Sessualità e famiglia
IL GODIMENTO (S)FRENATO È IL PROBLEMA?
Alcune note a partire dalle
«Considerazioni generali» del rapporto Censis 2010
Paolo Fazzari
Questo contributo, prosieguo dei lavori
per la rubrica «sessualità e famiglia», propone un commento e una
discussione critica alle «Considerazioni generali» del 44° rapporto
Censis, pubblicate nel mese di dicembre 2010. Il discorso e le
considerazioni proposte in apertura dell’ultimo rapporto Censis hanno
attirato, infatti, la nostra attenzione per più di un motivo. C’è da un
lato l’evidente qualità della «diagnosi» proposta dall’intero rapporto
Censis 2010 la cui trattazione spazia dal livello economico-politico a
una descrizione dei particolari assetti del presente sociale. Dall’altro
poiché una quota teorica alla base della realizzazione dell’indagine
stessa deriva dal campo teoretico delle «psicologie» individuali e
collettive, mutuando linea di pensiero, e perfino il linguaggio stesso,
dalla psicoanalisi. Il rapporto, per tale motivo, ci ha incuriosito non
poco, e così il lapidario sotto-titolo con il quale è stato presentato
dallo stesso Giuseppe De Rita (presidente Censis):
«Un inconscio collettivo senza più legge, né desiderio».
Le «Considerazioni generali», che è
possibile trovare all’indirizzo
www.censis.it, risultano particolarmente evocative, tanto chiare nel
dare una direzione al piano più generale del rapporto completo del
Censis, quanto in sé rilevanti e feconde per una discussione su alcuni
temi che nella introduzione stessa vengono sollevati.
Già a partire dal titolo sarebbero
numerose le riflessioni possibili. Al centro del titolo, infatti, come
detto, è posto l’inconscio. Spesso anche tra gli stessi addetti ai
lavori del campo psicologico, esso resta un oggetto complesso sul quale
non sempre è scontato l’accordo sulla definizione. Proverei qui,
soprattutto nell’intento di esemplificare il nostro campo di indagine, a
parafrasare il termine «inconscio», a maggior ragione poiché
accompagnato dalla parola «collettivo». Proviamo a pensarlo, in tale
circostanza, quale luogo, topos, quasi a poterlo immaginare come lo
spazio in cui avvengono scambi e relazioni; ancora, come lo spazio
mediatico ove si definiscono le identità, lo spazio più proprio di una
cultura, e di un modo di essere; luogo originario da cui derivano
simboli ed archetipi. Una citazione junghiana a proposito del carattere
collettivo può essere di
aiuto: «chiamo collettivi tutti
quei contenuti psichici che non sono peculiari di un solo individuo, ma
contemporaneamente di molti individui: cioè di una società, di un popolo
o dell’umanità» (1921) Questo «inconscio collettivo», tornando
all’oggetto della nostra rassegna, pare non essere più guidato,
accompagnato, regolato, strutturato in funzione di qualcosa che ricordi
la «legge» e meno che mai dal
desiderio. Il titolo stesso, dunque, costituisce una prima
convincente pennellata di un affresco che è sapiente rappresentazione
della attualità del nostro paese, che diremmo, davvero alle prese con se
stesso.
Proverei a leggere insieme i passaggi
cruciali delle «Considerazioni
generali» affinché ci forniscano gli spunti necessari ad aprire una
riflessione. Il documento, dal quale traiamo queste citazioni, consta di
18 punti e la domanda che sentiamo li percorra tutti è: come possiamo
rappresentarci il nostro presente socio-politico-economico? Seguendo in
ordine cronologico questo materiale ci imbattiamo in una serie di punti
pregnanti, che ben lasciano presagire il clima con il quale ci
confrontiamo. Ad esempio troviamo scritto:
«Nell’attuale realtà italiana rimbalzano
spesso sensazioni di fragilità sia personali che di massa, che fanno
pensare ad una perdita di consistenza (anche morale e psichica) del
sistema nel suo complesso. È frequente il riscontro di comportamenti e
atteggiamenti spaesati, indifferenti, cinici, passivamente adattativi o
arrangiatorii, prigionieri delle influenze mediatiche, condannati al
presente senza profondità di memoria e futuro. Con una rassegnazione
implicita e diffusa non solo alla grande violenza della criminalità
organizzata («non c’è niente da fare»), ma anche alla insensatezza di
molte insensatezze quotidiane («siamo tutti un po’ matti»)».
