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03
Gennaio 2011

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Lavoro-non lavoro

LAVORO, CAPITALE E TECNICA NELLA TERZA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE (parte II)

Il capitalismo cognitivo

Giulio Trapanese

 

Il cosiddetto «capitalismo cognitivo» è il tema di questa seconda parte dello studio su Lavoro, capitale e tecnica nella terza rivoluzione industriale, che nella prima parte ho trattato rispetto alla definizione generale di post – fordismo. Il capitalismo cognitivo o capitalismo immateriale rappresenta, per chi ne è stato interprete, la fase attuale dello sviluppo capitalistico in cui l’elemento ideativo e di conoscenza ha aumentato il proprio peso nel valore conferito ai prodotti, rispetto al lavoro fisico delle braccia. Seguiremo ancora l’analisi di Andrè Gorz, stavolta quella contenuta nel suo «L’immateriale» (2003) e alcuni spunti di altri autori contemporanei.

 

Il riferimento classico di chi discute della fase cognitiva del sistema capitalistico (knowledge society per gli inglesi, Wissensgesellschaft per i tedeschi e capitalismo cognitif per i francesi) è il passo in cui Marx negli appunti preparatori al Capitale, che saranno raccolti nei cosiddetti Grundrisse, profetizza, intorno agli anni’ 50 del XIX sec., che la principale fonte di ricchezza (die grösste Produktivkraft) per il capitale sarebbe divenuta la conoscenza umana. Conoscenza intesa come capacità di penetrare nelle leggi della natura e di determinare, sulla base di questa conoscenza, effetti desiderati a proprio vantaggio. Nel VII Quaderno dei Grundrisse Marx sostiene, quindi, che la ricchezza del capitale verrà a «dipendere sempre meno dal tempo di lavoro e dalla quantità di lavoro impiegato mentre invece «essa dipenderà sempre più dallo stato generale della scienza e dal progresso della tecnologia». «Il lavoro immediato e la sua quantità cessano di apparire come il principale» determinante della produzione per non essere più che un momento certo indispensabile, ma subordinato rispetto al lavoro scientifico generale». «Il processo di produzione non potrà più essere confuso con un processo di lavoro»[1].

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La questione si pone, quindi, in questi termini: abbiamo tre elementi, lavoro; capitale; e, fra questi, il mezzo tecnico che il lavoro usa per il fine di produzione di ricchezza. Tutti e tre i termini possono essere delle variabili dal punto di vista quantitativo, nel senso che per produrre un certo valore che, in definitiva, accresca la somma di capitale posso mettere a lavoro più o meno uomini e per più o meno tempo. D’altra parte, è nella storia che i mezzi tecnici di produzione evolvono facendo sì che anch’essi possano costituire un valore variabile più o meno alto di quello che Marx ha chiamato capitale fisso. Il valore del capitale fisso dipende da una serie di circostanze (costi di produzione delle macchine, costi della loro manutenzione, costi delle spese del loro funzionamento ordinario) ma la qualità del suo lavoro è decisamente diversa da fase storica a fase storica. Se prima, ad esempio, il lavoro umano rimaneva comunque preponderante rispetto a quello della macchina, oggi lo sviluppo tecnologico, in particolare quello informatico, mette in discussione questa tradizionale proporzione di incidenza sul valore della ricchezza prodotta. La rivoluzione industriale è tale perché la conoscenza scientifica nella sua applicazione tecnica rende possibile un abbassamento incredibile del lavoro umano necessario alla produzione di determinati oggetti e al funzionamento di determinate attività. Tuttavia, ad oggi, il processo ha raggiunto una forma peculiare diversa da quella delle origini. Come abbiamo visto nella prima parte di quest’articolo[2] in molti settori la produzione e il lavoro veri e propri sono affidati all’automazione delle macchine e il lavoro degli uomini si riduce, invece, a quello di guardiani, programmatori e manutentori delle macchine. Questo era, in fin dei conti, il senso principale della riflessione avviata nella prima parte dell’articolo. In questa seconda parte ci tocca capire, invece, tali macchine e la loro produttività da dove vengano fuori e quale sia oggi, secondo teorici come Gorz, la risorsa fondamentale alla base della produzione umana di ricchezza.

