banner
03
Gennaio 2011

home - indice

Sessualità e famiglia

IL GODIMENTO (S)FRENATO È IL PROBLEMA?

Alcune note a partire dalle «Considerazioni generali» del rapporto Censis 2010

Paolo Fazzari

 

Questo contributo, prosieguo dei lavori per la rubrica «sessualità e famiglia», propone un commento e una discussione critica alle «Considerazioni generali» del 44° rapporto Censis, pubblicate nel mese di dicembre 2010. Il discorso e le considerazioni proposte in apertura dell’ultimo rapporto Censis hanno attirato, infatti, la nostra attenzione per più di un motivo. C’è da un lato l’evidente qualità della «diagnosi» proposta dall’intero rapporto Censis 2010 la cui trattazione spazia dal livello economico-politico a una descrizione dei particolari assetti del presente sociale. Dall’altro poiché una quota teorica alla base della realizzazione dell’indagine stessa deriva dal campo teoretico delle «psicologie» individuali e collettive, mutuando linea di pensiero, e perfino il linguaggio stesso, dalla psicoanalisi. Il rapporto, per tale motivo, ci ha incuriosito non poco, e così il lapidario sotto-titolo con il quale è stato presentato dallo stesso Giuseppe De Rita (presidente Censis): «Un inconscio collettivo senza più legge, né desiderio».

Le «Considerazioni generali», che è possibile trovare all’indirizzo www.censis.it, risultano particolarmente evocative, tanto chiare nel dare una direzione al piano più generale del rapporto completo del Censis, quanto in sé rilevanti e feconde per una discussione su alcuni temi che nella introduzione stessa vengono sollevati.

Già a partire dal titolo sarebbero numerose le riflessioni possibili. Al centro del titolo, infatti, come detto, è posto l’inconscio. Spesso anche tra gli stessi addetti ai lavori del campo psicologico, esso resta un oggetto complesso sul quale non sempre è scontato l’accordo sulla definizione. Proverei qui, soprattutto nell’intento di esemplificare il nostro campo di indagine, a parafrasare il termine «inconscio», a maggior ragione poiché accompagnato dalla parola «collettivo». Proviamo a pensarlo, in tale circostanza, quale luogo, topos, quasi a poterlo immaginare come lo spazio in cui avvengono scambi e relazioni; ancora, come lo spazio mediatico ove si definiscono le identità, lo spazio più proprio di una cultura, e di un modo di essere; luogo originario da cui derivano simboli ed archetipi. Una citazione junghiana a proposito del carattere collettivo può essere di aiuto: «chiamo collettivi tutti quei contenuti psichici che non sono peculiari di un solo individuo, ma contemporaneamente di molti individui: cioè di una società, di un popolo o dell’umanità» (1921) Questo «inconscio collettivo», tornando all’oggetto della nostra rassegna, pare non essere più guidato, accompagnato, regolato, strutturato in funzione di qualcosa che ricordi la «legge» e meno che mai dal desiderio. Il titolo stesso, dunque, costituisce una prima convincente pennellata di un affresco che è sapiente rappresentazione della attualità del nostro paese, che diremmo, davvero alle prese con se stesso.

 (torna su)

Proverei a leggere insieme i passaggi cruciali delle «Considerazioni generali» affinché ci forniscano gli spunti necessari ad aprire una riflessione. Il documento, dal quale traiamo queste citazioni, consta di 18 punti e la domanda che sentiamo li percorra tutti è: come possiamo rappresentarci il nostro presente socio-politico-economico? Seguendo in ordine cronologico questo materiale ci imbattiamo in una serie di punti pregnanti, che ben lasciano presagire il clima con il quale ci confrontiamo. Ad esempio troviamo scritto:

«Nell’attuale realtà italiana rimbalzano spesso sensazioni di fragilità sia personali che di massa, che fanno pensare ad una perdita di consistenza (anche morale e psichica) del sistema nel suo complesso. È frequente il riscontro di comportamenti e atteggiamenti spaesati, indifferenti, cinici, passivamente adattativi o arrangiatorii, prigionieri delle influenze mediatiche, condannati al presente senza profondità di memoria e futuro. Con una rassegnazione implicita e diffusa non solo alla grande violenza della criminalità organizzata («non c’è niente da fare»), ma anche alla insensatezza di molte insensatezze quotidiane («siamo tutti un po’ matti»)». (punto 3). Comunicazioni che potrebbero apparirci già sufficientemente eloquenti, e che pertanto non richiedono ancora un commento.

