Sessualità e famiglia oggi
SESSUALITA’ SPEZZATA
Per
una critica sessuale del lavoro
Giuditta Bettinelli
All’interno della sezione «sessualità e famiglia oggi»,
vorrei proporre una discussione, prendendo spunto da alcuni fatti
inerenti a ciò che è stato coloritamente soprannominato
«porno-politica», nella speranza di poter trarre, da queste vicende di
spettacolar-politik, dei concetti, per una riflessione
analitica più ampia sui rapporti di genere e sulla sessualità nel nostro
contemporaneo.
Lo spunto nasce dalla lettura di un articolo di Ida
Dominjanni comparso sul Manifesto.
É passato più di un anno. Era il 23/6/2009, era
l’epoca, anzi, diciamo «il tempo» delle escort, (quasi parafrasando il
titolo del film cult che si sforzava di cogliere l’immaginario
collettivo di una generazione).
In seguito alle dichiarazioni di numerose prostitute
(che in quest’ambiente si chiamano «escort») in merito alla condotta
morale e pubblica del Presidente del consiglio, Ida Domnijianni, assunse
una presa di posizione peculiare, che merita di essere discussa, perché
ci fornisce l’occasione per sollevare e formulare delle questioni
importanti rispetto alla condizione femminile nell’epoca dello
spettacolo.
Durante un’intervista con Patrizia D’addario che le
aveva confidato le vicende di abbandono e di violenza che l’avevano
indotta a prostituirsi, Dominijianni sembrava essere molto colpita da
come certe donne arrivino a considerare una carriera come un'altra
«rendere contabile e
negoziabile qualsiasi prestazione del corpo». Un principio che ai suoi occhi
sembrerebbe far vacillare l’eredità delle lotte femministe degli anni
Settanta, che la stessa Dominijanni ha d’altra parte condiviso.
Non senza indignazione ella infatti si domanda:
«[…]. Ora, è dagli anni 80 che il movimento per i diritti delle prostitute
rivendica - senza convincermi, aggiungo - che fare sesso a pagamento,
ovvero vendere il proprio corpo, è un lavoro come un altro, da negoziare
come si fa con qualunque lavoro.
Ma come siamo arrivati a rendere contabile e negoziabile qualsiasi
prestazione del corpo, un sorriso, una presenza a cena, un ballo a una
festa, un'impronta che fa immagine? Mansioni come altre, sembra di
sentir parlare gli operai che negli anni '70 ti spiegavano la catena di
montaggio.
Quale cambiamento culturale ha reso il
corpo, per queste donne, simile a una macchina, e alienato come una
macchina?».
La nostra epoca sarebbe dunque segnata, secondo la
prospettiva della giornalista del Manifesto, dall’avvento di un
cambiamento culturale, che stravolgendo e scardinando i principi
dell’etica, ha reso legittimo l’uso utilitaristico e mercificato del
corpo, nella fattispecie, del corpo femminile.
Per comprenderlo, cerchiamo di analizzare più
attentamente il suo ragionamento. L’atto di mettere in vendita la
propria presenza ed il proprio corpo, stabilendo un prezzo ad ogni sua
parte, avrebbe sancito, secondo questa visione, il trionfo dell’economia
sulla vita, rendendo «certe» donne «alienate» e privandole del proprio
essere specifico. Secondo Dominijanni, il quid che rende l’essere umano
tale e che rappresenterebbe l’attributo coessenziale alla definizione
della soggettività è il desiderio.
La concezione del soggetto sottesa a questo tipo di
analisi sarebbe quindi da intendersi nei termini di essere umano come
«essere desiderante».
Poiché tuttavia la prostituta intrattiene con il
cliente una relazione retta esclusivamente da una dinamica
materialisticamente orientata, nel rapporto sessuale a pagamento la
dimensione del desiderio sarebbe invece destinata a scomparire: il filo
rosso di tutto il ragionamento è che non il desiderio, ma una
contropartita economica rappresenterebbe la dinamica condottiera di
questo tipo di rapporto, che pertanto diventa alienato. E difatti,
nell’analisi proposta dalla Dominijanni l’accostamento con il mondo
operaio non si esaurisce ma prosegue: come l’operaio nella prospettiva
marxista è alienato e vive la separazione dal prodotto del suo lavoro,
così farebbe la prostituta, che cedendo e mercificando il proprio corpo, dimostrerebbe di
muoversi all’interno di una dinamica «cosificata».
