Senescenza (del) Capitale
FINANZA E CONOSCENZA
NEL CAPITALISMO CONTEMPORANEO
Un tentativo marxiano
Nicola Marziale, Marco
Amalfi
Quanto è importante il mondo della finanza al giorno d’oggi? Per
rispondere in modo corretto alla domanda crediamo sia opportuno indagare
il più approfonditamente possibile il funzionamento
generale del sistema economico
capitalistico attuale, al fine di evidenziare il peso effettivo e le
reali funzioni dell’odierna finanza al suo interno. E riteniamo
senz’altro utile procedere diffusamente ad un confronto tra l’aspetto
contemporaneo del capitalismo e quello della precedente fase storica,
per meglio comprendere le dinamiche alla base del fenomeno in discorso.
Il tentativo marxiano sotteso è quello di provare ad utilizzare pezzi
importanti del dibattito nell’economia politica contemporanea per
fornire indicazioni di sviluppo nella lotta per la trasformazione in
senso socialista del modo di produzione. In sedicesimo, il metodo
utilizzato da Marx nella sua critica all’economia politica del tempo.
Una nuova
maniera di produzione.
Dalla fine
degli anni ’70 si sono registrati cambiamenti strutturali epocali, sia a
livello nazionale che internazionale, nell’architettura del sistema
socio-economico in cui viviamo.
Il mondo della produzione è andato sempre più verso lo sviluppo di forme
di organizzazione altamente flessibili, grazie all’utilizzo massiccio
dell’ict (Information
and communication technology)
e alla progressiva apertura delle imprese all’ambiente circostante.
Rispetto al
paradigma fordista, il capitalismo d’oggi poggia su due nuovi pilastri:
conoscenza e finanza. A
questa «maniera» di produrre possiamo dare il nome di
capitalismo cognitivo.
La
conoscenza.
Come si è
effettivamente giunti alla realizzazione del capitalismo cognitivo?
A riguardo,
non basta richiamarsi alla reazione della classe imprenditoriale alla
crescente presa di posizione all’interno del sistema da parte del
lavoro, divenuta «preoccupante» specialmente dopo la metà del secolo
scorso. Né è sufficiente ricordare il cambiamento nei consumi, diventati
man mano più sofisticati, profondamente distanti da quelli
standardizzati e sostanzialmente «prevedibili» del fordismo.
Occorre
anche analizzare compiutamente il ruolo da protagonista che la
conoscenza ha infine conquistato, soprattutto durante gli ultimi 30
anni. Una lettura della storia dei lavoratori ci viene in aiuto.
Se diamo una scorsa all’esperienza del mondo del lavoro all’inizio
dell’ultimo ventennio del ‘900, possiamo affermare che il punto di
partenza per il decollo del Capitalismo Cognitivo è costituito dallo
sviluppo dell’insegnamento scolastico di massa e dal conseguente
innalzamento del livello medio di istruzione. Questo ha generato un
indubbio elevamento nella qualità della forza lavoro, la quale ha così
dato vita ad una prima forma di
living knowledge, fortemente in contrasto con il sapere e
l’esperienza cristallizzate nel capitale fisso e nell’organizzazione
manageriale delle imprese.
Mentre
all’interno dell’impresa fordista il lavoro è eseguito da una
muta catena di montaggio, in
quella post-fordista si parla abitualmente un complesso
linguaggio, fatto di simboli
riconosciuti dai lavoratori che attraverso di essi si relazionano tra
loro; simboli che provengono dalla miscela di informazione, cultura e
relazioni sociali, tutti input-output preziosi per i nuovi addetti alla
produzione.
Conoscere
la conoscenza:
alcune definizioni.
La generazione della conoscenza e la sua diffusione spaziale attraverso
learning networks sono le
caratteristiche essenziali del capitalismo cognitivo.
Il ciclo di
vita della conoscenza comprende tre fasi: dalla tacita alla codificata,
fino allo sfruttamento di quest’ultima. La socializzazione della
conoscenza tacita avviene attraverso un processo lento e costoso di
condivisone di esperienze personali e sociali. Lo sviluppo industriale
richiede che almeno parte della conoscenza tacita sia convertita in
codici astratti. I codici possono essere usati come mezzi di
appropriazione: un alto grado di routine può rappresentare
pre-condizione per espropriare e codificare al conoscenza tacita dei
lavoratori.
