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01
Maggio 2010

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Senescenza (del) Capitale

 

Slavoj Žižek. La violenza invisibile

Francesco Palmeri

 

La violenza ci viene sbattuta continuamente addosso dai telegiornali, dalle notizie, dalle chiacchiere. Ma quello che riusciamo a percepire è solo uno dei suoi aspetti: esiste una violenza invisibile, potente e incomprensibile nell'immediato che regola e dirige la società. Si può dividere in due tipi: simbolico e sistemico. La violenza invisibile non può essere guardata dalla stessa prospettiva con cui si analizza quella visibile: bisogna mettere da parte l'impeto di intervenire, la sofferenza per le vittime, il disgusto per i carnefici e analizzarla di sbieco, da un taglio diverso.

Zizek è come sempre molto provocatore, e utilizza esempi tratti dalla filosofia, dall'attualità e dal cinema per fornire dei tagli sulla violenza invisibile.

 

Il primo bersaglio del saggio sono i «comunisti liberali», cioè quel gruppo di imprenditori che creano le condizioni per lo sfruttamento e si impegnano sinceramente e con mezzi enormi a combatterlo. Sono ovviamente i soliti noti: Gates, Soros, ad. di Google, dell'ibm ecc., insomma quelli che passano la metà del tempo a fare operazioni speculative e di mercato e l'altra metà a organizzare raccolte fondi per i paesi in via di sviluppo o per far fronte alle emergenze umanitarie. Le loro opere di carità non sono solo un capriccio: servono a ristabilire l'equilibrio dovuto alla distruzione provocata dal sistema in cui operano. «Oggi le figure esemplari del male non sono i consumatori ordinari che inquinano l'ambiente e vivono in un mondo violento di legami in disgregazione, ma coloro che mentre si dedicano a creare le condizioni di tale inquinamento e devastazione si comprano col denaro delle vie di fuga, vivendo in comunità recintate, mangiando cibo biologico, facendo le vacanze in riserve naturali e così via».

Molti aspetti della nostra vita non appaiono più contrassegnati ideologicamente: definiamo ideologia ciò che si discosta da questo sfondo neutrale. Ma questa non è che la forma più pura e completa dell'ideologia: l'egemonia. Lo stesso discorso vale per la violenza: «la violenza simbolica sociale al suo stato più puro appare come il proprio opposto». Sono quindi i comunisti liberali i veri nemici di ogni lotta progressista, e dobbiamo sempre tenerne conto quando valutiamo alleanze temporanee contro il razzismo l'omofobia ecc.

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Zizek definisce il modello dominante di politica «biopolitica postpolitica»: un termine astratto che mette soggezione, ma che significa essenzialmente una politica che si definisce al di là dello scontro delle ideologie e priva di massimi sistemi o di massime in generale, a parte l'amministrazione della vita e del benessere in quanto tali. In un sistema dove lo slancio ideologico viene meno l'unica risorsa di mobilitazione rimane quindi la paura. L'odierno concetto di tolleranza è contrastato dalla paura di essere molestati, in sostanza l'altro ci va bene purché ai adatti alle nostre regole, purché rinunci a ciò che lo caratterizza e che in sostanza rinuncia ad essere altro. Il fine della vita posto nella vita stessa crea il concetto di homo sacer, di vita intoccabile in quanto tale, e nello stesso tempo porta all'accettazione della privazione, in nome della vita, di qualsiasi diritto dell'individuo, ponendolo come oggetto a perfetta disposizione dell'amministrazione.

Questa contraddizione porta a un concetto di etica paradossale, ma molto interessante: un'etica basata su una contraddizione interna consapevole, su un disconoscimento feticistico. Come esempio eclatante c'è la Russia sovietica, chi la difendeva per ciò che essa aveva rappresentato e dicendosi all'oscuro, col senno di poi, delle cattiverie che vi si compivano. In realtà non serviva andare a scandagliare i documenti segreti per capire quanto non andasse bene: gli atti dei processi farsa, le dichiarazioni pubbliche ecc., erano già più che sufficienti. Lo stesso discorso vale per l'entusiasmo nei confronti della rivoluzione francese da parte dei filosofi del tempo. Il discorso si fa ancora più interessante scoprendo che tutti i carnefici più grandi sono descritti dai figli come dei modelli, persone esemplari costrette da qualcun altro a compiere atrocità che cercavano in qualche modo di arginare. Zizek vede questo rifiuto di vedere il male come il più profondo e necessario fondamento di ogni convinzione etica, e laddove l'etica è più universale questo disconoscimento è più forte. Il cristianesimo, con il suo superamento della particolarità del popolo eletto, pone nella massima «tutti gli uomini sono fratelli» il concetto di inumanità di chi non riconosce la fratellanza. Quando Freud e Lacan criticano «l'ama il tuo prossimo» non portano avanti l'argomento su come ogni concezione di universalità sia influenzata dai nostri valori, ma mettono in evidenza l'incompatibilità tra il prossimo e la dimensione stessa di universalità: «ciò che resiste all'universalità è la dimensione propriamente inumana del prossimo».

