Senescenza (del) Capitale
Francesco
Palmeri
La violenza ci viene sbattuta continuamente
addosso dai telegiornali, dalle notizie, dalle chiacchiere. Ma quello
che riusciamo a percepire è solo uno dei suoi aspetti: esiste una
violenza invisibile, potente e incomprensibile nell'immediato che regola
e dirige la società. Si può dividere in due tipi: simbolico e sistemico.
La violenza invisibile non può essere guardata dalla stessa prospettiva
con cui si analizza quella visibile: bisogna mettere da parte l'impeto
di intervenire, la sofferenza per le vittime, il disgusto per i
carnefici e analizzarla di sbieco, da un taglio diverso.
Zizek è
come sempre molto provocatore, e utilizza esempi tratti dalla filosofia,
dall'attualità e dal cinema per fornire dei tagli sulla violenza
invisibile.
Il primo
bersaglio del saggio sono i «comunisti liberali», cioè quel gruppo di
imprenditori che creano le condizioni per lo sfruttamento e si impegnano
sinceramente e con mezzi enormi a combatterlo. Sono ovviamente i soliti
noti: Gates, Soros, ad. di Google, dell'ibm
ecc., insomma quelli che passano la metà del tempo a fare operazioni
speculative e di mercato e l'altra metà a organizzare raccolte fondi per
i paesi in via di sviluppo o per far fronte alle emergenze umanitarie.
Le loro opere di carità non sono solo un capriccio: servono a
ristabilire l'equilibrio dovuto alla distruzione provocata dal sistema
in cui operano. «Oggi le figure
esemplari del male non sono i consumatori ordinari che inquinano
l'ambiente e vivono in un mondo violento di legami in disgregazione, ma
coloro che mentre si dedicano a creare le condizioni di tale
inquinamento e devastazione si comprano col denaro delle vie di fuga,
vivendo in comunità recintate, mangiando cibo biologico, facendo le
vacanze in riserve naturali e così via».
Molti
aspetti della nostra vita non appaiono più contrassegnati
ideologicamente: definiamo ideologia ciò che si discosta da questo
sfondo neutrale. Ma questa non è che la forma più pura e completa
dell'ideologia: l'egemonia. Lo stesso discorso vale per la violenza:
«la violenza simbolica sociale al
suo stato più puro appare come il proprio opposto». Sono quindi i
comunisti liberali i veri nemici di ogni lotta progressista, e dobbiamo
sempre tenerne conto quando valutiamo alleanze temporanee contro il
razzismo l'omofobia ecc.
Zizek
definisce il modello dominante di politica «biopolitica
postpolitica»: un termine astratto che mette soggezione,
ma che significa essenzialmente una politica che si definisce al di là
dello scontro delle ideologie e priva di massimi sistemi o di massime in
generale, a parte l'amministrazione della vita e del benessere in quanto
tali. In un sistema dove lo slancio ideologico viene meno l'unica
risorsa di mobilitazione rimane quindi la paura. L'odierno concetto di
tolleranza è contrastato dalla paura di essere molestati, in sostanza
l'altro ci va bene purché ai adatti alle nostre regole, purché rinunci a
ciò che lo caratterizza e che in sostanza rinuncia ad essere altro. Il
fine della vita posto nella vita stessa crea il concetto di homo
sacer, di vita intoccabile in quanto tale, e nello stesso tempo
porta all'accettazione della privazione, in nome della vita, di
qualsiasi diritto dell'individuo, ponendolo come oggetto a perfetta
disposizione dell'amministrazione.
Questa
contraddizione porta a un concetto di etica paradossale, ma molto
interessante: un'etica basata su una contraddizione interna consapevole,
su un disconoscimento feticistico. Come esempio eclatante c'è
Questa
paura del Prossimo, il bisogno di «decaffeinarlo» è vista da Zizek come
il risultato della rottura dei muri protettivi che ci separano da esso.
E non c'è esempio più evidente della rabbia scatenata dalla
pubblicazione su una piccola rivista danese delle vignette su Maometto:
la globalizzazione ha fatto diventare come confinanti Danimarca, Siria,
Egitto, Pakistan e Indonesia. Uno dei risultati della civiltà della
tolleranza europea è il saper sopportare le differenze degli altri, o
meglio non considerarle non accorgendosene del tutto: l'alienazione,
considerata il fallimento dell'occidente, aiuta a sopportarci a vicenda.