Ancora, allora: «sono franati in basso (specialmente se si pensa alle psicologie individuali) i riferimenti della collocazione temporale e spaziale della vita quotidiana. La modernità, la post-modernità, la globalizzazione, la planetarizzazione hanno creato un mondo in cui il tempo è azzerato (il cosiddetto tempo reale) e così è pure azzerato lo spazio (con la simultaneità dei fenomeni in ogni parte del mondo); e dove quindi si sfarinano i significati che sempre le distanze e il tempo hanno creato nella vita dei singoli e dei popoli» (punto 4, grassetto mia).

Con queste incisive comunicazioni ecco che l’immagine, o forse più ancora l’imago, và pian piano delineandosi. Queste riflessioni evocano indubbiamente un uomo errante, vagabondo, il quale pare aver smarrito una direzione, morale, psichica e relazionale. I significati stessi sono «sfarinati», e laddove ce ne siano c’è ampia possibilità che essi stessi siano «prigionieri» o possano rendere ancor più prigioniero il sistema delle soggettività che ad essi faccia ricorso o un ipotetico riferimento.

Le «Considerazioni generali» del rapporto Censis si cimentano, se così possiamo dire, anche nel dare una spiegazione ai motivi all’origine di questo particolare scenario. È così possibile parlare di: «una orizzontalizzazione, una dimensione appiattita e vuota. Un appiattimento che è una progressiva desertificazione (in senso heideggeriano) ove è cresciuto il sommerso, la localizzazione, ma dove la soggettività non riesce più ad essere valorizzata». Viene a proporsi, o meglio ancora ad imporsi, la metafora di un campo di calcio al quale sono giunte a mancare perfino le porte, azzeccata immagine per evidenziare la completa assenza di direzione. Tale scenario ha alla base la perdita di alcune coordinate centrali essendo piuttosto in atto un movimento di s-regolazione del substrato pulsionale. «È una società liquida a indistinta (punto 7), per la quale bisognerebbe chiedersi se per caso non sia possibile denunciare la mancanza di un dispositivo di regolazione e disciplina (punto 8) […] non c’è da sorprendersi se in questa situazione si afferma in Italia una diffusa ed inquietante sregolazione pulsionale». (punto 9, grassetto mio).

Ha particolare interesse mettere in evidenza come di fronte a tale lettura si vivifichi la sensazione di trovarsi di fronte ad una forma di disagio che coinvolge l’intera «condizione umana», laddove molteplici registri sono contemporaneamente e circolarmente colpiti ed influenzati. Ancora oltre, infatti, possiamo leggere: «c’è un problema di legge e desiderio» (punto 13). Il desiderio che dovrebbe essere la spinta derivante dalla «mancanza a essere», aperto alla costante ricerca di oggetti di soddisfacimento si trova, invece, sommerso e sottomesso dal primato dell’offerta, dall’oggetto di soddisfacimento stesso.

E così: «Dall’altro lato, la caduta dei desideri porta al primato del godimento e dell’edonismo di massa, alla serialità dei comportamenti, alla rassegnazione per la loro eterodirezione, al presentismo euforico, al rifiuto del tempo lungo e dell’accumulazione, all’eccessivo peso del mondo esterno rispetto alla coltivazione dei mondi interni. L’individualismo atomizzato cresce e si corrompe in un pericoloso vuoto sociale». (punto 14) Ad esempio: come spiegare il «balconing» sempre più in voga, e cioè quella moda di gettarsi in piscina direttamente dalla propria camera d’albergo?

 (torna su)

Appare chiaro come questi diversi aspetti puntellino in modo assolutamente centrale questo «rapporto» finendo con il dispiegare lo stato di cose di questo paese. Sentiamo, tuttavia, però come la rapidità con la quale queste considerazioni possono essere proposte rischi lasciare scivolare una più completa riflessione, lasciano nell’oscurità anche dovuti chiarimenti concettuali.