La capacità
di sviluppare sia i processi di apprendimento che le economie di rete,
rispettivamente, dipende dal grado di accumulabilità, opportunità e
appropriabilità e dal livello di reddito e di esternalità positive.
Allorquando un processo di apprendimento è vincolato da diritti di
proprietà intellettuale, allora tanto più grande è il grado di
appropriabilità della conoscenza, tanto più piccola diviene la capacità
di diffusione, influenzando la sua capacità di influenzare positivamente
l’associata produttività.
Ad un più
alto livello di conoscenza corrisponde, in termini di generazione e
diffusione, un potenziale tecnologico innovativo più consistente.
I primi passi del Capitalismo Cognitivo: la
convenzione «Internet»
Non ci
soffermeremo sul pur interessante dibattito sulle limitazioni potenti
che il meccanismo dell’appropriazione genera al processo di generazione
della conoscenza, qui c’interessa capire quale sia, e come si è evoluto,
il legame tra conoscenza e funzione di investimento nel capitalismo
cognitivo.
La crisi
del Fordismo ha condotto ad una attività di investimento basata su nuove
fonti di crescita: il marketing elettronico, il controllo sulla qualità
dell’informazione, il controllo sugli stili di vita, ecc.
Quindi oggi il sistema sociale ruota attorno a innovazione e produzione
immateriale e l’investimento non dipende solo dalle attività di Ricerca
e Sviluppo (r&s), ma anche dal learning boy doing. Va anche sottolineato
che, all’interno del capitalismo cognitivo, l’impatto delle nuove
tecnologie itc ha
accelerato il learning by doing, allargandone sia il terreno di
pratica che la portata degli effetti ben oltre il perimetro
aziendale. Conseguentemente, la produttività apportata dallo scambio di
conoscenze non può essere assimilata alla produttività materiale.
La conseguenza fondamentale sta nel fatto che il plusvalore non è più
semplicemente il frutto di un investimento di uno stock di capitale
fisico e individuale ma dipende piuttosto dall’utilizzo di un patrimonio
sociale che si è sedimentato sul territorio e che è indipendente
dall’iniziativa del singolo imprenditore. Il profitto nasce in misura
sempre più consistente dalla sfruttamento e dall’espropriazione ai fini
privati di un bene comune come la conoscenza, ed è quindi in parte
assimilabile ad una rendita, da territorio e da apprendimento; una
rendita che proviene dall’esercizio dei diritti di proprietà
intellettuale, cioè dalla proprietà della conoscenza. Questo è lo snodo
fondamentale dell’analogia marxiana che cerchiamo di ripercorrere: il
detentore di mera forza lavoro oggi è detentore di una forza lavoro
variamente qualificata, e le condizioni sociali di riproduzione della
stessa devono necessariamente ricomprendere una dimensione di
conoscenza, altrimenti sono del tutto inutilizzabili nella nuova maniera
di produzione. A titolo di tragico esempio, il caso di una fabbrica
della Toyota in Alabama, le cui maestranze erano incapaci di seguire
schemi di produzione in uso negli altri stabilimenti a causa del loro
bassissimo grado di scolarizzazione, nonostante i tentativi di
rappresentarli attraverso
pittogrammi (negli usa
si produsse un dibattito sullo scandaloso disinvestimento
nell’istruzione pubblica di quello Stato).
L’appropriazione del plusvalore da parte del capitalista è, pertanto,
doppiamente rapace, in quanto non solo spoglia ed aliena il lavoratore
dal legame con il prodotto, ma aliena anche l’intera comunità
locale/globale che ha prodotto quella specifica forza lavoro, da qui
discende immediatamente una riflessione ovvia sulla capacità da parte
dei lavoratori di produrre in autonomia, posta la necessità sociale del
prodotto. Un messaggio diretto alle burocrazie sindacali ed ai partiti
riformisti sempre scettici delle capacità delle masse lavoratrici di
determinare autonomamente, attraverso forme di democrazia consiliare,
modo e natura della produzione. Esempi plastici di questo si sono
sprecati negli anni, dai Cantieri Partenope alla Zanon (Argentina), alla
Republic Windows (usa),
all’esperienza del Freteco in Brasile.
