa sia
condizionamento è difficile dirlo; anche, come sarebbe ognuno di noi
senza condizionamenti, è difficile immaginarlo, e forse è una
questione malposta: l’uomo vive solamente immerso nei
condizionamenti, quindi anche la vita e la libertà umane non possono
prescindere dai condizionamenti. Eppure, resto convinta che il
discorso è altro, è prima. C’è una serie di passi da fare: quei
passi ci svestono dai condizionamenti rincarati pesanti sulle nostre
spalle, che ci impediscono di guardare il cielo o di guardarci allo
specchio; ci svestono dalle non-verità costruite con finalità
predeterminate, odiose perché spacciate per naturali, perché
ottundono la nostra mente sin dall’infanzia, come fossero congenite.
È una non-verità il razzismo, è una non-verità l’amore romantico, è
una non-verità il peccato originario: senza essersene liberati, non
ci si può dire liberi. E questo vale per ogni persona, nella
splendida disuguaglianza umana: dopo aver smascherato queste
sovradeterminazioni, uno di noi potrà assecondare una sana
predilezione per la propria patria; amare un’unica donna per tutta
la vita, proprio perché libero di non farlo e non dirlo; essere
sensibile al senso di colpa per il male inflitto. Verità o meno,
queste non sono non-verità aprioristiche.
La difficoltà della
strada.
Questa liberazione dalle non-verità organizzate, sbalordisce e fa
arretrare. Non c’è nulla di indecoroso nel ritirare d’istinto verso
una non-verità rassicurante, piuttosto che lanciarsi verso una
verità annichilente: il ricorso a palliativi e distrazioni, faccia
all’insensatezza della vita, è la salvezza più facile. Se non
cercassimo ogni secondo tettoie di riparazione, per costruirci al
riparo un nostro senso, saremmo tutti prossimi alla disgregazione.
Però, questa ricerca di senso ci intrappolerà, non sarà che
un’iniezione per ingannare l’attesa della morte, se non parte dalla
spoliazione dalle non-verità e non lascia da parte, ad un certo
momento, le soluzioni d’emergenza. Solo da quei paletti di
ragionevole autenticità, il percorso non sarà un girare in tondo.
Allora, se davvero si vogliono contenere l’ignoranza e i suoi frutti
violenti, non si può dimenticare questo: che, alle persone che si
rifugiano in luoghi comuni e visioni intolleranti stiamo porgendo,
come se l’avessimo sul palmo della mano, un panorama disperante, nel
quale si troverebbero sbattute come nel bel mezzo di un terremoto;
che, agli uomini che riteniamo egoisti o disinformati, non
proponiamo solo di «parlare», ma di distruggere a martellate i muri
del proprio mondo; che prima di denotare cattiveria o inabilità
animale, l’opposizione di molti è solo terrore di fronte ad un
vuoto, per il quale non hanno più ali, macchine o bussole. Nessuno
si è occupato di costruirne con loro. Sono soli. Allora, bisogna
accostarsi umanamente al singolo uomo, premunirlo di mezzi e
alternative, pensare al travaglio che si chiede: la libertà gli
costa la felicità presunta del momento.
L’attimo iniziale
del travaglio è terribile, gli altri meno, ma sempre un filo di
ansia prende, prima di vedere un altro velo cadere: forse la vita è
liberarsi a piccoli attimi, per arrivare un giorno a camminare a
testa alta, senza funi, liberi di prendere per mano chiunque, o di
non prenderlo, di generare o non generare, di morire o non morire.
Ciò che non credo, è che un uomo avvii da solo la propria
liberazione. Voi, che vi sentite informati e camminate a testa alta,
non avete avuto incontri, circostanze che vi hanno spinto? Tutto
vostro è il merito per le non-verità che avete già lasciato sul
selciato? Sì, un merito l’avrete, ma questo non fa il demerito
infamante di chi i mezzi per svestirsi non li ha, di chi non se la
sente del tutto. Non sono scusanti, ma non avere il giudizio facile
è il presupposto per risvegliare gli uomini che possono essere
scossi. L’unica modalità d’azione e di informazione è allora quella
declinata umanamente, fatta di ricerca dei fatti impeccabile e di
consapevolezza degli altri (delle loro paure, del dramma della
beffa, e dell’esistenza di mille aspetti che non potremo mai
conoscere e giudicare).