Questa paura del Prossimo, il bisogno di «decaffeinarlo» è vista da Zizek come il risultato della rottura dei muri protettivi che ci separano da esso. E non c'è esempio più evidente della rabbia scatenata dalla pubblicazione su una piccola rivista danese delle vignette su Maometto: la globalizzazione ha fatto diventare come confinanti Danimarca, Siria, Egitto, Pakistan e Indonesia. Uno dei risultati della civiltà della tolleranza europea è il saper sopportare le differenze degli altri, o meglio non considerarle non accorgendosene del tutto: l'alienazione, considerata il fallimento dell'occidente, aiuta a sopportarci a vicenda. Una discreta dose di essa può rappresentare la soluzione anziché il problema.

Tornando allo scontro sulle vignette danesi, la rabbia era concentrata sull'occidente in generale e sull'universo simbolico che esso rappresenta. La maggior parte di coloro che protestavano non le aveva nemmeno viste. La condensazione di simboli è determinata dal linguaggio, il mezzo nonviolento per antonomasia. «Il linguaggio semplifica l'oggetto designato riducendolo a un'unica caratteristica, […] inserisce l'oggetto in un campo di significato che è sostanzialmente estraneo a esso». Lacan, col suo concetto di Significante Dominante, pone in evidenza la natura essenzialmente violenta del linguaggio. Nel suo «discorso del Padrone» come primo discorso il Significante Dominante viene imposto con prepotenza, è il «più indietro di così non si va», o il «è così perché lo dico io». L'apparenza di uguaglianza del discorso è sempre sostenuta da questo asse asimmetrico. Simone Weil usa un sistema di coordinate ancora aristotelico quando vede come positivi i desideri limitati contro gli illimitati, e il giusto come il contenimento dell'appetito. Tuttavia la modernità è inserita nel sistema Kantiano, dove l'eccesso assoluto è quello della legge stessa. La legge impone ordine in una natura che tende al contrario, i polizieschi piacciono perché il giustiziere è l'eroe che combatte quei conservatori dello stato naturale che sono i criminali. La contrapposizione non è quindi fra concetti estranei, crimine e legge, ma fra trasgressione particolare e assoluta. Lo stesso vale per la violenza: non la misuriamo a partire da uno stato di nonviolenza, bensì da uno stato di violenza percepita come normale, di cui il linguaggio è il veicolo primo. É la prima essenziale forma di divisione, la violenza verbale è la risorsa primaria di ogni violenza umana. La realtà, nella sua stupida esistenza, non è mai insopportabile: è il linguaggio che attribuisce valori e simboli che la rendono tale. I pogrom non erano contro le vittime, ma contro l'immagine dell'Ebreo nella testa dei carnefici. Il linguaggio ha una capacità sostanziante, la «Wesen der Sprache» di Heidegger. Quando la De Beauvoir afferma l'inferiorità dei neri non si limita a dire che essi sono resi di fatto inferiori dalle condizioni socioeconomiche in cui gli americani bianchi li costringono. Afferma la capacità determinativa del concetto di razza, che rende effettiva, e non solo interpretativa, l'inferiorità di un gruppo rispetto a un altro. Il che ci riporta all'inizio, all'abisso del Prossimo: sembra esserci un paradosso fra la dimensione costitutiva da parte del linguaggio del nocciolo dell'essere e la sua concezione come un abisso insondabile posto dall'altra parte del «muro del linguaggio». Questo paradosso può però essere risolto: «il muro del linguaggio, che mi separa per sempre  dall'abisso di un altro soggetto è allo stesso tempo ciò che apre e sostiene quell'abisso: lo stesso ostacolo che mi separa dall'Altra parte è ciò che ne crea il miraggio».

