Recensioni
FACTORY GIRLS DI LESLIE
T. CHANG
Almeno quattro buone
ragioni per la lettura
Giulio Trapanese
Factory girls
è stato scritto nel 2008, e tradotto in italiano col titolo
Operaie nel 2010 per Adelphi.
Il suo titolo originale per esteso è
Factory girls. From Village to
City in a Changing China, che esprime bene la dinamica e la
geografia sociali del testo. In un tempo di massima commercializzazione
del prodotto letterario, Factory girls riesce a svincolarsi dal ritmo
della compulsività consumistica. È un testo scritto e maturato in anni.
Un testo che non utilizza spunti di grande attualità né punta su facili
sentimenti o attaccamenti ad alcuni personaggi in particolare. Né,
ancora, mira all’esposizione in vetrina del sé dell’autore, la quale,
anzi, segue il filo del racconto, senza saturare lo spazio tra il
proprio punto di vista e quello possibile del lettore rispetto ai fatti
raccontati. Alla lettura siamo presi, in un mondo vicino, lontano, ma,
ancora, in definitiva vicino allo spazio e alla storia che viviamo, tra
la particolarità della Cina in cui il libro è ambientato, e la verità
globale della ricerca che l’autrice ha messo in campo nel corso di quasi
un decennio. Siamo presi in un’atmosfera che solo un’autentica dedizione
all’oggettività da parte di un esploratore del mondo sociale è in grado
di creare, e, dalla sua, Leslie Chang, al suo primo libro, si è rivelata
capace di rompere il ritmo della falsa percezione mediatica sugli eventi
del mondo, e di rappresentare una verità, attraverso l’unico mezzo
possibile: lo stare dentro, l’essere coinvolti, cercare nelle radici
dell’altro la spiegazione anche delle proprie.
Leslie Chang è al primo libro, ma non è
una sconosciuta. Se da alcuni punti di vista, ci torna alla mente
Saviano con Gomorra - rispetto a cui questa rivista, tra l’altro va
ragionando da un po’ di scrivere una lunga recensione critica e
ragionata - l’esperienza personale della Chang prima di questa uscita
editoriale è più ampia, più articolata, e le ha permesso un’incisività
analoga, per quanto calata in mondi diversi, a quella di Saviano, ma, al
contempo, una prospettiva più ampia, globale, e soprattutto una capacità
di critica più radicale. Nata e cresciuta negli Stati Uniti da genitori
di origini cinesi, la Chang ha lavorato per circa dieci anni in Cina
come corrispondente del Wall Street Journal, compiendo, al tempo
stesso,un vero e proprio percorso di conoscenza e di vita. Ed è questo
il cuore della bellezza del suo testo. Ha descritto un mondo di cui si
parla a livello internazionale, un mondo che sta emergendo e, in qualche
modo sovrastando il nostro, assimilandosi ad esso, ma lo ha fatto
osservandolo da vicino, mirando alla colorata concretezza della vita di
chi incarna cambiamenti epocali, ma senza averne coscienza. Le
protagoniste del libro, in qualche modo, si trovano infatti al centro
del mondo, nel punto prospettico della città di Dongguan – luogo
principale dell’intero testo - dove sono immigrate le ragazze
protagoniste della narrazione, ma vivono nella miopia della più classica
delle provincie di dei continenti terrestri. Centro e periferia, Nord e
Sud, la periferia delle città con
la vecchia industria fordista, il centro con le nuove vetrine della
tecnologia delle comunicazioni, e, infine, la campagna, ancora immersa
nel tempo mitico delle stagioni e delle feste di fine anno.
Tradizionalismo dei costumi, quindi, e sfrenata distruzione di questi
stessi costumi, di ritmi e miti epocali, nell’innovazione tecnologica e
negli effetti devastanti di spersonalizzazione delle nuove relazioni
sociali tra donne e uomini sulle chat come “QQ” in cui la maggioranza
dei giovani cinesi trovano una fidanzata o un fidanzato.