È certamente degno di nota il fatto che vi sia stato uno spazio che ha fornito l’opportunità di continuare a discutere tale materiale, le sue premesse e dirette/indirette conseguenze. Tale spazio è stato quello delle pagine del Manifesto, in particolar modo in alcuni numeri comparsi all’inizio del mese di dicembre. In alcuni articoli comparsi l’indomani della presentazione del rapporto Censis, hanno infatti preso la parola Ida Dominijanni (editorialista del Manifesto) prima e Massimo Recalcati (psicoanalista) poi. In primo luogo hanno reso giustizia notando un’eco piuttosto chiara sulla provenienza di questo materiale «teorico», notando, infatti, come una grande quantità di spunti utili a questo contributo derivassero dal testo dello stesso Massimo Recalcati, «L’uomo senza inconscio» (Febbraio 2010).

È stato pertanto rilevante poter leggere sulle pagine del Manifesto un interessante scambio indiretto, tra M. Recalcati, I. Dominijanni, e lo stesso G. De Rita, direttore del Censis, proprio a sottolineare e commentare il corposo materiale che forse con troppa velocità era stato proposto e letto. È sicuramente da considerare che Massimo Recalcati non abbia disconosciuto affatto le tesi riportate, utilizzate, riplasmate nel discorso delle «Considerazioni generali». Sebbene allora, il suo intervento comparso sul Manifesto il giorno 7 dicembre 2010, abbia apprezzato il tentativo del Censis, è stato occasione per sottolineare alcuni punti che, tuttavia, non erano stati presi sufficientemente in considerazione dallo stesso Giuseppe De Rita nelle pagine della introduzione. Sul Manifesto, infatti, è sottolineata da Recalcati l’assenza di una nota centrale alla quale non si sarebbe dovuti rinunciare, una nota che Recalcati ha battezzato «berlusconismo». Infatti, partendo dal tema chiave dell’attuale fenomeno del berlusconismo, sarebbe possibile per Recalcati ricostruire e ridefinire la storia mitologico-edipica del nostro paese mediante una serie di parallelismi tra le configurazioni politico-governative succedutesi e le costellazioni edipiche sottese a quel particolare momento-movimento-assetto politico stesso. Per Recalcati sussisterebbe una prima grande stagione del potere definibile come «pre-edipica». Essa sarebbe coincidente con quel momento storico in cui sussisteva una figura capo-carismatica unica, all’interno di un tessuto totalitario. Il leader, come bene interpretato e rappresentato dal duce, ad esempio, sarebbe stato al centro di questa scena, ipnotizzando la folla e tenendola unita e soggiogata all’ombra di un potente ideale collettivo.

A questo primo mito collettivo, nell’analisi di Recalcati, farebbe poi seguito una stagione «edipica», identificabile come il periodo compreso tra la caduta dei sistemi totalitari, la successiva salita al potere della democrazia cristiana, fino al periodo segnato dai diversi scandali di «mani pulite». Durante tale configurazione il governo avrebbe assunto la precipua funzione di limitazione del godimento ed indirizzamento dell’organizzazione pulsionale stessa. In alcune figure chiave come quella di Enrico Berlinguer e Alcide De Gasperi si sarebbe incarnato un capo di stato capace di sottomettere la propria spinta individualista al bene collettivo.

