nuovo banner vecchio
02
Ottobre 2010

home - indice

Coscienza di classe e consenso oggi

STORIA E (IN)COSCIENZA DI CLASSE

Alessandro D'Aloia

«Si vedono i più sfavoriti, investire con passione il sistema che li opprime»

(L’anti-Edipo, pag. 397)

 

Premessa

Nella ricerca relativa alle modalità con cui la classe dominante borghese mantiene il consenso di massa attorno a suoi propri interessi economici, abbiamo finora cercato di analizzare, sulla scorta delle analisi di alcuni pensatori del novecento, i meccanismi e gli strumenti consapevoli mediante i quali un potere costituito si assicura la sopravvivenza, e lo abbiamo fatto ponendo sempre attenzione ai condizionamenti e le deformazioni che subisce la coscienza delle masse subalterne, ora deviata, ora disgregata, ora repressa più o meno palesemente.

Dall’uso dell’esercito alla destrutturazione del linguaggio, dalla violenza visibile di una repressione di piazza a quella sottotraccia di una sottrazione concettuale volta ad impedire la formazione stessa di una critica cosciente al sistema, sempre si è trattato della coscienza come l’oggetto principale dell’analisi.

La mancanza di una coscienza di classe organizzata politicamente da parte della massa sfruttata della popolazione, che è anche la maggioranza sociale, di fronte ad un esercizio del potere sempre più monoclassista e sprezzantemente autoreferenziale è stato ed è il problema principale, tuttavia il perché del perpetuarsi di una tale mancanza nel tempo (nonostante le organizzazioni operaie abbiano conosciuto momenti meno tristi degli attuali), come il suo improvviso apparire in alcuni momenti singolari (anche in assenza di grandi organizzazioni di classe) resta per molti versi di difficile comprensione. È, pensiamo, utile non cedere alla tentazione di voler spiegare tutto dicendo che la coscienza di classe degli oppressi manca in quanto la repressione sociale, tradizionalmente intesa, ne impedisce la formazione, cosa che pure resta, per altri versi, assolutamente vera.

Le riflessioni contenute in questo articolo si propongono, sulla scorta di un testo quale L’anti-Edipo. Capitalismo e schizofrenia di Gilles Deleuze e Felix Guattari di spostare l’attenzione sugli aspetti del comportamento umano non ascrivibili direttamente alla coscienza.

Il testo dei due pensatori francesi si presenta come oltremisura ostico, soprattutto in termini di linguaggio, ma altrettanto ricco ed importante per una comprensione ulteriore degli argomenti trattati nella rubrica coscienza di classe e consenso oggi. Questo articolo è un tentativo di comprensione di un vero e proprio libro-flusso, che per le caratteristiche del suo oggetto potrebbe sembrare, cosa che probabilmente è: una passeggiata sconnessa fra tematiche concatenate.

Conoscendo un po’ la formazione del pensiero dei due francesi, si può capire in che termini possa tornare utile cercare la sua relazione costruttiva con quello di Foucault. Per cui indirettamente il rimando si allarga almeno a questo terzo autore. Vedremo più avanti in che senso, chi scrive, ritiene che esista un filo generale comune fra i primi due ed il terzo.

Il contributo che l’anti-Edipo dà al tema della coscienza di classe è, un po’ paradossalmente, quello dell’introduzione dell’inconscio nell’analisi della dinamica di formazione del comportamento umano. Già Nietzsche, tra l’altro riferimento comune sia per Foucault che per Deleuze, quando si poneva come critico della morale in generale, faceva notare come alla fine non sia la morale a dettare il comportamento dell’uomo nelle situazioni concrete e tutti noi sappiamo fino a che punto l’ipocrisia della doppia morale, predicata e praticata, sia un dato di fatto dell’agire sociale. Sulla scorta di questa semplice riflessione nell’anti-Edipo viene fatto presente che non tutto il comportamento umano è determinato da atti coscienti, cosa che fa sì che gran parte della situazione concreta sia frutto di meccanismi incoscienti, che sfuggono persino alla comprensione analitica, traviata com’è da tutta una serie di pregiudizi idealistici, di cui la stessa psicanalisi freudiana è totalmente prigioniera. Quindi trattare il problema della coscienza di classe senza fare oggetto di questa trattazione anche l’inconscio è una via che riducendo il problema, rispetto alla sua complessità, lascia sempre fuggire via una parte di comprensione dei fenomeni sociali.

 (torna su)

Desiderio e politica

Già una prima volta il marxismo aveva incontrato lungo il proprio cammino il concetto astratto di desiderio, quando negli anni trenta prendeva forma il movimento surrealista, con Andrè Breton. Restano bellissime pagine scritte a quattro mani, fra Breton e Trotsky nel manifesto dell’arte surrealista[1] in polemica con le ingiunzioni burocratiche imposte all’arte dallo stalinismo. Ma in questo primo incontro si ha l’impressione che i surrealisti stessi operassero una sorta di idealizzazione del desiderio, nella concezione sempre positiva che ne avevano. Per i surrealisti il desiderio doveva diventare il fine della società, e quindi della politica, la quale non doveva farsi altro che interprete delle pulsioni desideranti dell’uomo e spianarvi la strada. La surrealtà era per i surrealisti, grosso modo ciò che il socialismo era per i marxisti, l’obiettivo all’orizzonte in cui desiderio ed esistenza si incontravano. E fin qui nulla di sbagliato, se non fosse che il desiderio stesso è soggetto a deviazioni e perversioni che nella cultura capitalistica lo deformano orribilmente rispetto alla propria natura intima. Quindi per l’anti-Edipo non basta semplicemente fondere politica e desiderio, cosa comunque necessaria, ma serve anche liberare il desiderio stesso dalle trappole in cui la società capitalista lo confina. Il desiderio non esiste solo allo stato puro, ma anche e soprattutto allo stato deviato, pervertito, per cui non è detto ch’esso sia sempre e comunque rivoluzionario. Infatti capita che il desiderio desideri di essere represso. Questo è il primo punto importante di riflessione: il sistema sociale si mantiene anche facendo presa sul desiderio dei suoi elementi senza che essi ne siano al corrente e magari anche nonostante la loro convinzione di agire contro il sistema.

«Ecco perché quando dei soggetti, individui o gruppi, vanno manifestamente contro i loro interessi di classe, quando aderiscono agli interessi ed ideali di una classe che la loro propria situazione oggettiva dovrebbe indurli a combattere, non basta dire: sono stati ingannati, le masse sono state ingannate. Non è un problema ideologico, di misconoscimento o di illusione, è un problema di desiderio»[2].

Questa è l’eco del Reich di Psicologia di massa del fascismo, quando dice:«No, le masse non sono state ingannate, hanno desiderato il fascismo in tal momento, in tali circostanze, ed è questo che occorre spiegare, la perversione del desiderio gregario»[3]. Dunque quando si parla di desiderio non è corretto ritenerlo sempre un termine positivo. Ma come è possibile che ciò avvenga? Per capirlo è necessario comprendere quale sia la meccanica del desiderio per l’anti-Edipo e per questo motivo è necessario parlare degli «oggetti parziali».

 (torna su)

Il tutto e le parti

Gli autori dell’anti-Edipo, oppongono oggetti parziali a figure complete riprendono un concetto definito da Melanie Klein, (una psicanalista austro-inglese di inizio secolo), secondo il quale il desiderio non si muove in relazione a figure umane complete, ma ad elementi che costituiscono la figura umana, ad oggetti-organi colti come staccati dalla figura completa. In rapporto a questi oggetti staccati, parziali, il fine del desiderio non è il proprio soddisfacimento, ma la connessione, il contatto, secondo Klein la «relazione». Ogni organo-macchina, funziona in relazione ad un altro organo macchina[4]. La tensione relazionale e la connessione degli organi, formano le cosiddette «macchine desideranti». In questa energia che spinge al contatto, alla connessione, sta il motore del desiderio. Il bambino vuole sempre toccare tutto, mettere in connessione il proprio corpo, o sue parti, con altri oggetti, poi arriva il comando di non toccare. Così non è la figura completa che viene prima delle sue parti, ma semplicemente le figure complete esistono accanto alle parti, ai pezzi, a loro volta come pezzi di un tutto più complesso. Non esiste prima l’idea di madre che il suo seno come oggetto parziale del desiderio del bambino. Se non è il seno della madre, fa lo stesso (biberon), anche se non è la stessa cosa. Al bambino interessa la connessione bocca-seno, non la relazione bocca-seno della madre, se non in seconda istanza. La figura parentale (madre, partner, e così via) esiste prima e dopo semplicemente come oggetto «completo» su cui prelevare oggetti parziali reali, organi e flussi che sono il fine del desiderio.