(punto 3). Comunicazioni che potrebbero apparirci già sufficientemente
eloquenti, e che pertanto non richiedono ancora un commento.
Ancora, allora:
«sono franati in basso
(specialmente se si pensa alle psicologie individuali) i riferimenti
della collocazione temporale e spaziale della vita quotidiana. La
modernità, la post-modernità, la globalizzazione, la planetarizzazione
hanno creato un mondo in cui il tempo è azzerato (il cosiddetto tempo
reale) e così è pure azzerato lo spazio (con la simultaneità dei
fenomeni in ogni parte del mondo); e dove quindi si
sfarinano i significati che
sempre le distanze e il tempo hanno creato nella vita dei singoli e dei
popoli» (punto 4, grassetto mia).
Con queste incisive comunicazioni ecco
che l’immagine, o forse più ancora
l’imago, và pian piano delineandosi. Queste riflessioni evocano
indubbiamente un uomo errante, vagabondo, il quale pare aver smarrito
una direzione, morale, psichica e relazionale. I significati stessi sono
«sfarinati», e laddove ce ne siano c’è ampia possibilità che essi stessi
siano «prigionieri» o possano rendere ancor più prigioniero il sistema
delle soggettività che ad essi faccia ricorso o un ipotetico
riferimento.
Le «Considerazioni generali» del
rapporto Censis si cimentano, se così possiamo dire, anche nel dare una
spiegazione ai motivi all’origine di questo particolare scenario. È così
possibile parlare di: «una
orizzontalizzazione, una dimensione appiattita e vuota. Un appiattimento
che è una progressiva desertificazione (in senso heideggeriano) ove è
cresciuto il sommerso, la localizzazione, ma dove la soggettività non
riesce più ad essere valorizzata». Viene a proporsi, o meglio ancora
ad imporsi, la metafora di un campo di calcio al quale sono giunte a
mancare perfino le porte, azzeccata immagine per evidenziare la completa
assenza di direzione. Tale scenario ha alla base la perdita di alcune
coordinate centrali essendo piuttosto in atto un movimento di
s-regolazione del substrato pulsionale.
«È una società liquida a indistinta (punto 7),
per la quale bisognerebbe chiedersi se per caso non sia possibile
denunciare la mancanza di un dispositivo di regolazione e disciplina
(punto 8) […] non c’è da
sorprendersi se in questa situazione si afferma in Italia una diffusa ed
inquietante sregolazione
pulsionale». (punto 9, grassetto mio).
Ha particolare interesse mettere in
evidenza come di fronte a tale lettura si vivifichi la sensazione di
trovarsi di fronte ad una forma di disagio che coinvolge l’intera
«condizione umana», laddove molteplici registri sono contemporaneamente
e circolarmente colpiti ed influenzati. Ancora oltre, infatti, possiamo
leggere: «c’è un problema di legge
e desiderio» (punto 13). Il desiderio che dovrebbe essere la spinta
derivante dalla «mancanza a essere», aperto alla costante ricerca di
oggetti di soddisfacimento si trova, invece, sommerso e sottomesso dal
primato dell’offerta, dall’oggetto di soddisfacimento stesso.
E così:
«Dall’altro lato, la caduta dei
desideri porta al primato del godimento e dell’edonismo di massa, alla
serialità dei comportamenti, alla rassegnazione per la loro
eterodirezione, al presentismo euforico, al rifiuto del tempo lungo e
dell’accumulazione, all’eccessivo peso del mondo esterno rispetto alla
coltivazione dei mondi interni. L’individualismo atomizzato cresce e si
corrompe in un pericoloso vuoto sociale». (punto 14) Ad esempio:
come spiegare il «balconing» sempre più in voga, e cioè quella
moda di gettarsi in piscina
direttamente dalla propria camera d’albergo?