In una terza epoca tale fattore protettivo ed organizzativo sarebbe assurto alla sua disfatta: proprio l’attuale perverso «berlusconismo» di cui sopra. In tale struttura sociale soggiogata da una configurazione «ipermoderna» il proprio personale godimento, svincolato da ogni legge, decontestualizzato, ed intollerante a qualsiasi idea di limite, avrebbe assunto una posizione dominante del vivere post-moderno. Appare chiara tuttavia, e pertanto la si riporta, la giustificazione proposta dallo stesso Recalcati a tutto questo: «la psicoanalisi ha un nome preciso per definire questa aberrazione della legge, che serve solo il proprio godimento: perversione. Con questo termine non ci si riferisce a quanto avviene sotto le lenzuola, ma all'attitudine a subordinare ogni cosa (la verità, i legami sociali, gli affetti più intimi, gli interessi generali di una comunità) al proprio godimento personale, vissuto come un imperativo incoercibile. La legge si sgancia dal desiderio perché il desiderio esige di incontrare dei limiti, per funzionare e farsi progettuale. Qui, invece, ciò che conta - ed è veramente ciò che davvero più conterebbe in una eventuale psicopatologia di Berlusconi - è l'angoscia provocata dal limite, dalla legge, è cioè l'angoscia della morte. Non si intende, infatti, nulla di questa nuova versione del potere se non si parte da questo presupposto clinico».

 (torna su)

Il rapporto Censis, come ben messo in evidenza dal suo sito, è giunto al suo 44° capitolo, 44 capitoli di narrazione sociale, sociologico-politica. Quest’anno una svolta descrittiva in senso psicoanalitico, a quanto pare, una scelta audace che di assoluta pertinenza, a giudicare da quanto riportato fino ad adesso. Si ode chiaramente un movimento mediatico nel quale si registra una crisi trasversale, una crisi che attraversa moltissimi livelli. Si sentiva dire qualche tempo fa come questa fosse una crisi  passata da economica a finanziaria, quando aveva fatto breccia nel reale della quotidianità di tutti. Il vento di crisi, è divenuta un’entità transumante che dal piano economico ha acquisito la capacità di «attraversamento», più o meno metaforica, ritrovandosi non solo a latitudini e longitudini altre, geograficamente estese, ma rispecchiatasi in altri ordini simbolici. «Dici crisi», ed infatti, anche al di là del punto di vista che si voglia avere sulla faccenda, se ne ritrova una sotto la forma della crisi di governo, della sua struttura e, pensiamo anche quanto, della sua decisionalità, ma ciò che più appare rilevante è quella parte di crisi che attraversa la sfera socio-psicologica, relazionale; insomma, la crisi che sentiamo, e che il Censis e Recalcati ci hanno narrato aver colpito il cuore della civiltà umana stessa. Torniamo alla presentazione del rapporto Censis. Siamo così, de facto, giunti ad un tempo nel quale ci si interroga su quale possa essere l’implicazione della crisi delle relazioni, la crisi di un uomo alla deriva. A questa «umanità», di cui stiamo discutendo, l’unico punto identitario, il punto di tenuta per quanto attiene alla propria identità, è rappresentato dal consumo di oggetti, una forma compensazione di cui si individua facilmente la dimensione compensatoria schiacciata in un registro illusorio. Nell’attuale scenario l’uomo comune sembra poter giungere facilmente al ritrovamento dell’oggetto sperato, cercato, desiderato, nel momento in cui la tecnologia, la scienza/pseudo-scienza lo pongono in condizione di ottenere ciò che desidera ancor prima di averlo richiesto o di averne percepita la mancanza. Giustamente, a questo proposito si è interrogato De Rita, ponendo la dovuta attenzione al fatto di dover iniziare a ribaltare la prospettiva e vedere in quanti e quali modi il desiderio sia oggi sempre più «creato» saturando sul versante dell’offerta l’attività creativa di ricerca stessa, al di là, del comunque esistente, godimento s-frenato.

Possiamo, cogliendone l’eco, individuare in tutta la sua pregnanza l’odierna formula che finisce con il celebrare la vittoria del capitalismo: dai e dai, l’offerta riesce nel suo intento di creazione di desiderio e di mercato.

 (torna su)

Tutto quanto detto (se vogliamo altrettanto velocemente), ci permette di guardare in modo completamente diverso a cosa significhi fare i conti oggi con una qualsivoglia idea di Legge, ponendo una rinnovata domanda su come possa l’uomo rispondere della e alla sua natura stessa, come già a suo tempo bene evidenziata dal grande Sofocle: «uomo tremendo e meraviglioso» al cospetto della Legge.