 

Per rispondere a questa questione bisogna un attimo tornare sul punto già considerato l’altra volta e che Marx ha lasciato implicito all’intera sua analisi. É un tema che merita una domanda di respiro filosofico, che non è qui il luogo di prendere in considerazione, ma che, paradossalmente, viene fuori dallo stesso svilito attuale dibattito dell’opinione pubblica. Qual è la differenza tra un uomo e una macchina? Da quanto già detto e da un pizzico d’intuizione si può già intuire che non è il lavoro di per sé che fa la differenza. Si può dire, almeno alle condizioni attuali di civilizzazione degli ultimi millenni, che l’uomo fa le macchine e non le macchine l’uomo. E per capire in che senso si parla di knowledge society dobbiamo anzitutto tener presente questa come prima premessa. Quindi, (1) Le macchine non s’autogenerano, non si producono da sole.

 

D’altra parte, e questa è la seconda premessa importante, il capitalismo come sistema di produzione produce, ormai da un pezzo, non più solo beni di prima necessità ma fa d’ogni aspetto della vita e d’ogni produzione umana una possibile sua risorsa di valorizzazione. L’arte, la cultura, la vacanza, la musica, il viaggio, l’educazione sono ormai già sempre più diventate l’industria dell’arte, l’industria della cultura, e così discorrendo. Gorz scrive a questo proposito che la vita intera è ormai diventata un business.  «Ogni attività deve poter diventare un business e, come scrive Dominique Méda, «il rapporto con se stessi e il rapporto con gli altri saranno concepiti esclusivamente nella modalità finanziaria». Pierre Levy ha salutato quest’evoluzione nel modo più eloquente: «Ormai tutti commerciano. Tutti saranno costantemente impegnati a fare business a proposito di tutto: sessualità, matrimonio, procreazione, salute, bellezza, identità, conoscenze, rapporti, idee [...]. Non sappiamo più molto bene quando lavoriamo e quando non lavoriamo. Saremo costantemente occupati a far ogni sorta di business».

Aggiunge, così, ancora Gorz: «Tutto diventa merce, la vendita di sé si estende a tutti gli aspetti della vita, tutto è misurato in denaro. La logica del capitale, della vita diventata capitale, assoggetta tutte le attività e tutti gli spazi nei quali all’origine si pensava che la produzione di sé si sviluppasse come dispendio gratuito di energia senz’altro scopo che portare le capacità umane al loro più alto grado di sviluppo». Da qui possiamo, quindi, assumere la seconda premessa necessaria al discorso sul capitalismo di oggi: ovvero che (2) la logica di profitto inonda qualsiasi sfera dell’attività e della natura umana.

Ora, fatte queste due premesse, apparentemente scollegate tra sé, e aver brevemente richiamato l’intuizione di Marx, possiamo discutere nel dettaglio la natura cognitiva del capitalismo odierno.

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Cominciamo a farlo con delle citazioni da Gorz: «A meno che si tratti solo di una metafora, l’espressione economia della conoscenza significa sconvolgimento fondamentale del sistema economico». «Essa sta a indicare che la conoscenza è diventata la principale fonte produttiva. Che, di conseguenza, prodotti dell’attività sociale non sono più, principalmente, lavoro cristallizzato ma conoscenza cristallizzata. Che il valore di scambio delle merci materiali o non, non è più determinato in ultima analisi dalla quantità di lavoro sociale generale che contengono ma, principalmente, dal loro contenuto di conoscenze, d’informazioni, d’intelligenza generale. È quest’ultima e non più il lavoro sociale astratto, misurabile secondo un unico criterio, che diventa la principale sostanza sociale comune a tutte le merci. È lei che diventa la principale fonte di valore e di profitto e dunque, secondo molti autori, la principale forma del lavoro e del capitale»[3].

