SPUNTI PER UN DIBATTITO
SULLE RELAZIONI SINDACALI IN TEMPO DI CRISI
Antonello Baldassarre
1. Quando a farsi sentire è sempre la voce dello stesso padrone.
É un dato di difficile contestazione,
anche perché ampiamente verificato e descritto in numerosi studi e
ricerche sul tema[1],
l’influenza da sempre
esercitata da Fiat Auto verso i processi di evoluzione delle relazioni
industriali nel nostro Paese. Che si tratti della vertenza di Pomigliano
oggi o della «marcia dei quarantamila» ieri – e proprio di questa
l’ottobre prossimo ricorrerà un importante anniversario, il trentennale
di quei duri trentacinque giorni di scioperi e blocchi conclusi con la
protesta dei capi-reparto il 14 ottobre 1980 – la fabbrica di automobili
torinese, sempre più «multinazionalizzata» grazie al patto di ferro
stretto dal Lingotto con i fratelli d’oltreoceano della Chrysler, ha
costantemente dettato i tempi di sviluppo e di trasformazione del nostro
sistema sindacale: di un sistema sindacale, cioè, fortemente plasmato,
nei suoi tratti di identità, dall’industria automobilistica e dalle
grandi imprese dell’Italia settentrionale o, meglio, di quello un tempo
chiamato il «triangolo industriale».
Dopo la marcia dei quarantamila quadri Fiat che sfilarono con le loro
giacche, cravatte e soprabiti per le vie di Torino sotto la guida di
Luigi Arisio, e con la benedizione di Gianni Agnelli e dell’allora
amministratore delegato Cesare Romiti, si scrisse che nulla sarebbe
stato più come prima: la protesta ordinata di una maggioranza sino a
quel momento silenziosa, con la fine dei picchetti ai cancelli di
Mirafiori e la pesante sconfitta del fronte sindacale, giungeva
improvvisa per annunciare che un’epoca volgeva al declino e che, dopo le
lotte del ’68 e le conquiste degli anni ’70, il decennio successivo si
sarebbe svegliato col disincanto di una classe che finiva di essere tale
e si preparava a disperdersi nei mille rivoli di un mondo del lavoro
orfano della grande impresa taylor-fordista.
Oggi i giudizi non sono molto diversi
nella sostanza, quando ci si interroga su quali effetti un accordo come
quello siglato per lo stabilimento «Giambattista Vico» di Pomigliano
potrebbe spiegare sull’assetto delle regole che presiedono ai rapporti
tra gli attori collettivi e all’impiego degli strumenti con cui le parti
sociali disciplinano i termini di scambio tra capitale e lavoro. Per
contestare l’intesa, definita addirittura un diktat padronale d’altri
tempi, un regolamento aziendale goffamente camuffato con la veste di un
patto negoziale, è stata chiamata in causa
2.Grazie Signora Thatcher per averci insegnato che la politica non si
limita a fare il tifo.
E veniamo così al quadro politico. É
indubbio che questo, e le scelte di valore che ispirano i suoi agenti,
rappresentano, al pari del protagonismo di alcune imprese, fattori di
condizionamento di relazioni che, con l’accresciuta complessità del
lavoro e delle problematiche ad esso legate, intrattengono con i poteri
pubblici un confronto costante: al punto che di queste relazioni le
forze politiche divengono soggetti interessati ed indispensabili al pari
delle forze di rappresentanza del lavoro e delle imprese. Che il potere
pubblico non è semplice osservatore esterno, mediatore o arbitro di ciò
che si muove e si scontra nell’arena del conflitto di lavoro, ma attore
a tutti gli effetti delle relazioni industriali, lo sanno bene i
minatori inglesi, i cui scioperi nulla poterono contro una volontà
politica che nel corso degli anni ’80 piegherà il più antico e forte
sindacato del mondo occidentale destrutturandolo in «casa propria»,
ossia in quel sistema di garanzie messo in piedi, come ci ha spiegato in
non dimenticate pagine Sir Otto Kahn-Freund[3],
dopo anni di glorioso e rivendicato «laissez-faire».