Una discreta dose di essa può rappresentare la soluzione anziché il
problema.
Tornando
allo scontro sulle vignette danesi, la rabbia era concentrata
sull'occidente in generale e sull'universo simbolico che esso
rappresenta. La maggior parte di coloro che protestavano non le aveva
nemmeno viste. La condensazione di simboli è determinata dal linguaggio,
il mezzo nonviolento per antonomasia.
«Il linguaggio semplifica
l'oggetto designato riducendolo a un'unica caratteristica, […] inserisce
l'oggetto in un campo di significato che è sostanzialmente estraneo a
esso». Lacan, col suo concetto di Significante Dominante, pone in
evidenza la natura essenzialmente violenta del linguaggio. Nel suo
«discorso del Padrone» come primo discorso il Significante Dominante
viene imposto con prepotenza, è il «più indietro di così non si va», o
il «è così perché lo dico io». L'apparenza di uguaglianza del discorso è
sempre sostenuta da questo asse asimmetrico. Simone Weil usa un sistema
di coordinate ancora aristotelico quando vede come positivi i desideri
limitati contro gli illimitati, e il giusto come il contenimento
dell'appetito. Tuttavia la modernità è inserita nel sistema Kantiano,
dove l'eccesso assoluto è quello della legge stessa. La legge
impone ordine in una natura che tende al contrario, i polizieschi
piacciono perché il giustiziere è l'eroe che combatte quei conservatori
dello stato naturale che sono i criminali. La contrapposizione non è
quindi fra concetti estranei, crimine e legge, ma fra trasgressione
particolare e assoluta. Lo stesso vale per la violenza: non la misuriamo
a partire da uno stato di nonviolenza, bensì da uno stato di violenza
percepita come normale, di cui il linguaggio è il veicolo primo. É la
prima essenziale forma di divisione, la violenza verbale è la risorsa
primaria di ogni violenza umana. La realtà, nella sua stupida esistenza,
non è mai insopportabile: è il linguaggio che attribuisce valori e
simboli che la rendono tale. I pogrom non erano contro le vittime, ma
contro l'immagine dell'Ebreo nella testa dei carnefici. Il linguaggio ha
una capacità sostanziante, la «Wesen der Sprache» di Heidegger. Quando
Il capitolo
successivo riguarda le esplosioni di violenza che appaiono irrazionali.
Vengono proposti tre eventi: le violenze a New Orleans dopo l'uragano,
gli attentati terroristici e le banlieu del 2005 a Parigi. Queste ultime
erano state additate dagli europei come il fallimento del modello
di integrazione liberista statunitense, ma i sostenitori di tale
paradigma si sono gongolati vedendo la capitale francese messa a fuoco e
fiamme dai cittadini francesi di colore, mostrando come anche la
strategia statalista integrativa del vecchio continente sia inadeguata.
Ciò che
stupisce delle violenze nelle banlieu è l'assenza di un programma:
«I contestatori dei sobborghi parigini non avevano rivendicazioni
particolari. C'era solo una richiesta insistita di
riconoscimento, sulla base di un vago, indistinto
risentimento». Protestavano contro la reazione alle loro
stesse proteste, parlavano di quanto fosse inaccettabile che Sarkozy li
definisse «feccia». I sociologi e gli intellettuali hanno inutilmente
tentato di tradurre il significato delle azioni dei contestatori. Queste
erano solo un tentativo diretto di ottenere visibilità. Erano francesi
che non vivevano ai limiti dell'inedia, le auto e le scuole bruciate
erano le loro. La loro premessa più importante era la loro cittadinanza,
ma di non essere pienamente francesi, ma mancavano completamente di un
programma, della capacità di
inserire la propria situazione in un contesto.
Il
messaggio fondamentale era un «hey! Mi senti?», una verifica tanto del
canale quanto del codice. Badiou definisce il nostro spazio sociale come
«senza mondo», nel quale l'unica forma che la violenza può assumere è
senza senso. Perfino quella nazista aveva una visione del mondo da
proporre. Qui siamo perfettamente nel luogo comune dell'età
postideologica: il capitalismo è il primo sistema che toglie totalità al
significato, toglie prospettive e può essere applicato a qualsiasi
civiltà proprio per questa ragione.