Sì, la rabbia mi
stava divorando il cervello, al solo sentire quella coppia, a Iseo:
avrei voluto insultarli, perché infondo loro, loro anzitutto stavano
offendendo uomini, stavano creando la beffa sopra il danno per
uomini truffati e offesi, per uomini degnissimi invece, coraggiosi;
stavano offendendo la decenza umana, la mia, la loro. Ma non sono le
loro frasi il problema: quelle sono il sintomo del problema, creato
da chi opprime, legifera, instaura circoli viziosi, manifestato da
oppressi, che si vorrebbero oppressori, usati come pedine.
L’ignoranza esiste, e non è certo questione di giustificarla o
condonarla: va combattuta, ma mirando giusto, agli oppressori e non
agli oppressi, responsabilizzando chi subisce l’ignoranza; occorre
essere realisti e umanamente attivati. L’ignoranza va combattuta in
chi la governa, non giudicata negli uomini che si rifugiano in essa.
A questi bisogna parlare forte e agire forte, incarnando e dicendo,
leggeri e chiari, quei valori irrinunciabili che fanno la grandezza
dell’uomo, di quegli uomini sulla gru: la grandezza del singolo uomo
di cui non si può permettere che nessuno, nessuno mai si faccia
oppressore. L’informazione per questo è una mano che tocca tutti,
nel modo più personale e concreto possibile: è la difesa
dell’oppresso, e l’unione che fa forza contro l’oppressione.
«Può essere vergognoso essere felici da soli […]. Ho sempre pensato di
essere straniero a questa città, e di non avere nulla a che fare con
voi. Ma ora che ho visto ciò che ho visto, so che sono di qui, che
io lo voglia o meno. Questa storia ci riguarda tutti»
[40].
Perché questo
percorso intendeva essere un dialogo;
perché le domande
sparse non erano retoriche;
perché un muro di
difesa e di quel che ti pare non si costruisce mai da soli;
perché la vetta dei
nostri sei passi è davvero sapere che strada tu pensi si possa fare;
perché i
miglioramenti non partono, se non dal capire cosa pensano più uomini
possibile:
ecco la mia mail, giulia.inverardi@alice.it.
[1]
B. SPINOZA, incipit del Tractatus Politicus (I, 4).
[2]
L'«Antica via Valeriana» è un itinerario di 20 chilometri,
di probabile origine romana, che si snoda sulle pendici
orientali del lago d'Iseo, attraverso uliveti, case con muri
in pietra, boschi e il lago. Fino al 1850, era l'unico
collegamento fra Brescia e
[3]
C. M. SCHULZ, battuta pronunciata da Linus.
[4]
Il senso di inutilità macchia sia il personale sia il
generale: capita che il personale faccia percepire come
ininfluente il generale; capita anche il contrario, che la
gravità delle circostanze generali facciano sentire la non
utilità di una sera al cinema, di un amico, di qualsiasi
azione personale. Credo che entrambe siano impressioni
fallaci, da prendere e buttar via. Per quanto riguarda
l’impressione paralizzante di emergenza del personale, credo
che per evitare di dover lottare sempre per stare a galla,
bisognerebbe ambire a qualcosa di più che stare a galla:
ambire alla riva.
[5]
P. FREIRE, La
pedagogia degli oppressi, 1968.
[6]
G. ORWELL, 1984,
Oscar Mondadori 2002. Pag. 265:
«Forse non c’era tanto
bisogno e quindi desiderio di essere amati quanto di essere
capiti».
[7]
La vicenda dei migranti che per 17 giorni hanno occupato la
gru nel cantiere per la metropolitana, fra Via S. Faustino e
P.le Cesare Battisti, a Brescia, ha ricordato la situazione
degli immigrati truffati in occasione della sanatoria 2009
(la truffa è stata perpetrata dai presunti datori di lavoro,
ma secondo gli immigrati stessi anche dallo Stato, che ha
cambiato nel corso della sanatoria la legislazione in tema
d'immigrazione). Il fatto ha suscitato sia reazioni di
incomprensione del gesto e di contrarietà, sia una risposta
solidale nella cittadinanza, sia una repressione a tratti
molto violenta delle molte manifestazioni di sostegno ad
essi, da parte delle forze dell’ordine.