Il punto che Gorz stesso subito tratta è che c’è una bella differenza qualitativa tra lavoro sociale di tipo manuale e lavoro della conoscenza, dal momento che quest’ultimo non può essere misurato in base ad un’unità di tempo. È difficile, infatti, prevedere, quantificare, ad esempio, il tempo necessario alla scoperta da parte della ricerca scientifica d’una certa molecola antibiotica, d’un certo vaccino, o d’un nuovo modo d’operare nella produzione.

«La conoscenza, a differenza del lavoro sociale generale, non può essere tradotta e misurata in unità astratte semplici. Non è riducibile a una quantità di lavoro astratto di cui sarebbe l’equivalente, il risultato o il prodotto. Essa copre e designa una grande varietà di capacità eterogenee vale a dire senza comune misura, tra le quali il giudizio, l’intuizione, il senso estetico, il livello di formazione e d’informazione, la facoltà d’apprendimento e adattamento a situazioni impreviste, capacità a loro volta messe in opera da attività eterogenee che vanno dal calcolo matematico alla retorica e all’arte di convincere l’interlocutore, dalla ricerca tecnoscientifica all’invenzione di norme estetiche»[4].

Si tratta, cioè, della difficoltà di quantificare il non quantificabile, qualcosa, come, ad esempio, un’intuizione, la quale può prodursi in un attimo e dare una svolta radicale ai modi di intendere e produrre le cose, ma che potrebbe anche non esserci e rimanere un miraggio per tutta la vita del ricercatore. Per l’economista francese Cohen: «La nouvelle économie se caractérise par une structure de coût totalement atypique par rapport à ce schéma. Un logiciel coûte cher à concevoir, mai pas à fabriquer. Dans la nouvelle économie, c’est la première unité du bien fabriqué qui est onéreuse, la second et celle qui suivent ayant un coût faible, voire véritablement nul dans certains cas limites. Dans la langage de Smith, il faudrait dire que c’est – a – dire par exemple le temps passé à découvrir où ils se terrent, qui expliquerait tous le coûts. Et dans le langage de Marx, il faudrait dire que la source de la plus – value n’est plus dans le travail consacré à produire le bien, mais dans celui passé à le concevoir»[5]. [La nuova economia si caratterizza per una struttura dei costi totalmente atipica in rapporto a questo schema. Un computer costa più a concepirlo, che a fabbricarlo. Nella nuova economia, è la prima unità di merce prodotta ad essere costosa, dal momento che la seconda e le altre hanno un costo di produzione minimo, anzi in verità nullo in alcuni casi limite. Nel linguaggio di Smith, si dovrebbe dire che è il tempo impiegato ad uccidere il primo castoro o il primo daino, cioè il tempo impiegato, per esempio, a scoprire dove si trovano i castori e i daini, a spiegare il loro costo. E nel linguaggio di Marx, invece, si dovrebbe dire che la fonte di plus – valore non è più nel lavoro dedicato alla produzione della merce, ma, piuttosto, in quello impiegato nel concepirla]. La sorgente del plus–valore non è quindi realmente più in chi fa, ma in chi progetta e nel tempo impiegato al concepimento della cosa.

 

