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02
Ottobre 2010

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Senescenza (del) Capitale

FINANZA E CONOSCENZA NEL CAPITALISMO CONTEMPORANEO

Un tentativo marxiano

Nicola Marziale, Marco Amalfi

 

Quanto è importante il mondo della finanza al giorno d’oggi? Per rispondere in modo corretto alla domanda crediamo sia opportuno indagare il più approfonditamente possibile il funzionamento generale del sistema economico capitalistico attuale, al fine di evidenziare il peso effettivo e le reali funzioni dell’odierna finanza al suo interno. E riteniamo senz’altro utile procedere diffusamente ad un confronto tra l’aspetto contemporaneo del capitalismo e quello della precedente fase storica, per meglio comprendere le dinamiche alla base del fenomeno in discorso. Il tentativo marxiano sotteso è quello di provare ad utilizzare pezzi importanti del dibattito nell’economia politica contemporanea per fornire indicazioni di sviluppo nella lotta per la trasformazione in senso socialista del modo di produzione. In sedicesimo, il metodo utilizzato da Marx nella sua critica all’economia politica del tempo.

 

Una nuova maniera di produzione.

Dalla fine degli anni ’70 si sono registrati cambiamenti strutturali epocali, sia a livello nazionale che internazionale, nell’architettura del sistema socio-economico in cui viviamo.

Il mondo della produzione è andato sempre più verso lo sviluppo di forme di organizzazione altamente flessibili, grazie all’utilizzo massiccio dell’ict (Information and communication technology) e alla progressiva apertura delle imprese all’ambiente circostante.

Rispetto al paradigma fordista, il capitalismo d’oggi poggia su due nuovi pilastri: conoscenza e finanza. A questa «maniera» di produrre possiamo dare il nome di capitalismo cognitivo.

 

La conoscenza.

Come si è effettivamente giunti alla realizzazione del capitalismo cognitivo?

A riguardo, non basta richiamarsi alla reazione della classe imprenditoriale alla crescente presa di posizione all’interno del sistema da parte del lavoro, divenuta «preoccupante» specialmente dopo la metà del secolo scorso. Né è sufficiente ricordare il cambiamento nei consumi, diventati man mano più sofisticati, profondamente distanti da quelli standardizzati e sostanzialmente «prevedibili» del fordismo.

Occorre anche analizzare compiutamente il ruolo da protagonista che la conoscenza ha infine conquistato, soprattutto durante gli ultimi 30 anni. Una lettura della storia dei lavoratori ci viene in aiuto.

Se diamo una scorsa all’esperienza del mondo del lavoro all’inizio dell’ultimo ventennio del ‘900, possiamo affermare che il punto di partenza per il decollo del Capitalismo Cognitivo è costituito dallo sviluppo dell’insegnamento scolastico di massa e dal conseguente innalzamento del livello medio di istruzione. Questo ha generato un indubbio elevamento nella qualità della forza lavoro, la quale ha così dato vita ad una prima forma di living knowledge, fortemente in contrasto con il sapere e l’esperienza cristallizzate nel capitale fisso e nell’organizzazione manageriale delle imprese.

Mentre all’interno dell’impresa fordista il lavoro è eseguito da una muta catena di montaggio, in quella post-fordista si parla abitualmente un complesso linguaggio, fatto di simboli riconosciuti dai lavoratori che attraverso di essi si relazionano tra loro; simboli che provengono dalla miscela di informazione, cultura e relazioni sociali, tutti input-output preziosi per i nuovi addetti alla produzione.

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Conoscere la conoscenza: alcune definizioni.

La generazione della conoscenza e la sua diffusione spaziale attraverso learning networks sono le caratteristiche essenziali del capitalismo cognitivo.

Il ciclo di vita della conoscenza comprende tre fasi: dalla tacita alla codificata, fino allo sfruttamento di quest’ultima. La socializzazione della conoscenza tacita avviene attraverso un processo lento e costoso di condivisone di esperienze personali e sociali. Lo sviluppo industriale richiede che almeno parte della conoscenza tacita sia convertita in codici astratti. I codici possono essere usati come mezzi di appropriazione: un alto grado di routine può rappresentare pre-condizione per espropriare e codificare al conoscenza tacita dei lavoratori.

