Coscienza di classe e consenso oggi
STORIA E (IN)COSCIENZA DI CLASSE
«Si vedono i più sfavoriti, investire con passione il sistema che li
opprime»
(L’anti-Edipo, pag. 397)
Premessa
Nella ricerca relativa alle modalità
con cui la classe dominante borghese mantiene il consenso di massa
attorno a suoi propri interessi economici, abbiamo finora cercato di
analizzare, sulla scorta delle analisi di alcuni pensatori del
novecento, i meccanismi e gli strumenti consapevoli mediante i quali un
potere costituito si assicura la sopravvivenza, e lo abbiamo fatto
ponendo sempre attenzione ai condizionamenti e le deformazioni che
subisce la coscienza delle masse subalterne, ora deviata, ora
disgregata, ora repressa più o meno palesemente.
Dall’uso dell’esercito alla
destrutturazione del linguaggio, dalla violenza visibile di una
repressione di piazza a quella sottotraccia di una sottrazione
concettuale volta ad impedire la formazione stessa di una critica
cosciente al sistema, sempre si è trattato della coscienza come
l’oggetto principale dell’analisi.
La mancanza di una coscienza di classe
organizzata politicamente da parte della massa sfruttata della
popolazione, che è anche la maggioranza sociale, di fronte ad un
esercizio del potere sempre più monoclassista e sprezzantemente
autoreferenziale è stato ed è il problema principale, tuttavia il perché
del perpetuarsi di una tale mancanza nel tempo (nonostante le
organizzazioni operaie abbiano conosciuto momenti meno tristi degli
attuali), come il suo improvviso apparire in alcuni momenti singolari
(anche in assenza di grandi organizzazioni di classe) resta per molti
versi di difficile comprensione. È, pensiamo, utile non cedere alla
tentazione di voler spiegare tutto dicendo che la coscienza di classe
degli oppressi manca in quanto la repressione sociale, tradizionalmente
intesa, ne impedisce la formazione, cosa che pure resta, per altri
versi, assolutamente vera.
Le riflessioni contenute in questo articolo si propongono, sulla scorta
di un testo quale L’anti-Edipo.
Capitalismo e schizofrenia di Gilles Deleuze e Felix Guattari di
spostare l’attenzione sugli aspetti del comportamento umano non
ascrivibili direttamente alla coscienza.
Il testo dei due pensatori francesi si presenta come oltremisura ostico,
soprattutto in termini di linguaggio, ma altrettanto ricco ed importante
per una comprensione ulteriore degli argomenti trattati nella rubrica
coscienza di classe e consenso
oggi. Questo articolo è un tentativo di comprensione di un vero e
proprio libro-flusso, che per le caratteristiche del suo oggetto
potrebbe sembrare, cosa che probabilmente è: una passeggiata sconnessa
fra tematiche concatenate.
Conoscendo un po’ la formazione del
pensiero dei due francesi, si può capire in che termini possa tornare
utile cercare la sua relazione costruttiva con quello di Foucault. Per
cui indirettamente il rimando si allarga almeno a questo terzo autore.
Vedremo più avanti in che senso, chi scrive, ritiene che esista un filo
generale comune fra i primi due ed il terzo.
Il contributo che l’anti-Edipo dà al
tema della coscienza di classe è, un po’ paradossalmente, quello
dell’introduzione dell’inconscio nell’analisi della dinamica di
formazione del comportamento umano. Già Nietzsche, tra l’altro
riferimento comune sia per Foucault che per Deleuze, quando si poneva
come critico della morale in generale, faceva notare come alla fine non
sia la morale a dettare il comportamento dell’uomo nelle situazioni
concrete e tutti noi sappiamo fino a che punto l’ipocrisia della doppia
morale, predicata e praticata, sia un dato di fatto dell’agire sociale.
Sulla scorta di questa semplice riflessione nell’anti-Edipo viene fatto
presente che non tutto il comportamento umano è determinato da atti
coscienti, cosa che fa sì che gran parte della situazione concreta sia
frutto di meccanismi incoscienti, che sfuggono persino alla comprensione
analitica, traviata com’è da tutta una serie di pregiudizi idealistici,
di cui la stessa psicanalisi freudiana è totalmente prigioniera. Quindi
trattare il problema della coscienza di classe senza fare oggetto di
questa trattazione anche l’inconscio è una via che riducendo il
problema, rispetto alla sua complessità, lascia sempre fuggire via una
parte di comprensione dei fenomeni sociali.
Desiderio e politica
Già una prima volta il marxismo aveva
incontrato lungo il proprio cammino il concetto astratto di
desiderio, quando negli anni
trenta prendeva forma il movimento surrealista, con Andrè Breton.
Restano bellissime pagine scritte a quattro mani, fra Breton e Trotsky
nel manifesto dell’arte surrealista[1]
in polemica con le ingiunzioni burocratiche imposte all’arte
dallo stalinismo. Ma in questo primo incontro si ha l’impressione che i
surrealisti stessi operassero una sorta di idealizzazione del desiderio,
nella concezione sempre positiva che ne avevano. Per i surrealisti il
desiderio doveva diventare il fine della società, e quindi della
politica, la quale non doveva farsi altro che interprete delle pulsioni
desideranti dell’uomo e spianarvi la strada. La surrealtà era per i
surrealisti, grosso modo ciò che il socialismo era per i marxisti,
l’obiettivo all’orizzonte in cui desiderio ed esistenza si incontravano.
E fin qui nulla di sbagliato, se non fosse che il desiderio stesso è
soggetto a deviazioni e perversioni che nella cultura capitalistica lo
deformano orribilmente rispetto alla propria natura intima. Quindi per
l’anti-Edipo non basta semplicemente fondere politica e desiderio, cosa
comunque necessaria, ma serve anche liberare il desiderio stesso dalle
trappole in cui la società capitalista lo confina. Il desiderio non
esiste solo allo stato puro, ma anche e soprattutto allo stato deviato,
pervertito, per cui non è detto ch’esso sia sempre e comunque
rivoluzionario. Infatti capita che il desiderio desideri di essere
represso. Questo è il primo punto importante di riflessione: il sistema
sociale si mantiene anche facendo presa sul desiderio dei suoi elementi
senza che essi ne siano al corrente e magari anche nonostante la loro
convinzione di agire contro il sistema.
«Ecco perché quando dei soggetti, individui o gruppi, vanno
manifestamente contro i loro interessi di classe, quando aderiscono agli
interessi ed ideali di una classe che la loro propria situazione
oggettiva dovrebbe indurli a combattere, non basta dire: sono stati
ingannati, le masse sono state ingannate. Non è un problema ideologico,
di misconoscimento o di illusione, è un problema di desiderio»[2].
Questa è l’eco del Reich di
Psicologia di massa del fascismo,
quando dice:«No,
le masse non sono state ingannate, hanno desiderato il fascismo in tal
momento, in tali circostanze, ed è questo che occorre spiegare, la
perversione del desiderio gregario»[3].
Dunque quando si
parla di desiderio non è corretto ritenerlo sempre un termine positivo.
Ma come è possibile che ciò avvenga? Per capirlo è necessario
comprendere quale sia la meccanica del desiderio per l’anti-Edipo e per
questo motivo è necessario parlare degli «oggetti parziali».
Il tutto e le parti
Gli autori dell’anti-Edipo, oppongono
oggetti parziali a figure complete riprendono un concetto definito da
Melanie Klein, (una psicanalista austro-inglese di inizio secolo),
secondo il quale il desiderio non si muove in relazione a figure umane
complete, ma ad elementi che costituiscono la figura umana, ad
oggetti-organi colti come staccati dalla figura completa. In rapporto a
questi oggetti staccati, parziali, il fine del desiderio non è il
proprio soddisfacimento, ma la connessione, il contatto, secondo Klein
la «relazione». Ogni organo-macchina, funziona in relazione ad un altro
organo macchina[4].
La tensione relazionale e la connessione degli organi, formano le
cosiddette «macchine desideranti». In questa energia che spinge al
contatto, alla connessione, sta il motore del desiderio. Il bambino
vuole sempre toccare tutto, mettere in connessione il proprio corpo, o
sue parti, con altri oggetti, poi arriva il comando di non toccare. Così
non è la figura completa che viene prima delle sue parti, ma
semplicemente le figure complete esistono accanto alle parti, ai pezzi,
a loro volta come pezzi di un tutto più complesso. Non esiste prima
l’idea di madre che il suo seno come oggetto parziale del desiderio del
bambino. Se non è il seno della madre, fa lo stesso (biberon), anche se
non è la stessa cosa. Al bambino interessa la connessione bocca-seno,
non la relazione bocca-seno della madre, se non in seconda istanza. La
figura parentale (madre, partner, e così via) esiste prima e dopo
semplicemente come oggetto «completo» su cui prelevare oggetti parziali
reali, organi e flussi che sono il fine del desiderio.