Così, se volgiamo lo sguardo a quel che
accade negli ultimi tempi in casa nostra, ci accorgiamo che le politiche
di promozione dell’azione sindacale di tutela – il cui più importante
portato normativo è tuttora rappresentato, nonostante gli acciacchi del
tempo, dalla l. 20 maggio 1970, n. 300 (meglio nota come Statuto dei
diritti dei lavoratori) – e la intensa stagione di concertazione delle
politiche sociali, dei redditi, del lavoro – sfociata nel Protocollo
Giugni del luglio 1993 – hanno lasciato il campo, sul finire degli anni
’90, ad orientamenti ed indirizzi che paiono risentire di un riscoperto
approccio liberista o neo-liberista alle questioni sindacali e del
lavoro. Basta scorrere le pagine del «Libro bianco sul mercato del
lavoro in Italia», presentato nell’ottobre 2001, o del più recente
«Libro bianco sul futuro del modello sociale», per farsi un’idea delle
linee programmatiche che in questi anni hanno ispirato le forze
governative del centro-destra nei rapporti con le organizzazioni di
rappresentanza degli interessi di lavoro.
3. Le relazioni sindacali alle prese con il «dono sociale» del
conservatorismo compassionevole: la (ri)scoperta della bilateralità.
Tra i tanti aspetti che colpiscono dei
documenti politico-programmatici appena richiamati, spicca con
particolare evidenza la visione di sindacato e, più in generale, di
autonomia collettiva sempre più costruita attorno alla centralità di una
figura in passato a dir poco negletta – e comunque per nulla
approfondita, salvo pochissime eccezioni, negli studi giuridici in
materia[4]
–
in cui oggi il legislatore sembra voler individuare l’alfa e l’omega di
un nuovo corso delle relazioni industriali. Stiamo parlando del c.d.
«ente bilaterale», elevato dall’art. 2,
lett. h), d. lgs. 10 settembre
2003, n. 276, a «sede privilegiata
di regolazione del mercato del lavoro» e nel cui sostegno il «Libro
verde sul futuro del modello sociale» – presentato dal Ministero del
lavoro nel luglio 2008 per promuovere un dibattito pubblico sul futuro
del sistema di welfare attraverso il coinvolgimento di tutti i
soggetti istituzionali, sociali e professionali – individua una delle
«soluzioni più autorevoli e
credibili per avviare una alleanza tra imprese e lavoratori sui temi
della crescita, dello sviluppo e della giustizia sociale». La
bilateralità, insomma, come metodo di gestione di tutti quei profili dei
rapporti di lavoro che la contrattazione collettiva affida alla cura di
organismi comuni e procedure congiunte, in cui rappresentanti dei
lavoratori e delle imprese operano su presupposti di co-interessenza
anziché di interazione dialettica se non addirittura di insanabile
alterità, è diventata il simbolo di una concezione nuova, o meglio di
quella visione delle relazioni sindacali e di lavoro fortemente
incentrata sui valori della collaborazione e dell’integrazione tra le
forze in campo.
Non ha probabilmente molto senso
richiamare qui quei filoni di pensiero che, nel solco della dottrina
sociale cattolica, hanno proposto da sempre una trasposizione del
monologo di Menenio Agrippa alle tematiche del lavoro, nel tentativo di
dimostrare che ciascuna parte è indispensabile alla sana costituzione e
funzionamento del tutto, e che è dalla leale partecipazione di ciascuna
parte a questo tutto, e non dalla lotta tra le parti, che discende il
bene per un organismo intimamente unitario come può essere una comunità
di lavoro o, più in generale, l’economia di un paese. Eppure, è un
sindacato come
4. Quando anche il
sindacato comprende che è meglio evitare di fare la fine dei dinosauri.