Lo sviluppo
della produzione, la riproduzione, diremmo, passa attraverso la
determinazione dell’investimento. Nella maniera di produzione
contemporanea, questo può oggi essere scomposto in due parti:
1)
investimento routinario;
2)
investimento in innovazione,
conoscenza e
marchio. Questo secondo tipo di investimento è finalizzato a
produrre e incamerare il valore prodotto al di fuori dai processi di
produzione tradizionali,
ovvero attraverso la produzione quantitativa di merci.
L’investimento in innovazione, conoscenza e
branding è caratterizzato dai
rendimenti positivi potenzialmente molto elevati, così come dalla
possibilità di incorrere in perdite catastrofiche. All’interno del
Capitalismo Cognitivo questo tipo di attività di investimento ricopre la
maggior parte delle attività strategiche dell’azienda. Dobbiamo
evidenziare che l’investimento in produzione e trasmissione della
conoscenza (educazione, r&s,
ecc.) conduce a riduzioni dei costi di diffusione del sapere anche molto
significativi, grazie allo sviluppo di tecnologie
linguistiche (come
Perciò, non
solo la conoscenza è divenuta una risorsa incredibilmente mobile, ma
anche meglio codificabile, e perciò direttamente utilizzabile
dall’impresa. Ne è seguito che, in un contesto dove lo sfruttamento
della conoscenza è l’obiettivo finale, il mercato del lavoro è divenuto
sempre più frammentato nel passaggio dalle tecnologie
meccanico-ripetitive a quelle linguistico-comunicative. Ciò, se da un
lato ha permesso la «messa al lavoro» di conoscenza individuale e delle
abilità relazionali, ha generato disoccupazone tecnologica e precarietà.
Questo processo ha condotto alla individualizzazione dei salari
accompagnata da una dinamica degli stessi disgiunta sia dai guadagni di
produttività che dalla quantità di ore lavorate.
Durante gli
anni ’90, la finanziarizzazione ha fornito redditi addizionali, creati
attraverso l’indebitamento con il sistema bancario (oltre che con il
disinvestimento di grandi quantitativi di capitale fisso, nella rincorsa
alla produzione «snella»). I mercati finanziari, tra il 1993 e il 2000,
sono letteralmente esplosi, protagonisti di una crescita esponenziale
che ha trainato l’economia reale.
La valutazione dei mercati finanziari ha iniziato a dipendere dal
cambiamento organizzativo teso a favorire la cooperazione tra lavoratori
relativamente autonomi. Il dinamismo del cambiamento organizzativo è
divenuto – grazie all’attenzione dimostrata dai mercati finanziari – una
nuova modalità di valorizzazione del capitale. Nella seconda metà degli
anni ’90, l’idea che una società digitalizzata, che liberasse il lavoro
e la vita da ogni possibile attrito e permettesse a chiunque di poter
esprimere appieno il proprio talento, è divenuta una
convenzione, la convenzione
Internet.
In questo sistema di accumulazione, si sono sviluppate diverse forme di
remunerazione legate al rendimento del business: non solo
stock options per i manager ma
anche distribuzione di quote di fondi di investimento ai lavoratori
salariati. Queste forme di remunerazione hanno ingigantito la liquidità
dei mercati finanziari, ma in assenza di una adeguata redistribuzione,
questo ha finito con il comprimere i salari, portando ad una
preoccupante instabilità sistemica.
Con la
crisi della New Economy del 2000 si è compiuta la prima parabola del
capitalismo cognitivo: dalla enorme distribuzione (asimmetrica) di
guadagni finanziari, si è passati all’ennesimo attacco ai salari e
all’occupazione, muovendosi su quello che era il nuovo senso comune,
fatto della proporzionalità tra alti corsi di Borsa e innovazioni
organizzative estreme che consistevano in dowsizing, reengineering,
Mergers and Acquisitions.
La crisi iniziata a marzo
Alla fine
degli anni settanta, la rivoluzione conservatrice della Thatcher e di
Reagan mette fine alla lunga stagione di lotte operaie che aveva visto
aumentare la quota salari sul pil
in tutti i paesi occidentali, minacciando i profitti delle imprese.