La tesi che associa prestazioni sessuali a pagamento e
alienazione, assume quindi che la prostituta, avendo perso la propria
soggettività, non rappresenti altro che un corpo privo di desiderio,
adibito meramente alla penetrazione passiva. Il principio, di poter
disporre del proprio corpo tanto da stabilire un prezzo alle proprie
prestazioni, è quanto a cui si richiamano, al contrario, le prostitute
appartenenti ad alcuni movimenti fra cui il «Comitato per i diritti
civili delle prostitute» fondato nel 1982, che ha fra i suoi principali
esponenti Pia Covre, attivista politica e «sex worker» professionista.
Nel preambolo al loro lucido Manifesto alcune
prostitute dichiaravano:
«[…].
Noi non regaliamo niente. E non è
perché riceviamo del denaro in cambio di prestazioni sessuali che
diventiamo delle schiave.
Sia abolizionisti che proibizionisti ci
considerano delle alienate, che non sanno quello che fanno, che
dovrebbero far altro nella propria vita, e stupidaggini di questo
genere. Ci considerano delle vittime incapaci di prendere coscienza
perfino della loro alienazione, il che spiegherebbe come mai non
riusciamo a smettere di prostituirci
[…].
No, noi non abbiamo papponi. Non siamo
state violentate da piccole, né dopo. Non siamo tossicodipendenti. Non
siamo mai state costrette a prostituirci. Non soffriamo di sindrome
post-traumatica. No, non siamo infelici.
Sì, abbiamo una vita sentimentale.
Abbiamo amiche e amanti. Lottiamo contro le discriminazioni ed
esercitiamo un mestiere stigmatizzato. Vogliamo gli stessi diritti degli
altri cittadini».
(Nikita e Shaffauser).
L’alienazione costituisce un’ipotesi ermeneutica di
grande fascino e di forte presa collettiva. Eppure, leggendo queste
parole, possiamo comprendere come la prostituzione sia una realtà
polifonica ed eterogenea. Non trattandosi di un fenomeno unitario
difficilmente possiamo applicarvi un’univoca categoria interpretativa,
quasi per trovare una corroborazione empirica alle nostre simpatie
teoretiche, poiché così facendo non finiamo che strozzare le molteplici
voci che in realtà lo costituiscono.
Di fronte all’etichetta di «alienate» che Dominijianni
attribuisce senza esitazione a «certe» donne, facendo rientrare fra
queste «certe» sia le escort dell’upper class che tutte coloro che si
prostituiscono volontariamente, mi chiedo: quanta violenza può esserci
nell'affermare che tutte le prostitute, non essendo desideranti, non
sono soggetti?
Il problema al quale ci richiamano invece, le
voci appartenenti ai Comitati non è scontato
e riguarda un dato molto concreto: l’assoluta mancanza di tutela nei
confronti di chi ha deciso di lavorare vendendo sesso per denaro; una
privazione a cui si accompagna il mancato riconoscimento della propria
persona da parte dello Stato e della società civile, comprese le
femministe a cui Dominijanni appartiene. Sebbene nel suo articolo ella
abbia il pregio di sottolineare alcuni aspetti estremamente rilevanti
che caratterizzano la dimensione politica del nostro contemporaneo,
quello che intendo criticarle, è che mi sembra che quest’analisi produca
l’effetto di ignorare una realtà decisivamente presente nel nostro
territorio e in Europa, sovrapponendo la prostituzione in generale a un
tipo particolare di prostituzione, praticata in un determinato contesto.
Nella concezione teoretica che Dominijanni ci presenta, il legame fra
prostituzione e alienazione è deterministico e vale sia per le
prostitute dello spettacolo berlusconiano, sia per chi si prostituisce
al di fuori di questa rete di relazioni e di quest’ambiente.