Ma, andando con ordine, sono quattro i
temi e le ragioni che possiamo anticipare e consigliare. Il primo,
anzitutto: l’economia, a cui sono dedicati i primi capitoli del libro.
Economia globalizzata, ritmi di sempre, e controlli oppressivi stile
inizio Novecento in Occidente. Un’analisi concreta dell’economia, fatta
di volti e parole di giovani donne, timidezze e spregiudicatezze di
giovani operaie, che di passaggio da una fabbrica all’altra, in cui
fordismo e post – fordismo si mescolano in uno sviluppo bifasico del
mondo Cina all’interno del contesto internazionale, si credono
imprenditrici di se stesse, capaci di far soldi sempre in modo nuovo, da
un lavoro all’altro, da una commissione ad un’altra.
Il ritmo dell’evoluzione
economica e sociale della
Cina ci è dato come il vero protagonista di questa prima parte della
narrazione: «Non si sa quanti siano gli abitanti di Dnogguan. Secondo
l’amministrazione cittadina ci sono un milione e settecentomila
residenti fissi e quasi sette milioni di migranti venuti dalle zone
rurali, ma pochi danno per buone queste stime ufficiali e tutti
partecipano alla ridda delle ipotesi. Ci sono otto milioni di migranti.
Dongguan cresce di un milione di migranti all’anno. Dongguan ha dieci
milioni di migranti, ma ne dichiara sette per pagare meno tasse. Il
sindaco potrebbe saperne di più, ma ha la bocca cucita[..] Dongguan non
è un’entità finita: è una città dove ogni cosa si sta trasformando in
un’altra. Un tratto di marciapiede è occupato da pile di lastre in
pietra, sotto n cartello che promette: EDIFICI COMMERCIALI GRAN LUSSO.
STILE EUROPEO. La zona centrale degli uffici è tutta uno sbadiglio di
crateri aperti. Nella parte orientale sta sorgendo un nuovo centro
urbano che un giorno sarà provvisto di uffici amministrativi, una
biblioteca, un museo della scienza, un teatro. Per adesso nelle grandi
arterie della zona non c’è traccia di automobili e i viali erbosi sono
perfettamente immobili, coi bordi netti che disegnano precise geometrie.
Il motto di Dongguan è: “Un grande passo all’anno, una nuova città in
cinque anni»
Nella baraonda dell’accelerazione dello
sviluppo economico, ciascuna delle prime ragazze che la Chang ci
descrive, Zhang Qianqian, Jia Jimei, Luke Lee e Allen Lee, e soprattutto
Chunming - che ritroveremo anche più avanti nella storia - sono tasselli
di un mondo sociale, composito, in cui rientra soprattutto chi viene
dalla campagna lontana centinaia e migliaia di kilometri da Dongguan. «Per
mesi non riuscii a conoscere qualcuno che fosse nato lì. Il mondo delle
fabbriche, dai top manager alla catena di montaggio, era composto quasi
esclusivamente da migranti».