Viene così inaugurata una nuova stagione, caratterizzata da bassi
salari, alti tassi di interesse e una politica valutaria di cambi
sostanzialmente fissi, in grado di assicurare un clima di austerità
monetaria. La resistenza delle organizzazioni sindacali è infine domata,
ma ovviamente si manifesta il rischio di un’insufficienza globale di
domanda. Comunque, a partire dagli anni ottanta, i consumi privati delle
famiglie americane diventano la variabile chiave per la crescita
mondiale. Gli Stati Uniti, e gli altri paesi anglofoni, indossano
l’abito di «ripulitori» delle eccedenze mondiali. Ma se i salari dei
lavoratori americani non crescono, come è possibile che i consumi
aumentino? La risposta è che, soprattutto nel corso degli anni ’90,
crescono vertiginosamente i mercati finanziari, e, con essi, la
ricchezza finanziaria che alimenta i consumi «autonomi» delle famiglie.
Queste ultime sono inglobate nel meccanismo della finanza globale anche
attraverso la rete della previdenza integrativa. Il salariato americano
diviene così, come suggerisce Marco Passarella, contemporaneamente, un
«lavoratore traumatizzato» (per via dello stallo dei salari e della
condizione di crescente precarietà lavorativa), ma anche un
«risparmiatore bipolare, la cui propensione a spendere si è legata via
via all’andamento degli indici azionari».
Il capitalismo cognitivo nasce e si sviluppa allora come una economia
guidata dalla finanza, facendo propria la teoria dello
shareholder value delle
imprese quotate che si trovano a dover rincorrere giorno dopo giorno la
massimizzazione del proprio valore.
Allo stesso
tempo, lo Stato si è progressivamente ritirato dall’economia, diminuendo
anche pesantemente le proprie funzioni di regolamentazione e
ridistribuzione.
All’interno
del capitalismo cognitivo la realizzazione della produzione è compensata
sia dai mercati finanziari che agiscono come moltiplicatori della
domanda aggregata, sia dalla globalizzazione (attraverso
delocalizzazioni e outsourcing).
Il potere della finanza proviene dalla sua capacità di imporre i criteri
per generare rendimenti finanziari. Sui mercati finanziari si spostano
con un semplice click di mouse enormi capitali, ricchezza
dematerializzata; il tutto in un ambiente pervaso di
incertezza (e non semplice
rischio), con una
ineliminabile carenza di informazione sul futuro. Alla quale si
sopperisce con voci, credenze,
convenzioni, che, complici la natura «aerea» delle merci scambiate e
la facilità tecnologica allo scambio, nascono apparentemente dal nulla,
si alimentano di sé stesse, e scompaiono spesso con estrema facilità.
I mercati
finanziari seguono nei loro movimenti le più svariate convenzioni. Le
convenzioni non sono reali, esse però hanno effetti reali sulla crescita
economica. Le convenzioni sono trend di mercato che hanno origine
all’interno della comunità degli investitori secondo una razionalità
auto-referenziale, ovvero seguendo una formidabile abilità
nell’amplificare rumori. Le convenzioni sono storicamente determinate,
ovvero esse miscelano un elevato numero di fattori eterogenei che
contribuiscono a determinare i cicli di mercato.
Così definite, le convenzioni altro non sono che la manifestazione
patente dell’anarchia del capitalismo nella produzione o, più
precisamente, nell’allocazione del denaro originato nell’accumulazione
per produrre merci attraverso la realizzazione delle quali ottenere
nuovo, e maggiore, denaro, secondo il classico schema marxiano. Le
convenzioni determinano quale debba essere il settore verso il quale far
affluire l’investimento a che massimo sia il profitto che se ne trae, da
qui l’enfasi su finanza e conoscenza, la prima perché consente la
concretizzazione del sogno sempiterno della classe borghese: generare
del denaro dal denaro senza sporcarsi le mani con la produzione e tutto
quello che ne consegue (si pensi a quanto sia «basso» il pur abnorme
stipendio annuo di Marchionne rispetto a quello dei suoi colleghi della
finanza con tutte le rogne che il nostro si trova ad affrontare per
produrre mentre agli altri basta un manipolo di smanettoni…), la seconda
perché consente di estrarre plusvalore non solo dalla natura umana (la
forza fisica tradizionalmente incorporata nella forza lavoro) ma anche,
come dicevamo poco sopra, dalle condizioni sociali di riproduzione della
stessa capitalizzando così anche l’investimento sociale
pagato dalla collettività.