I tumulti
parigini vanno di pari passo con gli attentati terroristici, entrambi
tipi di violenza che genera le forze che tenta di combattere, un cieco
passage a l'acte dove la violenza è un'ammissione implicita di
impotenza. Nell'analisi della psicologia del terrorista appare
immediatamente inadeguato lo schema utilitarista, che vede nella
credenza e nel desiderio le basi di un'azione calcolata razionalmente: a
questo scopo si propongono spiegazioni assurde come quella delle
quattrocento vergini in paradiso o cose del genere, rendendo di fatto
l'Altro tremendamente ridicolo nel tentativo di comprenderlo. Ciò che
manca realmente ai fondamentalisti islamici, e ciò fa di loro dei falsi
fondamentalisti è l'assenza di risentimento e di invidia. Se credessero
davvero di aver trovato la via, perché dovrebbero sentirsi minacciati
dai non credenti? Essi combattendo l'Altro combattono le loro stesse
tentazioni. Come può una fede robusta temere delle vignette su un
giornale lontano, peraltro neppure viste? Il problema per questi
fondamentalisti non è che li riteniamo inferiori, «ma che loro stessi si
considerano segretamente inferiori» ciò che manca loro è una dose di
autentica convinzione «razzista» della propria superiorità. L'agire
contro di sé, contro il proprio interesse, non è mosso dall'altruismo,
bensì dall'invidia. Accetto un mio danno a patto che sia danneggiato il
mio avversario (storiella del contadino e le mucche). La persona
malvagia non è l'egoista: questi è troppo occupato di sé per dedicarsi
agli altri. La persona cattiva è quella che cerca la fine del godimento
altrui: poiché è il godimento del bene che suscita l'invidia, non il suo
possesso.
Il tema
d'analisi successivo è quello della tolleranza come categoria
ideologica. C'è da notare in principio come ogni differenza politica
venga trasformata in «culturale», rendendo inaccettabili mezzi di
risoluzione come l'emancipazione, la lotta politica o la stessa lotta
armata. La tolleranza è quindi il surrogato postpolitico di questa
ideologia, concetto che non è assolutamente neutro o universale.
Innanzitutto i valori che vengono posti al vertice sono strettamente
maschili, producendo una divisione sessista del lavoro (autonomia,
competizione, attività pubblica). Inoltre il concetto di libertà di
scelta si dimostra molto partigiano quando aborrisce la clitoridectomia
ma ignora la pressione enorme cui sono sottoposte le donne che con
trattamenti cosmetici, iniezioni di botulino e dolorosissimi interventi
di chirurgia plastica devono rimanere competitive nel campo sessuale. Si
è tolleranti se il velo portato da una donna è frutto di una libera
scelta, lo si condanna se è un'imposizione famigliare. Ma il significato
del velo muta completamente nel momento in cui diventa il frutto di una
libera scelta spirituale: non è più il segno d'appartenenza alla propria
comunità musulmana. «Ciò sta a significare che il soggetto della libera scelta, nel senso
multiculturale e tollerante dell'occidente, può emergere solo come
risultato di un processo estremamente violento di sradicamento da un
particolare ambiente, dalle proprie origini. Bisogna tenere sempre a
mente l'aspetto enormemente liberatorio di questa violenza, che ci fa
sperimentare il nostro stesso background culturale come contingente».
Questa
circostanza può fa percepire la libera scelta come un atto meramente
formale di adesione all'oppressione imposta dal sistema sociale. Ma,
come insegna Hegel, la forma non può essere trascurata, ha una forza
propria.
Nella
nostra vita tutto viene fatto percepire come merce introdotta in un
sistema di mercato, e ciò che rappresenta meglio una persona non è il
suo background culturale, bensì la sua professione. In sostanza
l'individuo non nasce già nel suo ruolo sociale, si realizza in esso.