«Ci sembra contraddittorio dire allo stesso tempo che il bambino vive tra gli oggetti parziali, e che ciò che coglie negli oggetti parziali sono le persone parentali anche in pezzi. Che il seno sia prelevato sul corpo della madre non è a rigore vero, poiché esiste come pezzo di una macchina desiderante, in connessione con la bocca, e prelevato su un flusso di latte non personale»[5].

La scoperta degli oggetti parziali rappresenta, per la psicanalisi, anche temporalmente, il passaggio parallelo, avutosi nelle arti figurative, dal dominio della figura alla sua esplosione picassiana, anche se in Picasso la figura totale è ancora troppo definita rispetto ad esempio a Mirò, in cui tutto vive fisicamente staccato in una vera società di oggetti parziali immersi in veri e propri paesaggi dell’inconscio.

C’è dunque sempre una possibilità di ricondurre idealisticamente gli oggetti parziali stessi ad una figura totale, di sostituire tutto con una pura rappresentazione.

«Melanie Klein fece la meravigliosa scoperta degli oggetti parziali, questo mondo di esplosioni, […]. Ma come spiegare ch’essa non coglie tuttavia la logica di questi oggetti? Il fatto è che, all’inizio, li pensa come fantasmi, e li giudica dal punto di vista del consumo, non d’una produzione reale. Ella fissa meccanismi di causazione (l’introiezione e la proiezione), di effettuazione (gratificazione e frustrazione), d’espressione (il buono e il cattivo) che le impongono una concezione idealistica dell’oggetto parziale. […]. In secondo luogo, non si sbarazza dell’idea che gli oggetti parziali schizo-paranoidi rimandino ad un tutto, o originale in fase primitiva, o a venire nell’ulteriore posizione depressiva (l’Oggetto completo). Gli oggetti parziali le sembrano dunque prelevati su persone globali […]»[6].

Invece gli oggetti parziali sono tali e basta, esistono popolando il mondo e infischiandosene di mamma e papà.

«Gli oggetti parziali non sono rappresentanti di oggetti parentali, né supporti di relazioni familiari; sono pezzi nelle macchine desideranti, che rinviano a un processo e a rapporti di produzione irriducibili e primari rispetto a ciò che viene registrato nella figura di Edipo»[7].

 (torna su)

La meccanica dell’inconscio

Bisogna immaginare un mondo di oggetti come unità elementari del desiderio, similmente a come si può pensare agli atomi come unità elementari della materia. Se il dato di partenza è un mondo esploso di oggetti parziali, come pezzi vaganti, la tensione relazionale fra questi pezzi è l’energia che muove questo mondo, che lo tiene insieme, un’energia molecolare.

L’anti-Edipo non è un testo di psicanalisi, ma un manuale di meccanica, nella misura in cui tratta l’inconscio materialisticamente per quello che è e non per come il modello di interpretazione edipico messo a punto da Freud lo interpreta. Gli autori riconoscono a Freud una sola cosa: la scoperta dell’essenza soggettiva astratta del desiderio come Libido. «Così come Ricardo fonda l’economia politica o sociale scoprendo il lavoro quantitativo all’origine di ogni valore rappresentabile, Freud fonda l’economia desiderante scoprendo la libido quantitativa all’origine di ogni rappresentazione degli oggetti e dei fini del desiderio»[8].

Mentre però l’economia politica ha conosciuto il suo Marx (senza per questo voler ridurre il marxismo alla sola sfera economica), non altrettanto pare sia accaduto alla psicanalisi, motivo per cui essa è rimasta irretita in un idealismo mortifero, subentrato con la torsione idealistica imposta da Freud al suo proprio pensiero, che l’ha resa, come era per l’economia politica, una semplice giustificazione del capitalismo. Per chi fosse interessato a capire in che termini neanche l’opera di Lacan sia stata sufficiente, per gli autori dell’anti-Edipo, a liberare la psicanalisi dal freudismo irriducibile del modello edipico, non si può che rinviare alle 439 pagine del testo.

Qui interessa mettere in rilievo un altro aspetto: capire cos’è l’inconscio.

«La grande scoperta della psicanalisi è stata quella della produzione desiderante, della produzione dell’inconscio. Ma, con Edipo, questa scoperta è stata presto occultata da un nuovo idealismo: all’inconscio come fabbrica si è sostituito un teatro antico; alle unità di produzione dell’inconscio si è sostituita la rappresentazione; all’inconscio produttivo si è sostituito un inconscio che non poteva che esprimersi […]»[9].

Gli autori dell’anti-Edipo sostengono che non vi sia nessuna differenza di natura fra il funzionamento della società e quello dell’inconscio. In ambo i casi si produce continuamente, in ambo i casi si tratta di un sistema di connessione fra macchine, siano queste macchine tecniche o organi-oggetti, non essendoci differenza fra macchina ed organo. L’inconscio è una società con le sue fabbriche e le sue produzioni incessanti, in continuo movimento e la società è una macchina. La società, nel suo insieme è un organismo i cui pezzi sono macchine, fra le quali anche l’uomo, a sua volta organismo unitario fatto di pezzi o organi-macchine. «La macchina tecnica implica già un elemento non umano, agente, trasmettitore o anche unitario, che prolunga le forze dell’uomo e ne consente una certa liberazione. La macchina sociale, al contrario, ha come pezzi gli uomini, anche se li si considerano con le loro macchine […]»[10].

 (torna su)

Il ruolo delle figure complete

Ma parlare di «oggetti parziali» non significa negare affetto e amore, cioè relazioni fra esseri umani, semplicemente riconoscerne la natura intima. Esiste infatti una funzione del rapporto fra persone e dei legami affettivi in tutto questo flusso di oggetti, che gli autori dell’anti-Edipo non negano, ma spiegano quando dicono che: «la libido non passa nella coscienza se non in relazione ad un tal corpo, una tal persona che assume come oggetto. Ma la nostra «scelta di oggetto» rinvia essa pure ad una congiunzione di flussi di vita e di società, che questo corpo, questa persona intercettano, ricevono, emettono sempre in un campo biologico, sociale, storico, in cui noi pure siamo immersi e col quale comunichiamo […]. Ma è sempre con mondi che facciamo l’amore»[11].

Insomma sembra che la persona che si ama, sia nel complesso e agli occhi della coscienza, un’evocazione di un intero mondo a cui si aspira e di cui essa sembra essere la chiave. Gli amori sono indici del tipo di società cui tende il nostro inconscio. Tuttavia anche in questo caso, capita che la rappresentazione finisca per contare più della realtà e può accadere che si veda in una persona, più di quanto essa non rappresenti. Gli affetti sono una semplificazione di dinamiche più complesse, in tali campi la ragione non entra quasi per niente e gli effetti sono interamente ascrivibili a determinazioni inconsce. Questo però significa anche una cosa molto importante e cioè che l’inconscio investe sempre prima di tutto aspetti sociali piuttosto che personali, i secondi essendo percezioni istintive dei primi.

«È di palmare evidenza infatti, che il desiderio non ha per oggetto persone o cose, ma ambienti interi che attraversa […]»[12].

Il desiderio ha perciò una dimensione sociale, che non è riducibile a dinamiche personali, per questo motivo si distingue fra desiderio e piacere. Se fra desiderio e piacere c’è una relazione intima, le due cose non sono equivalenti, nella misura in cui ricadono in ambiti separati: sociale l’uno, individuale l’altro. Il desiderio non è mancanza, o ricerca del piacere, ma attività libidinale continua (sempre in movimento) che orienta, azioni, scelte e comportamenti.

«È l’investimento libidinale inconscio ad indurci a cercare il nostro interesse da una parte piuttosto che dall’altra, a drizzare i nostri scopi su tale strada, persuasi come siamo che proprio là stanno le nostre possibilità di successo, dal momento che l’amore ci spinge»[13].

Su questo punto si registra, per inciso, una divaricazione di interessi fra Deleuze-Guattari, i quali indagano piuttosto il concetto di desiderio e Foucault interessato più alle forme di piacere, come pratiche concrete di formazione del desiderio.