La capacità di sviluppare sia i processi di apprendimento che le economie di rete, rispettivamente, dipende dal grado di accumulabilità, opportunità e appropriabilità e dal livello di reddito e di esternalità positive. Allorquando un processo di apprendimento è vincolato da diritti di proprietà intellettuale, allora tanto più grande è il grado di appropriabilità della conoscenza, tanto più piccola diviene la capacità di diffusione, influenzando la sua capacità di influenzare positivamente l’associata produttività.

Ad un più alto livello di conoscenza corrisponde, in termini di generazione e diffusione, un potenziale tecnologico innovativo più consistente.

 

I primi passi del Capitalismo Cognitivo: la convenzione «Internet»

Non ci soffermeremo sul pur interessante dibattito sulle limitazioni potenti che il meccanismo dell’appropriazione genera al processo di generazione della conoscenza, qui c’interessa capire quale sia, e come si è evoluto, il legame tra conoscenza e funzione di investimento nel capitalismo cognitivo.

La crisi del Fordismo ha condotto ad una attività di investimento basata su nuove fonti di crescita: il marketing elettronico, il controllo sulla qualità dell’informazione, il controllo sugli stili di vita, ecc.

Quindi oggi il sistema sociale ruota attorno a innovazione e produzione immateriale e l’investimento non dipende solo dalle attività di Ricerca e Sviluppo (r&s), ma anche dal learning boy doing. Va anche sottolineato che, all’interno del capitalismo cognitivo, l’impatto delle nuove tecnologie itc ha accelerato il learning by doing, allargandone sia il terreno di pratica che la portata degli effetti ben oltre il perimetro aziendale. Conseguentemente, la produttività apportata dallo scambio di conoscenze non può essere assimilata alla produttività materiale.

La conseguenza fondamentale sta nel fatto che il plusvalore non è più semplicemente il frutto di un investimento di uno stock di capitale fisico e individuale ma dipende piuttosto dall’utilizzo di un patrimonio sociale che si è sedimentato sul territorio e che è indipendente dall’iniziativa del singolo imprenditore. Il profitto nasce in misura sempre più consistente dalla sfruttamento e dall’espropriazione ai fini privati di un bene comune come la conoscenza, ed è quindi in parte assimilabile ad una rendita, da territorio e da apprendimento; una rendita che proviene dall’esercizio dei diritti di proprietà intellettuale, cioè dalla proprietà della conoscenza. Questo è lo snodo fondamentale dell’analogia marxiana che cerchiamo di ripercorrere: il detentore di mera forza lavoro oggi è detentore di una forza lavoro variamente qualificata, e le condizioni sociali di riproduzione della stessa devono necessariamente ricomprendere una dimensione di conoscenza, altrimenti sono del tutto inutilizzabili nella nuova maniera di produzione. A titolo di tragico esempio, il caso di una fabbrica della Toyota in Alabama, le cui maestranze erano incapaci di seguire schemi di produzione in uso negli altri stabilimenti a causa del loro bassissimo grado di scolarizzazione, nonostante i tentativi di rappresentarli attraverso pittogrammi (negli usa si produsse un dibattito sullo scandaloso disinvestimento nell’istruzione pubblica di quello Stato).

L’appropriazione del plusvalore da parte del capitalista è, pertanto, doppiamente rapace, in quanto non solo spoglia ed aliena il lavoratore dal legame con il prodotto, ma aliena anche l’intera comunità locale/globale che ha prodotto quella specifica forza lavoro, da qui discende immediatamente una riflessione ovvia sulla capacità da parte dei lavoratori di produrre in autonomia, posta la necessità sociale del prodotto. Un messaggio diretto alle burocrazie sindacali ed ai partiti riformisti sempre scettici delle capacità delle masse lavoratrici di determinare autonomamente, attraverso forme di democrazia consiliare, modo e natura della produzione. Esempi plastici di questo si sono sprecati negli anni, dai Cantieri Partenope alla Zanon (Argentina), alla Republic Windows (usa), all’esperienza del Freteco in Brasile.

Lo sviluppo della produzione, la riproduzione, diremmo, passa attraverso la determinazione dell’investimento. Nella maniera di produzione contemporanea, questo può oggi essere scomposto in due parti:

1)       investimento routinario;

2)       investimento in innovazione, conoscenza e marchio. Questo secondo tipo di investimento è finalizzato a produrre e incamerare il valore prodotto al di fuori dai processi di produzione tradizionali, ovvero attraverso la produzione quantitativa di merci.

