LE VERITÀ DEL 23 DICEMBRE
Redazione
Le verità del 23 Dicembre cominciano
anzitutto con una grande stanchezza dopo giorni di politica e di
inchiesta. Il giorno prima gli studenti medi e universitari nel quadro
della rincorsa alle dichiarazioni allarmistiche dei politici del governo
e delle posizioni dei giornali di destra e non solo, avevano rotto la
gabbia della prospettiva d’un’unica grande e rischiosa manifestazione a
Roma, per dividersi in piazze diverse di ciascuna provincia in Italia e
mettere in atto un blocco capillare, più ragionato e lucido, di come
sembrava dovesse essere all’inizio.
A Napoli il corteo, infatti, partito da
Piazza del Gesù era andato a bloccare, prima, i due varchi d’ingresso al
porto e, poi, dopo aver provato a sorprendere dirigendosi in autostrada,
si era fermato sui binari della stazione centrale per circa un’ora. A
Roma, d’altra parte, gli studenti avevano lasciato vuoto il centro e se
ne erano andati con un corteo di trentamila sulla tangenziale
arrivandoci dalla zona del Pigneto.
Stanchezza ce n’era, dunque. L’ho vista
sui volti dei ragazzi scesi comunque al centro la mattina del 23 con la
speranza di continuare la mobilitazione dopo il corteo del giorno prima
e a qualche ora dalla definitiva approvazione della riforma Gelmini in
Senato del pomeriggio. La sentivo dentro di me, nella stanchezza delle
mie gambe e nell’ansia dei miei movimenti svuotati di coerenza.
Quella mattina il cinema Astra era
ancora occupato dagli studenti di Lettere mentre la struttura del
palazzo Giusso era stata liberata la sera precedente, se non la mattina
stessa del 23.
Se vado lì è per provare ancora ad
osservare cosa stia succedendo, se c’è almeno in conto di tenere
un’ultima assemblea, di seguire la diretta dell’approvazione della
riforma al Senato. Ma inizialmente non trovo nessuno al «centro» del
palazzo Giusso, appena qualcuno che vi passeggia dentro e alcuni ragazzi
del collettivo nella loro aula occupata. Una volta uscito, decido, così,
di mangiare qualcosa ed inizio ad osservare. Ad uno ad uno vedo alcuni
ragazzi del movimento arrivare lentamente, entrare e subito uscire dal
palazzo, anche loro un po’ straniti dall’averlo trovato vuoto.
Dopo qualche minuto incontro poi uno
dei ragazzi più attivi in quest’ultima fase del movimento e lo trovo
stranamente più disposto a parlarmi, come se da un giorno all’altro,
così, velocemente, il movimento tutto fosse entrato in una fase di
maggior calma e riflessione, come se avessero velocemente smaltito tutto
il resto. Lo trovo con un ragazzo francese dalle origini italiane. Non
so bene che ci faccia lì. Mi sembra giovanissimo ma già sicuro, poi
scopro che è ancora un liceale, e che vive e studia a Parigi. Ha fatto
politica e partecipato alle ultime mobilitazioni contro la riforma delle
pensioni. Intanto noi, insieme con un gruppetto decidiamo di passare
dall’altro lato della piazza, all’ingresso del palazzo universitario,
sfilando davanti ad alcuni funzionari di polizia guardinghi all’angolo
della strada.
C’è più gente ora, non ci sono molti
studenti, mai i vari militanti dei collettivi cominciano ad arrivare. Ma
non ci sarà assemblea, né ci sarà la diretta della discussione e delle
votazioni al Senato nell’aula magna del palazzo.
Nel corteo che si decide di fare verso
il Museo nazionale dove ci sono dei lavoratori in lotta a cui non viene
pagato lo stipendio, siamo pochi. Ci sono vari militanti e pochi altri
in più tra gli studenti. È quasi Natale, s’improvvisano cori ad hoc per
le feste secondo una certa vena umoristica napoletana. Il tragitto
dall’Università al Museo è brevissimo, arriviamo, infatti, presto dopo
aver incassato anche qualche applauso. Siamo pochi, come era normale che
fosse, ma soprattutto arriviamo lì alla fine d’un mese in cui abbiamo
imparato a fare e organizzare molto meglio, forse, in parte, anche a
pensare meglio, ma occupazioni, lotte e inchieste e discussioni, con una
debolezza ancora troppo grande per domandarci perché, nonostante tutto
questo, il 14 Dicembre e un mese di incontri e iniziative, siamo al 23 e
la riforma è ormai pronta per essere approvata. Domandarci come si tiene
ancora insieme ciò che stiamo vivendo, in che modo e perché la gente
torna indietro, gli atri vincono e noi rimaniamo lì dove siamo, in un
altro anno che passa, non più gli stessi, certo, ma relegati comunque
nella stessa posizione, entro gli stessi limiti.