«Ci sembra contraddittorio dire allo stesso tempo che il bambino vive tra gli oggetti parziali, e che ciò che coglie negli oggetti parziali sono le persone parentali anche in pezzi. Che il seno sia prelevato sul corpo della madre non è a rigore vero, poiché esiste come pezzo di una macchina desiderante, in connessione con la bocca, e prelevato su un flusso di latte non personale»[5].
La scoperta degli oggetti parziali
rappresenta, per la psicanalisi, anche temporalmente, il passaggio
parallelo, avutosi nelle arti figurative, dal dominio della figura alla
sua esplosione picassiana, anche se in Picasso la figura totale è ancora
troppo definita rispetto ad esempio a Mirò, in cui tutto vive
fisicamente staccato in una vera società di oggetti parziali immersi in
veri e propri paesaggi dell’inconscio.
C’è dunque sempre una possibilità di
ricondurre idealisticamente gli oggetti parziali stessi ad una figura
totale, di sostituire tutto con una pura rappresentazione.
«Melanie Klein fece la meravigliosa scoperta degli oggetti parziali,
questo mondo di esplosioni, […]. Ma come spiegare ch’essa non coglie
tuttavia la logica di questi oggetti? Il fatto è che, all’inizio, li
pensa come fantasmi, e li giudica dal punto di vista del consumo, non
d’una produzione reale. Ella fissa meccanismi di causazione
(l’introiezione e la proiezione), di effettuazione (gratificazione e
frustrazione), d’espressione (il buono e il cattivo) che le impongono
una concezione idealistica dell’oggetto parziale. […]. In secondo luogo,
non si sbarazza dell’idea che gli oggetti parziali schizo-paranoidi
rimandino ad un tutto, o originale in fase primitiva, o a venire
nell’ulteriore posizione depressiva (l’Oggetto completo). Gli oggetti
parziali le sembrano dunque prelevati su persone globali […]»[6].
Invece gli oggetti parziali sono tali e
basta, esistono popolando il mondo e infischiandosene di mamma e papà.
«Gli oggetti parziali non sono rappresentanti di oggetti parentali, né
supporti di relazioni familiari; sono pezzi nelle macchine desideranti,
che rinviano a un processo e a rapporti di produzione irriducibili e
primari rispetto a ciò che viene registrato nella figura di Edipo»[7].
La meccanica dell’inconscio
Bisogna immaginare un mondo di oggetti
come unità elementari del desiderio, similmente a come si può pensare
agli atomi come unità elementari della materia. Se il dato di partenza è
un mondo esploso di oggetti parziali, come pezzi vaganti, la tensione
relazionale fra questi pezzi è l’energia che muove questo mondo, che lo
tiene insieme, un’energia molecolare.
L’anti-Edipo non è un testo di
psicanalisi, ma un manuale di meccanica, nella misura in cui tratta
l’inconscio materialisticamente per quello che è e non per come il
modello di interpretazione edipico messo a punto da Freud lo interpreta.
Gli autori riconoscono a Freud una sola cosa: la scoperta dell’essenza
soggettiva astratta del desiderio come Libido.
«Così come Ricardo fonda l’economia politica o sociale scoprendo il
lavoro quantitativo all’origine di ogni valore rappresentabile, Freud
fonda l’economia desiderante scoprendo la libido quantitativa
all’origine di ogni rappresentazione degli oggetti e dei fini del
desiderio»[8].
Mentre però l’economia politica ha
conosciuto il suo Marx (senza per questo voler ridurre il marxismo alla
sola sfera economica), non altrettanto pare sia accaduto alla
psicanalisi, motivo per cui essa è rimasta irretita in un idealismo
mortifero, subentrato con la torsione idealistica imposta da Freud al
suo proprio pensiero, che l’ha resa, come era per l’economia politica,
una semplice giustificazione del capitalismo. Per chi fosse interessato
a capire in che termini neanche l’opera di Lacan sia stata sufficiente,
per gli autori dell’anti-Edipo, a liberare la psicanalisi dal freudismo
irriducibile del modello edipico, non si può che rinviare alle 439
pagine del testo.
Qui interessa mettere in rilievo un
altro aspetto: capire cos’è l’inconscio.
«La grande scoperta della psicanalisi è stata quella della produzione
desiderante, della produzione dell’inconscio. Ma, con Edipo, questa
scoperta è stata presto occultata da un nuovo idealismo: all’inconscio
come fabbrica si è sostituito un teatro antico; alle unità di produzione
dell’inconscio si è sostituita la rappresentazione; all’inconscio
produttivo si è sostituito un inconscio che non poteva che esprimersi
[…]»[9].
Gli autori dell’anti-Edipo sostengono
che non vi sia nessuna differenza di natura fra il funzionamento della
società e quello dell’inconscio. In ambo i casi si produce
continuamente, in ambo i casi si tratta di un sistema di connessione fra
macchine, siano queste macchine tecniche o organi-oggetti, non essendoci
differenza fra macchina ed organo. L’inconscio è una società con le sue
fabbriche e le sue produzioni incessanti, in continuo movimento e la
società è una macchina. La società, nel suo insieme è un organismo i cui
pezzi sono macchine, fra le quali anche l’uomo, a sua volta organismo
unitario fatto di pezzi o organi-macchine.
«La macchina tecnica implica già un elemento non umano, agente,
trasmettitore o anche unitario, che prolunga le forze dell’uomo e ne
consente una certa liberazione. La macchina sociale, al contrario, ha
come pezzi gli uomini, anche se li si considerano con le loro macchine
[…]»[10].
Il ruolo delle figure complete
Ma parlare di «oggetti parziali» non
significa negare affetto e amore, cioè relazioni fra esseri umani,
semplicemente riconoscerne la natura intima. Esiste infatti una funzione
del rapporto fra persone e dei legami affettivi in tutto questo flusso
di oggetti, che gli autori dell’anti-Edipo non negano, ma spiegano
quando dicono che:
«la libido non passa nella coscienza se
non in relazione ad un tal corpo, una tal persona che assume come
oggetto. Ma la nostra «scelta di oggetto» rinvia essa pure ad una
congiunzione di flussi di vita e di società, che questo corpo, questa
persona intercettano, ricevono, emettono sempre in un campo biologico,
sociale, storico, in cui noi pure siamo immersi e col quale comunichiamo
[…]. Ma è sempre con mondi che facciamo l’amore»[11].
Insomma sembra che la persona che si
ama, sia nel complesso e agli occhi della coscienza, un’evocazione di un
intero mondo a cui si aspira e di cui essa sembra essere la chiave. Gli
amori sono indici del tipo di società cui tende il nostro inconscio.
Tuttavia anche in questo caso, capita che la rappresentazione finisca
per contare più della realtà e può accadere che si veda in una persona,
più di quanto essa non rappresenti. Gli affetti sono una semplificazione
di dinamiche più complesse, in tali campi la ragione non entra quasi per
niente e gli effetti sono interamente ascrivibili a determinazioni
inconsce. Questo però significa anche una cosa molto importante e cioè
che l’inconscio investe sempre prima di tutto aspetti sociali piuttosto
che personali, i secondi essendo percezioni istintive dei primi.
«È di palmare evidenza infatti, che il desiderio non ha per oggetto
persone o cose, ma ambienti interi che attraversa […]»[12].
Il desiderio ha perciò una dimensione
sociale, che non è riducibile a dinamiche personali, per questo motivo
si distingue fra desiderio e piacere. Se fra desiderio e piacere c’è una
relazione intima, le due cose non sono equivalenti, nella misura in cui
ricadono in ambiti separati: sociale l’uno, individuale l’altro. Il
desiderio non è mancanza, o ricerca del piacere, ma attività libidinale
continua (sempre in movimento) che orienta, azioni, scelte e
comportamenti.
«È l’investimento libidinale inconscio ad indurci a cercare il nostro
interesse da una parte piuttosto che dall’altra, a drizzare i nostri
scopi su tale strada, persuasi come siamo che proprio là stanno le
nostre possibilità di successo, dal momento che l’amore ci spinge»[13].