L’investimento in innovazione, conoscenza e branding è caratterizzato dai rendimenti positivi potenzialmente molto elevati, così come dalla possibilità di incorrere in perdite catastrofiche. All’interno del Capitalismo Cognitivo questo tipo di attività di investimento ricopre la maggior parte delle attività strategiche dell’azienda. Dobbiamo evidenziare che l’investimento in produzione e trasmissione della conoscenza (educazione, r&s, ecc.) conduce a riduzioni dei costi di diffusione del sapere anche molto significativi, grazie allo sviluppo di tecnologie linguistiche (come la rete Internet).

Perciò, non solo la conoscenza è divenuta una risorsa incredibilmente mobile, ma anche meglio codificabile, e perciò direttamente utilizzabile dall’impresa. Ne è seguito che, in un contesto dove lo sfruttamento della conoscenza è l’obiettivo finale, il mercato del lavoro è divenuto sempre più frammentato nel passaggio dalle tecnologie meccanico-ripetitive a quelle linguistico-comunicative. Ciò, se da un lato ha permesso la «messa al lavoro» di conoscenza individuale e delle abilità relazionali, ha generato disoccupazone tecnologica e precarietà. Questo processo ha condotto alla individualizzazione dei salari accompagnata da una dinamica degli stessi disgiunta sia dai guadagni di produttività che dalla quantità di ore lavorate.

Durante gli anni ’90, la finanziarizzazione ha fornito redditi addizionali, creati attraverso l’indebitamento con il sistema bancario (oltre che con il disinvestimento di grandi quantitativi di capitale fisso, nella rincorsa alla produzione «snella»). I mercati finanziari, tra il 1993 e il 2000, sono letteralmente esplosi, protagonisti di una crescita esponenziale che ha trainato l’economia reale.

La valutazione dei mercati finanziari ha iniziato a dipendere dal cambiamento organizzativo teso a favorire la cooperazione tra lavoratori relativamente autonomi. Il dinamismo del cambiamento organizzativo è divenuto – grazie all’attenzione dimostrata dai mercati finanziari – una nuova modalità di valorizzazione del capitale. Nella seconda metà degli anni ’90, l’idea che una società digitalizzata, che liberasse il lavoro e la vita da ogni possibile attrito e permettesse a chiunque di poter esprimere appieno il proprio talento, è divenuta una convenzione, la convenzione Internet.

In questo sistema di accumulazione, si sono sviluppate diverse forme di remunerazione legate al rendimento del business: non solo stock options per i manager ma anche distribuzione di quote di fondi di investimento ai lavoratori salariati. Queste forme di remunerazione hanno ingigantito la liquidità dei mercati finanziari, ma in assenza di una adeguata redistribuzione, questo ha finito con il comprimere i salari, portando ad una preoccupante instabilità sistemica.

Con la crisi della New Economy del 2000 si è compiuta la prima parabola del capitalismo cognitivo: dalla enorme distribuzione (asimmetrica) di guadagni finanziari, si è passati all’ennesimo attacco ai salari e all’occupazione, muovendosi su quello che era il nuovo senso comune, fatto della proporzionalità tra alti corsi di Borsa e innovazioni organizzative estreme che consistevano in dowsizing, reengineering, Mergers and Acquisitions.

La crisi iniziata a marzo 2000 ha quindi segnato la fine di un periodo di consenso (di «convenzione») su una modalità di fare finanza (ed economia); si è entrati in una fase di declino, con perdite del 40% sul l’indice Dow Jones, del 50% sullo Standard & Poor’s e dell’80% sul nasdaq. Nel frattempo, la deflazione salariale avanzava sotto l’effetto degli «eserciti industriali di riserva» indiano e, in particolare, cinese, che avrebbero dato il via ad un nuovo ciclo (e ad una nuova convenzione).