[8]
«Si la vérité me
pressait à droite, y‘j serai»,
«Se la verità mi
spingesse a destra, ci sarei» (da un’intervista).
[10]
I. BRODSKIJ,
Dall’esilio,
1987:
«Eppure dobbiamo parlare […], per
via di un’antica e forse infondata convinzione, secondo la
quale se i padroni di questo mondo avessero letto un po’ di
più, sarebbero un po’ meno gravi il malgoverno e le
sofferenze che spingono milioni di persone a mettersi in
viaggio. Poiché non sono molte le cose in cui riporre le
nostre speranze di un mondo migliore, [...] dobbiamo pur
sempre ritenere che la letteratura sia l’unica forma di
assicurazione morale di cui una società può disporre; [...]
che essa offra l’argomento migliore contro qualsiasi
soluzione di massa che agisca sugli uomini con la
delicatezza di una ruspa – se non altro perché la diversità
umana è la materia prima della letteratura, oltre a
costituirne la ragion d’essere».
[11]
Un approccio semplificato è più facile e ha più presa di uno
approfondito: per questo la nostra «classe dirigente» ha
iniziato a trattarci come gregge, in una gara al ribasso:
istruzione approssimativa e trattazione dei problemi con
taglio grossolano; abolizione della declinazione della
realtà secondo la complessità dei singoli casi (ruolo e
responsabilità degli interlocutori, natura di ciò di cui si
tratta, contesto); imposizione di un abito di comportamenti
e idee standard, che garantisce protezione e appartenenza
alla normalità; rinuncia, da parte di partiti politici e
istituzioni religiose e sociali, all’educazione di giovani e
adulti. Chi sentiva la responsabilità di accrescere le
capacità di coscienza e autocoscienza del proprio popolo,
instaurando un circolo virtuoso, ha lasciato il campo a chi
di questa responsabilità se ne sbatte: allora, meno offerta
di istruzione e confronto - meno capacità di critica e
azione - maggior libertà d’azione e d’impunità per chi
governa - induzione a minore domanda d’istruzione.
[12]
P. FREIRE, La
pedagogia degli oppressi: «Dichiararsi impegnato con la
liberazione e non essere capace di entrare in comunione con
il popolo, che si continua a considerare assolutamente
ignorante, è un equivoco doloroso».
[13]
Dario Fo, nella conferenza a Brescia, l’8 dicembre 2010,
ricorda che dalla notte dei tempi il potere domina il popolo
anzitutto con uno stratagemma: la costruzione di falsi
nemici, da incolpare di ogni sventura, per evitare che si
colga il vero responsabile, spesso il potere stesso;
quest’ultimo si offre anzi come garante di protezione, fonte
del senso di sicurezza senza il quale l’uomo crede di non
poter vivere.
[14]
Una lista delle informazioni indispensabili mi pare un buon
punto di partenza per azioni di cambiamento: una lista in
aggiornamento collettivo, «universalmente» diffusa, vagliata
anche da persone più competenti di me. Forse è un’idea di
difficile realizzazione, ma che gli uomini di un Paese
condividano una base di informazioni vitali, è quanto di più
indispensabile mi immagino, la condizione imprescindibile ad
un vero confronto e a vere azioni. Come si può discutere di
un problema, proporre azioni, darne conto, renderle efficaci
e diffuse, se anche solo una persona che assiste o partecipa
al dibattito ignora le basi del problema stesso? Intendo:
non ha idea dell’ABC, dello svolgimento dei fatti. Come
farlo, se anche un solo uomo non ha dati in proposito, o ha
falsi dati? Una lista di 2+2 è il pavimento dell’azione, su
cui si potrà costruire ciò che si vuole: se è fondata
sull’informazione, qualsiasi proposta è legittima, la si può
vagliare, contraddire o supportare.
[15]
G. ORWELL, 1984,
Oscar Mondadori 2002, Pag. 86.