Su questo punto si registra, per
inciso, una divaricazione di interessi fra Deleuze-Guattari, i quali
indagano piuttosto il concetto di desiderio e Foucault interessato più
alle forme di piacere, come pratiche concrete di formazione del
desiderio.
Desiderio e società
Se non c’è differenza di natura fra
inconscio e società c’è tuttavia una contraddizione che li oppone. La
differenza, fra la società e l’inconscio, è da un lato solo di scala,
dall’altro nel motore che muove le due «macchine». I due sistemi sono
mossi da motori differenti, per ora. La libido come energia sessuale è
il motore dell’inconscio, il capitale (lavoro) è il motore della società
capitalista. Produzione desiderante da un lato, produzione di capitale
dall’altro. La contraddizione e la sua forma specifica fra le due
produzioni non è necessaria ma solo determinata storicamente, nel senso
che si tratta di capire, nella situazione concreta, quale delle due
produzioni è subordinata all’altra e in che modo.
Da un punto di vista del funzionamento
dell’inconscio, il modello edipico non ha nulla a che vedere con la
realtà, se non transitoriamente. Esso è semplicemente un’interpretazione
completamente fuorviante di ciò che pretende spiegare universalmente ed
allo stesso tempo la descrizione del suo funzionamento errato o meglio
storicamente determinato. Gli economisti borghesi ritengono infatti, dal
canto loro, che il capitalismo sia un sistema economico «naturale» e
finale. La psicanalisi pretende che Edipo sia il modello naturale
dell’inconscio. Non è che Edipo non abbia senso in assoluto, esso spiega
come funziona il desiderio e quindi l’inconscio nella società
capitalistica, dove però l’inconscio non funziona, non viene lasciato
libero di funzionare come vorrebbe. Edipo non è dunque solo
un’interpretazione dell’inconscio ma anche il nome del suo cattivo
funzionamento. In questo senso l’inconscio edipizzato è un inconscio
castrato.
«Bisogna parlare di «castrazione» nello
stesso senso di edipizzazione, di cui essa è il coronamento: essa
designa l’operazione con cui la psicanalisi castra l’inconscio, inietta
la castrazione nell’inconscio»[14].
C’è cioè un problema di dominanza fra i
regimi produttivi delle due macchine, fra quella sociale e quella
inconscia. Gli autori parlano di differenza di regime.
«[…] i due regimi si distinguono dunque a seconda che la produzione
sociale dei «beni» imponga la sua regola al desiderio tramite un io la
cui unità fittizia è garantita dai beni stessi, o a seconda che la
produzione desiderante degli affetti imponga la sua regola a istituzioni
i cui elementi non sono più che pulsioni»[15]. L’esistenza di una distanza, di una differenza fra i due regimi
produttivi segna appunto la contraddizione fra desiderio e società e, ad
un tempo, la tipologia storica di questa alienazione dell’inconscio
rispetto alla propria energia motrice. Il desiderio alienato è in
sostanza il frutto di un inconscio sottoposto ad una cura edipizzante,
ma Edipo, a dispetto della psicanalisi, non è un modello universale ed
onnipresente, esso è un modello che assume senso concluso solo nella
società capitalistica e non prima.
Terrore dispotico e cinismo capitalista
«Ecco perché i commentatori più favorevoli all’universalità di Edipo
riconoscono tuttavia che nelle società primitive non si trova alcuno dei
meccanismi, alcuno degli atteggiamenti che lo ingenerano nella nostra
società. Nessun superego, nessuna colpa»[16].
Perché Edipo è capitalista? Ricordando
il binomio gramsciano si potrebbe semplificare dicendo che nella storia
la coercizione viene inventata prima del consenso. Se lo stato dispotico
manteneva l’ordine attraverso il terrore (una sorta di fascismo
perenne), lo stato capitalista non si serve del terrore se non in
condizioni particolari. Esso, come sistema, tuttavia sussiste grazie ad
una repressione sublimata, interiorizzata. Edipo è appunto il despota
dell’inconscio, colui che irreggimentando il desiderio alla fonte,
assicura un quieto vivere sociale prima di tutto, cioè senza necessità
di repressione attiva a posteriori, salvo eccezioni. Con Edipo la
coercizione diventa preventiva, spostando la repressione dalla sfera
fisica a quella psichica. Qui la repressione è automatica esattamente
come con il capitalismo lo stesso prelievo di plusvalore diviene
automatico senza più necessità di estorsione violenta. Questa
castrazione dell’inconscio avviene attraverso ciò che i due francesi,
chiamano il meccanismo di rimozione-repressione.
«La repressione non si esercita sul desiderio, e non solo su bisogni ed
interessi, se non attraverso la rimozione sessuale. La famiglia è
appunto l’agente delegato di questa rimozione, in quanto assicura una
«riproduzione psicologica di massa del sistema economico di una
società»»[17].
«La rimozione si distingue dalla repressione per il carattere inconscio
dell’operazione e del suo risultato («anche l’inibizione della rivolta è
diventata inconscia») […] la rimozione propriamente detta è un mezzo al
servizio della repressione»[18].
Ecco la relazione fra macchina sociale
e macchina inconscia: per poter funzionare la prima è necessario inibire
la seconda. Per questo motivo non si può parlare di desiderio in
assoluto, ma solo in termini concreti e perciò storici. Il desiderio
assume le forme storiche che la società gli consente e non quelle che
avrebbe naturalmente se gli fosse consentito di sussistere allo stato o
al regime suo proprio, nel qual caso sarebbe il desiderio a plasmare le
forme sociali e non viceversa. C’è una storia del desiderio, allo stesso
modo di come c’è una storia delle società e della civiltà. La forma del
desiderio nella società capitalista è quella edipizzata, vale a dire
quella di un desiderio rimosso dai suoi oggetti e ripiegato su idee e
rappresentazioni di tali oggetti. Non più oggetti e organi parziali, ma
rappresentazioni concluse e familistiche di tali oggetti, sue
idealizzazioni astratte.
Se nei primi mesi di vita il desiderio
è libero ed indifferenziato, privo di direzione precisa e quindi
potenzialmente rivolto a tutto ciò che lo circonda, non è più così alla
fine del ciclo di crescita, quando assume forme specifiche e tipiche,
definendosi secondo schemi socialmente accettabili, ma per questo stesso
motivo castranti.
Il bambino non conosce vergogna e colpa
proprio durante la sua completa innocenza che esiste prima della sua
educazione e non più dopo. È l’educazione, che è sempre impartizione di
regole sociali, a rimuovere l’innocenza originaria per sostituirla con
la vergogna della colpa. La società capitalista non è più religiosa
perché ha già interiorizzato il senso di colpa.
«È possibile che la psicanalisi riprenda così un vecchio tentativo di
abbassare, di avvilire, di renderci colpevoli? […] allora, invece di
partecipare ad un’impresa di liberazione effettiva, la psicanalisi
prende parte all’opera di repressione borghese più generale, quella che
consiste nel mantenere l’umanità europea sotto il giogo papà-mamma e nel
non finirla mai con quel problema»[19].
«Ma rendere la religione inconscia o rendere l’inconscio religioso, è
sempre iniettare religiosità nell’inconscio (e cosa sarebbe l’analisi
freudiana senza i famosi sentimenti di colpa attribuiti all’inconscio?)»[20].
Edipo tiranneggia l’inconscio
attraverso il senso di colpa che gli infonde, ma la colpa di cosa? La
colpa di esistere, di vivere e desiderare di vivere.
«Curiosa l’avventura della psicanalisi. Essa dovrebbe essere un canto di
vita, pena il non valere nulla. Praticamente essa dovrebbe insegnarci a
cantare la vita. Ed ecco invece emanare da essa il più triste canto di
morte, […]»[21].
«La psicanalisi diventa la formazione di un nuovo tipo di preti,
animatori della cattiva coscienza: si è malati di essa, ma anche grazie
ad essa bisognerà guarire»[22].
«Freud ha compiuto la scoperta più profonda dell’essenza soggettiva del
desiderio, come
Ma perché il desiderio deve essere
rimosso?
«il desiderio è rimosso proprio perché ogni posizione di desiderio, per
quanto piccola, ha di che mettere in causa l’ordine stabilito di una
società: non che il desiderio sia asociale, al contrario […]. Nessuna
società può sopportare una posizione di desiderio vero senza che le sue
strutture di sfruttamento, d’asservimento, di gerarchia vengano
compromesse […]. È dunque d’importanza vitale per una società reprimere
il desiderio, anzi trovare di meglio della repressione, perché la
repressione, la gerarchia, lo sfruttamento, l’asservimento siano essi
stessi desiderati. […] Il desiderio non minaccia una società perché è
desiderio di andare a letto con la madre, ma perché è rivoluzionario
[…]. Il desiderio non «vuole» la rivoluzione, è rivoluzionario da sé e
involontariamente, volendo ciò che vuole»[24].