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La Crescita trainata dalla Finanza

Alla fine degli anni settanta, la rivoluzione conservatrice della Thatcher e di Reagan mette fine alla lunga stagione di lotte operaie che aveva visto aumentare la quota salari sul pil in tutti i paesi occidentali, minacciando i profitti delle imprese. Viene così inaugurata una nuova stagione, caratterizzata da bassi salari, alti tassi di interesse e una politica valutaria di cambi sostanzialmente fissi, in grado di assicurare un clima di austerità monetaria. La resistenza delle organizzazioni sindacali è infine domata, ma ovviamente si manifesta il rischio di un’insufficienza globale di domanda. Comunque, a partire dagli anni ottanta, i consumi privati delle famiglie americane diventano la variabile chiave per la crescita mondiale. Gli Stati Uniti, e gli altri paesi anglofoni, indossano l’abito di «ripulitori» delle eccedenze mondiali. Ma se i salari dei lavoratori americani non crescono, come è possibile che i consumi aumentino? La risposta è che, soprattutto nel corso degli anni ’90, crescono vertiginosamente i mercati finanziari, e, con essi, la ricchezza finanziaria che alimenta i consumi «autonomi» delle famiglie. Queste ultime sono inglobate nel meccanismo della finanza globale anche attraverso la rete della previdenza integrativa. Il salariato americano diviene così, come suggerisce Marco Passarella, contemporaneamente, un «lavoratore traumatizzato» (per via dello stallo dei salari e della condizione di crescente precarietà lavorativa), ma anche un «risparmiatore bipolare, la cui propensione a spendere si è legata via via all’andamento degli indici azionari».

Il capitalismo cognitivo nasce e si sviluppa allora come una economia guidata dalla finanza, facendo propria la teoria dello shareholder value delle imprese quotate che si trovano a dover rincorrere giorno dopo giorno la massimizzazione del proprio valore.

Allo stesso tempo, lo Stato si è progressivamente ritirato dall’economia, diminuendo anche pesantemente le proprie funzioni di regolamentazione e ridistribuzione.

All’interno del capitalismo cognitivo la realizzazione della produzione è compensata sia dai mercati finanziari che agiscono come moltiplicatori della domanda aggregata, sia dalla globalizzazione (attraverso delocalizzazioni e outsourcing).

Il potere della finanza proviene dalla sua capacità di imporre i criteri per generare rendimenti finanziari. Sui mercati finanziari si spostano con un semplice click di mouse enormi capitali, ricchezza dematerializzata; il tutto in un ambiente pervaso di incertezza (e non semplice rischio), con una ineliminabile carenza di informazione sul futuro. Alla quale si sopperisce con voci, credenze, convenzioni, che, complici la natura «aerea» delle merci scambiate e la facilità tecnologica allo scambio, nascono apparentemente dal nulla, si alimentano di sé stesse, e scompaiono spesso con estrema facilità.

I mercati finanziari seguono nei loro movimenti le più svariate convenzioni. Le convenzioni non sono reali, esse però hanno effetti reali sulla crescita economica. Le convenzioni sono trend di mercato che hanno origine all’interno della comunità degli investitori secondo una razionalità auto-referenziale, ovvero seguendo una formidabile abilità nell’amplificare rumori. Le convenzioni sono storicamente determinate, ovvero esse miscelano un elevato numero di fattori eterogenei che contribuiscono a determinare i cicli di mercato.

Così definite, le convenzioni altro non sono che la manifestazione patente dell’anarchia del capitalismo nella produzione o, più precisamente, nell’allocazione del denaro originato nell’accumulazione per produrre merci attraverso la realizzazione delle quali ottenere nuovo, e maggiore, denaro, secondo il classico schema marxiano. Le convenzioni determinano quale debba essere il settore verso il quale far affluire l’investimento a che massimo sia il profitto che se ne trae, da qui l’enfasi su finanza e conoscenza, la prima perché consente la concretizzazione del sogno sempiterno della classe borghese: generare del denaro dal denaro senza sporcarsi le mani con la produzione e tutto quello che ne consegue (si pensi a quanto sia «basso» il pur abnorme stipendio annuo di Marchionne rispetto a quello dei suoi colleghi della finanza con tutte le rogne che il nostro si trova ad affrontare per produrre mentre agli altri basta un manipolo di smanettoni…), la seconda perché consente di estrarre plusvalore non solo dalla natura umana (la forza fisica tradizionalmente incorporata nella forza lavoro) ma anche, come dicevamo poco sopra, dalle condizioni sociali di riproduzione della stessa capitalizzando così anche l’investimento sociale pagato dalla collettività.

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La convenzione «sino-immobiliare».