Il secondo tema, quindi, è quello
specifico della migrazione. La migrazione delle ragazze cinesi sembra
echeggiare qualunque altra migrazione di questi nostri tempi, in cui
l’aspettativa della vita nuova si confonde con la paura di perdere
consistenza ed una propria identità. La loro migrazione, dentro e fuori
la Cina, simboleggia la speranza diffusa che nel sistema globale
dell’organizzazione economica si possa scampare al destino d’essere nati
nell’angolo di continente sbagliato. E tuttavia, quella cinese, ne
rappresenta un caso particolare, quello di un paese con il più veloce
avanzamento economico dell’ultimo decennio. La Chang ci descrive la
realtà delle fabbriche, fatta di marchi, di merci, macchinari, ritmi e
turni; ma all’interno di ogni pagina, prova finemente a far prevalere il
residuo della dimensione soggettiva di tutta quest’immensa macchina di
produzione, in cui nei lavoratori
e lavoratrici prevalgono i sentimenti di paura e inferiorità, e la
percezione di un’instabilità fortissima. Soltanto alcune aziende, le più
grandi sembrano offrire qualche relativa garanzia in più. A proposito
della Yue Yuen, fabbrica di settantamila dipendenti, con sede a Dongguan
e che rifornisce tutti i maggiori produttori di scarpe come Nike, Adidas
e Reebok, leggiamo: «Ai giovani migranti la Yue Yuen offre stabilità. Un posto alla catena di
montaggio dà solo uno stipendio di circa 72 dollari netti al mese, in
linea con il salario minimo della città, ma viene pagato tutti i mesi,
puntualmente. Non si può lavorare più di undici ore al giorno, e
sessanta alla settimana, con le domeniche libere, il che è raro per un
settore in cui la produzione è a ciclo continuo, ventiquattro ore su
ventiquattro. Gli operai della Yue Yuen dormono in dieci per camerata
dentro letti a castello di ferro, e anche in questo caso se la passano
meglio della media. Di solito le ragazze pagano agli intermediari 100
yuan per avere un lavoro qui, mentre gli uomini danno una cifra di
parecchie volte superiore.[…]Un migrante che trova lavoro qui può anche
rimanervi a vita. Col tempo può capitare che si licenzi per andare a
casa a trovare un parente malato o fidanzarsi, per prendersi un periodo
di riposo o fare un figlio, dopodiché torni alla Yue Yuen». E questi
viaggi, tra l’altro, costituiscono forse la parte più avventurosa e
caratteristica del libro. Testimonianze dirette che la Chang ci descrive
in compagnia di alcune ragazze di ritorno verso la campagna in occasione
del Capodanno, e nel viaggio che lei stessa fa alla ricerca dei suoi
parenti rimasti in Cina nel tentativo di ricostruire la storia della sua
famiglia, interrottasi con la migrazione dei genitori negli Stati Uniti.
In quei lunghi viaggi in treno che ci vengono descritti si respira
l’ansia del ritorno alle origini, e delle comunità che si spostano
insieme verso il proprio passato, lasciando, per alcuni giorni, il nuovo
della città di Dongguan e delle sue fabbriche completamente deserte
«Ragioniera,
25 anni, cerca uomo del Guangdong, carriera avviata, casa di proprietà,
affettuoso e responsabile». Siamo così in un altro tema importante,
cioè quello delle donne, della famiglia, della sessualità. Quest’ultimo
è, infatti, solo uno degli svariati annunci di ricerca di relazione che
- Per niente scrisse. Secondo me sei
normale / Sei sposata hai il ragazzo? / No / Ah, quindi sei più
conservatrice / Non, non conservatrice, ma più tradizionale / In che
cosa? – Chunming si mise comoda sulla sedia e mi guardò riflettendo ad
alta voce: - in che cosa? - Il ragazzo era impaziente: Nel sesso? - […]
- No, non nel sesso. A dire il vero sto chattando per cercare un
ragazzo/ Perché vuoi sposarti per forza? / Non per forza. Mi va bene
anche fare nuove amicizie / Fin dove potresti arrivare? – Chiedeva se
lei era disponibile a fare sesso con uno che era solo un amico,
interpretò Chunming per me. – Quando possiamo vederci? Sono libero, dopo
il lavoro - - Oh no! – strillò Chunming. – Vuole incontrarmi-
»
Altro tema ancora può essere considerato
quello del destino della soggettività nell’epoca del capitalismo della
tecnologia delle comunicazioni e dei software. Attraverso gli occhi
dell’autrice, infatti, - come abbiamo in parte appena visto - osserviamo
un mondo sociale, in cui la vecchia stereotipia dei modelli, del mondo
originariamente contadino, si sta trasformando a ritmo accelerato nelle
nuove forme di omologazione del tempo post fordista, chiamandoci a
pensare, anche con una certa ansia, il senso di vita che le nuove
generazioni stanno acquisendo, in Cina, in Italia, come, probabilmente,
in modi diversi, in tutto il mondo. La nuova economia, la migrazione, i
nuovi rapporti sociali, la nuova distanza fra le generazioni che il
ritmo del tempo del consumo e dell’innovazione delle tecnologie
introduce, apre un’infinità di temi, concentrabili attorno a quello
della soggettivazione delle individualità, della ricerca di un modello
di vita in cui al centro sia l’Io, le caratteristiche personali e il
proprio carattere, le inclinazioni, i propri gusti, soprattutto.