Il desiderio non desidera l’incesto,
non gliene può fregare di meno, semmai si perverte incestuosamente dopo
essere stato rimosso dai suoi oggetti naturali e costretto a ripiegarsi
sulla famiglia come figura che rappresenta fittiziamente gli oggetti del
desiderio senza esserli.
«un bambino non gioca solo a papà-mamma. Gioca anche allo stregone, al
cowboy, al guardone e al ladro, […] il treno non è necessariamente papà
e la stazione la mamma»[25].
Se non volesse la famiglia esso la
distruggerebbe ovviamente e qui sta il problema. La famiglia come
cellula sociale elementare, intanto persiste in questo suo ruolo
fondamentale perché è desiderata (imposta al desiderio).
Paralogismi freudiani
«Ora l’argomento freudiano ha di che lasciar trasecolati: Freud riprende
un’osservazione di Frazer secondo cui «la legge non proibisce che ciò
che gli uomini sarebbero capaci di fare sotto la pressione di alcuni
loro istinti; così sulla proibizione legale dell’incesto dobbiamo
concludere che esiste un istinto naturale che ci spinge all’incesto». In
altre parole ci si dice che è proibito perché è desiderato (non ci
sarebbe bisogno di interdire quel che non si desidera) […]»[26].
«Capita infatti che la legge proibisca qualcosa di perfettamente
fittizio nell’ordine del desiderio o degli «istinti», per insinuare nei
suoi soggetti la persuasione che avevano l’intenzione corrispondente a
questa finzione. È anzi questo il solo modo, per la legge, per far presa
sull’intenzione e per colpevolizzare l’inconscio»[27].
Ma tutto ciò è pura costruzione
rispetto alla vera natura del desiderio e probabilmente Freud lo sapeva,
per questo reagiva male all’innocente battuta di Jung, quando questi
diceva che
«Edipo non doveva avere un’esistenza
ben reale dal momento che anche il selvaggio preferisce una donna
giovane e graziosa a sua madre o a sua nonna»[28].
È tutta la formulazione del complesso
di Edipo, però, a presentare punti di ridicolaggine imbarazzante come lo
stesso «istinto di morte». Al di là del fatto che esso è in
contraddizione con il concetto di sessualità come motore della vita
sostenuto da Freud stesso, viene proprio da chiedersi perché se l’uomo è
guidato da un istinto di morte continui tuttavia a mangiare tre volte al
giorno. E poi Edipo era un maschio, il che basterebbe da sé a
relativizzare tutta l’impalcatura freudiana che non sa concepire
l’essenza femminile se non in termini di mancanza maschile. Tutto ciò è
incredibilmente ridicolo. Freud pretende di spiegare l’inconscio umano a
partire da un unico punto di vista: il suo. E poi banalmente, Edipo è
andato a letto con sua madre ed ha ucciso suo padre, ma non sapeva che
si trattava dei suoi genitori. Questa incoscienza di Edipo non può
essere indifferente nella costruzione di una teoria che universalizza
l’idea di un desiderio originario incestuoso. Edipo non sapeva ma è
colpevole lo stesso. La sua (nostra) colpa è dunque innata, originaria.
Del resto non è indifferente neanche che si desuma il modello del
desiderio da un mito greco, che è espressione di una cultura precisa:
quella occidentale; e di una formazione precisa: quella borghese di
Freud. Si ha ragione di credere che in altre condizioni
storico-culturali, anche la stessa idealizzazione dell’inconscio avrebbe
avuto forme diverse da quelle edipiche. Edipo potrebbe avere un altro
nome. Non che questa idealizzazione non presenti elementi di verità
relativa, nelle condizioni storiche capitalistiche. Come negare in
effetti da un lato l’esistenza di un istinto di morte per la borghesia
come classe, ostaggio essa stessa del suo capitale? Ed ancora, una sua
incestuosità di classe, data la sua volontà di preservarsi caparbiamente
come unica classe dominante? Oppure la sua paura ossessiva dell’altro,
in quanto non appartenente al suo gruppo, che per la borghesia è anche
un gruppo di classe?
L’Io di gruppo
In effetti Edipo è sostanzialmente una
dinamica di gruppo, un gregarismo artificioso, una personalità artefatta
che l’inconscio veste, visto che significa soprattutto quanto segue.
Disgiunzione del desiderio
dal flusso indifferenziato di oggetti parziali che popolano il mondo al
fine dell’assegnazione di un’identità sessuale fittizia legata ad un
preciso ruolo sociale. Non si può desiderare tutto, ma si deve
desiderare il proprio ruolo familiare (padre, madre) e per esteso tutte
le implicazioni sociali dell’essere padre o madre e non altro. Si
fabbrica un’identità al proprio inconscio (maschio, femmina e tutte le
funzioni correlate). Mediante la disgiunzione del desiderio il soggetto
viene inscritto nel corpo sociale con un suo ruolo definito.
Congiunzione del soggetto
disgiunto all’insieme degli altri soggetti disgiunti. Dal momento
dell’assegnazione di un ruolo sociale il soggetto fa parte di un gruppo
con lo stesso ruolo. Tutti condividono cameratescamente la propria
condizione. In questo modo si forma il sentimento di appartenenza ad un
gruppo, ad una missione, ad una nazione. Questa appartenenza di gruppo
non è determinata da differenze di classe, tutte le classi devono
sentirsi partecipi della grande impresa nazionale di produzione del
capitale. Tutti appartengono al gruppo loro riservato socialmente.
L’inconscio edipico è costitutivamente razzista.
Connessione del desiderio
del soggetto non al mondo di oggetti parziali indistinti, ma ad oggetti
parziali precisi e ben definiti, familiarizzati (del coniuge) in
funzione strettamente procreativa e allo stesso tempo sociale. Il corpo
sociale rigenera se stesso mediante questi passaggi di stato del
desiderio che alla fine non è più desiderio libero, ma desiderio
irreggimentato, edipizzato e alienato.
Sono queste le condizioni sociali in
cui, con risultati anche differenti e infinite sfumature, l’inconscio
individuale è costretto a dibattersi fra sue pulsioni naturali, che non
guardano in faccia a nessuno (al cuor non si comanda) e sue pulsioni
consentite, restringendo progressivamente le proprie «aspirazioni»
desideranti. Per questo motivo da un lato esso (il desiderio) vive
nell’impalcatura ufficiale da ragazzo morigerato, dall’altro si perverte
all’inverosimile nello sporco segretuccio che conduce per proprio conto
fuori dalla sua vita ufficiale. Dottor Jekyll e mister Hyde sono il
modello della psiche scissa capitalistica, consumata nella propria
schizofrenia esistenziale. Desiderio a-edipico e vita, d’altra parte,
non possono andare d’accordo senza rovinare questa società.
Stratificazione della coscienza e sesso
politico
L’introduzione dell’analisi
dell’inconscio nel discorso circa il comportamento sociale dell’uomo,
non è un servizio di semplificazione reso al quadro della coscienza.
Dover considerare questi aspetti complica parecchio le cose, dato che
potendosi creare una contraddizione fra comportamento concreto dei
gruppi e propri interessi oggettivi, diventa più difficile ragionare
solo in termini di interessi di classe. Non c’è più solo la coscienza,
ma una sua possibile opposizione con l’inconscio.
«È comprensibile dunque che un gruppo possa essere rivoluzionario dal
punto di vista dell’interesse di classe e dei suoi investimenti
preconsci, ma non esserlo, e rimanere anzi fascista e poliziesco, dal
punto di vista dei suoi interessi libidinali. Interessi preconsci
realmente rivoluzionari non implicano necessariamente investimenti
inconsci della stessa natura, un apparato di interesse non vale mai in
quanto macchina di desiderio»[29].
Non si negano le influenze degli
interessi di classe, ma si nota come essi possano fare presa sul
«preconscio» senza coinvolgere l’inconscio e procedere scollegate,
producendo sorprese inaspettate e un divenire continuo delle identità di
gruppo, le quali possono tramutarsi nei loro opposti lungo il cammino.