All’interno del capitalismo cognitivo, le imprese, per ottenere la liquidità necessaria alle operazioni di fusione e acquisizione di altre società, nell’intento di perseguire una strategia di crescita e controllo dei mercati, si indebitano con il sistema bancario.

Con la crisi finanziaria iniziata a marzo 2000, si è venuto a interrompere un circolo virtuoso fatto di start-up e m&a che sfruttava il saldo positivo del flusso di capitali verso gli usa.

La perdita di capital gains è stata compensata da una riduzione drastica nelle paghe dei lavoratori e attraverso massicci processi di delocalizzazione e di outsourcing – specialmente nei confronti di Cina e India, le quali rappresentano tuttora aree a basso costo della forza lavoro, pronte però ad entrare stabilmente all’interno dei circuiti globali della produzione hi-tech.

La nuova convenzione necessitava di sostenere i consumi anche in presenza di una redistribuzione del reddito a svantaggio dei lavoratori. La politica monetaria della fed si è adattata nel tentativo di risolvere tale contraddizione. Tra la fine del 2000 e il 2003 alti livelli di consumo sono stati assicurati da tassi di interesse all’1%, negativi in termini reali. Si è quindi chiesto aiuto al credito al consumo.

Così, le aspettative imprenditoriali si sono nuovamente riprese, e i managers sono potuti tornare a sostenere i propri stock values e a ripagare i debiti contratti con gli istituti di credito. È interessante qui sottolineare come, anche durante questa nuova convenzione, l’indebitamento bancario delle imprese non sia stato rivolto alle spese per capitale (come accadeva nel sistema fordista), ma si sia rivelato un mezzo di indubbia potenza, e necessario, per soddisfare i criteri finanziari di massimizzazione dello share-holder value.

Un tale schema di accumulazione, ovviamente, richiede specifiche politiche macroeconomiche per prevenire l’insorgere di bolle finanziarie. Negli usa la fed ha giocato a riguardo un ruolo decisivo, fronteggiando il pericolo di deflazione con un abbassamento della curva dei tassi durante tutto il periodo 2001-2008.

Le altre banche centrali, seppure con tempistiche differenti, non hanno fatto niente di diverso. Le innumerevoli sessioni di confronto internazionale, politico ed economico, hanno rafforzato tali strategie contribuendo a diffondere la certezza che lo stimolo prociclico all’investimento finanziario attraverso i tassi bassi fosse l’unico sistema possibile per uscire dalle secche in cui il crollo dei valori azionari dei biennio 2000-01 aveva spinto il capitalismo globale. Ai capitalisti di tutto il mondo, ebbri di convenzione Internet non si è potuto far altro che propinarne un’altra: investire in Cina/India/globalizzare-in-genere per ridurre il livello generale dei prezzi delle merci acquistate dai lavoratori così da consentire una qualche ripresa del risparmio, ormai diffidente dei corsi azionari, canalizzandolo verso il settore immobiliare. Su questa canalizzazione gli Harry Potter della frammentazione/generalizzazione del rischio si sono splendidamente esercitati, con una sofisticazione significativa rispetto alle operazioni degli anni precedenti sui corsi azionari e, ancora prima (inizio anni ‘90), sulle valute: non si tratta più di bieca potenza speculativa, ovvero nell’acquisto/vendita di enormi partite di attività più o meno a rischio, qui si generalizza il ricorso alla leva finanziaria promettendo la sostanziale soppressione tecnica del rischio buttando in finanza ogni possibile attività liquida sia prodotta nel mondo della produzione reale.

Il risultato è stato un immenso trasferimento di rischio dalle imprese alle famiglie, i soggetti  e le banche eroganti hanno pienamente confidato nella tenuta della convenzione, sperando in un incremento senza fine del real-estate. La convenzione «Sino-immobiliare», a settembre del 2007, ha presentato il conto.

Ovviamente salato.

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La Finanza e il sistema: caratteristiche distintive e problemi irrisolti.

Possiamo affermare che i mercati finanziari sono il cuore pulsante dell’attuale sistema capitalistico.