Appare chiaro come questi diversi
aspetti puntellino in modo assolutamente centrale questo «rapporto»
finendo con il dispiegare lo stato di cose di questo paese. Sentiamo,
tuttavia, però come la rapidità con la quale queste considerazioni
possono essere proposte rischi lasciare scivolare una più completa
riflessione, lasciano nell’oscurità anche dovuti chiarimenti
concettuali.
È certamente degno di nota il fatto che
vi sia stato uno spazio che ha fornito l’opportunità di continuare a
discutere tale materiale, le sue premesse e dirette/indirette
conseguenze. Tale spazio è stato quello delle pagine del Manifesto, in
particolar modo in alcuni numeri comparsi all’inizio del mese di
dicembre. In alcuni articoli comparsi l’indomani della presentazione del
rapporto Censis, hanno infatti preso la parola Ida Dominijanni
(editorialista del Manifesto) prima e Massimo Recalcati (psicoanalista)
poi. In primo luogo hanno reso giustizia notando un’eco piuttosto chiara
sulla provenienza di questo materiale «teorico», notando, infatti, come
una grande quantità di spunti utili a questo contributo derivassero dal
testo dello stesso Massimo Recalcati,
«L’uomo senza inconscio» (Febbraio 2010).
È stato pertanto rilevante poter leggere
sulle pagine del Manifesto un interessante scambio indiretto, tra M.
Recalcati, I. Dominijanni, e lo stesso G. De Rita, direttore del Censis,
proprio a sottolineare e commentare il corposo materiale che forse con
troppa velocità era stato proposto e letto. È sicuramente da considerare
che Massimo Recalcati non abbia disconosciuto affatto le tesi riportate,
utilizzate, riplasmate nel discorso delle «Considerazioni generali».
Sebbene allora, il suo intervento comparso sul Manifesto il giorno 7
dicembre 2010, abbia apprezzato il tentativo del Censis, è stato
occasione per sottolineare alcuni punti che, tuttavia, non erano stati
presi sufficientemente in considerazione dallo stesso Giuseppe De Rita
nelle pagine della introduzione. Sul Manifesto, infatti, è sottolineata
da Recalcati l’assenza di una nota centrale alla quale non si sarebbe
dovuti rinunciare, una nota che Recalcati ha battezzato «berlusconismo».
Infatti, partendo dal tema chiave dell’attuale fenomeno del
berlusconismo, sarebbe possibile per Recalcati ricostruire e ridefinire
la storia mitologico-edipica del nostro paese mediante una serie di
parallelismi tra le configurazioni politico-governative succedutesi e le
costellazioni edipiche sottese a quel particolare
momento-movimento-assetto politico stesso. Per Recalcati sussisterebbe
una prima grande stagione del potere definibile come «pre-edipica».
Essa sarebbe coincidente con quel momento storico in cui sussisteva una
figura capo-carismatica unica, all’interno di un tessuto totalitario. Il
leader, come bene interpretato e rappresentato dal duce, ad esempio,
sarebbe stato al centro di questa scena, ipnotizzando la folla e
tenendola unita e soggiogata all’ombra di un potente ideale collettivo.
A questo primo
mito collettivo, nell’analisi
di Recalcati, farebbe poi seguito una stagione «edipica», identificabile come il periodo compreso tra la caduta dei
sistemi totalitari, la successiva salita al potere della democrazia
cristiana, fino al periodo segnato dai diversi scandali di «mani
pulite». Durante tale configurazione il governo avrebbe assunto la
precipua funzione di limitazione del godimento ed indirizzamento
dell’organizzazione pulsionale stessa. In alcune figure chiave come
quella di Enrico Berlinguer e Alcide De Gasperi si sarebbe incarnato un
capo di stato capace di sottomettere la propria spinta individualista al
bene collettivo.