Questo problema è probabilmente alla radice dei numerosissimi tradimenti
degli interessi di classe del proletariato storico. Non siamo nuovi a
storie che cominciano bene per finire molto male. Ma è anche la scoperta
che non basta realizzare interessi di classe (quali essi siano) per
ottenere una inversione del rapporto attuale di asservimento fra società
e desiderio. Potrebbe benissimo darsi che in un quadro dominato da
interessi di classe diversi dagli attuali, la produzione desiderante
resti schiacciata ed asservita alla macchina sociale, senza essere in
grado invece di plasmarla. Infatti:
«Un investimento inconscio di tipo fascista, o reazionario, può
coesistere con l’investimento conscio rivoluzionario»[30].
Il che può significare con le parole di
Foucault:
«[…] si possano d’altronde perfettamente concepire delle rivoluzioni che
lascino per l’essenziale intatte le relazioni di potere che avevano
permesso allo Stato di funzionare»[31].
Quello che d’altra parte c’è di
positivo è che in questo quadro caotico nulla è fisso e l’inconscio
stesso può oscillare fra due suoi poli estremi (reazionario e
rivoluzionario) con varie sfumature e assumendo anche un assetto
stabile. Edipo può saltare, perché sono le stesse sue condizioni a
saltare. Non è detto che l’inconscio reagisca sempre positivamente alla
propria edipizzazione, non sempre accetta di essere «uno dei nostri» a
volte rifiuta il gregarismo dominante per sposare le cause perse. Spesso
tifiamo le squadre più deboli, sperando appassionatamente nella loro
vittoria. Spesso definiamo «istinto di classe» questa immedesimazione
con l’altro o qualsiasi comprensione immediata di processi
apparentemente complessi. Se l’inconscio non oscillasse fra poli, non
esisterebbe traccia della schizofrenia, l’uomo non conoscerebbe
scissione della propria personalità, ognuno sarebbe al suo posto nel
proprio ruolo senza desiderare altro. Tutto filerebbe liscio come
l’olio. Invece c’è da rallegrarsi: Edipo non attecchisce sempre, esiste
un polo rivoluzionario irriducibile dell’inconscio dal quale poter
sempre ripartire. In questo senso la schizofrenia è indice di
possibilità rivoluzionarie, in quanto indice del cattivo funzionamento
di Edipo nei soggetti. Ne consegue che anche quando le scelte politiche
non sono razionalizzate coscientemente, non è detto che ciò significhi
che si ha a che fare con soggetti «reazionari». In una società in cui la
coscienza è disgregata in mille modi, spesso gli indirizzi inconsci sono
più avanzati della coscienza politica e possono ritrovarsi sparsi, fuori
casa, in diversi schieramenti politici. Rispetto a questo problema c’è
bisogno di un atteggiamento più inclusivo di quello che sembrerebbe
permesso in base ad una razionale valutazione «ideologica» delle
posizioni espresse dai vari soggetti. Da questo punto di vista la
separazione a sinistra (il settarismo) è un’ingiustificata tirannia
dell’ideologia e un frutto marcio di un’esasperata dinamica di gruppo,
del tutto edipica, all’interno delle classi subordinate. L’ideologia è
il principale agente di formazione di gruppi, e perciò di separazione,
soprattutto a sinistra.
Castrazione e potere
Se questa è la reale meccanica del desiderio, è evidente che l’inconscio
in quanto naturale habitat del desiderio, segua leggi sue proprie che
nulla hanno a che vedere, col mantenimento dell’ordine sociale.
L’inconscio se ne infischia dell’ordine sociale, della famiglia,
dell’amore, del rispetto. Non ha morale, perché l’inconscio non pensa,
non ha concetto, in compenso fornisce energia per agire e far muovere la
società in cui alberga, senza cessare mai di produrre, senza fermarsi
mai. Va per i fatti suoi. Si capisce bene che tutto ciò è altamente
sconveniente per una classe dominante, ma anche per qualsiasi gruppo
dominante. Ogni gruppo di dominio ha bisogno di Edipo, di castrare
l’inconscio. Ogni società di gruppi (separata) ha bisogno della
famiglia. Dove c’è muffa, c’è acqua. Dove c’è famiglia c’è autorità. In
Unione Sovietica, da un certo punto in poi la famiglia ha riacquistato
la centralità perduta con
Se potere e desiderio non vanno
propriamente d’accordo, potere e desiderio castrato sembrano fatti l’uno
per l’altro. Aberrazioni del desiderio e aberrazioni sociali sono un
tutt’uno. Se la libido non può procreare una società libera, sarà la
società a fabbricare il suo modello di desiderio, ad imbrigliare
quest’energia e deviarla sui binari morti sui quali farla muovere, visto
che non si può fermarla. Allora tutto si trasforma nel suo opposto,
tutto si perverte. Potrebbe darsi, come crede chi scrive, che la
pervasività della sessualità, costretta in forme molto lontane, in
macchine desideranti anche molto strane, formi un tutt’uno con la
pervasività dei poteri di cui parla Foucault. Entrambi sono dappertutto,
forse perché in definitiva si parla della stessa cosa.
Foucault a proposito del potere dice
che:
«Porre il problema in termini di Stato
è ancora porlo in termini di sovrano e di sovranità ed in termini di
legge. Descrivere tutti questi fenomeni di potere in funzione
dell’apparato di Stato, è porli essenzialmente in termini di funzione
repressiva, […]. Non voglio dire che lo Stato non sia importante; quel
che voglio dire è che i rapporti di potere e di conseguenza l’analisi
che se ne deve fare deve andare al di là del quadro dello Stato. Deve
farlo in due sensi: innanzitutto perché lo Stato, […] è ben lungi dal
ricoprire tutto il campo reale dei rapporti di potere; e poi perché lo
Stato non può funzionare che sulla base di relazioni di potere
preesistenti. Lo Stato è sovrastrutturale in rapporto a tutta una serie
di reti di potere che passano attraverso i corpi, la sessualità, la
famiglia, gli atteggiamenti, i saperi, le tecniche, ecc.»[32].
Le reti di potere sulle quali si fonda
il potere istituzionalizzato si trovano a tutti i livelli, ovunque.
Ciò è vero anche per la sessualità, per
tutta la scuola di pensiero discendente dalla scoperta di Freud circa la
libido. Deleuze-Guattari, a proposito della sessualità dicono:«In
realtà, la sessualità è ovunque: nel modo in cui un burocrate accarezza
i suoi incartamenti, un giudice amministra la giustizia, un uomo
d’affari fa scorrere il danaro, la borghesia incula il proletariato,
ecc. E non occorre passare per metafore, più di quanto la libido non
debba passare per metamorfosi»[33].
Se si parla di potere si finisce a
parlare di reti di corpi, al contrario se si parla di sessualità si
finisce a parlare di reti di poteri.
«Va innanzitutto scartata una
tesi molto diffusa secondo la quale il potere nelle nostre società
borghesi e capitalistiche avrebbe negato la realtà del corpo a profitto
dell’anima, della coscienza, dell’idealità. In realtà, nulla è più
materiale, nulla è più fisico, più corporeo dell’esercizio del potere…»[34].
Desiderio represso-perverso ed
esercizio di potere a tutti i livelli sono complementari. Sesso e potere
sono, nella società capitalistica, mossi dalla medesima energia, tanto
che le forme del sesso capitalista sono, o almeno appaiono, troppo
spesso in qualche modo debitrici al rapporto di sottomissione dell’altro
e all’altro (una sorta di sado-masochismo latente), tanto da spostare
sensibilmente l’accento dal «fine relazionale» (M. Klein) al «fine
masturbatorio» dell’appagamento di sé (Freud). Se il mantenimento
dell’ordine sociale richiede la restrizione ed il ripiegamento della
libido in cellule ristrette del tipo «coppia», «famiglia», «persone»,
«oggetti», dall’altro lato esso deve offrire valvole di sfogo a questa
libido imbrigliata, canalizzandola in funzione dello stesso fine
generale. Così ad ognuno la sua fetta di potere, ad ognuno una sua
nicchia di autorità, a ciascuno la sua scappatella, piccole concessioni.
Ecco come un potere esercitato ad ogni livello, e un sentimento gregario
di far parte, anche se a livelli differenti, della stessa macchina
sociale, costituisce un sistema di potere, volto a perpetrare la realtà
data. Ognuno può accettare e persino desiderare la propria
sottomissione, in quanto egli stesso avrà riservati i suoi propri
angolucci in cui potrà giocare al despota, edipizzando qualcuno più
debole di lui, al limite la propria prole. La vera nemesi per le classi
subalterne è proprio quella di edipizzare la propria prole al fine di
mantenere l’ordine sociale che non permette loro nessuna libertà:
infondere il senso del dovere; un sentimento molto più forte nella
classe lavoratrice, che in quella dominante. Così il potere non è, con
Foucault, solo lo Stato, ma ogni struttura o esercizio dello stesso che
si genera ad ogni livello e fondato direttamente sulla libido. Il potere
moderno mette le mani nella psiche dell’individuo, penetra nell’intimo,
vuole l’anima.