Poco prima d’entrare nel Museo con cori
un po’ da stadio e un po’ da nostalgici degli anni ’70, il ragazzo
francese diciassettenne dice al mio amico che in Italia, di questo
passo, con questo lasciarsi alla spontaneità, all’improvvisazione, non
riusciremo a vincere. Avremmo bisogno d’un sindacato, d’una struttura,
che organizzi permanentemente la lotta, che tenga legati in modo più
stabile il passo indietro e quello avanti, il momento dell’avanzata e
quello della ritirata. In Francia – dice – succede così, sono i
sindacati studenteschi che indicono la lotta e in qualche modo la
preparano e la gestiscono in modo che la base entri coscientemente a
partecipare alla lotta politica. Trovare un modo di vincere
l’incostanza, lo spontaneismo, «organizzarlo» aggiunge il mio amico in
un attimo, ma già pensa in realtà ad altro, ed, infatti, lo dice. Perché
fino a due anni fa anche lui la pensava così, che bisognava trovare una
forma nuova e stabile di organizzazione, che non si poteva gettare via
tutto quello che già esisteva, i sindacati, i partiti, la politica, ma
al giorno d’oggi il movimento ha dimostrato di sapersi autorganizzare
diversamente dal basso con una forza incredibile; nessuna rappresentante
istituzionale si dimostra all’altezza di quello che è successo il 14
Dicembre a Roma, nessuna struttura studentesca o sindacale,
fiom compresa. Gli
studenti sono stati e possono essere più forti di queste. Forse bisogna
superare il concetto di rappresentanza, perché la politica, i partiti, i
giornalisti ed anche gli intellettuali (come Saviano) sono distanti, non
capiscono, vivono in un altro mondo, ne danno un’immagine falsata;
bisogna riappropriarsi anche della possibilità di darsi una propria
immagine e chiamarsi con il proprio nome.
Qualche minuto dopo, il corteo entra
nel Museo invitato dai lavoratori che ci aspettano lì fuori e applaudono
al nostro arrivo. Io a questo punto li lascio. Poco dopo saprò d’un
contatto con la polizia e che i ragazzi, spinti fuori dal museo, si sono
diretti lungo via Toledo.
Il 23 Dicembre pomeriggio, così,
un’ennesima riforma dell’Università, quella del ministro Gelmini, passa
anche al Senato, e si prepara ad essere inviata al presidente della
Repubblica per essere controfirmata e divenire legge della Repubblica in
attesa dell’approvazione dei decreti attuativi. È quasi già Natale, si
tratta dell’ultimo atto di quest’anno del governo, che sembrava pronto a
cadere solo due settimane fa. Il tempo è scorso veloce, la situazione è
andata capovolgendosi.
Molti studenti che studiano a Napoli,
che provengono da altre città e altre regioni, sono ormai tornati a casa
per trascorrere le feste con le proprie famiglie. La tradizione, i
regali, la ciclicità dell’anno e l’incostanza dell’animo si affiancano
al gelo che torna, dopo una pausa, insieme con la pioggia, in prossimità
della lunga pausa natalizia. Anche io sento la stanchezza, ma insieme a
questa sento pure l’inizio d’una malinconia per un ritmo di
partecipazione, impegno e lavoro che rischia l’interruzione, la
sospensione, se non anche uno stravolgimento con l’anno che verrà e una
nuova, ancora ignota, sorta di abitudine. Il governo, intanto, ha
approvato e festeggia l’inizio del suo nuovo corso, e una riforma che
sull’onda della ragione economica dell’asmatico capitalismo italiano
copre con la propria mano attraverso una forza silenziosa e macabra la
bocca d’un corpo immobile che respirava ancora solo da essa. Tra i
bagliori della società nostrana dello spettacolo il governo va a
distruggere la possibilità di generazioni di conoscere e appropriarsi di
ciò per cui l’Italia è stata quello che è stata, nella sua cultura
lontana e la sua arte, che sono il suo unico volto significativo nello
scenario della nazioni del mondo. L’Italia, è vero, forse, diventa in
questo modo più europea, inserendosi nell’attuale matrice individualista
ed economicista della formazione degli altri paesi d’Europa, ma, nel suo
caso, lo fa sulla base d’una società più povera economicamente, più
scollata socialmente e con una storia più fragile e insicura.