In una terza epoca tale fattore
protettivo ed organizzativo sarebbe assurto alla sua disfatta: proprio
l’attuale perverso «berlusconismo» di cui sopra. In tale struttura
sociale soggiogata da una configurazione «ipermoderna» il proprio
personale godimento, svincolato da ogni legge, decontestualizzato, ed
intollerante a qualsiasi idea di limite, avrebbe assunto una posizione
dominante del vivere post-moderno. Appare chiara tuttavia, e pertanto la
si riporta, la giustificazione proposta dallo stesso Recalcati a tutto
questo: «la
psicoanalisi ha un nome preciso per definire questa aberrazione della
legge, che serve solo il proprio godimento: perversione. Con questo
termine non ci si riferisce a quanto avviene sotto le lenzuola, ma
all'attitudine a subordinare ogni cosa (la verità, i legami sociali, gli
affetti più intimi, gli interessi generali di una comunità) al proprio
godimento personale, vissuto come un imperativo incoercibile. La legge
si sgancia dal desiderio perché il desiderio esige di incontrare dei
limiti, per funzionare e farsi progettuale. Qui, invece, ciò che conta -
ed è veramente ciò che davvero più conterebbe in una eventuale
psicopatologia di Berlusconi - è l'angoscia provocata dal limite, dalla
legge, è cioè l'angoscia della morte. Non si intende, infatti, nulla di
questa nuova versione del potere se non si parte da questo presupposto
clinico».
Il rapporto Censis, come ben messo in
evidenza dal suo sito, è giunto al suo 44° capitolo, 44 capitoli di
narrazione sociale, sociologico-politica. Quest’anno una svolta
descrittiva in senso psicoanalitico, a quanto pare, una scelta audace
che di assoluta pertinenza, a giudicare da quanto riportato fino ad
adesso. Si ode chiaramente un movimento mediatico nel quale si registra
una crisi trasversale, una crisi che attraversa moltissimi livelli. Si
sentiva dire qualche tempo fa come questa fosse una crisi
passata da economica a finanziaria, quando aveva fatto breccia
nel reale della quotidianità
di tutti. Il vento di crisi, è divenuta un’entità transumante che dal
piano economico ha acquisito la capacità di «attraversamento», più o
meno metaforica, ritrovandosi non solo a latitudini e longitudini altre,
geograficamente estese, ma rispecchiatasi in altri ordini simbolici.
«Dici crisi», ed infatti, anche al di là del punto di vista che si
voglia avere sulla faccenda, se ne ritrova una sotto la forma della
crisi di governo, della sua struttura e, pensiamo anche quanto, della
sua decisionalità, ma ciò che più appare rilevante è quella parte di
crisi che attraversa la sfera socio-psicologica, relazionale; insomma,
la crisi che sentiamo, e che il Censis e Recalcati ci hanno narrato aver
colpito il cuore della civiltà umana stessa. Torniamo alla presentazione
del rapporto Censis. Siamo così, de facto, giunti ad un tempo nel quale
ci si interroga su quale possa essere l’implicazione della crisi delle
relazioni, la crisi di un uomo alla deriva. A questa «umanità», di cui
stiamo discutendo, l’unico punto
identitario, il punto di tenuta per quanto attiene alla propria
identità, è rappresentato dal consumo di oggetti, una forma
compensazione di cui si individua facilmente la dimensione compensatoria
schiacciata in un registro illusorio. Nell’attuale scenario
l’uomo comune sembra poter
giungere facilmente al ritrovamento dell’oggetto sperato, cercato,
desiderato, nel momento in cui la tecnologia, la scienza/pseudo-scienza
lo pongono in condizione di ottenere ciò che desidera ancor prima di
averlo richiesto o di averne percepita la mancanza. Giustamente, a
questo proposito si è interrogato De Rita, ponendo la dovuta attenzione
al fatto di dover iniziare a ribaltare la prospettiva e vedere in quanti
e quali modi il desiderio sia oggi sempre più «creato» saturando sul
versante dell’offerta l’attività creativa di ricerca stessa, al di là,
del comunque esistente, godimento s-frenato.
Possiamo, cogliendone l’eco, individuare
in tutta la sua pregnanza l’odierna formula che finisce con il celebrare
la vittoria del capitalismo: dai e dai, l’offerta riesce nel suo intento
di creazione di desiderio e di mercato.