Tutto ciò ha poco a che vedere con una
sorta di «giustizia sociale». Questi rapporti di potere non sono fondati
su concetti, ma su meccanismi inconsci molto bene incastrati tra loro e
ben trasfigurati dalla morale. Nessuno chiamerà le cose con il loro
nome, nessuno dirà che la ricerca di potere è lo sfogo di una sessualità
repressa, ma tutti sosterranno invece che il potere è necessaria
amministrazione della società, mentre è il desiderio in sé ad essere
cattivo (peccato originale) per cui la sua repressione è in fin dei
conti necessaria alla civiltà (Freud). Ed ecco che edipizzare diventa
«morale», per cui le perversioni non sono il prodotto della rimozione
sessuale, ma laddove si manifestano sono il risultato di «malattia», che
si sa colpisce taluni più sfortunati di tali altri, così è.. e giù a
manganellare il mondo con un Grande Fallo.
Lavoro e desiderio
La colpa è originaria. L’espiazione è
eterna. Bisogna espiare, sacrificarsi, lavorare. Troppo spesso per dire
bene di un uomo si usa definirlo «un gran lavoratore». Il senso del
dovere per eccellenza è il lavoro. Nessuno osa ritenere che il proprio
diritto alla vita possa essere in qualche modo estraneo al dovere di
avere un ruolo definito nella macchina sociale. Tuttavia molti doveri
lavorativi sono relativi a ruoli inutili, ma questo passa sempre più
spesso in secondo piano rispetto all’esistenza di una qualche figura
lavorativa riconosciuta. Il dovere viene prima della sua necessità e si
giustifica da sé. Questa è una morale del lavoro fine a se stesso, per
la quale gli improduttivi provano disagio per la propria condizione, a
causa dell’onta di una mancanza di ruolo in una società dei ruoli.
L’essenza della società capitalistica è
quella di produrre continuamente separazione, di scindere ogni funzione,
catalogando e classificando. Questa separazione strutturale è la radice
di ogni alienazione. Il campo della produzione materiale, quello del
lavoro, è l’ambito in cui tale alienazione è più evidente. Tuttavia è
invalso l’uso di considerare come alienanti solo talune specie di
lavoro, per cui sembra che il problema sia di alcuni lavoratori, senza
considerare che esso riguarda, allo stesso tempo il campo del desiderio
stesso. Se il lavoro è alienato dal desiderio, anche il desiderio
risulterà separato dal lavoro.
Così se un desiderio represso canalizza
libido verso macchine piccole e grandi di potere, tale energia è
sottratta ad altri ambiti di applicazione.
«L’identità tra lavoro e desiderio rappresenta piuttosto, non tanto un
mito, ma l’utopia attiva per eccellenza che designa il limite del
capitalismo da superare nella produzione desiderante. Ma perché,
appunto, la produzione desiderante si trova al limite sempre contrastato
del capitalismo? Perché il capitalismo, nello stesso tempo in cui scopre
l’essenza oggettiva del desiderio e del lavoro - essenza comune in
quanto attività di produzione in generale - non cessa di alienarla di
nuovo, e ben presto, in una macchina repressiva che separa in due
l’essenza, e la mantiene separata, lavoro astratto da una parte,
desiderio astratto dall’altra: economia politica e psicanalisi, economia
politica ed economia libidinale. Qui appunto possiamo valutare tutta
l’ampiezza dell’appartenenza della psicanalisi al capitalismo»[35].
Nella società capitalista lavoro e desiderio non potranno mai avere un
medesimo campo di applicazione, per questo il lavoro sarà sempre e solo
un dovere, mentre il piacere albergherà perennemente altrove, per questo
deve esistere una morale del lavoro per il lavoro e specularmente una
continua propaganda sui modi di divertirsi alla moda, che denuncia la
completa artificiosità del divertimento borghese. Alcune classi saranno
condannate ad un lavoro alienante, altre ad un piacere alienato. Questa
è la realtà dei fatti, al di là di tutte le manfrine sul lavoro come
realizzazione dell’uomo e quelle parallele sul piacere di un benessere
economico. Questo lavoro e questo piacere non realizzano proprio
nessuno. Un piacere alienato, come un puro rovescio di medaglia, è tutto
ciò che non ha a che fare con il dovere, tutto ciò che si ottiene senza
lavoro, sulle spalle di altri. Pura anti-produzione. L’uomo
arrivato è solo colui che
vive a sbafo, e che per un certo periodo della sua vita può prelevare
flussi di denaro e potere senza rendere conto ad Edipo. Ogni «uomo
arrivato» è sempre tale solo momentaneamente, per cui in realtà non si
arriva da nessuna parte. Da qui l’ammirazione di massa per il giovane
narciso in Porsche, a cui tutto sembra permesso. Ma è proprio il
godimento a mancare ad essere vuoto, costruito artificialmente su miti
borghesi, in funzione di una produttività fine a se stessa, al di là
persino agli interessi personali del capitalista rincoglionito nel suo
astratto vizio accumulatorio.
Non c'è un'attività che realizza
l'uomo, tutte le attività realizzano solo capitale, ecco perché il
Capitale diventa una entità morta che succhia sangue ai vivi.
«Il capitale è lavoro morto che, simile al vampiro, si anima solo
succhiando il lavoro vivente, e la sua vita è tanto più allegra quanto
più pompa»[36].
E questo al di là della condizione di
classe dei viventi.
«Non c’è più nessun padrone; solo degli schiavi, ora, comandano agli
schiavi e non c’è bisogno di caricare l’animale dall’esterno, dato che
si carica da sé. Non che l’uomo sia mai schiavo della macchina tecnica;
ma schiavo della macchina sociale sì e il borghese ne dà l’esempio, il
borghese che assorbe il plusvalore a fini che, nel loro insieme, non
hanno nulla a che vedere col suo godimento: più schiavo dell’ultimo
degli schiavi, primo servo della macchina affamata, bestia da
riproduzione del capitale […]. Il capitalista è rispettabile solo in
quanto è il capitale fatto uomo»[37].
Il capitale diventa pura astrazione, fine esterno alle necessità umane,
in nome del quale tutto si muove. Il Capitale destituisce
Il concetto di classe resta valido a
tutti gli effetti ma dato che tutte le classi soffrono di un inconscio
edipizzato, il problema della liberazione dell’inconscio dalla sua forma
edipizzata è un problema insolubile per la borghesia, dato che questo
cozza inevitabilmente con la sua esistenza in quanto classe privilegiata
(il privilegio della sopraffazione), mentre così non è per le classi
subalterne, le sole che per liberarsi dalla sottomissione economica
possono anche, e proprio per questo, eliminare l’idea stessa di una vita
economizzata. Se il lavoro nell'era capitalistica è sottomissione
all'accumulazione astratta, non può essere il fine della lotta. I
lavoratori non si liberano lavorando, perché non si può realizzare la
propria personalità mediante una remunerazione economica, qualsiasi essa
sia. Bisogna finirla con il mito del lavoro come realizzazione
dell'uomo. Un lavoro non alienante non può esistere in presenza
dell'accumulazione capitalistica. Bisogna finirla, di riflesso, con
l’illusione che possa esistere una lotta solo economica, sindacalista.
Una tale lotta è in partenza completamente inscrivibile in una morale
del lavoro.
Uccidere Edipo
Pare, per questo, evidente che l’uomo
non abbia ancora imparato a vivere, non sappia come liberare il
desiderio. Il percorso storico dell’edipizzazione dell’inconscio
rappresenta in blocco una pura preistoria del desiderio. Ed è la stessa
«sinistra» ad essere completamente presa e persa in un economicismo
cieco, in una morale del lavoro come fine anziché come mezzo, più ottusa
dei padroni nella rincorsa del lavoro, nella trasformazione del diritto
all’esistenza in un diritto a lavorare. Ed allora qualsiasi condizione
va bene pur di lavorare, ogni ricatto padronale è accettabile se serve a
mantenere i posti di lavoro e così si finisce a lottare per il lavoro.