La Legge, al centro del considerazioni discusse è sicuramente una legge che ha perduto il suo statuto-statutario stesso, cioè quello di costituire da rimando; la roccia basilare a partire dalla quale disporre le altre cose. Benché il tema sia complesso e sussistano paradossi e contraddizioni quando l’uomo prova a confrontarsi con la legge (I. Dionigi), essendo al contempo legislatore e suddito della propria legge, ci chiediamo se la Legge debba costituire ancora qualcosa al quale poter fare rimando, sulla quale poggiare, appunto, la logica comportamentale e morale.

Lo scenario nel quale ci troviamo e muoviamo, nel quale si mantenere una forma referenziale delle Legge, pare però sottoposta ad un rimando circolare nel quale è possibile simmetrizzare e sostituire tutto con qualcos’altro. E in tal senso è così che diviene possibile all’oggetto di imporsi; è questo, infatti, il mondo del simulacro (Baudrillard). Proprio proseguendo con Baudrillard, si può sostenere che di fatto che non sussista più uno statuto a cui rimandare. Non si può più essere sicuri, cioè, (e in tal senso riprendiamo proprio il punto 1 delle «considerazioni») di sapere a cosa rimandino i segni utilizzati, essendo assente la legge ed evaporato il Padre depositario di essa (Realcati, 2010). Il punto di approdo di tale semiotica anti-referenziale potrebbe non avere altra «finalità» se non quella di tradursi, e sta probabilmente sempre più traducendosi, in identità smarrite, «identità» che tali non possono più essere, non avendo alcuna precipua «roccia» verso la quale tendere e misurarsi; metaforicamente parlando non ci sarebbe neanche più un’anima da vendersi al diavolo. Se tutto è ormai nell’ordine del simulacro, la realtà non è altro che una «iperrealtà» circolare, senza punti fermi, senza possibilità che l’identità divenga. D’altra parte, prendendo il punto di vista di chi osserva, l’utilità di un segno è quello di mettere nella condizione di poter pensare e far pensare a qualcosa, di rimandare, appunto. È così, che nell’osservatore stesso l’identità dell’altro che gli/ci sta di fronte diviene  qualcosa di indefinito, rimandante ad un universo infinito/indefinito di significabili, che affatto possibilità, finisce con il lasciare l’identità soggettiva vuota e svuotata di senso.

Di fronte a tale cascata di eventi e plurime ricadute psicosociali aveva forse ragione Freud quando, benché in un ordine teoretico diverso, proponeva ancora un aspetto tragico della vita nel suo «disagio della civiltà», postulando una rinuncia necessaria da imporre proprio alla pulsione, quella pulsione che, chiudendo l’assioma, oggi è puro appagamento di se stessa e non più capace di essere segno di un desiderio (e per converso di «sintomo»), eventuale scambio interpretabile. È qui che la pulsione si fa segno unicamente di una società schiacciata in un paradigma edonico, ove il godimento è apparentemente libero eppure imbrigliato da aliene ed occulte logiche di mercato.

 (torna su)

Qualche tempo fa mi sono posto di fronte ad una questione affatto banale, benché casuale: cosa si sogni oggigiorno. Sognare, intendiamoci, in un senso molto terreno, del tipo ad esempio: desiderare di sposarsi, trovare quel posto di lavoro che si reputa congruo con il proprio sé, comprarsi un’auto nuova, conoscere una persona interessante, fare un viaggio verso una terra agognata. Mi sono personalmente risposto che alla mia percezione moltissimo del quotidiano sia ancora regolato e stimolato da sogni. E, aggiungerei, che questi sogni costituiscono una parte importante dell’identità e della soggettività tanto di coloro che incontriamo quanto di noi stessi. In questo piccolo esperimento, quello cioè di prestare orecchio a dove il discorso dell’altro venisse enfatizzato o colonizzato da un «sogno», ho percepito una certa dedizione e tensione verso dimensioni utopiche, verso desideri di cambiamento, apertura verso un mondo diverso, e che tutto questo, nell’attesa che, soprattutto, tutto ciò accadesse prima o poi.