 (torna su)

Desiderio e società

Se non c’è differenza di natura fra inconscio e società c’è tuttavia una contraddizione che li oppone. La differenza, fra la società e l’inconscio, è da un lato solo di scala, dall’altro nel motore che muove le due «macchine». I due sistemi sono mossi da motori differenti, per ora. La libido come energia sessuale è il motore dell’inconscio, il capitale (lavoro) è il motore della società capitalista. Produzione desiderante da un lato, produzione di capitale dall’altro. La contraddizione e la sua forma specifica fra le due produzioni non è necessaria ma solo determinata storicamente, nel senso che si tratta di capire, nella situazione concreta, quale delle due produzioni è subordinata all’altra e in che modo.

Da un punto di vista del funzionamento dell’inconscio, il modello edipico non ha nulla a che vedere con la realtà, se non transitoriamente. Esso è semplicemente un’interpretazione completamente fuorviante di ciò che pretende spiegare universalmente ed allo stesso tempo la descrizione del suo funzionamento errato o meglio storicamente determinato. Gli economisti borghesi ritengono infatti, dal canto loro, che il capitalismo sia un sistema economico «naturale» e finale. La psicanalisi pretende che Edipo sia il modello naturale dell’inconscio. Non è che Edipo non abbia senso in assoluto, esso spiega come funziona il desiderio e quindi l’inconscio nella società capitalistica, dove però l’inconscio non funziona, non viene lasciato libero di funzionare come vorrebbe. Edipo non è dunque solo un’interpretazione dell’inconscio ma anche il nome del suo cattivo funzionamento. In questo senso l’inconscio edipizzato è un inconscio castrato. «Bisogna parlare di «castrazione» nello stesso senso di edipizzazione, di cui essa è il coronamento: essa designa l’operazione con cui la psicanalisi castra l’inconscio, inietta la castrazione nell’inconscio»[14].

C’è cioè un problema di dominanza fra i regimi produttivi delle due macchine, fra quella sociale e quella inconscia. Gli autori parlano di differenza di regime. «[…] i due regimi si distinguono dunque a seconda che la produzione sociale dei «beni» imponga la sua regola al desiderio tramite un io la cui unità fittizia è garantita dai beni stessi, o a seconda che la produzione desiderante degli affetti imponga la sua regola a istituzioni i cui elementi non sono più che pulsioni»[15]. L’esistenza di una distanza, di una differenza fra i due regimi produttivi segna appunto la contraddizione fra desiderio e società e, ad un tempo, la tipologia storica di questa alienazione dell’inconscio rispetto alla propria energia motrice. Il desiderio alienato è in sostanza il frutto di un inconscio sottoposto ad una cura edipizzante, ma Edipo, a dispetto della psicanalisi, non è un modello universale ed onnipresente, esso è un modello che assume senso concluso solo nella società capitalistica e non prima.

 (torna su)

Terrore dispotico e cinismo capitalista

«Ecco perché i commentatori più favorevoli all’universalità di Edipo riconoscono tuttavia che nelle società primitive non si trova alcuno dei meccanismi, alcuno degli atteggiamenti che lo ingenerano nella nostra società. Nessun superego, nessuna colpa»[16].

Perché Edipo è capitalista? Ricordando il binomio gramsciano si potrebbe semplificare dicendo che nella storia la coercizione viene inventata prima del consenso. Se lo stato dispotico manteneva l’ordine attraverso il terrore (una sorta di fascismo perenne), lo stato capitalista non si serve del terrore se non in condizioni particolari. Esso, come sistema, tuttavia sussiste grazie ad una repressione sublimata, interiorizzata. Edipo è appunto il despota dell’inconscio, colui che irreggimentando il desiderio alla fonte, assicura un quieto vivere sociale prima di tutto, cioè senza necessità di repressione attiva a posteriori, salvo eccezioni. Con Edipo la coercizione diventa preventiva, spostando la repressione dalla sfera fisica a quella psichica. Qui la repressione è automatica esattamente come con il capitalismo lo stesso prelievo di plusvalore diviene automatico senza più necessità di estorsione violenta. Questa castrazione dell’inconscio avviene attraverso ciò che i due francesi, chiamano il meccanismo di rimozione-repressione.

«La repressione non si esercita sul desiderio, e non solo su bisogni ed interessi, se non attraverso la rimozione sessuale. La famiglia è appunto l’agente delegato di questa rimozione, in quanto assicura una «riproduzione psicologica di massa del sistema economico di una società»»[17].

«La rimozione si distingue dalla repressione per il carattere inconscio dell’operazione e del suo risultato («anche l’inibizione della rivolta è diventata inconscia») […] la rimozione propriamente detta è un mezzo al servizio della repressione»[18].

Ecco la relazione fra macchina sociale e macchina inconscia: per poter funzionare la prima è necessario inibire la seconda. Per questo motivo non si può parlare di desiderio in assoluto, ma solo in termini concreti e perciò storici. Il desiderio assume le forme storiche che la società gli consente e non quelle che avrebbe naturalmente se gli fosse consentito di sussistere allo stato o al regime suo proprio, nel qual caso sarebbe il desiderio a plasmare le forme sociali e non viceversa. C’è una storia del desiderio, allo stesso modo di come c’è una storia delle società e della civiltà. La forma del desiderio nella società capitalista è quella edipizzata, vale a dire quella di un desiderio rimosso dai suoi oggetti e ripiegato su idee e rappresentazioni di tali oggetti. Non più oggetti e organi parziali, ma rappresentazioni concluse e familistiche di tali oggetti, sue idealizzazioni astratte.

Se nei primi mesi di vita il desiderio è libero ed indifferenziato, privo di direzione precisa e quindi potenzialmente rivolto a tutto ciò che lo circonda, non è più così alla fine del ciclo di crescita, quando assume forme specifiche e tipiche, definendosi secondo schemi socialmente accettabili, ma per questo stesso motivo castranti.

Il bambino non conosce vergogna e colpa proprio durante la sua completa innocenza che esiste prima della sua educazione e non più dopo. È l’educazione, che è sempre impartizione di regole sociali, a rimuovere l’innocenza originaria per sostituirla con la vergogna della colpa. La società capitalista non è più religiosa perché ha già interiorizzato il senso di colpa.

«È possibile che la psicanalisi riprenda così un vecchio tentativo di abbassare, di avvilire, di renderci colpevoli? […] allora, invece di partecipare ad un’impresa di liberazione effettiva, la psicanalisi prende parte all’opera di repressione borghese più generale, quella che consiste nel mantenere l’umanità europea sotto il giogo papà-mamma e nel non finirla mai con quel problema»[19].

«Ma rendere la religione inconscia o rendere l’inconscio religioso, è sempre iniettare religiosità nell’inconscio (e cosa sarebbe l’analisi freudiana senza i famosi sentimenti di colpa attribuiti all’inconscio?)»[20].

Edipo tiranneggia l’inconscio attraverso il senso di colpa che gli infonde, ma la colpa di cosa? La colpa di esistere, di vivere e desiderare di vivere.

«Curiosa l’avventura della psicanalisi. Essa dovrebbe essere un canto di vita, pena il non valere nulla. Praticamente essa dovrebbe insegnarci a cantare la vita. Ed ecco invece emanare da essa il più triste canto di morte, […]»[21].

«La psicanalisi diventa la formazione di un nuovo tipo di preti, animatori della cattiva coscienza: si è malati di essa, ma anche grazie ad essa bisognerà guarire»[22].

«Freud ha compiuto la scoperta più profonda dell’essenza soggettiva del desiderio, come la Libido. Ma siccome ha ri-alienato, re-investito questa essenza in un sistema soggettivo di rappresentazione dell’io, […] non poteva più allora concepire l’essenza della vita se non in forma rivolta contro di essa, sottoforma appunto di morte»[23].

Ma perché il desiderio deve essere rimosso?

«il desiderio è rimosso proprio perché ogni posizione di desiderio, per quanto piccola, ha di che mettere in causa l’ordine stabilito di una società: non che il desiderio sia asociale, al contrario […]. Nessuna società può sopportare una posizione di desiderio vero senza che le sue strutture di sfruttamento, d’asservimento, di gerarchia vengano compromesse […]. È dunque d’importanza vitale per una società reprimere il desiderio, anzi trovare di meglio della repressione, perché la repressione, la gerarchia, lo sfruttamento, l’asservimento siano essi stessi desiderati. […] Il desiderio non minaccia una società perché è desiderio di andare a letto con la madre, ma perché è rivoluzionario […]. Il desiderio non «vuole» la rivoluzione, è rivoluzionario da sé e involontariamente, volendo ciò che vuole»[24].