Tutto quanto detto (se vogliamo
altrettanto velocemente), ci permette di guardare in modo completamente
diverso a cosa significhi fare i conti oggi con una qualsivoglia idea di
Legge, ponendo una rinnovata domanda su come possa l’uomo rispondere
della e alla sua natura stessa, come già a suo tempo bene evidenziata
dal grande Sofocle: «uomo tremendo e meraviglioso» al cospetto della
Legge.
Lo scenario nel quale ci troviamo e
muoviamo, nel quale si mantenere una forma referenziale delle Legge,
pare però sottoposta ad un rimando circolare nel quale è possibile
simmetrizzare e sostituire tutto con qualcos’altro. E in tal senso è
così che diviene possibile all’oggetto
di imporsi; è questo, infatti, il mondo del simulacro (Baudrillard).
Proprio proseguendo con Baudrillard, si può sostenere che di fatto che
non sussista più uno statuto a cui rimandare. Non si può più essere
sicuri, cioè, (e in tal senso riprendiamo proprio il punto 1 delle
«considerazioni») di sapere a cosa rimandino i segni utilizzati, essendo
assente la legge ed evaporato il Padre depositario di essa (Realcati,
2010). Il punto di approdo di tale semiotica anti-referenziale potrebbe
non avere altra «finalità» se non quella di tradursi, e sta
probabilmente sempre più traducendosi, in identità smarrite, «identità»
che tali non possono più essere, non avendo alcuna precipua «roccia»
verso la quale tendere e misurarsi; metaforicamente parlando non ci
sarebbe neanche più un’anima da vendersi al diavolo. Se tutto è ormai
nell’ordine del simulacro, la realtà non è altro che una «iperrealtà»
circolare, senza punti fermi, senza possibilità che l’identità divenga.
D’altra parte, prendendo il punto di vista di chi osserva, l’utilità di
un segno è quello di mettere nella condizione di poter pensare e far
pensare a qualcosa, di rimandare, appunto. È così, che nell’osservatore
stesso l’identità dell’altro che gli/ci sta di fronte diviene
qualcosa di indefinito, rimandante ad un universo
infinito/indefinito di significabili, che affatto possibilità, finisce
con il lasciare l’identità soggettiva vuota e svuotata di senso.
Di fronte a tale cascata di eventi e
plurime ricadute psicosociali aveva forse ragione Freud quando, benché
in un ordine teoretico diverso, proponeva ancora un aspetto tragico
della vita nel suo «disagio della civiltà», postulando una rinuncia
necessaria da imporre proprio alla pulsione, quella pulsione che,
chiudendo l’assioma, oggi è puro appagamento di se stessa e non più
capace di essere segno di un desiderio (e per converso di «sintomo»),
eventuale scambio interpretabile. È qui che la pulsione si fa segno
unicamente di una società schiacciata in un paradigma edonico, ove il
godimento è apparentemente libero eppure imbrigliato da aliene ed
occulte logiche di mercato.
Qualche tempo fa mi sono posto di fronte
ad una questione affatto banale, benché casuale: cosa si
sogni oggigiorno. Sognare,
intendiamoci, in un senso molto terreno, del tipo ad esempio: desiderare
di sposarsi, trovare quel posto di lavoro che si reputa congruo con il
proprio sé, comprarsi un’auto nuova, conoscere una persona interessante,
fare un viaggio verso una terra agognata. Mi sono personalmente risposto
che alla mia percezione moltissimo del quotidiano sia ancora regolato e
stimolato da sogni. E, aggiungerei, che questi sogni costituiscono una
parte importante dell’identità e della soggettività tanto di coloro che
incontriamo quanto di noi stessi. In questo piccolo esperimento, quello
cioè di prestare orecchio a dove il discorso dell’altro venisse
enfatizzato o colonizzato da un «sogno», ho percepito una certa
dedizione e tensione verso dimensioni utopiche, verso desideri di
cambiamento, apertura verso un mondo diverso, e che tutto questo,
nell’attesa che, soprattutto, tutto ciò accadesse prima o poi.