D’altra parte Gorz stesso sostiene, quindi, che la discussione sull’elemento della conoscenza ha un carattere diverso da quello del fare materiale. Nel momento in cui trovo una nuova soluzione ad un problema posto fra l’uomo e il suo mondo, posso socializzare quest’idea con dei costi bassissimi, a differenza della riproduzione classica dei beni materiali che non fanno differenza, quanto a questo aspetto, tra il primo e l’ultimo dei beni che produco. La proprietà privata della conoscenza è di per sé un controsenso, dal momento che dare un proprio sapere o una propria conoscenza non significa sottrarsene come fosse una cosa. «Quanto alle conoscenze, esse sono il prodotto del commercio universale tra gli uomini, cioè di interazioni e comunicazioni non mercantili. Già Thomas Jefferson diceva che esse non si prestano all’appropriazione privata, né allo scambio mercantile, poiché è impossibile ridurle ad una sostanza sociale comune misurabile che permetta di determinare i rapporti di equivalenza fra loro. Un mercato delle conoscenze sul quale esse si scambierebbero al loro «valore» è impensabile»[6]. D’altra parte, rifacendoci alla seconda delle premesse che abbiamo posto in precedenza, abbiamo visto che il capitale oggi non può che invadere territori sempre crescenti della sfera umana, non si ferma più alle cose da produrre per vivere, ma, in qualche modo, alla sua varietà di forme, come un oggetto da produrre, un qualcosa da far rientrare nello schema d’una possibile gestione e un possibile guadagno. «Infatti è impossibile che il capitale non tratti e non faccia funzionare la conoscenza come se essa fosse un capitale. È impossibile per lui non cercare di appropriarsi, di valorizzare, di sussumere una forza di produzione che, in se stessa, non si lascia ricondurre alla categorie dell’economia politica»[7].

Un altro autore, citato da Gorz, Rullani, esprime questo concetto in modo molto chiaro: «né la teoria del valore della tradizione marxista, né quella liberale, attualmente dominante, possono dar conto del processo di trasformazione della conoscenza in valore [...]. In effetti il costo di produzione della conoscenza è molto incerto e, soprattutto, è radicalmente diverso dal costo della sua riproduzione. Una volta che una prima unità è stata prodotta, il costo necessario per riprodurre le altre unità tende a zero. In ogni caso, tale costo non ha niente a che vedere con il costo della produzione iniziale»[8].

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Da questo punto di vista saremmo oggi, nel mondo in cui la conoscenza è perno del funzionamento capitalistico, ad una fase nuova dello sviluppo del capitalismo, in cui esso stesso si trova ad affrontare una situazione inedita. La quantificazione e la contabilità di ore di lavoro, di profitti, di costi di produzione non s’attaglia più bene alla società della conoscenza, la quale fondandosi, in misura maggiore rispetto a prima, sull’apporto soggettivo dell’individuo, si rivolge per sua stessa natura, piuttosto, all’ambito della condivisione, della non quantificabilità e, in particolare in campo economico, della gratuità della prestazione.

 

Oggi – ricollegando il filo di questo discorso a quello della metamorfosi del lavoro nel post – fordismo, l’uso di software elettronici che possono svolgere una vera e propria funzione produttiva, «organizzare e gestire le interazioni complesse tra un gran numero di attori e variabili, concepire e guidare delle macchine, degli impianti e dei sistemi di produzione flessibili, in breve svolgere il ruolo di capitale fisso sostituendo lavoro immagazzinato a lavoro vivo, materiale o immateriale» determina, allora, in particolare un evidente salto quantitativo nel cambiamento della proporzione tra lavoro vivo e capitale fisso (in cui, appunto, rientrano anche i software) nella produzione di ricchezza. «Poiché il costo marginale del software è molto basso o addirittura trascurabile, esso può economizzare una quantità di lavoro molto maggiore di quello che è costato, e questo in proporzioni gigantesche, inimmaginabili fino a poco tempo fa. Il che significa che se essa è, certamente, fonte di valore, distrugge immensamente più valore di quel che serve a creare. In altri termini: la conoscenza economizza quantità immani di lavoro sociale remunerato e di conseguenza diminuisce o addirittura annulla il valore di scambio monetario di un numero crescente di prodotti e servizi»[9].