Ritengo invece che per analizzare correttamente il
fenomeno della prostituzione occorra prestare molta attenzione a non
confondere il mondo delle escort, delle veline e del loro spettacolo che
implica anche delle forme di prostituzione, con la prostituzione tout
court, fenomeno che naturalmente esisteva già ben prima dell’avvento
dell’impero televisivo berlusconiano e che Dominijanni sembra invece
sovrapporre.
Il mondo della prostituzione costituisce una realtà
profondamente eterogenea dove esistono già delle distinzioni
determinanti fra prostituzione libera e coatta, come all’interno di
ambedue questi schieramenti.
Non soltanto un’antropologia filosofica applicata a
questi due casi ci può consentire di leggere le diverse implicazioni che
fanno, di questi fenomeni, due fenomeni distinti e peculiari; ma
possiamo rilevare come, sia per chi sia costretto sia per chi non lo
sia, abbiamo da un lato, uno Stato che usa la mano dura e la politica
d’importazione americana della «tolleranza zero», mentre dall’altra
parte, abbiamo un regime tollerante e permissivo nei confronti della
prostituzione dell’upper class e dei propri accoliti.
Al dispositivo analitico che sovrappone il mondo
spettacolare e porno politico delle escort alla prostituzione che noi
tutti conosciamo, sembrerebbe contrario anche Galimberti che in
proposito ci dice:
«Puttane sono rimaste solo le donne
migranti e non, sbattute sulla strada dai circuiti malavitosi ed esposte
quotidianamente alla sopraffazione, all'umiliazione, al rischio non
troppo remoto di essere ammazzate. Le signorine che frequentano i
palazzi del potere o gli ambienti della buona società dello spettacolo o
degli affari sono più elegantemente hostess, donne-immagine, escort,
accompagnatrici. Basta la parola e il gioco è fatto: si lava e si leva
l'onta».
Il politically correct del concetto di «escort» è
inverosimile e fastidioso, e costituisce l’indicatore di un fatto
sociale che come ho già scritto, meriterebbe di essere analizzato più
approfonditamente: il ruolo e il modello femminile all’interno del
potentato televisivo di Berlusconi. Galimberti dimostra inoltre di aver
ragione a contraddistinguere quest’ultimo dalla prostituzione di strada,
sottolineando giustamente, i rischi connessi a questo tipo di vita.
Ciò nonostante, è platonico e illusorio ritenere che
sulla strada, tutte le donne vi finiscano in quanto sfruttate o perché
affamate e prive di alternative. La realtà della prostituzione lontana
dagli ambienti delle escort, ci dimostra che è possibile incontrare
anche chi vuole accumulare cifre copiose nel modo più semplice e rapido
possibile facendo fruttare ciò che per natura si possiede. Prostituirsi
per coloro che scelgono di farlo, può essere un modo per cambiare stile
e tenore di vita, rifiutando impieghi massacranti e scarsamente
retribuiti nei paesi di origine, o per guadagnare di più lavorando di
meno. In questo senso la prostituzione si configurerebbe come
l'appropriazione di un settore economico per migliorare la propria
posizione di partenza (M. Nikita., e T. Schaffauser, 2009) e per
garantirsi uno stile di vita altrimenti precluso. Che ci piaccia o meno
dunque, non soltanto le prostitute dei Comitati costituiscono, parimenti
alle ragazze vittime dello sfruttamento, i soggetti agenti della
prostituzione stessa, che in quanto tali, non possono essere ignorati;
ma propongono al contempo una riflessione teorica sul proprio mestiere e
sulla propria condizione, che rappresenta per ciò stesso, una tappa
inedita all’interno del processo di produzione collettiva del sapere.
In una lettera aperta alle «sorelle femministe» del 3
marzo 2006, il gruppo attivista francese
Le putes, un movimento che, analogamente al
Comitato fondato da Pia Covre, si batte per il riconoscimento dei
diritti civili alle prostitute scriveva:
«[…].
La nostra esclusione è frutto di un
malinteso. La maggior parte delle femministe ci considera vittime della
prostituzione, mentre noi ci consideriamo vittime delle cattive
condizioni in cui lavoriamo».