La convenzione «sino-immobiliare».
All’interno
del capitalismo cognitivo, le imprese, per ottenere la liquidità
necessaria alle operazioni di fusione e acquisizione di altre società,
nell’intento di perseguire una strategia di crescita e controllo dei
mercati, si indebitano con il sistema bancario.
Con la crisi finanziaria iniziata a marzo 2000, si è venuto a
interrompere un circolo virtuoso fatto di start-up e
m&a che sfruttava il saldo
positivo del flusso di capitali verso gli
usa.
La perdita di capital gains è stata compensata da una riduzione drastica nelle
paghe dei lavoratori e attraverso massicci processi di delocalizzazione
e di outsourcing – specialmente nei confronti di Cina e India, le quali
rappresentano tuttora aree a basso costo della forza lavoro, pronte però
ad entrare stabilmente all’interno dei circuiti globali della produzione
hi-tech.
La nuova convenzione necessitava di sostenere i consumi anche in
presenza di una redistribuzione del reddito a svantaggio dei lavoratori.
La politica monetaria della fed si è adattata nel tentativo di risolvere tale
contraddizione. Tra la fine del 2000 e il 2003 alti livelli di consumo
sono stati assicurati da tassi di interesse all’1%, negativi in termini
reali. Si è quindi chiesto aiuto al credito al consumo.
Così, le
aspettative imprenditoriali si sono nuovamente riprese, e i managers
sono potuti tornare a sostenere i propri
stock values e a ripagare i
debiti contratti con gli istituti di credito. È interessante qui
sottolineare come, anche durante questa nuova convenzione,
l’indebitamento bancario delle imprese non sia stato rivolto alle spese
per capitale (come accadeva nel sistema fordista), ma si sia rivelato un
mezzo di indubbia potenza, e necessario, per soddisfare i criteri
finanziari di massimizzazione dello
share-holder value.
Un tale schema di accumulazione, ovviamente, richiede specifiche
politiche macroeconomiche per prevenire l’insorgere di bolle
finanziarie. Negli usa
Le altre banche centrali, seppure con tempistiche differenti, non hanno
fatto niente di diverso. Le innumerevoli sessioni di confronto
internazionale, politico ed economico, hanno rafforzato tali strategie
contribuendo a diffondere la certezza che lo stimolo prociclico
all’investimento finanziario attraverso i tassi bassi fosse l’unico
sistema possibile per uscire dalle secche in cui il crollo dei valori
azionari dei biennio 2000-01 aveva spinto il capitalismo globale. Ai
capitalisti di tutto il mondo, ebbri di convenzione Internet non si è
potuto far altro che propinarne un’altra: investire in
Cina/India/globalizzare-in-genere per ridurre il livello generale dei
prezzi delle merci acquistate dai lavoratori così da consentire una
qualche ripresa del risparmio, ormai diffidente dei corsi azionari,
canalizzandolo verso il settore immobiliare. Su questa canalizzazione
gli Harry Potter della frammentazione/generalizzazione del rischio si
sono splendidamente esercitati, con una sofisticazione significativa
rispetto alle operazioni degli anni precedenti sui corsi azionari e,
ancora prima (inizio anni ‘90), sulle valute: non si tratta più di bieca
potenza speculativa, ovvero nell’acquisto/vendita di enormi partite di
attività più o meno a rischio, qui si generalizza il ricorso alla leva
finanziaria promettendo la sostanziale soppressione tecnica del rischio
buttando in finanza ogni possibile attività liquida sia prodotta nel
mondo della produzione reale.
Il risultato è stato un immenso trasferimento di rischio dalle imprese
alle famiglie, i soggetti e
le banche eroganti hanno pienamente confidato nella tenuta della
convenzione, sperando in un incremento senza fine del real-estate. La
convenzione «Sino-immobiliare», a settembre del
Ovviamente
salato.
Possiamo
affermare che i mercati finanziari sono il cuore pulsante dell’attuale
sistema capitalistico.