Il desiderio non desidera l’incesto, non gliene può fregare di meno, semmai si perverte incestuosamente dopo essere stato rimosso dai suoi oggetti naturali e costretto a ripiegarsi sulla famiglia come figura che rappresenta fittiziamente gli oggetti del desiderio senza esserli.

«un bambino non gioca solo a papà-mamma. Gioca anche allo stregone, al cowboy, al guardone e al ladro, […] il treno non è necessariamente papà e la stazione la mamma»[25].

Se non volesse la famiglia esso la distruggerebbe ovviamente e qui sta il problema. La famiglia come cellula sociale elementare, intanto persiste in questo suo ruolo fondamentale perché è desiderata (imposta al desiderio).

 (torna su)

Paralogismi freudiani

«Ora l’argomento freudiano ha di che lasciar trasecolati: Freud riprende un’osservazione di Frazer secondo cui «la legge non proibisce che ciò che gli uomini sarebbero capaci di fare sotto la pressione di alcuni loro istinti; così sulla proibizione legale dell’incesto dobbiamo concludere che esiste un istinto naturale che ci spinge all’incesto». In altre parole ci si dice che è proibito perché è desiderato (non ci sarebbe bisogno di interdire quel che non si desidera) […]»[26].

«Capita infatti che la legge proibisca qualcosa di perfettamente fittizio nell’ordine del desiderio o degli «istinti», per insinuare nei suoi soggetti la persuasione che avevano l’intenzione corrispondente a questa finzione. È anzi questo il solo modo, per la legge, per far presa sull’intenzione e per colpevolizzare l’inconscio»[27].

Ma tutto ciò è pura costruzione rispetto alla vera natura del desiderio e probabilmente Freud lo sapeva, per questo reagiva male all’innocente battuta di Jung, quando questi diceva che «Edipo non doveva avere un’esistenza ben reale dal momento che anche il selvaggio preferisce una donna giovane e graziosa a sua madre o a sua nonna»[28].

È tutta la formulazione del complesso di Edipo, però, a presentare punti di ridicolaggine imbarazzante come lo stesso «istinto di morte». Al di là del fatto che esso è in contraddizione con il concetto di sessualità come motore della vita sostenuto da Freud stesso, viene proprio da chiedersi perché se l’uomo è guidato da un istinto di morte continui tuttavia a mangiare tre volte al giorno. E poi Edipo era un maschio, il che basterebbe da sé a relativizzare tutta l’impalcatura freudiana che non sa concepire l’essenza femminile se non in termini di mancanza maschile. Tutto ciò è incredibilmente ridicolo. Freud pretende di spiegare l’inconscio umano a partire da un unico punto di vista: il suo. E poi banalmente, Edipo è andato a letto con sua madre ed ha ucciso suo padre, ma non sapeva che si trattava dei suoi genitori. Questa incoscienza di Edipo non può essere indifferente nella costruzione di una teoria che universalizza l’idea di un desiderio originario incestuoso. Edipo non sapeva ma è colpevole lo stesso. La sua (nostra) colpa è dunque innata, originaria. Del resto non è indifferente neanche che si desuma il modello del desiderio da un mito greco, che è espressione di una cultura precisa: quella occidentale; e di una formazione precisa: quella borghese di Freud. Si ha ragione di credere che in altre condizioni storico-culturali, anche la stessa idealizzazione dell’inconscio avrebbe avuto forme diverse da quelle edipiche. Edipo potrebbe avere un altro nome. Non che questa idealizzazione non presenti elementi di verità relativa, nelle condizioni storiche capitalistiche. Come negare in effetti da un lato l’esistenza di un istinto di morte per la borghesia come classe, ostaggio essa stessa del suo capitale? Ed ancora, una sua incestuosità di classe, data la sua volontà di preservarsi caparbiamente come unica classe dominante? Oppure la sua paura ossessiva dell’altro, in quanto non appartenente al suo gruppo, che per la borghesia è anche un gruppo di classe?

 (torna su)

L’Io di gruppo

In effetti Edipo è sostanzialmente una dinamica di gruppo, un gregarismo artificioso, una personalità artefatta che l’inconscio veste, visto che significa soprattutto quanto segue.

Disgiunzione del desiderio dal flusso indifferenziato di oggetti parziali che popolano il mondo al fine dell’assegnazione di un’identità sessuale fittizia legata ad un preciso ruolo sociale. Non si può desiderare tutto, ma si deve desiderare il proprio ruolo familiare (padre, madre) e per esteso tutte le implicazioni sociali dell’essere padre o madre e non altro. Si fabbrica un’identità al proprio inconscio (maschio, femmina e tutte le funzioni correlate). Mediante la disgiunzione del desiderio il soggetto viene inscritto nel corpo sociale con un suo ruolo definito.

Congiunzione del soggetto disgiunto all’insieme degli altri soggetti disgiunti. Dal momento dell’assegnazione di un ruolo sociale il soggetto fa parte di un gruppo con lo stesso ruolo. Tutti condividono cameratescamente la propria condizione. In questo modo si forma il sentimento di appartenenza ad un gruppo, ad una missione, ad una nazione. Questa appartenenza di gruppo non è determinata da differenze di classe, tutte le classi devono sentirsi partecipi della grande impresa nazionale di produzione del capitale. Tutti appartengono al gruppo loro riservato socialmente. L’inconscio edipico è costitutivamente razzista.

Connessione del desiderio del soggetto non al mondo di oggetti parziali indistinti, ma ad oggetti parziali precisi e ben definiti, familiarizzati (del coniuge) in funzione strettamente procreativa e allo stesso tempo sociale. Il corpo sociale rigenera se stesso mediante questi passaggi di stato del desiderio che alla fine non è più desiderio libero, ma desiderio irreggimentato, edipizzato e alienato.

Sono queste le condizioni sociali in cui, con risultati anche differenti e infinite sfumature, l’inconscio individuale è costretto a dibattersi fra sue pulsioni naturali, che non guardano in faccia a nessuno (al cuor non si comanda) e sue pulsioni consentite, restringendo progressivamente le proprie «aspirazioni» desideranti. Per questo motivo da un lato esso (il desiderio) vive nell’impalcatura ufficiale da ragazzo morigerato, dall’altro si perverte all’inverosimile nello sporco segretuccio che conduce per proprio conto fuori dalla sua vita ufficiale. Dottor Jekyll e mister Hyde sono il modello della psiche scissa capitalistica, consumata nella propria schizofrenia esistenziale. Desiderio a-edipico e vita, d’altra parte, non possono andare d’accordo senza rovinare questa società.

 (torna su)

Stratificazione della coscienza e sesso politico

L’introduzione dell’analisi dell’inconscio nel discorso circa il comportamento sociale dell’uomo, non è un servizio di semplificazione reso al quadro della coscienza. Dover considerare questi aspetti complica parecchio le cose, dato che potendosi creare una contraddizione fra comportamento concreto dei gruppi e propri interessi oggettivi, diventa più difficile ragionare solo in termini di interessi di classe. Non c’è più solo la coscienza, ma una sua possibile opposizione con l’inconscio. «È comprensibile dunque che un gruppo possa essere rivoluzionario dal punto di vista dell’interesse di classe e dei suoi investimenti preconsci, ma non esserlo, e rimanere anzi fascista e poliziesco, dal punto di vista dei suoi interessi libidinali. Interessi preconsci realmente rivoluzionari non implicano necessariamente investimenti inconsci della stessa natura, un apparato di interesse non vale mai in quanto macchina di desiderio»[29].

Non si negano le influenze degli interessi di classe, ma si nota come essi possano fare presa sul «preconscio» senza coinvolgere l’inconscio e procedere scollegate, producendo sorprese inaspettate e un divenire continuo delle identità di gruppo, le quali possono tramutarsi nei loro opposti lungo il cammino. Questo problema è probabilmente alla radice dei numerosissimi tradimenti degli interessi di classe del proletariato storico. Non siamo nuovi a storie che cominciano bene per finire molto male. Ma è anche la scoperta che non basta realizzare interessi di classe (quali essi siano) per ottenere una inversione del rapporto attuale di asservimento fra società e desiderio. Potrebbe benissimo darsi che in un quadro dominato da interessi di classe diversi dagli attuali, la produzione desiderante resti schiacciata ed asservita alla macchina sociale, senza essere in grado invece di plasmarla. Infatti: «Un investimento inconscio di tipo fascista, o reazionario, può coesistere con l’investimento conscio rivoluzionario»[30].