A questo punto può apparirci chiaro che il malessere di
cui parlano i Comitati è generato da una condizione precaria, tale in
virtù di precisi processi politici in ragione dei quali lo Stato
italiano si occupa delle prostitute (ma attenzione non delle escort)
secondo le sue mai smentite tradizioni controriformistiche, ovvero
affidandosi unicamente, ai metodi repressivi e polizieschi. La
prostituta, proprio in quanto non riconosciuta, costituisce un'entità
visibile per lo Stato esclusivamente come mero
corpo
biologico, da
contare e da sanzionare, ma invisibile in quanto
persona. A
differenza della prostituta di quartiere del Novecento, nella nostra
epoca la prostituta è anonima e clandestina, senza nome né storia, non
ha più storia, poiché la sua storia è stata massificata. Il problema
quindi è che la donna di cui parliamo non è un soggetto nella sua
irriducibile specificità, un soggetto in carne e ossa e pensiero, ma è
una
nigeriana,
un'albanese, una
rumena. É un individuo generico, per il quale
l’appartenenza alla società è vana, in quanto si tratta di una
appartenenza alla dimensione sociale che non genera inclusione, ma che
deriva alla prostituta esclusivamente dal suo essere fastidiosamente
visibile. Questo è un aspetto cruciale: la donna in questione è
considerata dallo Stato soltanto in quanto oggetto da sanzionare e da
reprimere e sarà
la sua marginalità rispetto alla norma
generare una condizione esistenziale fuori norma, e quindi sovversiva.
Introducendo di recente, il «Reato di prostituzione», possiamo
comprendere come sia lo Stato stesso a lasciare sussistere, e per ciò
stesso a riprodurre, quella condizione di devianza e di conseguenza di
emarginazione, nella quale versa la prostituta. Non è infatti la natura
ma è lo Stato a determinare che prostituirsi costituisca un atto
deviante non riconoscendo a chi lo fa, alcuna tutela né diritto.
Pertanto, per chi si prostituisce al di fuori della
cerchia delle escort e delle puttane dell’upper class, la drammaticità e
la sofferenza esperite sul luogo di lavoro, rimandano al tentativo
«ontologico» di compiere il passaggio fondamentale fra
l'avere un corpo
e il compimento di quel salto che
consente di poter
essere un corpo,
con i
riconoscimenti civili e giuridici a cui tale affermazione di fatto ci
richiama.
Da questo punto di vista, il tentativo da parte di
certe prostitute di
permanere, davanti
alla volontà sociale di annientamento, può dunque essere letto come una
scelta incarnata di resistenza. Permanere davanti a una società che ti
intende annullare, rappresenta la protesta, non conforme e dissonante
del singolo, contro quelle forze che lo vogliono sopraffare.
Ci può far riflettere il fatto che attualmente, sul
piano mediatico, un piano che notoriamente riserva largo spazio al tema
dedicato alla sicurezza femminile nei contesti urbani, lo stupro di una
prostituta non ha alcuna rilevanza. Lo stupro di una prostituta non è
ancora riconosciuto nella sua gravità e spesso resta impunito, sminuito
dal fatto che, in fin dei conti, si tratta pur sempre di una «puttana».
Gli scippi, rapine, violenze e stupri avvengono in maniera
particolarmente efferata proprio poiché in quanto «puttane», le
prostitute non sono considerate integralmente delle persone, e il loro valore umano e sociale è
ritenuto pressoché nullo.
Tuttavia, finché le prostitute non saranno concepite
come soggetti a tutti gli effetti, nelle loro vite, nelle loro identità
e nel loro lavoro, mi pare difficile che sarà possibile riconoscere e
condannare le violenze e le barbarie perpetrate nei loro confronti.
Nell’articolato manifesto politico promosso dai
comitati troviamo fra le varie rivendicazioni l’obiettivo di combattere
l’immagine stereotipata della prostituta. Ecco, si tratta di un punto
che ritengo importante non soltanto rispetto alle tesi che ho poc’anzi
esposto, ma credo che questa rivendicazione costituisca un aspetto che
riguarda non solo le prostitute ma che si estende a tutte le donne, e mi
auguro nella parte conclusiva di questa relazione, di poter dimostrare
perché.
Per farlo farei un passo indietro. Il principale
interrogativo che Dominijanni si poneva era
«Quale cambiamento
culturale ha avuto luogo e ha reso il corpo di queste donne, simile a
una macchina e alienato come una macchina?»