Ritroviamo la loro importante presenza lungo tutto il processo di produzione e riproduzione: da essi dipende un soddisfacente livello di consumo, livello assicurato dall’espansione della finanza attraverso la formazione di capital-gains; e i guadagni finanziari vengono ricercati spasmodicamente dagli investitori che finiscono in tal modo con lo stimolare continuamente il processo di accumulazione, il quale si nutre della liquidità attinta sui mercati ripagandola con ristrutturazioni della produzione tese all’accaparramento di conoscenze e al controllo di esternalità.

In presenza di capital-gains, i mercati finanziari costituiscono la nuova versione del moltiplicatore keynesiano, messo in moto durante il fordismo dal deficit spending. Per attivare il moltiplicatore i mercati finanziari dovrebbero crescere in misura tale che, in media, il capital-gain fosse superiore al deprezzamento del salario.

Proprio a causa di questa loro permanente ricerca di nuovi spazi di sviluppo, i mercati finanziari sono giunti addirittura a concretizzare la privatizzazione della dimensione più personale della vita, sostituendosi allo stato nella fornitura di servizi sociali.

Inoltre i mercati finanziari rappresentano il luogo in cui, al giorno d’oggi, si fissa la valorizzazione capitalistica, ovvero lo sfruttamento della cooperazione sociale da cui si origina la rendita del general intellect.

Quindi, in un’economia «finanziaria» di produzione quale quella odierna, non esiste più alcuna separazione tra la sfera reale e quella finanziaria.

Quali i rischi di una struttura siffatta?

I mercati finanziari vengono visti come il primo motore a supporto dell’espansione dell’economia reale; ma per ottenere ciò è necessario che essi siano in una condizione di espansione ininterrotta.

Questo comporta che, all’interno del sistema, le relazioni di debito-credito (sia all’«apertura» del circuito economico - quando le imprese ricorrono al sistema bancario per finanziare l’acquisto di uno o più business - che alla sua «chiusura» - di fronte al frequente scoppio delle «bolle» l’accesso al credito facilitato rappresenta il primo sostegno a cui ricorrere per mantenere la domanda di merci) vadano aumentando senza soluzione di continuità. E quando parliamo di relazioni di indebitamento intendiamo che la loro crescita può essere sia «estensiva» (andando ad interessare il numero di soggetti indebitati) che «intensiva» (ovvero relativa alla costruzione di nuovi strumenti finanziari su attivi pre-esistenti – i prodotti derivati ne sono l’esempio maggiormente significativo). È chiaro che un processo siffatto non può sostenersi all’infinito, in particolare quando esso vada a riguardare gli strati della popolazione che vivono di lavoro precario. Ecco una grande contraddizione del capitalismo contemporaneo: la distribuzione del reddito distorta non può conciliarsi con la pressante finanziarizzazione dell’economia. 

Inoltre, la distribuzione del reddito attuale, così legata allo schiacciamento dei salari da parte del capitale e, contestualmente, alle «mode» dei mercati finanziari, getta inevitabilmente una lunga ombra di incertezza sui processi di apprendimento e sulla formazione di quelle economie di rete che sono alla base della crescita proprio nel modello in oggetto.

Sia chiaro, tuttavia, che il problema della distribuzione del reddito non è la causa quanto l’effetto di questa maniera di produzione: la compressione del monte salari è la condizione necessaria perché nuove convenzioni definite come sopra possano generarsi sulle ceneri di quelle via via consunte, il senso dell’aggettivo finanziaria associato ad un’economia di produzione significa precisamente che il rendimento del capitale investito nei diversi settori non possa darsi se non attraverso la concentrazione delle scommesse vincenti in un numero sempre più esiguo di scommettitori che abbiano le spalle abbastanza ampie da permettersi l’approfondimento dei meccanismi concorrenziali a livello globale, quale che ne sia il prezzo, un po’ come il giocatore facoltoso che può andare a vedere tutti i bluff dei suoi concorrenti fino a lasciarli sul lastrico.

È ovvio che il suo essere facoltoso dipende da quanto plusvalore sia stato in grado di estrarre, e questo vale per gli Stati come per le aziende, quale che ne sia la dimensione. Il prodotto di quel finanziaria è solo questo, ben lontano da meccanismi moltiplicativi o riproduttivi che sviluppino le condizioni materiali a livello globale. Questo perché non può esistere nessuna forma certa di remunerazione dell’investimento, in specie quando, come sta avvenendo sempre più spesso, le crisi riconducono i valori ed i capitali fittizi alle realtà materiali dei valori d’uso e dei capitali produttivi in senso classico. Da qui l’operazione meritoria, quanto spietata, di sostituzione del termine sviluppo al termine progresso nei discorsi sui casi dell’economia e delle società mondiali.