Un nuovo modo, insomma, di vivere la
vita, di rapportarsi a se stessi, di percepirsi. Modo che, però, nelle
pagine del libro ci fa fermare a riflettere, su come la maggiore libertà
dagli usi e dalle rappresentazioni tradizionali, stia portando con sé
una nuova fonte di tristezza, un nuovo tipo di sfiducia. In una pagina
di diario di Chunming, che è forse la ragazza che più rimane nella
memoria del lettore per la sua umanità e spregiudicatezza, leggiamo «Molti
mi dicono che sono cambiata. Non so se sia vero o no…Adesso sono molto
più silenziosa, e non mi piace più ridere come una volta. Qualche volta
quando rido è perché mi costringo. Qualche volta mi sembra di essere
diventata insensibile. Insensibile. Insensibile. Ma no! Però non lo so
proprio che parola usare per dire come sono adesso. Comunque sono
stanca, stanchissima. Veramente, mi sento proprio stanchissima. Il mio
corpo e il mio spirito si sentono stanchissimi. Troppo, troppo stanchi.
Non voglio più vivere così. Non voglio più vivere così. Non vivrò più
così. Ma come dovrei vivere?»
E in questo «come dovrei vivere?» c’è
tutta la verità della nuova condizione umana che viene descritta nella
storia, verità che parte dall’economia della Cina ma arriva fino al modo
in cui i suoi attori sociali sono spinti ad impersonificare maschere
nuove, diverse da quelle tradizionali radicate in un background
millenario, a tratti inconsistenti, ma in grado comunque di sgretolare
ciò che le ha precedute. Una psicologia, insomma, a cavallo di più
tempi, in una rapida trasformazione della posizione e della coscienza
dei lavoratori, veri artefici dello sviluppo economico del paese.
Queste alcune delle tracce principali
del libro della Chang: tracce mischiate nella nostra vita e in quella
delle ragazze che ha conosciuto e di cui parla l’autrice, confuse nella
nostra contemporaneità frammentata e molteplice, ma che, però, la Chang
ha saputo dipanare, mettere in fila, senza schematismi, in una
narrazione che è documentata sul campo ma non schiacciata sul mero
fatto, risultato del legame della vita dell’autrice con il luogo che
ella stessa descrive e lascia descrivere coralmente, che scopre e
riscopre proprio legata a doppio filo a quella delle compagne di viaggio
incontrate negli ultimi dieci anni di questa contraddittoria ascesa
cinese. La riscoperta della Cina di Chang è quella della sua identità e
della sua differenza, e nella narrazione i due termini riescono a
tenersi in equilibrio. Factory girls è quindi uno squarcio all’interno
del contesto convulso di oggi in cui la Cina prende la scena. Cina che a
noi, per lo più, appare solo dietro la potente maschera della sua
economia, del suo prodotto interno lordo e mai, invece, in quella della
sua particolarità storica, di
quella sofferenza storica che si anella ad ogni progresso, della
barbarie che soffia nelle faraoniche imprese di sviluppo economico,
divenuto oggi l’unico criterio per distinguere ciò che avanza da ciò che
è fermo, ciò che storicamente frana da ciò che si rinnova. Per chi
s’aspetta una trama lineare e immediatamente coinvolgente, può essere un
testo lento e dispersivo; ma, tuttavia, ha la velocità giusta per farsi
delle domande sul presente non trovando subito delle risposte. Arrivati
alle ultime pagine si ha la voglia che il libro non finisca, e che quel
mondo non scompaia subito dalla propria coscienza. Anche solo per
ricordare, tenere presente chi, dovunque sia, vive il nostro stesso
mondo, il nostro stesso tempo.
SETTEMBRE 2010