Il che può significare con le parole di Foucault:

«[…] si possano d’altronde perfettamente concepire delle rivoluzioni che lascino per l’essenziale intatte le relazioni di potere che avevano permesso allo Stato di funzionare»[31].

Quello che d’altra parte c’è di positivo è che in questo quadro caotico nulla è fisso e l’inconscio stesso può oscillare fra due suoi poli estremi (reazionario e rivoluzionario) con varie sfumature e assumendo anche un assetto stabile. Edipo può saltare, perché sono le stesse sue condizioni a saltare. Non è detto che l’inconscio reagisca sempre positivamente alla propria edipizzazione, non sempre accetta di essere «uno dei nostri» a volte rifiuta il gregarismo dominante per sposare le cause perse. Spesso tifiamo le squadre più deboli, sperando appassionatamente nella loro vittoria. Spesso definiamo «istinto di classe» questa immedesimazione con l’altro o qualsiasi comprensione immediata di processi apparentemente complessi. Se l’inconscio non oscillasse fra poli, non esisterebbe traccia della schizofrenia, l’uomo non conoscerebbe scissione della propria personalità, ognuno sarebbe al suo posto nel proprio ruolo senza desiderare altro. Tutto filerebbe liscio come l’olio. Invece c’è da rallegrarsi: Edipo non attecchisce sempre, esiste un polo rivoluzionario irriducibile dell’inconscio dal quale poter sempre ripartire. In questo senso la schizofrenia è indice di possibilità rivoluzionarie, in quanto indice del cattivo funzionamento di Edipo nei soggetti. Ne consegue che anche quando le scelte politiche non sono razionalizzate coscientemente, non è detto che ciò significhi che si ha a che fare con soggetti «reazionari». In una società in cui la coscienza è disgregata in mille modi, spesso gli indirizzi inconsci sono più avanzati della coscienza politica e possono ritrovarsi sparsi, fuori casa, in diversi schieramenti politici. Rispetto a questo problema c’è bisogno di un atteggiamento più inclusivo di quello che sembrerebbe permesso in base ad una razionale valutazione «ideologica» delle posizioni espresse dai vari soggetti. Da questo punto di vista la separazione a sinistra (il settarismo) è un’ingiustificata tirannia dell’ideologia e un frutto marcio di un’esasperata dinamica di gruppo, del tutto edipica, all’interno delle classi subordinate. L’ideologia è il principale agente di formazione di gruppi, e perciò di separazione, soprattutto a sinistra.

 (torna su)

Castrazione e potere

Se questa è la reale meccanica del desiderio, è evidente che l’inconscio in quanto naturale habitat del desiderio, segua leggi sue proprie che nulla hanno a che vedere, col mantenimento dell’ordine sociale. L’inconscio se ne infischia dell’ordine sociale, della famiglia, dell’amore, del rispetto. Non ha morale, perché l’inconscio non pensa, non ha concetto, in compenso fornisce energia per agire e far muovere la società in cui alberga, senza cessare mai di produrre, senza fermarsi mai. Va per i fatti suoi. Si capisce bene che tutto ciò è altamente sconveniente per una classe dominante, ma anche per qualsiasi gruppo dominante. Ogni gruppo di dominio ha bisogno di Edipo, di castrare l’inconscio. Ogni società di gruppi (separata) ha bisogno della famiglia. Dove c’è muffa, c’è acqua. Dove c’è famiglia c’è autorità. In Unione Sovietica, da un certo punto in poi la famiglia ha riacquistato la centralità perduta con la Rivoluzione d’Ottobre, mentre il proletariato ricominciava ad essere sconfitto in casa.

Se potere e desiderio non vanno propriamente d’accordo, potere e desiderio castrato sembrano fatti l’uno per l’altro. Aberrazioni del desiderio e aberrazioni sociali sono un tutt’uno. Se la libido non può procreare una società libera, sarà la società a fabbricare il suo modello di desiderio, ad imbrigliare quest’energia e deviarla sui binari morti sui quali farla muovere, visto che non si può fermarla. Allora tutto si trasforma nel suo opposto, tutto si perverte. Potrebbe darsi, come crede chi scrive, che la pervasività della sessualità, costretta in forme molto lontane, in macchine desideranti anche molto strane, formi un tutt’uno con la pervasività dei poteri di cui parla Foucault. Entrambi sono dappertutto, forse perché in definitiva si parla della stessa cosa.

Foucault a proposito del potere dice che: «Porre il problema in termini di Stato è ancora porlo in termini di sovrano e di sovranità ed in termini di legge. Descrivere tutti questi fenomeni di potere in funzione dell’apparato di Stato, è porli essenzialmente in termini di funzione repressiva, […]. Non voglio dire che lo Stato non sia importante; quel che voglio dire è che i rapporti di potere e di conseguenza l’analisi che se ne deve fare deve andare al di là del quadro dello Stato. Deve farlo in due sensi: innanzitutto perché lo Stato, […] è ben lungi dal ricoprire tutto il campo reale dei rapporti di potere; e poi perché lo Stato non può funzionare che sulla base di relazioni di potere preesistenti. Lo Stato è sovrastrutturale in rapporto a tutta una serie di reti di potere che passano attraverso i corpi, la sessualità, la famiglia, gli atteggiamenti, i saperi, le tecniche, ecc.»[32].

Le reti di potere sulle quali si fonda il potere istituzionalizzato si trovano a tutti i livelli, ovunque.

Ciò è vero anche per la sessualità, per tutta la scuola di pensiero discendente dalla scoperta di Freud circa la libido. Deleuze-Guattari, a proposito della sessualità dicono:«In realtà, la sessualità è ovunque: nel modo in cui un burocrate accarezza i suoi incartamenti, un giudice amministra la giustizia, un uomo d’affari fa scorrere il danaro, la borghesia incula il proletariato, ecc. E non occorre passare per metafore, più di quanto la libido non debba passare per metamorfosi»[33].

Se si parla di potere si finisce a parlare di reti di corpi, al contrario se si parla di sessualità si finisce a parlare di reti di poteri.

 «Va innanzitutto scartata una tesi molto diffusa secondo la quale il potere nelle nostre società borghesi e capitalistiche avrebbe negato la realtà del corpo a profitto dell’anima, della coscienza, dell’idealità. In realtà, nulla è più materiale, nulla è più fisico, più corporeo dell’esercizio del potere…»[34].

Desiderio represso-perverso ed esercizio di potere a tutti i livelli sono complementari. Sesso e potere sono, nella società capitalistica, mossi dalla medesima energia, tanto che le forme del sesso capitalista sono, o almeno appaiono, troppo spesso in qualche modo debitrici al rapporto di sottomissione dell’altro e all’altro (una sorta di sado-masochismo latente), tanto da spostare sensibilmente l’accento dal «fine relazionale» (M. Klein) al «fine masturbatorio» dell’appagamento di sé (Freud). Se il mantenimento dell’ordine sociale richiede la restrizione ed il ripiegamento della libido in cellule ristrette del tipo «coppia», «famiglia», «persone», «oggetti», dall’altro lato esso deve offrire valvole di sfogo a questa libido imbrigliata, canalizzandola in funzione dello stesso fine generale. Così ad ognuno la sua fetta di potere, ad ognuno una sua nicchia di autorità, a ciascuno la sua scappatella, piccole concessioni. Ecco come un potere esercitato ad ogni livello, e un sentimento gregario di far parte, anche se a livelli differenti, della stessa macchina sociale, costituisce un sistema di potere, volto a perpetrare la realtà data. Ognuno può accettare e persino desiderare la propria sottomissione, in quanto egli stesso avrà riservati i suoi propri angolucci in cui potrà giocare al despota, edipizzando qualcuno più debole di lui, al limite la propria prole. La vera nemesi per le classi subalterne è proprio quella di edipizzare la propria prole al fine di mantenere l’ordine sociale che non permette loro nessuna libertà: infondere il senso del dovere; un sentimento molto più forte nella classe lavoratrice, che in quella dominante. Così il potere non è, con Foucault, solo lo Stato, ma ogni struttura o esercizio dello stesso che si genera ad ogni livello e fondato direttamente sulla libido. Il potere moderno mette le mani nella psiche dell’individuo, penetra nell’intimo, vuole l’anima.