Ma le ragioni del 23 Dicembre non sono
finite qui. Il 23 Dicembre è continuato, non s’è fermato all’Università
e al Senato. Non a Roma, non nel Museo di Napoli, ma in un luogo meno
sacro e sacralizzato, che fa della mancanza di religione la sua
religione, che detta le sue ragioni senza bisogno d’argomentazioni. La
furbizia dell’a.d. della
fiat Marchionne ha scelto
sul calendario questa data per preparare e siglare la firma del nuovo
accordo del presunto rilancio dal 2012 dello stabilimento di Mirafiori.
Dopo Pomigliano, Mirafiori. Un nuovo accordo, un nuovo accordo non
firmato da tutti i sindacati del momento a cui
In un’epoca di divisione rigida del
lavoro su scala internazionale dei diversi paesi, sembra che l’unico
modo per non chiudere le fabbriche in Italia sia renderle più simili a
quelle dei paesi poveri dove ormai da diversi decenni si sono spostati
gli investimenti delle grandi industrie. Rendere il lavoratore italiano
più simile a quello delle fabbriche cinesi, sudamericane, di Taiwan, di
Singapore, appare l’unico modo per garantire ancora lavoro in Italia.
Ci sarà un referendum nel prossimo
periodo, ci sarà uno sciopero della Fiom, ci sarà sicuramente uno spazio
possibile per l’incontro del 23 Dicembre dell’Università e quello della
fiat e dell’industria
italiana e si vedrà presto come andrà. Questa sarà la storia delle
prossime settimane, di quelle che ci saranno e di quelle che potrebbero
esserci.
Le verità del 23 Dicembre sono così
complesse e intrigate fra loro, hanno a che fare con domande che
attendono ancora d’essere affrontate e considerate. Questioni che anche
noi come redazione della rivista Città Future proviamo a porci con il
nostro lavoro e, in particolare, con questo numero, abbiamo cercato di
tematizzare rispetto a come le cose oggi si trovano ad essere, e al
perché così continuino ad essere da circa almeno trent’anni. Su cosa
fondi se stesso, al di là delle resistenze, delle lotte, delle prese di
coscienza, il potere del sistema capitalistico di oggi e
l’organizzazione sociale di questo tipo, in che modo e in che senso la
rappresentazione di sé degli uomini e delle donne si tenga ancora
stretta, e forse, sempre di più, attorno ad una visione rarefatta nel
pensiero e impotente rispetto all’azione aperta e liberale
all’apparenza, al modo di concepire se stessi ma estremamente chiusa e
disillusa interiormente rispetto all’aspettativa e al valore che si dà
alla vita.
Nell’articolo «Esperienza e
rappresentazione» di questo numero si prova a discutere il tema della
coscienza rispetto alla nuova organizzazione tecnologica delle cose e
alla nuova struttura del potere come potere sulla rappresentazione delle
masse, in particolare venutosi a creare nell’arco degli ultimi
trent’anni. Nell’articolo, invece, su «Politica e rappresentazione» si
discuterà la separazione fra chi governa e chi è governato e la fissità
della politica come professione all’interno dei limiti della democrazia
dei nostri giorni. Le altre rubriche e, in particolare, gli articoli
riguardo il capitalismo cognitivo, le questioni economiche intorno alla
crisi e alla decrescita, e il dibattito già iniziato intorno alla
sessualità e alla famiglia in quanto tasselli importanti investiti dal
cambiamento attuale, provano a costruire un fondamento teorico ampio e
più concreto alle posizioni che stiamo sviluppando rispetto alla
condizione presente.
DICEMBRE 2010