Ad ogni modo, il
tema della «partecipazione» nelle relazioni industriali è stato fatto
passare, negli ultimi tempi, come un argomento di urgente attualità:
eppure, al pari delle ragioni sostenute dai fautori della
«conflittualità», si rivela un topos ad alto tasso ideologico, ancorché sempre più spesso
sbandierato nei dibattiti pubblici come antidoto contro la
politicizzazione dell’azione sindacale. Volendo tentare una lettura non
unilaterale, che tenga conto cioè dei molteplici punti di vista e
soprattutto delle prassi collettive affermatesi nelle più recenti
vicende evolutive, può partirsi dalla constatazione che
negli accordi
collettivi si rinvengono con crescente frequenza dichiarazioni del
seguente tenore: «le parti si
riconoscono nel consolidato modello partecipativo di relazioni
industriali, improntato nell’ambito degli organismi bilaterali su un
dialogo continuo e finalizzato a creare un clima positivo di consenso
per la ricerca di soluzioni condivise»[6];
«alla autonomia collettiva si
riconosce una funzione primaria per la gestione delle relazioni di
lavoro mediante lo sviluppo del metodo partecipativo, ai diversi livelli
e con diversi strumenti, e un ruolo essenziale nella prevenzione del
conflitto»[7];
«l’esperienza della bilateralità
esprime la cultura della partecipazione negoziata nelle relazioni tra le
parti, per continuare a dare risposte innovative al comparto per quanto
riguarda la crescita competitiva delle imprese e il miglioramento
dell’occupabilità dei lavoratori»[8].
Questo sintetico catalogo è sin troppo
chiaro nel dirci che al giorno d’oggi sono le stesse parti sociali a non
credere più nel conflitto come
«padre di tutte le cose nell’universo delle relazioni industriali»[9]
e che, al contrario, è dall’interno del mondo sindacale, con i
suoi umori e malumori in perenne instabilità, che inizia a percepirsi
come indispensabile tentare una articolazione degli strumenti di tutela
collettiva che tenga conto della diversità dei contesti, della
specialità dei rapporti di lavoro, delle mutate esigenze e dei profondi
cambiamenti culturali intervenuti nelle nuove generazioni di lavoratori,
a proposito dei quali non è forse esagerato dire che se dovessero
incrociare il sindacato per strada e qualcuno glielo facesse notare,
esclamerebbero: «scusate, ma non lo abbiamo riconosciuto».
Nuovi orizzonti, allora, si iniziano ad
intravedere, sia pure all’esito di un cammino che non è stato breve, né,
soprattutto, facile.
Già sul finire degli anni ’70 – anni
che si lasciavano alle spalle un stagione storica caratterizzata da un
forte
«protagonismo delle organizzazioni
sindacali e del metodo di regolazione delle relazioni d’impresa fondato
sul binomio conflitto/contratto»[10]
–
la discussione sul ruolo svolto, nella società italiana, dal sindacato e
dai risultati delle lotte sociali sino a quel momento raggiunti, partiva
dal sentore «dei problemi che oggi
si pongono, al termine di una fase di sviluppo e di espansione quasi
ininterrottamente protrattasi per un lungo periodo, ad un diritto del
lavoro ormai percorso da «crepe profonde» (licenziamenti collettivi,
ristrutturazioni, scorpori produttivi, proliferazione del «lavoro nero»,
formazione di strati di classe operaia sottoccupata e «non protetta»)»[11].
Nel corso degli anni ’80, è lo spirare
del «vento neoliberista», si dirà, a compromettere, sul piano della
disciplina del lavoro, se non la centralità del sindacato e delle sue
classiche forme di tutela, il carattere di esclusività del metodo
rivendicativo e conflittuale. Questo, infatti, verrà affiancato da
prassi regolative di stampo «concertativo», più rispondenti, rispetto
all’azione negoziale di segno contrappositivo, all’esigenza di
consentire al sindacato di reggere il passo delle trasformazioni dell’impresa
taylor-fordista e di proporsi, così, come «agente di riregolazione»[12]
nell’ambito di una organizzazione del lavoro caratterizzata: a)
dal rafforzamento di canali di comunicazione diretta tra risorse umane e
management, pronto a scavalcare, nei processi di riconversione
industriale e flessibilizzazione dei rapporti produttivi, i tradizionali
centri di mediazione sindacale; b) dal bisogno di cooperazione attiva
del lavoratore ad obiettivi di flessibilità e di produttività aziendale;
c) in sintesi, da «elementi che
favoriscono formule partecipative, anziché disgiuntive, di
amministrazione dei rapporti di lavoro»[13].