Tutto ciò ha poco a che vedere con una sorta di «giustizia sociale». Questi rapporti di potere non sono fondati su concetti, ma su meccanismi inconsci molto bene incastrati tra loro e ben trasfigurati dalla morale. Nessuno chiamerà le cose con il loro nome, nessuno dirà che la ricerca di potere è lo sfogo di una sessualità repressa, ma tutti sosterranno invece che il potere è necessaria amministrazione della società, mentre è il desiderio in sé ad essere cattivo (peccato originale) per cui la sua repressione è in fin dei conti necessaria alla civiltà (Freud). Ed ecco che edipizzare diventa «morale», per cui le perversioni non sono il prodotto della rimozione sessuale, ma laddove si manifestano sono il risultato di «malattia», che si sa colpisce taluni più sfortunati di tali altri, così è.. e giù a manganellare il mondo con un Grande Fallo.

 (torna su)

Lavoro e desiderio

La colpa è originaria. L’espiazione è eterna. Bisogna espiare, sacrificarsi, lavorare. Troppo spesso per dire bene di un uomo si usa definirlo «un gran lavoratore». Il senso del dovere per eccellenza è il lavoro. Nessuno osa ritenere che il proprio diritto alla vita possa essere in qualche modo estraneo al dovere di avere un ruolo definito nella macchina sociale. Tuttavia molti doveri lavorativi sono relativi a ruoli inutili, ma questo passa sempre più spesso in secondo piano rispetto all’esistenza di una qualche figura lavorativa riconosciuta. Il dovere viene prima della sua necessità e si giustifica da sé. Questa è una morale del lavoro fine a se stesso, per la quale gli improduttivi provano disagio per la propria condizione, a causa dell’onta di una mancanza di ruolo in una società dei ruoli.

L’essenza della società capitalistica è quella di produrre continuamente separazione, di scindere ogni funzione, catalogando e classificando. Questa separazione strutturale è la radice di ogni alienazione. Il campo della produzione materiale, quello del lavoro, è l’ambito in cui tale alienazione è più evidente. Tuttavia è invalso l’uso di considerare come alienanti solo talune specie di lavoro, per cui sembra che il problema sia di alcuni lavoratori, senza considerare che esso riguarda, allo stesso tempo il campo del desiderio stesso. Se il lavoro è alienato dal desiderio, anche il desiderio risulterà separato dal lavoro.

Così se un desiderio represso canalizza libido verso macchine piccole e grandi di potere, tale energia è sottratta ad altri ambiti di applicazione.

«L’identità tra lavoro e desiderio rappresenta piuttosto, non tanto un mito, ma l’utopia attiva per eccellenza che designa il limite del capitalismo da superare nella produzione desiderante. Ma perché, appunto, la produzione desiderante si trova al limite sempre contrastato del capitalismo? Perché il capitalismo, nello stesso tempo in cui scopre l’essenza oggettiva del desiderio e del lavoro - essenza comune in quanto attività di produzione in generale - non cessa di alienarla di nuovo, e ben presto, in una macchina repressiva che separa in due l’essenza, e la mantiene separata, lavoro astratto da una parte, desiderio astratto dall’altra: economia politica e psicanalisi, economia politica ed economia libidinale. Qui appunto possiamo valutare tutta l’ampiezza dell’appartenenza della psicanalisi al capitalismo»[35].

Nella società capitalista lavoro e desiderio non potranno mai avere un medesimo campo di applicazione, per questo il lavoro sarà sempre e solo un dovere, mentre il piacere albergherà perennemente altrove, per questo deve esistere una morale del lavoro per il lavoro e specularmente una continua propaganda sui modi di divertirsi alla moda, che denuncia la completa artificiosità del divertimento borghese. Alcune classi saranno condannate ad un lavoro alienante, altre ad un piacere alienato. Questa è la realtà dei fatti, al di là di tutte le manfrine sul lavoro come realizzazione dell’uomo e quelle parallele sul piacere di un benessere economico. Questo lavoro e questo piacere non realizzano proprio nessuno. Un piacere alienato, come un puro rovescio di medaglia, è tutto ciò che non ha a che fare con il dovere, tutto ciò che si ottiene senza lavoro, sulle spalle di altri. Pura anti-produzione. L’uomo arrivato è solo colui che vive a sbafo, e che per un certo periodo della sua vita può prelevare flussi di denaro e potere senza rendere conto ad Edipo. Ogni «uomo arrivato» è sempre tale solo momentaneamente, per cui in realtà non si arriva da nessuna parte. Da qui l’ammirazione di massa per il giovane narciso in Porsche, a cui tutto sembra permesso. Ma è proprio il godimento a mancare ad essere vuoto, costruito artificialmente su miti borghesi, in funzione di una produttività fine a se stessa, al di là persino agli interessi personali del capitalista rincoglionito nel suo astratto vizio accumulatorio.

Non c'è un'attività che realizza l'uomo, tutte le attività realizzano solo capitale, ecco perché il Capitale diventa una entità morta che succhia sangue ai vivi.

«Il capitale è lavoro morto che, simile al vampiro, si anima solo succhiando il lavoro vivente, e la sua vita è tanto più allegra quanto più pompa»[36].

E questo al di là della condizione di classe dei viventi.

«Non c’è più nessun padrone; solo degli schiavi, ora, comandano agli schiavi e non c’è bisogno di caricare l’animale dall’esterno, dato che si carica da sé. Non che l’uomo sia mai schiavo della macchina tecnica; ma schiavo della macchina sociale sì e il borghese ne dà l’esempio, il borghese che assorbe il plusvalore a fini che, nel loro insieme, non hanno nulla a che vedere col suo godimento: più schiavo dell’ultimo degli schiavi, primo servo della macchina affamata, bestia da riproduzione del capitale […]. Il capitalista è rispettabile solo in quanto è il capitale fatto uomo»[37].

Il capitale diventa pura astrazione, fine esterno alle necessità umane, in nome del quale tutto si muove. Il Capitale destituisce la Libido e questa astrazione rendendo ogni cosa qualitativamente economica priva l’uomo della capacità di valutare la propria realtà al di fuori di questo parametro. In una struttura mentale siffatta siamo tutti condannati, chi per sottomissione (nella produzione) chi per sopraffazione (nell'anti-produzione), ma tutti edipizzati dal capitale.

Il concetto di classe resta valido a tutti gli effetti ma dato che tutte le classi soffrono di un inconscio edipizzato, il problema della liberazione dell’inconscio dalla sua forma edipizzata è un problema insolubile per la borghesia, dato che questo cozza inevitabilmente con la sua esistenza in quanto classe privilegiata (il privilegio della sopraffazione), mentre così non è per le classi subalterne, le sole che per liberarsi dalla sottomissione economica possono anche, e proprio per questo, eliminare l’idea stessa di una vita economizzata. Se il lavoro nell'era capitalistica è sottomissione all'accumulazione astratta, non può essere il fine della lotta. I lavoratori non si liberano lavorando, perché non si può realizzare la propria personalità mediante una remunerazione economica, qualsiasi essa sia. Bisogna finirla con il mito del lavoro come realizzazione dell'uomo. Un lavoro non alienante non può esistere in presenza dell'accumulazione capitalistica. Bisogna finirla, di riflesso, con l’illusione che possa esistere una lotta solo economica, sindacalista. Una tale lotta è in partenza completamente inscrivibile in una morale del lavoro.

 (torna su)

Uccidere Edipo

Pare, per questo, evidente che l’uomo non abbia ancora imparato a vivere, non sappia come liberare il desiderio. Il percorso storico dell’edipizzazione dell’inconscio rappresenta in blocco una pura preistoria del desiderio. Ed è la stessa «sinistra» ad essere completamente presa e persa in un economicismo cieco, in una morale del lavoro come fine anziché come mezzo, più ottusa dei padroni nella rincorsa del lavoro, nella trasformazione del diritto all’esistenza in un diritto a lavorare. Ed allora qualsiasi condizione va bene pur di lavorare, ogni ricatto padronale è accettabile se serve a mantenere i posti di lavoro e così si finisce a lottare per il lavoro. Si lotta cioè per continuare a farsi sfruttare. In questa strana storia il sindacato rende conto unicamente della sua capacità di monetizzazione dello sfruttamento, della sua capacità di ottenere qualche spicciolo in più in cambio di condizioni di lavoro peggiori, mentre i partiti di rappresentanza del «mondo del lavoro» sognano semplicemente una disoccupazione minore, ma tutti si inchinano di fronte alla necessità di una qualsivoglia produzione. E a nessuno pare che ciò sia sbagliato da cima a fondo, nessuno sembra voler notare che la tendenza generale è sempre e solo: più sacrifici. Se le classi più svantaggiate sognano un lavoro, le nuove aristocrazie operaie costituite da proletari laureati sulle spalle della generazione lavoratrice precedente, sognano la carriera, disposti a rinunciare a tutto pur di sentirsi «arrivati», per arrivare alla fine troppo lontani da sé stessi, dalla possibilità di avere una vita in cui sia contemplato un normale godimento dei frutti economici della propria carriera, costretti in un celibato infinito come continuo sacrificio alle ragioni di una qualche azienda importante. I laureati di estrazione proletaria possono in questo essere più ambiziosi dei «figli di papà».