 

Lo scenario che qui, alla fine di questo paragrafo, Gorz propone è chiaro e interessante. Andiamo, date queste premesse, verso una società in cui la produzione non sarà un problema, una società dell’abbondanza, la chiama Gorz. Una società piena di cose, piena di macchine in grado di produrle, con meno lavoratori necessari alla produzione dei beni materiali. Detto questo, il risvolto attuale di questa situazione è che meno lavoratori – nel quadro attuale di sistema – significa e significherà sempre di più anche meno mezzi di pagamento (denaro) distribuiti ai lavoratori, che nei fatti producono di meno rispetto a quanto non facciano le macchine e quindi non lavorando, o lavorando di meno, vengono anche pagati di meno. Siamo, dunque, di fronte ad un evidente passaggio contraddittorio del sistema attuale. Andremmo verso una società libera dalla necessità di un lavoro totalizzante e dalla sua fatica, per via delle possibilità di oggi che siano macchine, informatiche o tradizionali, al posto di uomini, a produrre determinate cose; tuttavia questo si traduce soltanto nella disoccupazione e nella precarizzazione crescente e non nella possibilità d’una nuova e creativa organizzazione del tempo degli individui. Viviamo ai limiti dell’abisso, mentre, seguendo Gorz, almeno dal punto di vista dello sviluppo dell’economia, potremmo, invece, essere pronti ad inaugurare una nuova era della storia umana.

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Attraverso alcuni spunti interessanti che possiamo trarre dal libro di J. Rifkin, The age of access, e di N. Klein, No logo, entrambi a loro volta presi in considerazione sempre da Gorz, vediamo, invece, ora in che modo, più concretamente, la conoscenza odierna è trasformata in capitale «immateriale». Sulla scia di quello che dicevamo osserviamo con Rifkin che “the new culture of hypercapitalism” riguarda la generalizzazione dell’intera logica capitalistica in ambiti tradizionalmente estranei ad essa. Rifkin sottolinea, soprattutto, che vige, quindi, ormai un consolidato capovolgimento tra quanto appare e quanto è, e che ciò che noi definiamo valore, nella nostra vita quotidiana da consumatori, ha a che fare, ormai, prevalentemente con il suo apparire, non con la sua sostanza. Il consumo, una volta generalizzatosi storicamente ad ampie fasce di popolazione, ha comportato, infatti, l’autonomizzarsi delle cose – merci in qualcosa d’importante e di valevole in sé, non perché lo si usa, perché serve nella vita per ciò che si deve fare, ma perché lo si possiede, se lo si può portare dietro con sé, divenendo una parte principale del potersi dare un senso e un’identità. Il valore simbolico dello status che una merce conferisce a chi l’ha è un valore immateriale di questa merce, figlia di una certa opulenza occidentale dei consumi e madre della perdita di contatto con la materialità delle cose e dei loro valori concreti in quanto semplici cose.

«La novità, per Rifkin, può riassumersi così: la dimensione immateriale dei prodotti prevale sulla loro realtà materiale, il loro valore simbolico, estetico o sociale sul loro valore d’uso pratico e, beninteso, sul loro valore di scambio che cancella. La maggior parte degli utili è realizzata grazie alla dimensione immateriale delle merci»[10]. Una volta preso atto di questa situazione, o forse, alla radice stessa di questa, «il massimo (dei profitti) dipende più che mai dalla capacità che una ditta ha di assicurarsi la fedeltà d’una clientela, di farle acquistare senza ritardi né grossi costi le ultime novità, di persuaderla del valore incomparabile di ciò che offre»[11].

In questo discorso, quindi, rientra senz’altro l’attualissima questione delle marche e dell’affezione a queste, dei simboli e del valore di immagine delle imprese, le quali, oramai, più che metterci le macchine e la fattura vera e propria del prodotto ci mettono esclusivamente il design e il proprio marchio. ««Use it, don’t own it» è la divisa. Negli Stati Uniti un terzo delle macchine, degli impianti e dei mezzi di trasporto è in locazione. L’80 per cento delle imprese prende in affitto l’infrastruttura da duemila agenzie specializzate [...] IBM e Compaq, leaders nel loro campo, subappaltano alla stessa ditta, Ingram, la costruzione, la consegna e la fatturazione dei computers. Nike non possiede impianti o macchine: la sua attività si limita alla concezione e al design. La fabbricazione, la distribuzione, il marketing e la pubblicità sono affidati a subappalatori»[12]. Questo significa che quando un ragazzo italiano, europeo o americano compra un paio di scarpe da ginnastica spende almeno un centinaio di euro o dollari per qualcosa che non è in quelle scarpe, nello loro gomma o nella loro resistenza o nella loro utilità per correre, ma in quello che valgono nella vetrina permanente della percezione degli altri e nella propria, nel tenersi legato alla continuità d’una marca, alla fedeltà di un apparire che gli dà senz’altro più sicurezza di qualunque altra ideologia.