Pensando a una «risposta immaginaria» a quest’articolo
io sarei partita piuttosto da una domanda diversa, ossia:
Come possono
le donne che non sono delle prostitute professioniste mettere a punto
una critica del lavoro sessuale senza riprodurre la loro posizione di
privilegio nei confronti di chi scambia professionalmente sesso per
denaro?
Come ho tentato di suggerire precedentemente, il
corollario che lega per automatismo desiderio e soggettività, mi lascia
francamente piuttosto perplessa. Potrebbero, infatti, esserci prostitute
che vivono il rapporto sessuale con desiderio (come, del resto,
rivendicherebbero le protagoniste dei comitati per i diritti civili
delle prostitute), e «donne per bene» che vivono il rapporto sessuale
senza desiderio e magari in maniera materialisticamente orientata. Come
tutte le altre donne, le prostitute possono desiderare e provare
piacere, nel loro caso qualche volta in quanto prostitute, altre volte
indipendentemente dall’esserlo. Ed infine, è illusorio ritenere che la
prostituzione si esaurisca soltanto laddove essa è palese (e alienata), come se il
rapporto fra sessi non fosse improntato in sé stesso, da una forma di
scambio sessuo-economico, con la quale le donne hanno a che fare
quotidianamente.
Per me quindi non si tratta tanto di focalizzare
l'analisi sul desiderio e su dove questo vada a finire in questo
scambio, poiché lo scambio sessuo-economico si fonda su alcune dinamiche
che non possono essere lette attraverso i dispositivi tradizionali
tramite cui il pensiero speculativo europeo si è dato la possibilità di
leggere e interpretare il rapporto sessuale. Mi riferisco cioè al fatto
che pur ritenendo il rapporto sessuale che ha luogo con la
prostituzione, una forma «peculiare» di rapporto sessuale, gli si
applichino le medesime categorie analitiche impiegate per interpretare
l'unica forma di rapporto sessuale concepibile
e che riteniamo essere valida: quella
legata al desiderio e all'eros, che nega, conseguentemente, tutti gli
ulteriori e molteplici usi presenti nel rapporto sessuale che sfuggono a
questo dispositivo analitico. Usi che nelle pratiche quotidiane
sussistono.
Tale modello costituisce una rappresentazione specifica
e storicamente situata del rapporto sessuale, in cui quest’ultimo
sarebbe esclusivamente mosso e finalizzato dal desiderio, e che preclude
al «corpo sessuato» qualsiasi ulteriore impiego e utilizzo di sé stesso
e del sesso, (nonostante questi diversi usi della sessualità e del corpo
siano estremamente diffusi e presenti nella realtà che ci circonda).
Eppure gli uomini fanno, credo, appunto in quanto
soggetti, un uso estremamente fruibile del proprio corpo e del proprio
corpo in rapporto ad altri corpi, e in questa esperienza, ed esperendo
la propria esistenza, può essere che pur non essendo delle prostitute,
si possa anche fare sesso meccanicamente, ma non credo che si perda mai
di soggettività. Nella dimensione della prassi, esistono numerose altre
forme di vivere il corpo utilitaristiche, iscritte nella nostra
quotidianità, e nei rapporti di genere, la cui concreta presenza non può
consentirci di affermare che non esistano.
Nella concezione di chi nega soggettività, è il
desiderio tout court il protagonista del rapporto, e se questo viene
meno, è perché tale rapporto esigerebbe in verità una contropartita, ed
è così che si scopre, in questo atto, la presenza di qualcosa che lo
trasforma in una forma di prostituzione, cioè in una tipologia di
rapporto sessuale «distinta e particolare».
Ma che cosa intendiamo allora per desiderio? Il
desiderio sarebbe dunque il desiderio, come dicevo, fine a sé stesso e
disinteressato, che caratterizza l'atto sessuale in quanto atto di
desiderio?
Se così non fosse infatti, da qui deriverebbe, sul
piano concettuale, la distinzione fra «donna per bene» e «prostituta»,
fra rapporto sessuale e scambio sessuo-economico.