È dunque l'economicismo del fine che va superato. Ci si commuove per la sorte dei minatori cileni intrappolati a 700 m sottoterra, ma è la domanda sul cosa ci facevano degli uomini intrappolati come topi a quella profondità a dover essere promossa a vero problema. È l'esistenza di un lavoro come il minatore d’oro nel 2010 che deve inquietare le coscienze. Cosa cerca l'uomo lì sotto, cosa pensa di trovare al buio che non può trovare alla luce? Chi se ne fotte dell’oro! Un sindacato dei minatori non dovrebbe rendere più remunerativa la paga del minatore, ma mirare alla dismissione completa del lavoro in miniera e per esteso di tutte le mansioni prive di utilità sociale e avvilenti per la vita. Ma, si dirà, come è possibile questo senza minare la possibilità di sopravvivenza economica stessa dei minatori? Ma ancora di più sembrerà assurdo sostenere che un’organizzazione come il sindacato, ormai riconosciuta, lavori alla propria estinzione, disposta da sé a perdere la propria nicchia di autorità. Il problema, ci sentiamo di suggerire, è che il sindacato è un soggetto terzo rispetto alla propria referenza sociale, e tale problema non ci pare limitato alle sole organizzazioni sindacali, in una società dei ruoli (professionali). Così il sindacalista non rischia il proprio posto di lavoro, o la propria vita, quando accetta arretramenti per i suoi rappresentati, pur di salvaguardare la loro paga. La sua posizione resta riconosciuta anche nell’inutilità dei suoi effetti concreti. D’altra parte, anche lui, come tutti i professionisti svolge quel ruolo per campare, dunque accetta la propria mansione come un fine in sé, piuttosto che come un mezzo per ottenere risultati per gli altri. Ecco la contraddizione insanabile di un lavoro per la sopravvivenza, ecco il proliferare delle deontologie professionali, delle etiche di comportamento che sempre più spesso esistono solo di nome, ma che con la loro esistenza denunciano la mancanza di motivazione sociale delle professioni alienate.

Questa finalità di «sopravvivenza» non va intesa in termini solo di sussistenza, questo vale per le classi condannate a lavori pesanti e mal retribuiti, ma soprattutto in termini, più larghi, di corrispondenza con un ruolo sociale definito e totalizzante che fornisce l’identità di cui tutti sentono il bisogno, e per ogni tipo di lavoro, anche quello di livello dirigente. È tutto un tirare a campare visto che quando si guadagna più del necessario, il surplus economico non si trasforma mai in più tempo di vita a disposizione. Né la tecnologia crescente ha questo effetto. Si può guadagnare diverse volte in più di un operaio, ma non si avrà mai l’equivalente di tempo in più per godersi la fortunata condizione. Tutto è corrotto dalla morale del principio economico, tutto il tempo è sacrificato. Per inciso non è un problema di riduzione della produzione, ma di una diversa finalizzazione e conseguente riconversione della produzione.

 (torna su)

Autorità e rappresentazione

Ma quali sono i sintomi visibili dell’edipizzazione dei processi sociali?

Se la scissione fra economia e vita è alla base dell’economizzazione completa della realtà e a scapito del vissuto quotidiano, altre forme concettuali fortemente radicate in tutti gli ambienti politici sono il risultato di Edipo. Edipo come rappresentazione dell’inconscio è una mistificazione della sua natura oggettiva, allo stesso modo in cui nella società dello spettacolo la rappresentazione si sostituisce alla realtà travisando i fatti. Edipo come tiranno dell’inconscio impone un codice di comportamento, una disciplina esistenziale in nome dell’autorità del capitale. Autorità e rappresentazione sono agenti di separazione, completamente operanti a destra come a sinistra. Non esiste a tutt’oggi una struttura di critica politica alla società contemporanea, che non sia essa stessa completamente interna a logiche di autorità e rappresentazione. Ogni volta che un’organizzazione politica di sinistra prende corpo e cresce ripropone al suo interno separazione tendenzialmente fissa fra rappresentanti e rappresentati, giustificando tale separazione come necessaria e legittimata dall’autorità politica conquistata dai rappresentanti, con l’unico risultato di edipizzare la massa di militanti e rinviare in sostanza l’estinzione dei poteri, anzi generandone degli altri. Ogni separazione rigenera poteri, gerarchie e «dirigenti», siano essi politici o di altra natura. Di fronte all’emergere di simili processi degenerativi, come istituzionalizzazione dei movimenti, la razionalità della coscienza subisce uno scacco. Nessuna argomento razionale può essere sostenuto in favore di una qualsiasi separazione definitiva fra massa e sua rappresentanza, eppure ciò è possibile, perché è la massa stessa a consentirlo, a desiderarlo e a ritenere che sia, in sostanza, giusto. Come si può fare altrimenti? Il problema è che non siamo proprio capaci di pensare a modi organizzativi dell’attività umana che non siano risolti in gerarchia e rappresentanza. Di fronte a questi pregiudizi, in definitiva irrazionali, non c’è generalmente argomento che tenga. La ragione è in scacco rispetto alle convinzioni intime sulla natura dell’uomo. In un dibattito pubblico non si accetta mai la prova della ragione, ma sempre solo l’autorità di chi esprime un’opinione. Ecco perché l’autorità non è altro che il diritto di sparare cazzate senza colpo ferire. Si possono addurre ragionamenti sopraffini ad ennesima riprova della bancarotta capitalistica, ed allo stesso tempo assistere a discussioni circolari, in cui dopo ore di polemica ognuno resta convinto come e più di prima delle «proprie» opinioni. Questo perché nella stragrande maggioranza dei casi le opinioni non sono frutto di ragionamento, ma frutto di simpatia istintiva per questo o quel modello sociale evocato confusamente dalle argomentazioni utilizzate e altrettanto confusamente difeso per partito preso. Non che la ragione argomentativa non abbia ruolo politico, ma essa è piuttosto strumento di operatori del settore. Le vere ragioni sono per di più nascoste, mentre le opinioni comuni sono per di più irragionevoli. La ragione ha un ruolo molto sopravvalutato nella formazione delle opinioni in generale (è l’amore che ci guida), di cui quelle politiche rappresentano solo un caso particolare. Per questo non basta avere le idee migliori per avere ragione dei fatti. Per questo le ideologie dominanti sopravvivono, malgrado l’evidenza storica della loro fallacia. La ragione diviene «retorica».

Al momento attuale parrebbe che il problema della sinistra politica del paese sia quello di tornare ad avere un partito che rappresenti i lavoratori, mentre è evidente che questo al contrario non sembra esaltare le masse. In effetti non è interessante tornare ad avere partiti che in nome dei lavoratori servono i padroni. Questa è pura ideologia dominante, pura morale. La sinistra non ha bisogno di rappresentanza, né di autorità, al contrario ha bisogno di distruggere qualsiasi meccanismo di mistificazione del reale, qualsiasi separazione fra realtà e sua rappresentazione. Il prossimo movimento rivoluzionario vittorioso sarà un movimento non rappresentabile in nessun modo e perciò irriducibile, o non sarà.

 (torna su)

Una sinistra anti-edipica

Allora è necessario riprendere dall'inizio, svincolare la lotta, in generale, dall'economicismo della sopravvivenza e lottare per una liberazione dal lavoro, per un rifiuto di questo lavoro alienante. Se questo è il lavoro a noi non interessa. Se devo lottare per il lavoro, voglio lottare direttamente per vivere, visto che sono costretto a lottare. Non voglio più essere ricattabile, non voglio più provare nessun senso del dovere. Per questo motivo la lotta alla Fiat di Pomigliano sembra, contro tutti i moralizzatori (dai padroni al sindacato, ad eccezione della fiom), una lotta nuova, nei termini in cui si oppone al semplice concetto, che pur di lavorare bisogna accettare qualsiasi nuova condizione, il concetto paralogico che per andare avanti è necessario tornare indietro. Perché è chiaro che su questa linea non ci sarà mai un termine all'arretramento, ma solo una prospettiva compiutamente neo-ottocentesca e totalmente edipica: devi lavorare se vuoi vivere, devi accettare il tuo sacrificio, perché questa è solamente la tua esistenza terrena, il tuo passaggio sfigato sulla terra.