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Il capitolo successivo riguarda le esplosioni di violenza che appaiono irrazionali. Vengono proposti tre eventi: le violenze a New Orleans dopo l'uragano, gli attentati terroristici e le banlieu del 2005 a Parigi. Queste ultime erano state additate dagli europei come il fallimento del modello di integrazione liberista statunitense, ma i sostenitori di tale paradigma si sono gongolati vedendo la capitale francese messa a fuoco e fiamme dai cittadini francesi di colore, mostrando come anche la strategia statalista integrativa del vecchio continente sia inadeguata.

Ciò che stupisce delle violenze nelle banlieu è l'assenza di un programma: «I contestatori dei sobborghi parigini non avevano rivendicazioni particolari. C'era solo una richiesta insistita di riconoscimento, sulla base di un vago, indistinto risentimento». Protestavano contro la reazione alle loro stesse proteste, parlavano di quanto fosse inaccettabile che Sarkozy li definisse «feccia». I sociologi e gli intellettuali hanno inutilmente tentato di tradurre il significato delle azioni dei contestatori. Queste erano solo un tentativo diretto di ottenere visibilità. Erano francesi che non vivevano ai limiti dell'inedia, le auto e le scuole bruciate erano le loro. La loro premessa più importante era la loro cittadinanza, ma di non essere pienamente francesi, ma mancavano completamente di un programma, della capacità di  inserire la propria situazione in un contesto.

Il messaggio fondamentale era un «hey! Mi senti?», una verifica tanto del canale quanto del codice. Badiou definisce il nostro spazio sociale come «senza mondo», nel quale l'unica forma che la violenza può assumere è senza senso. Perfino quella nazista aveva una visione del mondo da proporre. Qui siamo perfettamente nel luogo comune dell'età postideologica: il capitalismo è il primo sistema che toglie totalità al significato, toglie prospettive e può essere applicato a qualsiasi civiltà proprio per questa ragione.

I tumulti parigini vanno di pari passo con gli attentati terroristici, entrambi tipi di violenza che genera le forze che tenta di combattere, un cieco passage a l'acte dove la violenza è un'ammissione implicita di impotenza. Nell'analisi della psicologia del terrorista appare immediatamente inadeguato lo schema utilitarista, che vede nella credenza e nel desiderio le basi di un'azione calcolata razionalmente: a questo scopo si propongono spiegazioni assurde come quella delle quattrocento vergini in paradiso o cose del genere, rendendo di fatto l'Altro tremendamente ridicolo nel tentativo di comprenderlo. Ciò che manca realmente ai fondamentalisti islamici, e ciò fa di loro dei falsi fondamentalisti è l'assenza di risentimento e di invidia. Se credessero davvero di aver trovato la via, perché dovrebbero sentirsi minacciati dai non credenti? Essi combattendo l'Altro combattono le loro stesse tentazioni. Come può una fede robusta temere delle vignette su un giornale lontano, peraltro neppure viste? Il problema per questi fondamentalisti non è che li riteniamo inferiori, «ma che loro stessi si considerano segretamente inferiori» ciò che manca loro è una dose di autentica convinzione «razzista» della propria superiorità. L'agire contro di sé, contro il proprio interesse, non è mosso dall'altruismo, bensì dall'invidia. Accetto un mio danno a patto che sia danneggiato il mio avversario (storiella del contadino e le mucche). La persona malvagia non è l'egoista: questi è troppo occupato di sé per dedicarsi agli altri. La persona cattiva è quella che cerca la fine del godimento altrui: poiché è il godimento del bene che suscita l'invidia, non il suo possesso.

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Il tema d'analisi successivo è quello della tolleranza come categoria ideologica. C'è da notare in principio come ogni differenza politica venga trasformata in «culturale», rendendo inaccettabili mezzi di risoluzione come l'emancipazione, la lotta politica o la stessa lotta armata. La tolleranza è quindi il surrogato postpolitico di questa ideologia, concetto che non è assolutamente neutro o universale. Innanzitutto i valori che vengono posti al vertice sono strettamente maschili, producendo una divisione sessista del lavoro (autonomia, competizione, attività pubblica). Inoltre il concetto di libertà di scelta si dimostra molto partigiano quando aborrisce la clitoridectomia ma ignora la pressione enorme cui sono sottoposte le donne che con trattamenti cosmetici, iniezioni di botulino e dolorosissimi interventi di chirurgia plastica devono rimanere competitive nel campo sessuale. Si è tolleranti se il velo portato da una donna è frutto di una libera scelta, lo si condanna se è un'imposizione famigliare. Ma il significato del velo muta completamente nel momento in cui diventa il frutto di una libera scelta spirituale: non è più il segno d'appartenenza alla propria comunità musulmana. «Ciò sta a significare che il soggetto della libera scelta, nel senso multiculturale e tollerante dell'occidente, può emergere solo come risultato di un processo estremamente violento di sradicamento da un particolare ambiente, dalle proprie origini. Bisogna tenere sempre a mente l'aspetto enormemente liberatorio di questa violenza, che ci fa sperimentare il nostro stesso background culturale come contingente».