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Spigolature

Può l’Autorità Monetaria (banche centrali, agenzie di controllo sulle borse, governi, organismi internazionali e quant’altro) contenere le derive del sistema capitalistico? Rileggendo l’analisi alle pagine precedenti parrebbe potersi dedurre che la strada percorribile in tal senso sia, almeno al momento, tutta in salita; appare infatti che queste, all’interno dell’attuale maniera di produzione, pur mantenendo il potere di creare moneta e di assicurare la circolazione dei valori, le autorità siano obbligate a seguire i movimenti dei mercati finanziari. Sembra cioè che con il capitalismo cognitivo si sia verificato un cambiamento epocale di governance: quello che conta attualmente è la produzione di liquidità finanziaria, per i mercati finanziari, ovverosia in linea con la sovranità delle convenzioni che su di essi, come abbiamo illustrato, prendono periodicamente forma. Ogni forma di regolazione dei meccanismi che generano le convenzioni sono nocivi alla formazione delle stesse; la regolazione, pertanto, non può essere che prociclica, aiuta le bolle quando si gonfiano, disperde i cocci quando si rompono. Un esempio di regolazione anticiclica, infatti potrebbe essere quella di imporre la progressività nel calcolo del patrimonio di vigilanza degli istituti bancari, ovvero chiedere garanzie crescenti più che proporzionali nella dimensione degli stessi, ma questa misura minerebbe alla base il meccanismo imprenditorial-concorrenziale dominante, distorcendo al ribasso il meccanismo di corsa alla concentrazione strutturale nel capitalismo (pare l’abbiano capito anche i profeti nostrani del «piccolo è bello») per cui è chiaro che sarebbe politicamente improponibile in ambito capitalistico.

Se il capitale è un rapporto sociale, per concludere, i cocci sono gli elementi che lo hanno generato, ovvero il lavoro degli individui e le loro esigenze materiali.

 

Abbiamo cercato di utilizzare un paio di concettualizzazioni recenti ed interessanti, quali quelle del capitalismo cognitivo e dell’economia finanziaria di produzione in termini descrittivi dello stato del capitalismo contemporaneo. L’operazione marxiana cui aspiriamo è quella di chiarire che, quali che siano i modi concreti della produzione, il capitale si basa sull’accumulazione di pluslavoro e plusvalore estratti dalla sfera della produzione, quale che ne sia l’utilizzo successivo. Il rovesciamento di tale meccanismo passa per la presa di coscienza dei lavoratori, in particolare per la comprensione che questo sistema, quale che ne sia la variante/convenzione in essere non possa, strutturalmente, sviluppare oltre un certo grado le condizioni di vita delle persone. Nel ritenere che questo «grado», a livello globale, sia arrivato da tempo, intenderemo usare ogni concettualizzazione interessante si sviluppi in economia politica per indicare la strada del superamento degli attuali rapporti sociali. In quanto sopra abbiamo cercato di rappresentare come la nozione di capitalismo cognitivo sottolinea una volta di più come gli artefici della produzione siano alienati dal prodotto del loro lavoro tanto in termini individuali quanto in termini sociali e come la nozione di economia finanziaria di produzione ribadisca che questa fase dello sviluppo capitalistico tenda all’estremo i rapporti di forza insiti nel capitale come relazione sociale.

Nel ritenere che questo rafforzi la via marxiana nella lotta per il superamento di questi rapporti sociali, ovvero il rovesciamento delle decisioni di produzione dal capitale al lavoro, nei prossimi contributi cercheremo di esaminare alcuni spunti di azione politica, il dibattito su nuove modalità di redistribuzione, di welfare e di organizzazione della produzione opposte a quelle ormai integralmente diffuse, a partire dal dibattito sulla decrescita.

 

OTTOBRE 2010

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Bibliografia

 

- A. FUMAGALLI, S. LUCARELLI, Cognitive Capitalism as a Financial Economy of Production, 2009 (presentato all’Università di Borgogna).

- M. PASSERELLA, La scienza triste e la farfalla di Lorenz,  Economia e Politica, luglio 2009.