Ecco allora che si manifesta la necessità di un nuovo registro per la sinistra futura: il rifiuto totale delle motivazioni dominanti, la messa in discussione delle premesse stesse della produttività capitalistica. Chi se ne fotte del PIL! Prima ancora di giungere ad un nuovo modo di concepire le modalità concrete della produzione occorre rivoluzionare i modi in cui vengono stabiliti i fini della produzione sociale. Solo un fine condiviso può diventare impresa collettiva non alienante, un fine per l’uomo e non per un’accumulazione astratta, solo un’attività valutata, discussa e decisa in questa chiave da chi la svolge e non in sua vece da autorità qualsiasi in sua rappresentanza, può essere in grado di legare desiderio e produzione sociale a monte, piuttosto che subordinare il desiderio alla produzione sociale a valle.

Ecco la necessità dunque di uscire da quella che si configura sostanzialmente come una, seppur sacrosanta, critica moralistica al capitalismo, per approdare ad una nuova visione del mondo, capace di farsi oggetto del desiderio, capace di attirare a sé la libido collettiva. Non più semplicemente requisitoria infinita contro i mali e le contraddizioni, fin troppo evidenti, del sistema attuale, ma attività visionaria capace di sfondare un inconscio ottuso e ridargli gli attributi sequestratigli da Edipo, di ridestare i morti viventi.

«[…] I rivoluzionari dimenticano spesso, o non riconoscono volentieri, che si vuole e si fa la rivoluzione per desiderio, non per dovere. Qui come altrove il concetto di ideologia è un concetto esecrabile che nasconde i veri problemi, sempre relativi all’organizzazione»[38].

Il problema della società capitalista è che si bruciano una catastrofe di energie per nulla. Quest’energia è finalizzata male. Se la libido è energia pura, il motore del mondo biologico, bisognerà in qualche modo permettere che quest’energia possa liberarsi. Ma ciò è impossibile se il quotidiano sociale è funzionalizzato interamente alla produzione di capitale e interamente assorbito in essa. Per questo motivo sembra che l’urgenza più immediata, come premessa stessa del poter immaginare un futuro, sia quella di mettere all’ordine del giorno una lotta non più economica per la sopravvivenza, ma una lotta per la liberazione del tempo sociale, in grado di assicurare il resto (necessario) come sottoprodotto dell’obiettivo principale. Questo perché qualsiasi discorso politico, diventa inefficace agli occhi di una massa lavoratrice sfinita e sfiancata da una produzione fine a se stessa e tanto più infinitamente famelica. Non c’è più forza, prima che interesse, per la politica separata dalla vita.

Non più soldi per più lavoro, ma meno lavoro e basta.. i soldi verranno, la lotta economica è un sottoprodotto di quella politica. Una cosa semplice, immediatamente intuibile, non materia per specialisti dei conti in tasca. Un progresso delle condizioni di vita deve essere misurato in tempo liberato non in moneta guadagnata. La moneta è una misura relativa e un metro per padroni, il tempo una misura assoluta per tutti. Il lavoro non dovrebbe avere nulla a che vedere con la sua remunerazione, in nessun campo, solo così potrebbe anche essere un lavoro onesto, senza necessità deontologiche. È l’esistenza in quanto tale a fornire diritti alla persona, non la sua produttività. Solo una mentalità da gesuita può far pensare che l’uomo lavori perché costretto a farlo e che un mondo senza costrizioni sia un mondo di fannulloni che va verso la propria fine, concetto che nella versione addolcita suona così: «Meno male che il Padre eterno ha inventato i soldi, così la gente pur di guadagnare si dà da fare» (discussioni da bar).

In realtà è esattamente l’opposto. Non è la moneta a muovere l’animo umano, il mondo non è nato capitalista. Non voglio soldi, ma tanto tempo per passeggiare e creare.

Solo una sinistra nuova anti-rappresentativa e anti-autoritaria, priva di agenti di separazione e incapace di scindere un programma minimo da uno massimo, teoria e pratica, fini e mezzi, base e direzione, una sinistra che sia io stesso, potrà fare questo lavoro per me, invece di rigenerare continuamente piccoli e grandi poteri alienanti e continuare a tenere sotto il giogo del capitale il mio inconscio.

«Un gruppo soggetto, […], è quello i cui investimenti libidinali sono in sé rivoluzionari; esso fa penetrare il desiderio nel campo sociale e subordina il socius o la forma di partenza alla produzione desiderante; produttore di desiderio e desiderio che produce, esso inventa formazioni sempre mortali che scongiurano in esso la propagazione di un istinto di morte; alle determinazioni simboliche di assoggettamento esso oppone coefficienti reali di trasversalità, senza gerarchie o superego di gruppo»[39].

 

SETTEMBRE 2010


[1] «Per un’arte rivoluzionaria indipendente» di André Breton e Lev Trotsky, 1938, in A. Schwarz, Breton e Trotsky, storia di un’amicizia, edizioni Erre emme, 1997.

[2] G. Deleuze, F. Guattari, L'anti-Edipo. Capitalismo e schizofrenia. Einaudi, 2002, pag. 32

[3] Da W. Reich, Psicologia di massa del fascismo, citato nell'Anti-Edipo a pag. 32

[4] «Il grande merito di Melanie Klein sta senza dubbio nell'accento posto sulla natura relazionale della pulsione: Freud aveva sviluppato l'idea di una pulsione prettamente «autoerotica», nella misura in cui l'individuo si «serviva» dell'ambiente per ricevere piacere o gratificazione. Per la Klein la pulsione senza oggetto non esiste, neppure il narcisismo ne è esente, dal momento che si tratta di una relazione con oggetti interiorizzati. Gli affetti primari dell'amore, dell'odio, dell'angoscia, sono perciò relazionali ab initio (Klein, 1952), poiché è la relazione, la presenza reale o fantasmatica di un oggetto, l'obiettivo principale della pulsione (anziché l'appagamento di per sé)». Di questa nota su M. Klein riportata da Wikipedia ci interessa la contrapposizione fra il fine relazionale e il semplice appagamento di sé, quale obiettivo delle pulsioni sessuali, come l’affermazione dell’impossibilità della pulsione senza oggetto materiale, piuttosto che concetti quali l’oggetto interiorizzato e la presenza fantasmatica dello stesso.

[5] G. Deleuze, F. Guattari, L'anti-Edipo. Capitalismo e schizofrenia. Einaudi, 2002, pagg. 49, 50.

[6] Ibidem, pag. 47

[7] Ibidem, pag. 49

[8] Ibidem, pag. 341

[9] Ibidem, pag. 26

[10] Ibidem, pag. 156

[11] Ibidem, pagg. 333, 334

[12] Ibidem, pag. 333

[13] Ibidem, pag. 396

[14] Ibidem, pag. 65

[15] Ibidem, pag. 68

[16] Ibidem, pag. 159

[17] Ibidem, pag. 132

[18] Ibidem, pag. 133

[19] Ibidem, pag. 53

[20] Ibidem, pag. 61

[21] Ibidem, pag. 379

[22] Ibidem, pag. 380

[23] Ibidem, pagg. 381, 382

[24] Ibidem, pag. 129

[25] Ibidem, pag. 49

[26] Ibidem, pag. 126

[27] Ibidem, pag. 127

[28] Ibidem

[29] Ibidem, pagg. 399, 400

[30] Ibidem, pag. 116

[31] M. Foucault, Microfisica del potere, «Intervista a Michel Foucault», Einaudi 1972, pag. 17

[32] Ibidem, pag. 16

[33] G. Deleuze, F. Guattari, L'anti-Edipo. Capitalismo e schizofrenia. Einaudi, 2002, pag. 333

[34] M. Foucault, Microfisica del potere, «Potere-corpo», pag 140. Einaudi 1972

[35] G. Deleuze, F. Guattari, L'anti-Edipo. Capitalismo e schizofrenia. Einaudi, 2002, pagg. 344, 345

[36] Ibidem, pag. 258

[37] Ibidem, pag. 289

[38] Ibidem, pag. 395

[39] Ibidem, pag. 400