Quando il protagonista
[16]
In molti casi non abbiamo la certezza di come si sono svolti
i fatti, e la realtà stessa ha sfaccettature, punti di vista
inconciliabili. Tuttavia, mi ribello con forza al fermarsi
qui, al dire: «la
verità nessuno l’ha in tasca»,
«solo un illuso può
credere di trovare e affrontare le non-verità connaturare
alla società». Affermare che la disinformazione, con
tutti i suo sfaceli, impera in Italia, e che qualcosa si può
fare, non è semplificare e sognare; invece, l’atteggiamento
cinicamente adattato di chi prende atto della natura
compromissoria della realtà, e ne fa un punto d’arrivo, è
quanto di più rinunciatario mi posso aspettare dagli uomini
avveduti d’Italia. Si dovrebbe aspirare, proprio perché
consapevoli della complessità delle cose, almeno al minimo
(chiarezza di base e diffusione di un’informazione
eclettica), per combattere così le mistificazioni, quelle sì
spesso individuabili nero su bianco, e di avere uno sguardo
saldo su ciò che emerge, sul mondo multiforme.
[17]
Nando dalla Chiesa, figlio del generale Dalla Chiesa e
docente di Sociologia della Criminalità Organizzata,
riferisce che in alcuni quartieri di Milano sono gli
‘ndranghetisti a fermare i poliziotti e a chiedere loro di
identificarsi. Il controllo del territorio, quindi, è
fortissimo anche al Nord, e questo accade anche per la
complice omertà o per la compiacenza del tessuto sociale.
[18]
«ll registro dei
tumori della regione Campania non è mai stato attivato. […]
Senza il registro è impossibile stabilire una relazione,
valida in tribunale, tra un’impennata di tumori su un certo
territorio e la presenza nei paraggi di una discarica o di
un sito di smaltimento di rifiuti tossici. […]
Quel poco che c’è è soltanto un
registro ridotto. […] Quanto sarebbe
necessario un registro più completo lo dimostrano i pochi
dati disponibili, definiti agghiaccianti» («Il Fatto
Quotidiano», 20 ottobre 2010). Ancora: «Gli ultimi dati
pubblicati dall'Organizzazione Mondiale della Sanità
mostrano che la situazione campana è incredibile, parlano di
un aumento vertiginoso delle patologie di cancro. Pancreas,
polmoni, dotti biliari più del 12% rispetto alla media
nazionale. La rivista medica
The Lancet Oncology già nel settembre 2004 parlava di un aumento del 24% dei tumori al
fegato nei territori delle discariche».
Fonte:
[19]
Sempre Nando dalla Chiesa informa che in genere le mafie
sono favorevoli all’apertura di discariche, di cui ottengono
facilmente gli appalti; anche in caso contrario ne ricavano
utili, poiché la costruzione di discariche o inceneritori
necessita di materiali e di una catena di produzione di cui
le organizzazioni criminali hanno spesso il monopolio in
zona.
[20]
F. DOSTOEVSKIJ, Umiliati e offesi, 1861:
«Dicono che chi è
sazio non può capire chi è affamato; io aggiungo che un
affamato non capisce un altro affamato».
[21]
Una mia conoscente, in realtà, diceva sempre che se fosse
nata in Africa, lei, se ne sarebbe rimasta là tranquilla,
anche con la guerra, anche a morire di fame. Mi ha sempre
fatto ridere, in privato e amaramente, che lei, la lei
bianca e pasciuta, non faccia che mangiare a quattro
palmenti.
[22]
La correlazione fra immigrazione e delinquenza è il luogo
comune massimo, smentito dalle fonti più serie:
«Tra gli italiani
intervistati di recente, 6 su 10 attribuiscono agli
stranieri un tasso di
criminalità più alto e, perciò, è necessario approfondire i dati
statistici disponibili e rispondere in maniera argomentata a
tre questioni […]. Prima questione: se l’aumento della
criminalità sia dovuto in maniera più che proporzionale
all’aumento della popolazione residente. La risposta è
negativa. Nel periodo 2001-2005 l’aumento degli stranieri
residenti è stato del 101% e l’aumento delle denunce
presentate contro stranieri del 46%. Alla stessa conclusione
è giunta
[23]
«Finché l’Europa non
verrà in Africa con le sue ricchezze, l’Africa continuerà a
venire in Europa con le sue povertà»
(Julius Kambarage
Nyerere, insegnante, economista e presidente della
Tanzania). Ho ascoltato di recente alcune obiezioni a questa
massima, perché l’Europa non è più ricca, e con la crisi i
poveri si moltiplicano anche qui. La migliore risposta credo
si trovi in una riflessione: il problema è sempre lo stesso,
la diseguale distribuzione delle ricchezze. È questa
l’ingiustizia prima da combattere. Ciò che è cambiato, è che
ora il problema ci tocca più da vicino: la causa degli
immigranti, la povertà, comincia o ricomincia a diventare
nostra.