E tuttavia, se il mio orecchio non ha sbagliato, ho avuto allo stesso tempo la sensazione che si trattasse di sogni troppo grandi da poter essere realizzati, attraversati da un ché di irrealistico al punto da creare un particolare fenomeno di scissione avendo cioè, da un lato piccole e banalissime cose del quotidiano e dall’altro aspettative sempre più grandi e irraggiungibili. Questa apparente configurazione mi ha ricordato qualcosa di cui parla il sociologo Slavoj Zizek, quando riflette a proposito di alcune tipiche configurazioni individuali o sociali, il cui obiettivo è quello di mettersi i bastoni tra le ruote da soli, porsi cioè in un ordine simbolico che definisce il soggetto, vincolandolo ad un ordine, ma impedendone ogni movimento creativo.

La sensazione è stata allora quella di notare un’impossibilità di modulare la distanza dalle cose, avendo da un lato (quello che potremmo definire) il proprio mondo interno, e dell’altro la realtà esterna, con la quale fare i conti, e nella quale portare le proprie istanze personali e creative.

A questo proposito, ritornando al lavoro di M. Recalcati, quando ha presentato la possibilità di individuare delle stagioni «edipiche» nel corso della storia socio-politica italiana, viene da chiedersi se non sia sovvertibile la linea del tempo prevista dal suo modello, indicando piuttosto, con il termine «pre-edipico», la configurazione dell’attuale scenario. Generalmente, infatti, si può intendere con preedipico quella costellazione che precede l’edipo, descrivibile quale momento in cui madre e bambino/a sono idealmente fusi insieme in un godimento concreto, un rapporto fusivo, un rapporto intero e illimitato; un rapporto tra un «seno» che allatta, anteriore alla possibilità di entrare in rapporto con un oggetto terzo, nella fattispecie il padre. Tale fusione è metaforicamente un pieno e completo avviluppamento con l’oggetto, ma si rivela un legame che paga un oneroso pedaggio in termini di possibili aperture verso la «realtà», tenendosi fuori dal «principio di realtà» e lasciandosi sedurre dalla fascinazione del «principio di piacere» - narcisismo.

Ci siamo chiesti in fondo se non sia questa la forma che permea e intreccerà ancora le relazioni del nostro presente, essendo «evaporato il padre» (Recalcati). In questo momento, allo stato attuale delle cose, quella dell’elemento paterno è una pericolosa esclusione che incide su un godimento (apparentemente) illimitato. La sensazione di avere tutto, che non ci sia niente da desiderare, che non sia «il vuoto» o piuttosto un sogno metaforicamente impossibile da realizzare, significa che ciò a cui è impossibile pervenire oggi, ciò che è davvero preclusa, è la soggettività: la personale fantasia e creatività realizzativa, concreta guida nei rapporti di relazione e dello stesso rapporto con se stessi.

Mi appresto a concludere ponendo l’attenzione ad un’ulteriore questione (eventualmente provocatoria), pensando cioè se la rinnovata religiosità di cui si parla ai nostri tempi, la ricerca in fondo di direzione e sicurezza mediante luoghi che simbolicamente sono costituiti per «resistere» al segno del tempo come una chiesa o La Chiesa, non sia specularmente una forma di ricerca non già di un’ipotetica «verità», ma di una ulteriore forma di imposizione di un oggetto pervenuto dall’esterno. Se non sia insomma, la ricerca di un compensativo «impero della legge» (Dionigi, Ravasi) che compensi «l’inconscio collettivo» orfano di un Padre e di una Legge.

 

In conclusione di questo breve ed ancora aperto percorso pare interessante e pregnante rilanciare un confronto stimolato proprio da una delle ultime frasi delle «Considerazioni generali» stesse, che incidentalmente offrono uno spunto in direzione dell’interrogativo proposto alla fine del precedente paragrafo: «la crisi che stiamo attraversando ha bisogno quindi principalmente di uno scavo e di messaggi che facciano autocoscienza di massa (di massa e non di piazza, come pensano affabulatori in cerca di autostima)» (punto 18) […] e forse quel che dobbiamo desiderare è questo ritrovare una mente in opera, un riarmo mentale più che morale».

 

GENNAIO 2011

(torna su)