Senescenza (del) Capitale
CONTRO LA DECRESCITA
Ovvero il nemico del mio nemico non
necessariamente è mio amico
Nicola Marziale
Il dibattito sulla decrescita è uno dei
fatti più interessanti nell’economia politica «radicale» degli ultimi
anni. Affondando le sue radici nelle considerazioni «fisicaliste» sulla
termodinamica applicata all’economia di Nicolae Georgescu-Roegen e negli
studi sociologici «natualisti» di Karl Polanyi, la linea di riflessione
lanciata da Serge Latouche e ripresa rapidissimamente in tutti i paesi
sviluppati negli ultimi anni ha dimostrato di avere una forza
comunicativa difficilmente eguagliata su temi analoghi e di essere
facilmente traducibile in slogan e in un vero e proprio piano d’azione
politica, come chiaramente rivendicato nelle opere di maggiore
diffusione.
Questo è senz’altro un fatto positivo.
Senza arrivare agli abissi epistemologici dei Fukuyama degli albori
della reazione post muro di Berlino, per la prima volta da allora, una
proposta di rottura degli equilibri economici esistenti trova
cittadinanza piuttosto ampia nel dibattito sulla struttura economica
consolidata nel mondo globalizzato.
Gli autori «decrescisti» dicono senza
compromessi che questa struttura economica così com’è non ha futuro, che
è destinata a corrompere il vivente sul pianeta, avviandolo su un
percorso di consumo continuo (anzi di consunzione) nel quale in un
futuro neanche troppo lontano ci perdono tutti, anzi in ampia misura ci
stanno già perdendo.
In quanto segue faremo riferimento a
Latouche senza soffermarci troppo sulle necessarie articolazioni che il
pensiero «decrescista» è andato producendo, confidenti che il lettore
interessato potrà in autonomia approfondirne gli spunti, restando
ovviamente a disposizione per ogni chiarimento. Il senso di questo breve
articolo è quello di delineare il quadro di riferimento della nostra
critica alle suggestioni decresciste, con l’obiettivo di stimolare un
dibattito sui diversi temi che questo filone ha sviluppato. Nella
risposta ai feedback che verranno avremo modo di focalizzarci su temi
tanto diversi (quali la critica allo «sviluppismo», l’opzione
«pauperista», la produzione e le monete locali-complementari) la cui
trattazione qui ci sembra possa creare entropia, senza aggiungere
chiarezza.
Il punto di partenza della riflessione
di Latouche è il rifiuto della nozione capitalistica di sviluppo intesa
come aumento del prodotto interno lordo. Fin qui nulla di stravolgente o
di particolarmente nuovo. Per i marxisti tale nozione non ha mai avuto
senso (essendo tutt’altro rispetto al riferimento marxiano allo sviluppo
delle forze produttive), e anche per i borghesi più «illuminati», il
concetto di pil mostra la
corda da alcuni decenni. Risale a quasi cinquant’anni fa un noto
discorso di Bob Kennedy in cui attaccava l’inadeguatezza del
pil come misura del
benessere, anche solo economico.
Il limite di tale misura sta nella sua
microfondazione, ovvero nel tener conto dei risultati economici
individuali dei diversi attori economici banalmente sommati, senza tener
conto della visione d’insieme degli effetti della produzione. In questo
senso, per i marxisti, il filtro del mercato sublima l’anarchia della
produzione capitalistica e quindi nulla dice delle condizioni di
riproduzione del sistema economico, per i borghesi il
pil non considera in alcun
modo le esternalità positive o negative dei comportamenti individuali e
quindi restituisce visioni parziali del complesso delle attività
economiche. Il concetto ci pare in entrambi casi di agevole
comprensione: il riferimento ai rifiuti, la cui iperproduzione e lo
smaltimento in discarica ben esemplificano il dramma della produzione
contemporanea (che fa un sacco di
pil) può essere un più chiaro esempio dei limiti di tali misure.