Questa circostanza può fa percepire la libera scelta come un atto meramente formale di adesione all'oppressione imposta dal sistema sociale. Ma, come insegna Hegel, la forma non può essere trascurata, ha una forza propria.

Nella nostra vita tutto viene fatto percepire come merce introdotta in un sistema di mercato, e ciò che rappresenta meglio una persona non è il suo background culturale, bensì la sua professione. In sostanza l'individuo non nasce già nel suo ruolo sociale, si realizza in esso. Hegel ha capito come l'universalità diventi «per sé» solo quando gli individui non percepiscono il nucleo del proprio esser coincidente con la propria posizione sociale, quando non sentono di avere un posto adatto. L'arrivo di un'universalità astratta nel reale è traumatico, irrompe con violenza. L'apparenza di egaliberté non è solo mera apparenza, ha un potere proprio. Se non si coglie la forza simbolica che ne scaturisce si cade nell'ipocrisia staliniana con le libertà borghesi: se erano fittizie, perché ne aveva tanta paura e si rifiutava così fermamente di concederle? Bisogna rovesciare il luogo comune secondo cui siamo tutti bloccati in un contesto determinato e contingente, di conseguenza sarebbe contingente ogni universalità che ne scaturisse:  l'autentica scoperta avviene quando l'universalità emerge da un ambiente particolare e diventa per sé. Quando i monarchici si alleavano nel parlamento della Francia del 1848 e fingevano di favorire le istituzioni repubblicane per l'impossibilità di trovare un accordo sulla casa regnante non si rendevano conto di favorire la rivoluzione in senso borghese del paese; quando si evidenzia la matrice eurocentrica del capitalismo  non si coglie la realtà fattuale dell'effettivo strappo del cordone ombelicale fra capitalismo ed Europa: questo è davvero universale in quanto non è il nome di una civiltà, ma di una macchina economica e simbolica neutrale che opera con valori asiatici come altri.

«L'effettiva universalità non consiste nella sensazione che al di là delle differenze culturali siamo tutti portatori di determinati valori ecc., bensì quando si manifesta un'esperienza di negatività, un'inadeguatezza verso sé stessi. La lotta emancipatoria è quella di tutti i senza parte contro il sistema. Quando a Primo Levi veniva chiesto se si sentiva più umano o ebreo, spesso esitava. La risposta non era l'ovvio «umano in quanto ebreo». Il senso di inadeguatezza per la sua condizione di  ebreo è ciò che lo rendeva davvero umano».

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Ora viene l'ultima analisi, nonché la più complessa: la violenza divina. Questa dimensione della violenza è proposta da Walter Benjamin, e rappresenta le brutali intrusioni della giustizia al di là della legge. È come se nel sistema del mondo le violenze accumulate venissero registrate da qualche parte ed arrivasse a un certo punto la mano divina a ristabilire una sorta di equilibrio. Quello a cui bisogna in ogni modo resistere è la tentazione di dare un significato agli eventi catastrofici, di vederne la funzione o di sperarne una sorta ci compimento o di progettualità in una mente divina o in un grande Altro storico.

Per cominciare Zizek descrive cosa questa violenza non è.

Nella visione di Benjamin non rientra assolutamente l'odierna violenza del fondamentalismo religioso, piuttosto dobbiamo cercare la violenza divina nei linciaggi o nel terrore rivoluzionario organizzato. Nella visione di Sloderdjik, la cui analisi è molto citata in questo capitolo, la storia dell'occidente può essere letta come storia di rabbia. L'Iliade, il testo fondante della nostra cultura, inizia con la parola IRA. Ma mentre nella cultura greca alla rabbia veniva concesso di esplodere e sublimare, col cristianesimo si è sviluppata una concezione di proibizione della vendetta, unita dalla visione del giorno del giudizio. Quest'idea di giudizio universale e di risaldamento di tutti i debiti è stata in qualche modo secolarizzata dal progetto rivoluzionario di sinistra, nel quale l'agente giustiziere non era Dio, bensì il popolo. Il movimento di sinistra si è posto quindi come «banca di rabbia» pronta ad esplodere. Poiché dopo il momento rivoluzionario non si ristabilisce tutta la giustizia, le disuguaglianze riemergono, ecco che scoppia la seconda e autentica ondata di violenza e rabbia: il 1792 dopo l'89, ottobre dopo febbraio.