Ecco quindi quello che io personalmente mi sento di
contestare. Io contesto questa distinzione e anzi propongo propriamente
di liberarci dalla
concezione, infamante e separata di prostituta che fa di tale
condizione, una categoria autonoma e disgiunta da quella di donna per
bene. Lo stigma della puttana, infatti, non si applica alle prostitute
soltanto, ma può riferirsi a qualsiasi donna fuori controllo, ed è
propriamente uno strumento che fungendo da deterrente e da inibitore,
serve per esercitare un controllo sessuale sulle donne.
Dobbiamo cioè cercare di ripercorrere la storia del
concetto di prostituta e farne un’archeologia per comprendere come
questo elegga una realtà che non è sempre esistita come separata, ma che
noi stessi abbiamo finito per naturalizzare come tale.
In una ricerca sulle donne comuni nell’Inghilterra
medievale la storica Ruth Mazo Karras ce lo dimostra:
«La cultura inglese del tardo medioevo
non aveva una categoria concettuale specifica per la donna che scambiava
sesso per denaro. Una donna non veniva designata whore (puttana) perché
scambiava sesso per denaro, poiché lo scambio riguardava tutte le donne
[…]».
Era quindi impossibile distinguere
concettualmente, in questo tempo, la condizione della prostituta da
quella di una donna qualunque.
Dal mio punto di vista il problema vero quindi è che se
soltanto provassimo a mettere da parte una visione romantica dell’amore,
ci accorgeremmo che nella realtà che ci circonda, i rapporti di genere
sono costellati di dinamiche in cui la sessualità è un mezzo di scambio,
(sebbene queste forme vengano sovente celate sotto il nome di «affetto»
o di «regalo» e non siano riconosciute come «prostituzione») e dietro la
quale in molti casi si cela la finalità di accaparrarsi un settore
economico e di potere altrimenti precluso. Il punto è propriamente
questo: lo scambio sessuo-economico non è un
fatto circoscritto: costituisce una
costante universale del rapporto fra maschi e femmine che può unire
sfruttamento economico, assenza o limitazione di conoscenza e
oppressione sessuale.
Lo scandalo, che la tipologia di rapporto di cui la
prostituzione è l'emblema, genera davanti ai nostri occhi, è esattamente
conforme al fatto che essa si pone come punto di frattura rispetto alla
nostra concezione del sesso e del corpo. Ovvero, l’aspetto che genera
turbamento nei confronti della prostituzione è che questa commercializza
ciò che nell'etica prodotta dalla nostra società non potrebbe esserlo:
non soltanto l'idea che richiama all’amore romantico disinteressato,
fondato sulla scelta e sull'interesse reciproco, ma la concezione stessa
del rapporto sessuale fondata, anche laddove è puramente erotico sul
mito del desiderio per desiderio, libero da qualunque finalità e
contropartita. Il pensiero europeo pur praticandolo nella prassi,
ripudia concettualmente che le relazioni sessuali possano essere legate
a un fine materiale-economico, demandando questo rapporto unicamente ad
un'unica realtà altrimenti pensabile ed estranea, quella della
prostituzione. Con la prostituzione credo che sia stata inventata così
una nuova figura, quella della prostituta appunto, che si distinguerà
dalla compagna, moglie, amica o fidanzata, proprio in virtù della natura
economica del rapporto che con questa si intrattiene. Una dimensione
materialistica che, al contrario, è idealmente espunta dal rapporto
dialettico con le altre figure che rientrano nel modello della «donna
per bene».
Per concludere, penso quindi che un primo passo verso
l’emancipazione lo potremmo fare noi donne, insieme a tutti coloro che,
come noi, desiderano un futuro più eguale, impegnandoci affinché le
donne non abbiano più bisogno dell’aiuto degli uomini. Per farlo
occorrerà un ripensamento delle categorie e tramite cui viviamo il
sesso, per questo dicevo che un primo passo potrebbe partire da noi.
Finché non si produrranno nelle nostre teste delle tensioni tali che ci
permetteranno di riconoscere la prostituta nella sua soggettività e
nella sua attività lavorativa, la strada per il riconoscimento dei
diritti sarà quanto mai tortuosa.
SETTEMBRE
2010