Si lotta cioè per continuare a farsi sfruttare. In questa strana storia
il sindacato rende conto unicamente della sua capacità di monetizzazione
dello sfruttamento, della sua capacità di ottenere qualche spicciolo in
più in cambio di condizioni di lavoro peggiori, mentre i partiti di
rappresentanza del «mondo del lavoro» sognano semplicemente una
disoccupazione minore, ma tutti si inchinano di fronte alla necessità di
una qualsivoglia produzione. E a nessuno pare che ciò sia sbagliato da
cima a fondo, nessuno sembra voler notare che la tendenza generale è
sempre e solo: più sacrifici. Se le classi più svantaggiate sognano un
lavoro, le nuove aristocrazie operaie costituite da proletari laureati
sulle spalle della generazione lavoratrice precedente, sognano la
carriera, disposti a rinunciare a tutto pur di sentirsi «arrivati», per
arrivare alla fine troppo lontani da sé stessi, dalla possibilità di
avere una vita in cui sia contemplato un normale godimento dei frutti
economici della propria carriera, costretti in un celibato infinito come
continuo sacrificio alle ragioni di una qualche azienda importante. I
laureati di estrazione proletaria possono in questo essere più ambiziosi
dei «figli di papà».
È dunque l'economicismo del fine che va
superato. Ci si commuove per la sorte dei minatori cileni intrappolati a
700 m sottoterra, ma è la domanda sul cosa ci facevano degli uomini
intrappolati come topi a quella profondità a dover essere promossa a
vero problema. È l'esistenza di un lavoro come il minatore d’oro nel
2010 che deve inquietare le coscienze. Cosa cerca l'uomo lì sotto, cosa
pensa di trovare al buio che non può trovare alla luce? Chi se ne fotte
dell’oro! Un sindacato dei minatori non dovrebbe rendere più
remunerativa la paga del minatore, ma mirare alla dismissione completa
del lavoro in miniera e per esteso di tutte le mansioni prive di utilità
sociale e avvilenti per la vita. Ma, si dirà, come è possibile questo
senza minare la possibilità di sopravvivenza economica stessa dei
minatori? Ma ancora di più sembrerà assurdo sostenere che
un’organizzazione come il sindacato, ormai riconosciuta, lavori alla
propria estinzione, disposta da sé a perdere la propria nicchia di
autorità. Il problema, ci sentiamo di suggerire, è che il sindacato è un
soggetto terzo rispetto alla propria referenza sociale, e tale problema
non ci pare limitato alle sole organizzazioni sindacali, in una società
dei ruoli (professionali). Così il sindacalista non rischia il proprio
posto di lavoro, o la propria vita, quando accetta arretramenti per i
suoi rappresentati, pur di salvaguardare la loro paga. La sua posizione
resta riconosciuta anche nell’inutilità dei suoi effetti concreti.
D’altra parte, anche lui, come tutti i professionisti svolge quel ruolo
per campare, dunque accetta la propria mansione come un fine in sé,
piuttosto che come un mezzo per ottenere risultati per gli altri. Ecco
la contraddizione insanabile di un lavoro per la sopravvivenza, ecco il
proliferare delle deontologie professionali, delle etiche di
comportamento che sempre più spesso esistono solo di nome, ma che con la
loro esistenza denunciano la mancanza di motivazione sociale delle
professioni alienate.
Questa finalità di «sopravvivenza» non
va intesa in termini solo di sussistenza, questo vale per le classi
condannate a lavori pesanti e mal retribuiti, ma soprattutto in termini,
più larghi, di corrispondenza con un ruolo sociale definito e
totalizzante che fornisce l’identità di cui tutti sentono il bisogno, e
per ogni tipo di lavoro, anche quello di livello dirigente. È tutto un
tirare a campare visto che quando si guadagna più del necessario, il
surplus economico non si trasforma mai in più tempo di vita a
disposizione. Né la tecnologia crescente ha questo effetto. Si può
guadagnare diverse volte in più di un operaio, ma non si avrà mai
l’equivalente di tempo in più per godersi la fortunata condizione. Tutto
è corrotto dalla morale del principio economico, tutto il tempo è
sacrificato. Per inciso non è un problema di riduzione della produzione,
ma di una diversa finalizzazione e conseguente riconversione della
produzione.
Autorità e rappresentazione
Ma quali sono i sintomi visibili
dell’edipizzazione dei processi sociali?
Se la scissione fra economia e vita è alla base dell’economizzazione
completa della realtà e a scapito del vissuto quotidiano, altre forme
concettuali fortemente radicate in tutti gli ambienti politici sono il
risultato di Edipo. Edipo come rappresentazione dell’inconscio è una
mistificazione della sua natura oggettiva, allo stesso modo in cui nella
società dello spettacolo la rappresentazione si sostituisce alla realtà
travisando i fatti. Edipo come tiranno dell’inconscio impone un codice
di comportamento, una disciplina esistenziale in nome dell’autorità del
capitale. Autorità e rappresentazione sono agenti di separazione,
completamente operanti a destra come a sinistra. Non esiste a tutt’oggi
una struttura di critica politica alla società contemporanea, che non
sia essa stessa completamente interna a logiche di autorità e
rappresentazione. Ogni volta che un’organizzazione politica di sinistra
prende corpo e cresce ripropone al suo interno separazione
tendenzialmente fissa fra
rappresentanti e rappresentati, giustificando tale separazione come
necessaria e legittimata dall’autorità politica conquistata dai
rappresentanti, con l’unico risultato di edipizzare la massa di
militanti e rinviare in sostanza l’estinzione dei poteri, anzi
generandone degli altri. Ogni separazione rigenera poteri, gerarchie e
«dirigenti», siano essi politici o di altra natura. Di fronte
all’emergere di simili processi degenerativi, come istituzionalizzazione
dei movimenti, la razionalità della coscienza subisce uno scacco.
Nessuna argomento razionale può essere sostenuto in favore di una
qualsiasi separazione definitiva fra massa e sua rappresentanza, eppure
ciò è possibile, perché è la massa stessa a consentirlo, a desiderarlo e
a ritenere che sia, in sostanza, giusto. Come si può fare altrimenti? Il
problema è che non siamo proprio capaci di pensare a modi organizzativi
dell’attività umana che non siano risolti in gerarchia e rappresentanza.
Di fronte a questi pregiudizi, in definitiva irrazionali, non c’è
generalmente argomento che tenga. La ragione è in scacco rispetto alle
convinzioni intime sulla natura dell’uomo. In un dibattito pubblico non
si accetta mai la prova della ragione, ma sempre solo l’autorità di chi
esprime un’opinione. Ecco perché l’autorità non è altro che il diritto
di sparare cazzate senza colpo ferire. Si possono addurre ragionamenti
sopraffini ad ennesima riprova della bancarotta capitalistica, ed allo
stesso tempo assistere a discussioni circolari, in cui dopo ore di
polemica ognuno resta convinto come e più di prima delle «proprie»
opinioni. Questo perché nella stragrande maggioranza dei casi le
opinioni non sono frutto di ragionamento, ma frutto di simpatia
istintiva per questo o quel modello sociale evocato confusamente dalle
argomentazioni utilizzate e altrettanto confusamente difeso per partito
preso. Non che la ragione argomentativa non abbia ruolo politico, ma
essa è piuttosto strumento di operatori del settore. Le vere ragioni
sono per di più nascoste, mentre le opinioni comuni sono per di più
irragionevoli. La ragione ha un ruolo molto sopravvalutato nella
formazione delle opinioni in generale (è l’amore che ci guida), di cui
quelle politiche rappresentano solo un caso particolare. Per questo non
basta avere le idee migliori per avere ragione dei fatti. Per questo le
ideologie dominanti sopravvivono, malgrado l’evidenza storica della loro
fallacia. La ragione diviene «retorica».
Al momento attuale parrebbe che il
problema della sinistra politica del paese sia quello di tornare ad
avere un partito che rappresenti i lavoratori, mentre è evidente che
questo al contrario non sembra esaltare le masse. In effetti non è
interessante tornare ad avere partiti che in nome dei lavoratori servono
i padroni. Questa è pura ideologia dominante, pura morale. La sinistra
non ha bisogno di rappresentanza, né di autorità, al contrario ha
bisogno di distruggere qualsiasi meccanismo di mistificazione del reale,
qualsiasi separazione fra realtà e sua rappresentazione. Il prossimo
movimento rivoluzionario vittorioso sarà un movimento non
rappresentabile in nessun modo e perciò irriducibile, o non sarà.