Alla domanda «ce n’è una migliore?» la
risposta non può essere che negativa. I marxisti non la cercano così,
perché rappresenterebbe i desiderata informativi di un soggetto sociale
che combattono (mentre sarebbero certamente interessati a misure del
prodotto - e del progresso - in una economia pianificata socialista); i
borghesi, che si affannano nella ricerca di soluzioni alternative che si
sforzino di ricomprendere altre dimensioni, non potranno trovarla perché
implicherebbe una scelta arbitraria delle dimensioni da includere, cosa
teoreticamente impossibile secondo canoni liberali.
La soluzione di Latouche parte della
distinzione delle merci dai valori d’uso, nel far questo rifugge da una
logica di mercato classica, ma approda ad un insieme di valutazioni
soggettive, e quindi inerentemente non confrontabili in quanto espresse
da soggetti diversi. Questo problema dell’individuazione dei
soggetti del «sistema
economico» decrescita è una chiave di lettura di cui terremo conto in
maniera generalizzata, perché costituisce, come speriamo di dimostrare,
il vero limite della traduzione politica dei bei precetti della
decrescita.
Precetti che veniamo presto ad elencare;
nel superamento della logica dell’incremento del
pil, Latouche propone
alcune linee d’azione che dovrebbero scardinare l’agire del soggetto
economico così come è oggi, e reindirizzarlo su binari possibili (en
passant Latouche critica, giustamente, la nozione di sostenibilità dello
sviluppo, in quanto non decisiva nel determinare i cambiamenti necessari
della produzione ai fini della «conservazione» dei sistemi biologici
planetari).
Con una formulazione molto di moda nelle
pratiche aziendalistiche, ed anche abbastanza efficace, Latouche
individua «8R» come cambiamenti interdipendenti che dovrebbero condurre
alla decrescita «serena, conviviale e sostenibile»: rivalutare,
riconcettualizzare, ristrutturare, ridistribuire, rilocalizzare,
ridurre, riutilizzare, riciclare. Spiegheremo brevissimamente in seguito
che cosa s’intende con un esempietto, tratto dalle pagine di Latouche,
per ciascuna di queste voci.
Rivalutare
l’insieme dei valori «borghesi» consodilati, far prevalere l’altruismo
sull’egoismo, sostituire l’idea della dominazione della natura con la
ricerca dell’armonia con essa;
Riconcettualizzare
l’idea di ricchezza/povertà, il binomio scarsità/abbondanza, superandone
le caratterizzazioni indotte da logiche di mercato;
Ristrutturare
l’apparato produttivo e i rapporti sociali adeguandoli ai nuovi valori
di cui sopra;
Ridistribuire
il «debito ecologico» tra nord e sud, ad esempio attraverso meccanismi
di «mercato» di diritti di prelievo ecologico che perequino «l’impronta
ecologica» del genere umano;
Rilocalizzare,
ovvero produrre in massima parte a livello locale i beni necessari al
soddisfacimento dei bisogni delle comunità;
Ridurre
l’impatto sulla biosfera dei nostri modi di vivere e consumare;
Riutilizzare/riciclare,
combattere «l’obsolescenza programmata delle attrezzature e riciclare i
rifiuti non direttamente riutilizzabili».
A corredo di ciascuno di questi
precetti, Latouche propone una serie di esempi virtuosi, in genere
estremamente localizzati e settorializzati, che dimostrano come
determinate vie alternative siano possibili.
Questo è senz’altro vero, come sono
senz’altro condivisibili molti dei precetti sopra elencati, il punto
politico però è chi dovrebbe mettere in atto questi comportamenti e
come. In altri termini, se i comportamenti individuali possono
certamente essere improntati ad una maggiore attenzione per la biosfera
et similia, come si fa il passaggio dal livello micro al livello macro?
Sempreché tali comportamenti individuali siano possibili, ad esempio:
posso senz’altro fare in casa la raccolta differenziata, ma a che serve
se poi non ho dove conferire i rifiuti così differenziati?