[24]
L’OCSE
«stima che nel nostro Paese vivano tra i 500 e i 750 mila immigrati
clandestini. Sono l’1,09% della popolazione italiana, […]in
linea con quanto avviene negli altri Paesi europei. […] Ma
le valutazioni sull’impatto che avrà il provvedimento di
sanatoria (nel prossimo mese di settembre [2009]) per le
colf e le badanti aiutano a correggere al «rialzo» il dato.
Secondo il responsabile del Dossier statistico della Caritas
Migrantes, Franco Pittau, - uno dei massimi esperti
italiani di flussi migratori - la stima degli irregolari
dovrebbe aggirarsi più realisticamente «intorno a un milione
di persone». Perché […] in questo campo «vale la regola del
doppio». E cioè per ogni colf e badante che chiede di
«emergere» c’è almeno un altro immigrato irregolare sul
territorio». Fonte:
Corriere della Sera
del 10 agosto 2009.
La stima a maggio 2010 è ancora di 500-750 mila persone.
[25]
J.P. SARTRE,
L’Orphée
Noir, 1948:
«Qu'est-ce donc que vous espériez, quand vous ôtiez le
bâillon qui fermait ces bouches noires ?
Qu'elles allaient entonner vos louanges?»,
[Che cosa dunque
speravate, quando levavate il bavaglio che chiudeva queste
bocche nere? Che cantassero le vostre lodi?].
[26]
«Cantieri dell'Expo: 3
€ all’ora agli immigrati clandestini»
(informazione riferita da Edda Pando, fondatrice del circolo
Arci «Todo cambia», sulla base delle testimonianze di molti
operai clandestini). Le stesse cifre sono confermate da
varie inchieste, ad esempio dal IV Rapporto Ires – Fillea
sui lavoratori stranieri nel settore edile: in esso, un
manovale albanese racconta che
«è pieno di gente che
non trova lavoro o magari lavorano e poi non li pagano,
lavori dalla mattina alla sera per 30-35 euro».
[27]
Dovremmo sapere anche che in Italia, prima del reato di
clandestinità già esisteva il reato di permanenza illegale
sul suolo italiano, che conseguiva al fermo di un
clandestino e all’intimazione a lasciare l’Italia; questa
forma, che pure non risolveva la questione, è considerata
quantomeno legittima da alcuni giuristi.
[28]
Anche queste ultime due considerazioni ci sono offerte da
Don Gallo, fonte inesauribile di riflessioni su attitudini
anche semplici che, se adottate, migliorerebbero nel
concreto le condizioni della società moderna.
[29]
Ritengo che chi considera l’ordine pubblico una missione di
guerra è estremamente pericoloso, e lo è in modo
esponenziale se è un carabiniere; chi diffonde nei servitori
dello Stato ideologie fasciste, poi, andrebbe processato.
Riguardo al tema, consiglio il filmato
Quale verità per piazza Alimonda
(scaricabile gratuitamente su
www.piazzacarlogiuliani.org/carlo/iter/veritadvd.php,) e un
mio breve contributo,
L’Italia dalle Fogne,
leggibile sul sito www.cittafuture.org.
[30]
Don Gallo pronuncia questa frase con un sorriso pieno di
comprensione e ironia, e continua:
«Quanti ammazzerebbero
la suocera, ogni domenica, e non lo fanno non perché sono
buoni, ma per paura delle conseguenze?».
[32]«73 detenuti su 100 ha problemi di salute. All'interno delle celle la
percentuale dei sieropositivi è dell'1,4, cioè mille volte
superiore a quella del mondo libero. Il tasso dei suicidi o
dei tentativi di autolesionismo è fra il 4 e il 10 per
cento, fuori di uno su 10mila. Bastano questi numeri per
misurare rischi, fragilità e infelicità di un luogo.