Naomi Klein nel suo celebre libro studia proprio questo: si ritrova nel consumo un nuovo tipo di asservimento, diverso, ma non per forza meno potente di quello a cui è sottoposto il lavoro. «La pubblicità onnipresente delle grandi ditte esercita una presa totale sullo spazio pubblico, nutre l’immaginazione con i suoi racconti e le sue creature fantastiche, forma il gusto e fornisce norme estetiche. Essa invade le aule scolastiche, fornisce – con la complicità degli insegnanti – gli argomenti per i temi degli allievi. Colonializza i media, esercita la sua censura su una parte della stampa e della radio – televisione. Si appropria della vita culturale, dapprima utilizzando opere artistiche per la promozione delle marche, poi, con procedimento inverso, opponendo nomi di marche commerciali su presentazioni di opere artistiche. Il nome di marche, dopo essersi servito di opere celebri per attribuirsi il segno dell’eccellenza, si pone a sua volta come simbolo e criterio dell’eccellenza»[13]. Ci troviamo così in una dimensione economica nuova in cui il capitale ha bisogno di investire continuamente parte della propria somma nella pubblicità della propria immagine per continuare ad aumentare il proprio profitto e nello stipendiare esperti specialisti di marketing e di psicologia che possano garantire alla sua attività di penetrare tra i gusti dei consumatori. Il monopolio della tecnica di produzione, la quantità e la forza della pubblicità, il controllo concreto, in forme più o meno legali, della distribuzione, sono, in fondo, ormai, aspetti dello stesso sistema convergenti al fine di determinare a priori e controllare ogni scelta e ogni passo del consumatore.

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Il discorso sul capitale immateriale e sulla società della conoscenza andrebbe senz’altro approfondito. Quello che mi preme sottolineare, intanto, è che come dice Cohen, se per Marx e tutti i marxisti il capitale non è che una fase determinata della storia umana della produzione e dei rapporti sociali, che ha avuto una sua origine e di cui si può pensare ci sarà anche una fine, il capitale stesso ha avuto ed ha diverse fasi, che dobbiamo prendere in considerazione. Se teniamo fede al proposito di questo studio, noi oggi saremmo entrati nella terza rivoluzione industriale e questa terza rivoluzione industriale, nel quadro post – fordista dell’organizzazione della produzione e nelle radici cognitive dell’accumulazione di valore, presenterebbe un’aspra e dalle incerte conseguenze contraddizione del sistema con se stesso. Nelle parole di Gorz possiamo dire che «l’economia della conoscenza contiene dunque nel suo fondo una negazione dell’economia capitalistica di mercato [dal momento che] non tutte le cose si prestano a servire da mezzi di produzione e quelle che vi si prestano sin dall’inizio e per destinazione di distinguono per loro efficacia strumentale, non per il valore di verità del loro contenuto»[14].

Questo, in altre parole, significa che la vita mercificata è di suo un ossimoro, che dove c’è l’una non l’altra e viceversa e che la contraddizione della nostra condizione umana di oggi è che abbiamo raggiunto un punto di cui è evidente che, soddisfatti i bisogni primari fondamentali, quello che unicamente acquisisce valore per noi sono le qualità e facoltà soggettive e ciò che da queste promana in forme più stabili e sociali come cultura, l’arte e il rapporto che l’uomo ha con se stesso e la sua condizione sulla terra. Tuttavia l’intelligenza, la cultura e la creatività hanno sì oggi il primato del valore, ma questo è quello della valorizzazione monetaria ai fini dell’estenuante meccanismo di alimentazione della somma di capitali, e non quello d’un valore slegato da un’immediata utilità e guadagno.