Una sinistra anti-edipica
Allora è necessario riprendere dall'inizio, svincolare la lotta, in
generale, dall'economicismo della sopravvivenza e lottare per una
liberazione dal lavoro, per un rifiuto di questo lavoro alienante. Se
questo è il lavoro a noi non interessa. Se devo lottare per il lavoro,
voglio lottare direttamente per vivere, visto che sono costretto a
lottare. Non voglio più essere ricattabile, non voglio più provare
nessun senso del dovere. Per questo motivo la lotta alla Fiat di
Pomigliano sembra, contro tutti i moralizzatori (dai padroni al
sindacato, ad eccezione della
fiom), una lotta nuova, nei termini in cui si oppone al semplice
concetto, che pur di lavorare bisogna accettare qualsiasi nuova
condizione, il concetto paralogico che per andare avanti è necessario
tornare indietro. Perché è chiaro che su questa linea non ci sarà mai un
termine all'arretramento, ma solo una prospettiva compiutamente
neo-ottocentesca e totalmente edipica: devi lavorare se vuoi vivere,
devi accettare il tuo sacrificio, perché questa è solamente la tua
esistenza terrena, il tuo passaggio sfigato sulla terra.
Ecco allora che si manifesta la
necessità di un nuovo registro per la sinistra futura: il rifiuto totale
delle motivazioni dominanti, la messa in discussione delle premesse
stesse della produttività capitalistica. Chi se ne fotte del PIL! Prima
ancora di giungere ad un nuovo modo di concepire le modalità concrete
della produzione occorre rivoluzionare i modi in cui vengono stabiliti i
fini della produzione sociale. Solo un fine condiviso può diventare
impresa collettiva non alienante, un fine per l’uomo e non per
un’accumulazione astratta, solo un’attività valutata, discussa e decisa
in questa chiave da chi la svolge e non in sua vece da autorità
qualsiasi in sua rappresentanza, può essere in grado di legare desiderio
e produzione sociale a monte, piuttosto che subordinare il desiderio
alla produzione sociale a valle.
Ecco la necessità dunque di uscire da
quella che si configura sostanzialmente come una, seppur sacrosanta,
critica moralistica al capitalismo, per approdare ad una nuova visione
del mondo, capace di farsi oggetto del desiderio, capace di attirare a
sé la libido collettiva. Non più semplicemente requisitoria infinita
contro i mali e le contraddizioni, fin troppo evidenti, del sistema
attuale, ma attività visionaria capace di sfondare un inconscio ottuso e
ridargli gli attributi sequestratigli da Edipo, di ridestare i morti
viventi.
«[…] I rivoluzionari dimenticano spesso, o non riconoscono volentieri,
che si vuole e si fa la rivoluzione per desiderio, non per dovere. Qui
come altrove il concetto di ideologia è un concetto esecrabile che
nasconde i veri problemi, sempre relativi all’organizzazione»[38].
Il problema della società capitalista è
che si bruciano una catastrofe di energie per nulla. Quest’energia è
finalizzata male. Se la libido è energia pura, il motore del mondo
biologico, bisognerà in qualche modo permettere che quest’energia possa
liberarsi. Ma ciò è impossibile se il quotidiano sociale è
funzionalizzato interamente alla produzione di capitale e interamente
assorbito in essa. Per questo motivo sembra che l’urgenza più immediata,
come premessa stessa del poter immaginare un futuro, sia quella di
mettere all’ordine del giorno una lotta non più economica per la
sopravvivenza, ma una lotta per la liberazione del tempo sociale, in
grado di assicurare il resto (necessario) come sottoprodotto
dell’obiettivo principale. Questo perché qualsiasi discorso politico,
diventa inefficace agli occhi di una massa lavoratrice sfinita e
sfiancata da una produzione fine a se stessa e tanto più infinitamente
famelica. Non c’è più forza, prima che interesse, per la politica
separata dalla vita.
Non più soldi per più lavoro, ma meno lavoro e basta.. i soldi verranno,
la lotta economica è un sottoprodotto di quella politica. Una cosa
semplice, immediatamente intuibile, non materia per specialisti dei
conti in tasca. Un progresso delle condizioni di vita deve essere
misurato in tempo liberato non in moneta guadagnata. La moneta è una
misura relativa e un metro per padroni, il tempo una misura assoluta per
tutti. Il lavoro non dovrebbe avere nulla a che vedere con la sua
remunerazione, in nessun campo, solo così potrebbe anche essere un
lavoro onesto, senza necessità deontologiche. È l’esistenza in quanto
tale a fornire diritti alla persona, non la sua produttività. Solo una
mentalità da gesuita può far pensare che l’uomo lavori perché costretto
a farlo e che un mondo senza costrizioni sia un mondo di fannulloni che
va verso la propria fine, concetto che nella versione addolcita suona
così: «Meno male che il Padre
eterno ha inventato i soldi, così la gente pur di guadagnare si dà da
fare» (discussioni da bar).
In realtà è esattamente l’opposto. Non
è la moneta a muovere l’animo umano, il mondo non è nato capitalista.
Non voglio soldi, ma tanto tempo per passeggiare e creare.
Solo una sinistra nuova
anti-rappresentativa e anti-autoritaria, priva di agenti di separazione
e incapace di scindere un programma minimo da uno massimo, teoria e
pratica, fini e mezzi, base e direzione, una sinistra che sia io stesso,
potrà fare questo lavoro per me, invece di rigenerare continuamente
piccoli e grandi poteri alienanti e continuare a tenere sotto il giogo
del capitale il mio inconscio.
«Un gruppo soggetto, […], è quello i cui investimenti libidinali sono in
sé rivoluzionari; esso fa penetrare il desiderio nel campo sociale e
subordina il socius o la forma di partenza alla produzione desiderante;
produttore di desiderio e desiderio che produce, esso inventa formazioni
sempre mortali che scongiurano in esso la propagazione di un istinto di
morte; alle determinazioni simboliche di assoggettamento esso oppone
coefficienti reali di trasversalità, senza gerarchie o superego di
gruppo»[39].
[1]
«Per un’arte
rivoluzionaria indipendente» di André Breton e Lev Trotsky,
1938, in A. Schwarz,
Breton e Trotsky, storia di un’amicizia, edizioni Erre emme,
1997.
[2]
G. Deleuze, F. Guattari,
L'anti-Edipo. Capitalismo e schizofrenia. Einaudi, 2002,
pag. 32
[3]
Da W. Reich, Psicologia
di massa del fascismo, citato nell'Anti-Edipo a pag. 32
[4]
«Il grande merito di
Melanie Klein sta senza dubbio nell'accento posto sulla natura
relazionale della pulsione: Freud aveva sviluppato l'idea di una
pulsione prettamente «autoerotica», nella misura in cui
l'individuo si «serviva» dell'ambiente per ricevere piacere o
gratificazione. Per
[5]
G. Deleuze, F. Guattari,
L'anti-Edipo. Capitalismo e schizofrenia. Einaudi, 2002,
pagg. 49, 50.
[6]
Ibidem, pag. 47
[7]
Ibidem, pag. 49
[8]
Ibidem, pag. 341
[9]
Ibidem, pag. 26
[10]
Ibidem, pag. 156
[11]
Ibidem, pagg. 333, 334
[12]
Ibidem, pag. 333
[13]
Ibidem, pag. 396
[14]
Ibidem, pag. 65
[15]
Ibidem, pag. 68
[16]
Ibidem, pag. 159
[17]
Ibidem, pag. 132
[18]
Ibidem, pag. 133
[19]
Ibidem, pag. 53
[20]
Ibidem, pag. 61
[21]
Ibidem, pag. 379
[22]
Ibidem, pag. 380
[23]
Ibidem, pagg. 381, 382
[24]
Ibidem, pag. 129
[25]
Ibidem, pag. 49
[26]
Ibidem, pag. 126
[27]
Ibidem, pag. 127
[28]
Ibidem
[29]
Ibidem, pagg. 399, 400
[30]
Ibidem, pag. 116
[31]
M. Foucault, Microfisica
del potere,
«Intervista a Michel Foucault», Einaudi 1972, pag. 17
[32]
Ibidem, pag. 16
[33]
G. Deleuze, F. Guattari,
L'anti-Edipo. Capitalismo e schizofrenia. Einaudi, 2002,
pag. 333
[34]
M. Foucault, Microfisica
del potere, «Potere-corpo», pag 140. Einaudi 1972
[35]
G. Deleuze, F. Guattari,
L'anti-Edipo. Capitalismo e schizofrenia. Einaudi, 2002,
pagg. 344, 345
[36]
Ibidem, pag. 258
[37]
Ibidem, pag. 289
[38]
Ibidem, pag. 395
[39]
Ibidem, pag. 400