Ritroviamo la loro importante presenza lungo tutto il processo di
produzione e riproduzione: da essi dipende un soddisfacente livello di
consumo, livello assicurato dall’espansione della finanza attraverso la
formazione di capital-gains; e
i guadagni finanziari vengono ricercati spasmodicamente dagli
investitori che finiscono in tal modo con lo stimolare continuamente il
processo di accumulazione, il quale si nutre della liquidità attinta sui
mercati ripagandola con ristrutturazioni della produzione tese
all’accaparramento di conoscenze e al controllo di esternalità.
In presenza di capital-gains,
i mercati finanziari costituiscono la nuova versione del moltiplicatore
keynesiano, messo in moto durante il fordismo dal
deficit spending. Per attivare
il moltiplicatore i mercati finanziari dovrebbero crescere in misura
tale che, in media, il
capital-gain fosse superiore al deprezzamento del salario.
Proprio a
causa di questa loro permanente ricerca di nuovi spazi di sviluppo, i
mercati finanziari sono giunti addirittura a concretizzare la
privatizzazione della dimensione più personale della vita, sostituendosi
allo stato nella fornitura di servizi sociali.
Inoltre i
mercati finanziari rappresentano il luogo in cui, al giorno d’oggi, si
fissa la valorizzazione capitalistica, ovvero lo sfruttamento della
cooperazione sociale da cui si origina la rendita del
general intellect.
Quindi, in
un’economia «finanziaria» di produzione quale quella odierna, non esiste
più alcuna separazione tra la sfera reale e quella finanziaria.
Quali i
rischi di una struttura siffatta?
I mercati
finanziari vengono visti come il primo motore a supporto dell’espansione
dell’economia reale; ma per ottenere ciò è necessario che essi siano in
una condizione di espansione ininterrotta.
Questo comporta che, all’interno del sistema, le relazioni di
debito-credito (sia all’«apertura» del circuito economico - quando le
imprese ricorrono al sistema bancario per finanziare l’acquisto di uno o
più business - che alla sua «chiusura» - di fronte al frequente scoppio
delle «bolle» l’accesso al credito facilitato rappresenta il primo
sostegno a cui ricorrere per mantenere la domanda di merci) vadano
aumentando senza soluzione di continuità. E quando parliamo di relazioni
di indebitamento intendiamo che la loro crescita può essere sia
«estensiva» (andando ad interessare il numero di soggetti indebitati)
che «intensiva» (ovvero relativa alla costruzione di nuovi strumenti
finanziari su attivi pre-esistenti – i prodotti derivati ne sono
l’esempio maggiormente significativo). È chiaro che un processo siffatto
non può sostenersi all’infinito, in particolare quando esso vada a
riguardare gli strati della popolazione che vivono di lavoro precario.
Ecco una grande contraddizione del capitalismo contemporaneo: la
distribuzione del reddito distorta non può conciliarsi con la pressante
finanziarizzazione dell’economia.
Inoltre, la
distribuzione del reddito attuale, così legata allo schiacciamento dei
salari da parte del capitale e, contestualmente, alle «mode» dei mercati
finanziari, getta inevitabilmente una lunga ombra di incertezza sui
processi di apprendimento e sulla formazione di quelle economie di rete
che sono alla base della crescita proprio nel modello in oggetto.
Sia chiaro, tuttavia, che il problema della distribuzione del reddito
non è la causa quanto l’effetto di questa maniera di produzione: la
compressione del monte salari è la condizione necessaria perché nuove
convenzioni definite come sopra possano generarsi sulle ceneri di quelle
via via consunte, il senso dell’aggettivo
finanziaria associato ad un’economia di produzione significa
precisamente che il rendimento del capitale investito nei diversi
settori non possa darsi se non attraverso la concentrazione delle
scommesse vincenti in un numero sempre più esiguo di scommettitori che
abbiano le spalle abbastanza ampie da permettersi l’approfondimento dei
meccanismi concorrenziali a livello globale, quale che ne sia il prezzo,
un po’ come il giocatore facoltoso che può andare a vedere tutti i bluff
dei suoi concorrenti fino a lasciarli sul lastrico.