E tuttavia, se il mio orecchio non ha
sbagliato, ho avuto allo stesso tempo la sensazione che si trattasse di
sogni troppo grandi da poter essere realizzati, attraversati da un ché
di irrealistico al punto da creare un particolare fenomeno di
scissione avendo cioè, da un
lato piccole e banalissime cose del quotidiano e dall’altro aspettative
sempre più grandi e irraggiungibili. Questa apparente configurazione mi
ha ricordato qualcosa di cui parla il sociologo Slavoj Zizek, quando
riflette a proposito di alcune tipiche configurazioni individuali o
sociali, il cui obiettivo è quello di mettersi i bastoni tra le ruote da
soli, porsi cioè in un ordine simbolico che definisce il soggetto,
vincolandolo ad un ordine, ma impedendone ogni movimento creativo.
La sensazione è stata allora quella di
notare un’impossibilità di modulare la distanza dalle cose, avendo da un
lato (quello che potremmo definire) il
proprio mondo interno, e dell’altro la realtà esterna, con la quale
fare i conti, e nella quale portare le proprie istanze personali e
creative.
A questo proposito, ritornando al lavoro
di M. Recalcati, quando ha presentato la possibilità di individuare
delle stagioni «edipiche» nel corso della storia socio-politica
italiana, viene da chiedersi se non sia sovvertibile la linea del tempo
prevista dal suo modello, indicando piuttosto, con il termine
«pre-edipico», la configurazione dell’attuale scenario. Generalmente,
infatti, si può intendere con preedipico quella costellazione che
precede l’edipo, descrivibile quale momento in cui madre e bambino/a
sono idealmente fusi insieme in un godimento concreto, un rapporto
fusivo, un rapporto intero e illimitato; un rapporto tra un «seno» che
allatta, anteriore alla possibilità di entrare in rapporto con un
oggetto terzo, nella fattispecie il padre. Tale fusione è
metaforicamente un pieno e completo avviluppamento con l’oggetto, ma si
rivela un legame che paga un oneroso pedaggio in termini di possibili
aperture verso la «realtà», tenendosi fuori dal «principio di realtà» e
lasciandosi sedurre dalla fascinazione del «principio di piacere» -
narcisismo.
Ci siamo chiesti in fondo se non sia
questa la forma che permea e intreccerà ancora le relazioni del nostro
presente, essendo «evaporato il padre» (Recalcati). In questo momento,
allo stato attuale delle cose, quella dell’elemento paterno è una
pericolosa esclusione che incide su un godimento (apparentemente)
illimitato. La sensazione di avere tutto, che non ci sia niente da
desiderare, che non sia «il vuoto» o piuttosto un
sogno metaforicamente
impossibile da realizzare, significa che ciò a cui è impossibile
pervenire oggi, ciò che è davvero preclusa, è la soggettività: la
personale fantasia e creatività realizzativa, concreta guida nei
rapporti di relazione e dello stesso rapporto con se stessi.
Mi appresto a concludere ponendo
l’attenzione ad un’ulteriore questione (eventualmente provocatoria),
pensando cioè se la rinnovata religiosità di cui si parla ai nostri
tempi, la ricerca in fondo di direzione e sicurezza mediante luoghi che
simbolicamente sono costituiti per «resistere» al segno del tempo come
una chiesa o
In conclusione di questo breve ed ancora
aperto percorso pare interessante e pregnante rilanciare un confronto
stimolato proprio da una delle ultime frasi delle «Considerazioni
generali» stesse, che incidentalmente offrono uno spunto in direzione
dell’interrogativo proposto alla fine del precedente paragrafo:
«la crisi che stiamo attraversando
ha bisogno quindi principalmente di uno scavo e di messaggi che facciano
autocoscienza di massa (di massa e non di piazza, come pensano
affabulatori in cerca di autostima)» (punto 18)
[…] e forse quel che dobbiamo
desiderare è questo ritrovare una mente in opera, un riarmo mentale più
che morale».
GENNAIO 2011