Il problema è che questa rabbia non basta mai, e deve essere quindi combinata a rabbie particolari, come quelle nazionali, come quella dei contadini sfruttati per Mao ecc., con dei risentimenti covati per troppo tempo. Bisogna ora identificare cosa sia il risentimento, ossia il bisogno di rivendicare il torto subito. Non è un semplice desiderio di vendetta,  non è la morale degli schiavi di Nietzsche: è la necessità di rivendicare che il crimine non è normalizzabile, non può essere assorbito o giustificato.

Come si rapporta questo risentimento alla triade della giustizia punire, perdonare, dimenticare? Bisogna innanzitutto riaffermare il principio ebraico dello ius talionis come autentica forma di ripristino della giustizia: la logica misericordiosa del perdono senza vendetta e senza dimenticare lascia per sempre il criminale macchiato di infamia. Solo pagando il danno questi può finalmente sentirsi libero. L'inesplicabile gesto di immeritato perdono cristiano rende il colpevole debitore per sempre.

Quando però il crimine è di entità talmente enorme da rendere assurda la triade detta, il risentimento è l'unico atteggiamento che sia praticabile (l'idea di dimenticare e perdonare l'olocausto appare tanto grottesca quanto quella di vendicarlo).

La critica alla volontà emancipatrice che si esprime tramite la denuncia del risentimento covato deve essere smantellata: è proprio da questa sporcizia, da questa impurità, che sorge l'autentico desiderio di una posizione emancipatrice universale, nei termini descritti nel capitolo precedente. Questa non può essere ridotta a un basso effetto dei processi libidici. Persino Kant, spinto dal sospetto, disse che era effettivamente impossibile sapere se un'azione fosse davvero etica (e quindi libera) e non mossa da una motivazione patologica: in realtà ciò che è sconvolgente è che questa libertà è possibile, siamo noi che cerchiamo di ridurla a uno stato patologico.

 

Infine cos'è. Diversamente da quella mitica, la violenza divina è una violenza pura, non sacrificale, non espiatoria della colpa. E solo la violenza mitica è manifesta: non esistono criteri universali per identificare quella divina. Questa identificazione è un atto dell'individuo e su di esso ricade la responsabilità di tale scelta. Per questo non dobbiamo aver paura a definire un evento storico come sua manifestazione (Zizek cita il terrore rivoluzionario del 92). Non può essere compiuta in nome di qualcosa, di un grande Altro, di un Dio: è un atto compiuto in solitudine nel nome dell'antico detto vox populi vox dei inteso nella sua traduzione letterale: è la decisione presa in solitudine, senza la protezione di qualcos'Altro. «Quando individui al di fuori del campo sociale strutturato irrompono e colpiscono alla cieca attuando la giustizia/vendetta, quella è certamente violenza divina». È l'irrompere delle cavallette bibliche.

È il puro atto d'amore compiuto dal soggetto. Come disse Che Guevara: «a rischio di apparire ridicolo, lasciatemi dire che il vero rivoluzionario è guidato da un grande sentimento d'amore. È impossibile pensare a un autentico rivoluzionario che sia privo di questa qualità», e in un altro passo «hay que endurecerse sin perder hamàs la ternura».

 

«E così il cerchio si chiude. Abbiamo viaggiato dal rifiuto della falsa antiviolenza all'approvazione della violenza emancipatrice». Iniziando contro l'ipocrisia di coloro i quali combattendo la violenza soggettiva ne producono una sistemica. Abbiamo poi identificato la causa prima della violenza nella paura del Prossimo, e mostrato come questa si fondi sulla violenza inerente al linguaggio. In seguito analizzato le violenze che infestano i nostri media, come le banlieu per analizzare i limiti della tolleranza come categoria ideologica. Infine analizzato la dimensione emancipatoria della violenza nella concezione di Violenza Divina di Benjamin».

Da ciò tre lezioni: la prima è che condannare la violenza senza riserve è un'operazione ideologica. La seconda è che è molto difficile essere davvero violenti, compiere un atto che turbi davvero i parametri della vita sociale, che non venga riassorbito. Per ultimo, abbiamo capito che la violenza non è una dimensione che concerne soltanto l'atto, ma è distribuita fra l'atto e il contesto. Perciò anche il non-agire può essere un atto estremamente violento.

 

MAGGIO 2010

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