 

Se le capacità umane, e da questo punto di vista Internet e l’informatica sono i casi più eclatanti, stanno dando valore ad alcune capacità cognitive presenti e sempre più diffuse tra gli individui, è pur vero – e questo lo scrive Gorz nel suo ultimo capitolo e, in altro modo e in altri termini proviamo a farlo anche noi sulle pagine di questa rivista - che stiamo correndo il rischio di avvicinarci più che ad una situazione di maggiore intelligenza a quella, piuttosto, disumana, o post umana, di reificazione del pensiero, proprio per il modo in cui viviamo ed agiamo, leggiamo e comunichiamo in quest’era del nanosecondo, all’interno di cui l’accumulazione di informazioni sovrasta ogni elemento di giudizio critico e slancio creativo verso ciò che si è, si fa e si conosce.

«La grande maggioranza conosce sempre più cose, ma ne sa e ne comprende sempre di meno [...]. Lo sviluppo delle conoscenze tecnoscientifiche, cristallizzate nel macchinario del capitale, non ha generato una società dell’intelligenza ma, come dicono Benasayag e Sztulwark, una società dell’ignoranza»»[15]. Probabilmente, tuttavia, se ignoranza c’è, non si tratta semplicemente di essa, ed è necessario andare, per caratterizzare la situazione attuale, ad osservare altrove. Il discorso credo abbia a che fare con il nuovo rapporto con la vita che s’è andato insinuando con il cambiamento sociale degli ultimi decenni e con le categorie mentali con cui si guarda il mondo e sé, sottese all’attuale sviluppo storico.

 

In ogni caso, per concludere, il capitalismo cognitivo dal punto di vista di Gorz, è il modo in cui il capitalismo sta provando e, in effetti, riuscendo, dopo tutto, a sopravvivere a se stesso, continuando nella sua traiettoria, molto più antica di oggi, di spostare il patrimonio dei beni comuni, tra cui, appunto, anche l’intelligenza e il sapere sociale, nella ricchezza detenuta nelle le mani di pochi, i quali, a loro volta, diventano oggi sempre di meno e più accaniti. E su questo tema, la questione del comune, rispetto al rapporto uomo – natura di oggi sarà incentrato la prossima parte di questo studio, perché si presenta come uno dei nodi fondamentali di oggi.

 

GENNAIO 2011

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Bibliografia

 

-          D. COHEN, Trois lecons sur la société post – industrielle, Seuil

-          A. GORZ, L’immateriale, Conoscenza, valore e capitale, Bollati Boringhieri

-          A. GORZ, Critique de la division du travail, «Technique, techniciens et lutte des classes», Seuil

-          A.GORZ, Préface a Critique de la division du travail, Seuil

-          K. MARX, Grundrisse, Quaderno VII, La Nuova Italia

-          K. MARX, Capitale, Libro I, Editori riuniti

-          N. KLEIN, No Logo, Baldini e Castoldi

-          J. RIFKIN, L’era dell’accesso, Mondadori



[1] Citazioni dal VII Quaderno dei Grundrisse di Marx contenuta in A. Gorz, L’immateriale

[2] Cfr Lavoro, capitale e tecnica nella terza rivoluzione industriale (parte I), in Città Future n. 01

[3] A. Gorz, L’immateriale

[4] A. Gorz, ibidem

[5] D. Cohen, Trois lecon sur la société post – industrielle, traduzione italiana mia

[6] A. Gorz, L’immateriale

[7] A. Gorz, Ibidem

[8] Citazione contenuta in A. Gorz, ibidem

[9] A. Gorz, ibidem

[10] A. Gorz, ibidem

[11] A. Gorz, ibidem

[12] A. Gorz, ibidem

[13] Citazione da No logo, contenuta in A. Gorz, ibidem

[14] A. Gorz, ibidem

[15] La citazione di Benasayag e Sztulwark è tratta da Du contre – pouvoir, sempre in A. Gorz, ibidem