[…]Dalla ricerca risulta che le maggiori malattie presenti
sono i disturbi di natura psichica (33,2%) e che la
principale patologia psichica (12,7%) è il disturbo mentale
da dipendenza da sostanze. Tra le malattie infettive il
primo posto è occupato dall'epatite da virus C (9,1%), ma
preoccupano i casi i relativi all'infezione da Hiv (1,4%):
«Siamo davanti a una situazione grave - spiega Fabio Voeller
del settore Epidemiologia dell'Ars - per esempio, ci
preoccupa l'alta percentuale di epatite C, o il fatto che ci
siano procedure che si inceppano perché mancano agenti, per
portare un detenuto a fare degli esami in ospedale»».
Fonte:
[33]
«Silvio
Berlusconi: imputato
in oltre 20 procedimenti giudiziari, nessuno si è concluso
con una sentenza definitiva di condanna, per via di
assoluzioni, declaratorie di prescrizione e depenalizzazioni
dei reati. L’elenco: 2 amnistie (falsa testimonianza P2 e
falso in bilancio Macherio); 1 assoluzione dubitativa
(corruzione Gdf, falso bilancio Medusa); 1 assoluzione piena
(corruzione giudici Sme-Ariosto); 2 assoluzioni per
depenalizzazione del reato da parte dello stesso imputato
(falsi in bilancio All Iberian, Sme-Ariosto); 8
archiviazioni (6 per mafia e riciclaggio, 2 per concorso in
strage). E ancora 6 prescrizioni (finanziamento illecito a
Craxi con All Iberian; falso in bilancio Macherio; falso in
bilancio e appropriazione indebita Fininvest; falso in
bilancio Fininvest occulta; falso in bilancio Lentini;
corruzione giudiziaria Mondadori); 3 processi in corso:
Telecinco (falso bilancio, frode fiscale, violazione
antitrust spagnola), caso Mills (corruzione
giudiziaria); diritti Mediaset (appropriazione indebita,
falso bilancio, frode fiscale); 1 indagine in corso
(istigazione alla corruzione di alcuni senatori).
[Aggiungiamo l’indagine in
corso in cui il Presidente del Consiglio è indagato per
concussione, avendo preteso la liberazione della marocchina
Ruby proprio in ragione della propria carica, e per
sfruttamento della prostituzione minorile].
Guido Bertolaso:
Il 10 febbraio 2010 è stato raggiunto da un
avviso di garanzia nell’ambito di un’inchiesta sugli appalti
del G8. Secondo l’accusa Bertolaso, insieme a diversi
imprenditori e altri membri della Protezione Civile, avrebbe
fatto parte di uno scenario di corruzione con scambi di
favori di svariata natura, anche sessuale, in cambio di
appalti. Bertolaso si difende ammettendo la possibilità che
durante la propria gestione della protezione civile
l’operato di alcuni dei suoi collaboratori possa essergli
sfuggito. Umberto
Bossi:
condannato in via definitiva a 8 mesi di reclusione per 200
milioni di finanziamento illecito dalla maxitangente
Enimont, e per istigazione a delinquere e oltraggio alla
bandiera. Altra condanna definitiva nel 2007 a 1 anno e 4
mesi (poi commutati in 3.000 euro di multa, interamente
coperti da indulto) per vilipendio alla bandiera italiana,
per aver dichiarato nel 1997: «Quando vedo il tricolore mi
incazzo. Il tricolore lo uso per pulirmi il culo». Ha un
altro processo in corso per lo stesso reato. Il Senatùr
èuscito indenne dal lungo processo per resistenza a pubblico
ufficiale, in seguito agli scontri con la polizia che
perquisiva, il 18 settembre ’96, la sede leghista di via
Bellerio a Milano: condannato a 7 mesi in primo grado e a 4
in appello, Bossi s’è visto annullare con rinvio la seconda
condanna dalla Cassazione, che ha disposto un nuovo processo
d’appello. E qui, nel 2007, è stato assolto. Ancora aperto,
invece, il processo di Verona per le camicie verdi della
cosiddetta Guardia nazionale padana costituita nel 1996:
Bossi, con altri 44 dirigenti leghisti, deve rispondere in
udienza preliminare di attentato alla Costituzione e
all’unità dello Stato, nonché di aver costituito una
struttura paramilitare fuorilegge. Ma la maggioranza di
centrodestra ha riformato i primi due reati in modo da
assicurarne la decadenza al processo di Verona.