Come per i dieci comandamenti, insomma,
nulla osta a che siano applicati a livello individuale ed anzi sembrano,
come le 8R, in larga parte condivisibili, ma sono sufficienti a
costituire l’infrastruttura «valoriale» del vivere sociale? Noi
riteniamo di no, sia per i dieci comandamenti che per le 8R in quanto
entrambe le liste (si portano ultimamente!) nulla dicono sulle modalità
di soddisfacimento dei bisogni materiali delle persone, anzi, nel caso
delle 8R pretendono pure di determinarli, cosa che ci pare
drammaticamente idealista oltre che dimostrata preclusa dai teoremi di
impossibilità di Arrow/Sen (i quali nelle loro interessantissime
dimostrazioni attestano l’impossibilità dell’esistenza di meccanismi di
integrazione delle scelte quando sussistano vincoli di rispetto di un
insieme pur minimo di valori liberali classici, e.g. l’assenza di un
«dittatore»).
In definitiva, se il dibattito sulla
decrescita si sviluppa, senz’altro lungo i binari di un sensatissimo
attacco alla condizioni capitalistiche di produzione, riterremmo non si
possa configurare come sostanzialmente anticapitalista proprio perché
nulla dice di chi e come si debba determinare la produzione, fermandosi
ad un livello di sacrosanta critica delle storture dell’attuale sistema.
Ma non presenta alternative al mercato,
né al sistema economico nel suo complesso.
Al mercato, anzi, pretende di ricorrere
per assegnare cose del tipo i citati «diritti di prelievo», rimanendo
così all’analisi già fatta da Coase e Pigou una 70ina di anni fa a
proposito dell’assegnazione dei «diritti di proprietà» per risolvere i
problemi derivanti dalle esternalità nella produzione, o nel consumo di
beni comuni. Un meccanismo analogo è al cuore degli accordi di Kyoto, a
partire dal quale non ci sembra siano derivati grandi risultati in
termini di protezione ambientale, mentre è nato un mercato fiorente
(finanziarizzatissimo ed altamente speculativo) di «quote
d’inquinamento», attraverso i quali si perpetuano dinamiche di
allocazione della produzione tra paesi del nord e del sud del mondo
determinate dalle rispettive forze contrattuali.
Infine, il processo di agnizione
politica cui la decrescita rimanda è strettamente
individual-comunitarista, cosa che sarà pure di gran moda contro la
globalizzazione ma, a nostro avviso, è poco oltre una risposta isterica
e monca rispetto all’offensiva del capitale, cui vanno invece
contrapposte costruzioni sociali in grado di giocare un ruolo nella
strutturazione della produzione, ed in questo senso il ruolo di
aggregazioni comunitaristiche ci pare di limitato momento, ancorché ben
utile nel sollevare il problema.
Su questo passaggio, interessante,
chiudiamo questa breve riflessione. La dimensione comunitaristica è
stata spesso associata, in questi ultimi anni, a intensissime lotte, più
o meno fortunate, contro questo o quel progetto. Su questa dimensione si
è frequentemente giunti a compromessi che hanno allungato nel tempo la
realizzazione dei contestati progetti o ne hanno determinato l’abbandono
o la realizzazione secondo modalità differenti. Queste lotte hanno il
grandissimo merito di aver chiamato all’attivismo politico grandi strati
di popolazioni altrimenti difficilmente mobilitabili, con il rischio
intrinseco di «bruciare» in tempi molto ristretti grandi energie.
Sull’onda di queste esperienze, che conquistano per la loro grande
forza, significativi spazi mediatici, la riflessione decrescita ha
tratto indirettamente notorietà e rilevanza. Rispetto a quelle lotte,
però, riteniamo non abbia né capacità maieutiche né mostri la
rivendicata cifra rivoluzionaria.
DICEMBRE 2010