Gli anni ’90, poi, e il loro prosieguo,
sino ad arrivare ai nostri giorni, assistono al consolidarsi delle
vicende di destrutturazione dei paradigmi sui quali si è costruito,
lungo un intero secolo, il diritto del lavoro del Novecento e, con esso,
tutte
«le istituzioni più caratterizzanti che
davano voce, nelle diverse esperienze ed espressioni del mondo
capitalistico, alla centralità del sistema industriale»[14].
E così, se il sindacato, quale agente (di organizzazione) del
conflitto – e del contratto, «che
postula il conflitto e lo chiude, ma solo per rilanciarlo da nuove basi»[15]
– è soprattutto figlio della
reazione al «progressivo
diffondersi di quella particolare forma di organizzazione economica che
va sotto il nome di «grande industria»»[16],
il declino in Italia e in Europa di questo modello di esercizio
dell’iniziativa economica, sia nella sfera privata sia in quella
pubblica, ha lanciato all’attore collettivo nuove sfide: come quella del
confronto con l’importanza che va assumendo la c.d. «via partecipativa»,
a fronte della necessità di abbandonare
«una cultura puramente
conflittuale e contrattuale fortemente intrisa dei connotati storici del
lavoro industriale»[17].
É pertanto sotto gli occhi di tutti un soggetto sindacale che da sé
cambia pelle: in parte perché spinto da eventi che negli ultimi decenni
hanno fatto registrare in tutta Europa un abbassamento significativo dei
tassi di membership, con
conseguente indebolimento della funzione di rappresentanza del mondo del
lavoro, in parte perché chiamato dalle imprese a condividere quei
processi di riconversione industriale e aggiornamento tecnologico
imposti da una economia sempre più globalizzata e che dalla competizione
al ribasso tra mercati dei prodotti e del lavoro fa discendere
l’alternativa secca rinnovamento o delocalizzazione: del resto, i
sindacati sanno bene quanto sia vera l’affermazione che le imprese
quando votano, votano con le gambe.
5. Perché occorre riempire la partecipazione di significati concreti.
Siamo ad una svolta? Sicuramente sì, e
di portata tale che trascende la singolarità di episodi come quelli
legati al referendum sottoposto ai lavoratori di Pomigliano o al caldo
autunno sindacale che attende il nostro Paese e, a quanto pare, i suoi
giudici, che, tra strappi contrattuali, diffide ad adempiere e ricorsi
in giudizio, vengono sempre più investiti di questioni che per loro
natura poco si prestano ad essere risolte in un’aula di tribunale,
essendo al fondo, nelle rispettive cause di insorgenza, legate a ragioni
politico-sindacali più che giuridiche.
Ad ogni modo, per tornare su parole attorno a cui, sia pur a volte tra
le righe, si è voluta svolgere questa riflessione, e sulle quali sembra
vogliano costruirsi, da parte degli opposti fronti che si contendono,
due modelli di azione sindacale tra loro ben distinti e concorrenti,
vien da dire che la «partecipazione», così come il «conflitto», non sono
panacee, ma formule che sinteticamente descrivono sfere di comportamenti
reciprocamente complementari: entrambe assimilate, sia pur con approcci
diversi e con diversi gradi di resistenza al cambiamento, dalle culture
sindacali del nostro Paese, ed entrambe contemplate nella Costituzione
della Repubblica per una costruzione della tutela del lavoro che possa
fare affidamento su una pluralità di risorse. É paradossale, allora, che
le tematiche partecipative, al pari di quelle del conflitto, vengano,
così di frequente negli ultimi tempi, impiegate come fumosi abracadabra,
se non, peggio, come clave per screditare l’azione dell’avversario di
turno e non ci si impegni, invece, a ricondurle entro coordinate che,
definendo soggetti, comportamenti e responsabilità, delineino spazi di
tutela concreti e percepibili. Se vi è, o meglio vi è stata una
affezione dei lavoratori allo sciopero e all’azione conflittuale, è
perché le lotte del lavoro sono state vissute, da chi le ha svolte in
veste di protagonista o rimanendo nelle seconde file, come esercizio di
un diritto autentico, da cui sono discese garanzie e tutele concrete e,
sia pur in congiunture economiche particolari, un reale miglioramento
delle condizioni di vita e di lavoro della gente comune. Ma
quid nella partecipazione,
quale diritto, quali garanzie e tutele, perché i lavoratori in carne ed
ossa vi si affezionino? Basta la proliferazione di enti bilaterali, del
cui processo formativo e decisionale i lavoratori nulla sanno, come
sempre meno sanno dei sindacati a cui, volontariamente o meno, si
trovano iscritti? Basta partecipare ad un referendum a Pomigliano o in
qualche altra impresa in ristrutturazione, dove il quesito sembra essere
sempre lo stesso: «cosa scegliete, sacrifici o disoccupazione?». E
infine, nell’era del capitalismo finanziario e volatile, così attratto
da pratiche di falsificazione dei bilanci e da rocambolesche operazioni
di investimento virtuale, che senso ha proporre ai lavoratori le più
strane forme di partecipazione azionaria o agli utili delle imprese in
cui lavorano, se le stanze dei bottoni in cui operano manager lautamente
pagati non diventano luoghi dalle pareti di vetro?