Roberto Maroni:
condannato in
primo grado nel 1998 a 8 mesi per oltraggio e resistenza a
pubblico ufficiale. Prima di finire in ospedale con il naso
rotto, avrebbe tentato di mordere la caviglia di un agente
di polizia. In appello nel 2001 la pena è stata ridotta a 4
mesi e 20 giorni perché nel frattempo il reato di oltraggio
era stato abrogato. È anche imputato a Verona come ex capo
delle camicie verdi con le accuse di attentato contro
[34]
Temo la violenza, ma non posso più non vedere che chi
incendia il cassonetto durante le manifestazioni a Roma, non
è per forza un black block: può essere un ragazzo come me,
che non ha mai avuto a che fare con la violenza, ma portato
ad una disperazione ed esasperazione tali da rompere ogni
ideale, ogni paura, anche quella di finire in carcere o di
far male. Dove sono le altre strade, quelle che dovrebbe
avere per parlare e agire? Dove sono i suoi interlocutori?
Di fronte al vuoto galattico, stanno a migliaia i pieni,
quelli dei giorni pesanti d’ingiustizie. La mia posizione,
quindi, è di speranza non cieca alla realtà, ed è ben
rappresentata da quanto scrive Don Gallo nella sua lettera
di auguri alla città di Genova:
«Buon Natale ai
movimenti di studenti, di lavoratori, dei Centri sociali.
Grazie per averci fatto riscoprire l’indignazione
trasformata in rabbia per la conclamata assenza di futuro e
di fronte all’arroganza menzognera. Da tanti anni nessuno vi
ha ascoltato. È ancora possibile un dialogo? Con chi? Non vi
abbandoni la creatività».
[35]
Il concetto, ricorrente nelle poesie di Luzi, indica il
giusto in relazione alla vita, la sua legittimità necessaria
(Cfr. Dal fondo delle
campagne, 1965).
[36]
Nella società dell’Oceania delineata in
1984, il Ministero
della Guerra si chiama Ministero della Pace, il Ministero
dell’Amore si occupa delle torture, quello dell’Abbondanza
si occupa delle carestie endemiche, il Ministero della
Verità cura l'alterazione del passato e la confezione delle
menzogne.
[37]
G. ORWELL, 1984,
Oscar Mondadori 2002. Pag. 140:
«Si chiedeva quante
persone, come lei, si potessero trovare nelle generazioni
più giovani che erano cresciute nel clima della Rivoluzione,
che non conoscevano nient’altro al di fuori di essa, che
accettavano il Partito come qualcosa di inalterabile ed
inattaccabile, come il cielo, mettiamo, che non si
ribellavano contro la sua autorità, ma solo s’industriavano
di fargliela sotto il naso […]».
[38]
La frase è pronunciata da Mario Capanna, ma è l’epigrafe del
giornale «Les Révolutions de Paris», attribuita al giornalista e rivoluzionario Loustalot:
«Les grands ne nous paraissent
grands que
parce que nous sommes à genoux.
Levons-nous!».
[39]
«Nel 2009 il credito al consumo è
sceso dell’11%, i prestiti personali hanno registrato un
-13% e la cessione del quinto a settembre 2009 ha raggiunto
il +8%. Facendo una media di questi indicatori, si può
calcolare un 10% in
più di poveri, da sommare agli oltre 8 milioni stimati.
Nella vita di tutti i giorni la crisi si traduce in
difficoltà a pagare la spesa, il mutuo, le cambiali (+14%
nel 2009). Nei primi mesi del 2010 alcuni sostenevano che la
crisi economica era in via di superamento, ma ancora oggi il
problema appare in tutta la sua gravità, ci presenta le
difficoltà delle persone disoccupate, delle famiglie
impoverite, di quelle che sanno che prima o dopo finiranno
gli ammortizzatori sociali».
Fonte: In caduta
libera, Rapporto
2010 su povertà ed esclusione sociale in Italia, Caritas.
[40]
A. CAMUS,