È ovvio che il suo essere facoltoso dipende da quanto plusvalore sia
stato in grado di estrarre, e questo vale per gli Stati come per le
aziende, quale che ne sia
Spigolature
Può l’Autorità Monetaria (banche centrali, agenzie di controllo sulle
borse, governi, organismi internazionali e quant’altro) contenere le
derive del sistema capitalistico? Rileggendo l’analisi alle pagine
precedenti parrebbe potersi dedurre che la strada percorribile in tal
senso sia, almeno al momento, tutta in salita; appare infatti che
queste, all’interno dell’attuale maniera di produzione, pur mantenendo
il potere di creare moneta e di assicurare la circolazione dei valori,
le autorità siano obbligate a seguire i movimenti dei mercati
finanziari. Sembra cioè che con il capitalismo cognitivo si sia
verificato un cambiamento epocale di
governance: quello che conta
attualmente è la produzione di liquidità finanziaria, per i mercati
finanziari, ovverosia in linea con la sovranità delle convenzioni che su
di essi, come abbiamo illustrato, prendono periodicamente forma. Ogni
forma di regolazione dei meccanismi che generano le convenzioni sono
nocivi alla formazione delle stesse; la regolazione, pertanto, non può
essere che prociclica, aiuta le bolle quando si gonfiano, disperde i
cocci quando si rompono. Un esempio di regolazione anticiclica, infatti
potrebbe essere quella di imporre la progressività nel calcolo del
patrimonio di vigilanza degli istituti bancari, ovvero chiedere garanzie
crescenti più che proporzionali nella dimensione degli stessi, ma questa
misura minerebbe alla base il meccanismo imprenditorial-concorrenziale
dominante, distorcendo al ribasso il meccanismo di corsa alla
concentrazione strutturale nel capitalismo (pare l’abbiano capito anche
i profeti nostrani del «piccolo è bello») per cui è chiaro che sarebbe
politicamente improponibile in ambito capitalistico.
Se il
capitale è un rapporto sociale, per concludere, i cocci sono gli
elementi che lo hanno generato, ovvero il lavoro degli individui e le
loro esigenze materiali.
Abbiamo
cercato di utilizzare un paio di concettualizzazioni recenti ed
interessanti, quali quelle del capitalismo cognitivo e dell’economia
finanziaria di produzione in termini descrittivi dello stato del
capitalismo contemporaneo. L’operazione marxiana cui aspiriamo è quella
di chiarire che, quali che siano i modi concreti della produzione, il
capitale si basa sull’accumulazione di pluslavoro e plusvalore estratti
dalla sfera della produzione, quale che ne sia l’utilizzo successivo. Il
rovesciamento di tale meccanismo passa per la presa di coscienza dei
lavoratori, in particolare per la comprensione che questo sistema, quale
che ne sia la variante/convenzione in essere non possa, strutturalmente,
sviluppare oltre un certo grado le condizioni di vita delle persone. Nel
ritenere che questo «grado», a livello globale, sia arrivato da tempo,
intenderemo usare ogni concettualizzazione interessante si sviluppi in
economia politica per indicare la strada del superamento degli attuali
rapporti sociali. In quanto sopra abbiamo cercato di rappresentare come
la nozione di capitalismo cognitivo sottolinea una volta di più come gli
artefici della produzione siano alienati dal prodotto del loro lavoro
tanto in termini individuali quanto in termini sociali e come la nozione
di economia finanziaria di produzione ribadisca che questa fase dello
sviluppo capitalistico tenda all’estremo i rapporti di forza insiti nel
capitale come relazione sociale.
Nel
ritenere che questo rafforzi la via marxiana nella lotta per il
superamento di questi rapporti sociali, ovvero il rovesciamento delle
decisioni di produzione dal capitale al lavoro, nei prossimi contributi
cercheremo di esaminare alcuni spunti di azione politica, il dibattito
su nuove modalità di redistribuzione, di welfare e di organizzazione
della produzione opposte a quelle ormai integralmente diffuse, a partire
dal dibattito sulla decrescita.
OTTOBRE
2010
Bibliografia
- A. FUMAGALLI, S. LUCARELLI,
Cognitive Capitalism as a Financial Economy of Production, 2009
(presentato all’Università di Borgogna).
- M. PASSERELLA, La scienza triste
e la farfalla di Lorenz,
Economia e Politica, luglio 2009.