[1]
Cfr., in particolare, G. Berta, Conflitto
industriale e struttura d’impresa alla Fiat, 1919-1979,
Bologna, 1998; Id.,
L’Italia delle fabbriche.
Genealogie ed esperienze dell’industrialismo nel Novecento,
Bologna, 2001.
[2]
V. C. Dell’Aringa, Molte ipotesi per il dopo Pomigliano, una
sola certezza: cambieranno le relazioni industriali, in Il
diario del lavoro, 14 luglio 2010, consultabile al sito
www.ildiariodellavoro.it/inchiesteedibattiti
[3]
Cfr. il suo Il lavoro e la
legge, trad. it. a cura di
G. Zangari, Milano,
1974.
[4]
V., al riguardo, la monografia di
L. Bellardi,
Istituzioni bilaterali e contrattazione collettiva. Il settore edile
(1945-1988), Milano, 1989.
[5]
Cfr. L. Mariucci,
Gli enti bilaterali:
mercato del lavoro e rappresentanza sindacale, in
Lavoro e diritto, 2003, n. 2, p. 163 ss.
[6]
Ccnl per gli addetti all’industria chimica e farmaceutica 18
dicembre 2009, consultabile al sito www.portalecnel.it
[7]
Ccnl per gli addetti all’industria metalmeccanica privata 20
gennaio 2008, consultabile al sito www.portalecnel.it
[8]
Ipotesi di accordo per il settore artigiano 21 maggio 2008,
consultabile al sito www.portalecnel.it.
[9]
V. O. Kahn-Freund,
I conflitti tra i gruppi e
la loro composizione, in
Politica sindacale,
1960, p. 9 ss.
[10]
M. D’Antona,
Partecipazione,
codeterminazione, contrattazione (temi per un diritto sindacale
possibile), in Rivista
giuridica del lavoro e della previdenza sociale, 1992, n. 1,
qui in B. Caruso, S.
Sciarra (a cura di),
Opere, II, p. 313 ss.
[11]
G. Ghezzi,
«Democrazia industriale» e governo democratico dell’economia,
in Democrazia e diritto, 1977, p. 131.
[12]
M. Regini,
Confini mobili. La
costruzione dell’economia fra politica e società, Bologna,
1991
[13]
Cfr. ancora M. D’Antona,
cit., 314 ss.
[14]
M. Pedrazzoli,
Partecipazione,
costituzione economica e art. 46 della Costituzione. Chiose e
distinzioni sul declino di un’idea, in
Rivista italiana di
diritto del lavoro, 2005, n. 1, p. 428 ss.
[15]
G. F. Mancini,
Costituzione e movimento
operaio, Bologna, 1976, p. 10
[16]
L. Riva Sanseverino,
Associazione sindacale,
in Novissimo digesto
italiano, I, tomo II, Torino, 1958, p. 1442
[17]
U. Carabelli, Le
r.s.a. dopo il referendum, tra vincoli comunitari e prospettive
di partecipazione, in Diritto delle relazioni industriali,
1996, n. 1, p. 25 ss.