Hegel ha capito come l'universalità diventi «per sé» solo quando gli
individui non percepiscono il nucleo del proprio esser coincidente con
la propria posizione sociale, quando non sentono di avere un posto
adatto. L'arrivo di un'universalità astratta nel reale è traumatico,
irrompe con violenza. L'apparenza di egaliberté non è solo mera
apparenza, ha un potere proprio. Se non si coglie la forza simbolica che
ne scaturisce si cade nell'ipocrisia staliniana con le libertà borghesi:
se erano fittizie, perché ne aveva tanta paura e si rifiutava così
fermamente di concederle? Bisogna rovesciare il luogo comune secondo cui
siamo tutti bloccati in un contesto determinato e contingente, di
conseguenza sarebbe contingente ogni universalità che ne scaturisse:
l'autentica scoperta avviene quando l'universalità emerge da un
ambiente particolare e diventa per sé. Quando i monarchici si alleavano
nel parlamento della Francia del 1848 e fingevano di favorire le
istituzioni repubblicane per l'impossibilità di trovare un accordo sulla
casa regnante non si rendevano conto di favorire la rivoluzione in senso
borghese del paese; quando si evidenzia la matrice eurocentrica del
capitalismo non si coglie la
realtà fattuale dell'effettivo strappo del cordone ombelicale fra
capitalismo ed Europa: questo è davvero universale in quanto non è il
nome di una civiltà, ma di una macchina economica e simbolica neutrale
che opera con valori asiatici come altri.
«L'effettiva universalità non consiste nella sensazione che
al di là delle differenze culturali siamo tutti portatori di determinati
valori ecc., bensì quando si manifesta un'esperienza di negatività,
un'inadeguatezza verso sé stessi. La lotta emancipatoria è quella di
tutti i senza parte contro il sistema. Quando a Primo Levi veniva
chiesto se si sentiva più umano o ebreo, spesso esitava. La risposta non
era l'ovvio «umano in quanto ebreo». Il senso di inadeguatezza per la
sua condizione di ebreo è
ciò che lo rendeva davvero umano».
Ora viene
l'ultima analisi, nonché la più complessa: la violenza divina. Questa
dimensione della violenza è proposta da Walter Benjamin, e rappresenta
le brutali intrusioni della giustizia al di là della legge. È come se
nel sistema del mondo le violenze accumulate venissero registrate da
qualche parte ed arrivasse a un certo punto la mano divina a ristabilire
una sorta di equilibrio. Quello a cui bisogna in ogni modo resistere è
la tentazione di dare un significato agli eventi catastrofici, di
vederne la funzione o di sperarne una sorta ci compimento o di
progettualità in una mente divina o in un grande Altro storico.
Per
cominciare Zizek descrive cosa questa violenza non è.
Nella
visione di Benjamin non rientra assolutamente l'odierna violenza del
fondamentalismo religioso, piuttosto dobbiamo cercare la violenza divina
nei linciaggi o nel terrore rivoluzionario organizzato. Nella visione di
Sloderdjik, la cui analisi è molto citata in questo capitolo, la storia
dell'occidente può essere letta come storia di rabbia. L'Iliade,
il testo fondante della nostra cultura, inizia con la parola IRA. Ma
mentre nella cultura greca alla rabbia veniva concesso di esplodere e
sublimare, col cristianesimo si è sviluppata una concezione di
proibizione della vendetta, unita dalla visione del giorno del giudizio.
Quest'idea di giudizio universale e di risaldamento di tutti i debiti è
stata in qualche modo secolarizzata dal progetto rivoluzionario di
sinistra, nel quale l'agente giustiziere non era Dio, bensì il popolo.
Il movimento di sinistra si è posto quindi come «banca di rabbia» pronta
ad esplodere. Poiché dopo il momento rivoluzionario non si ristabilisce
tutta la giustizia, le disuguaglianze riemergono, ecco che scoppia la
seconda e autentica ondata di violenza e rabbia: il 1792 dopo l'89,
ottobre dopo febbraio.
Il problema
è che questa rabbia non basta mai, e deve essere quindi combinata a
rabbie particolari, come quelle nazionali, come quella dei contadini
sfruttati per Mao ecc., con dei risentimenti covati per troppo tempo.
Bisogna ora identificare cosa sia il risentimento, ossia il bisogno di
rivendicare il torto subito. Non è un semplice desiderio di vendetta,
non è la morale degli schiavi di Nietzsche: è la necessità di
rivendicare che il crimine non è normalizzabile, non può essere
assorbito o giustificato.
Come si
rapporta questo risentimento alla triade della giustizia punire,
perdonare, dimenticare? Bisogna innanzitutto riaffermare il principio
ebraico dello ius talionis come autentica forma di ripristino
della giustizia: la logica misericordiosa del perdono senza vendetta e
senza dimenticare lascia per sempre il criminale macchiato di infamia.
Solo pagando il danno questi può finalmente sentirsi libero.
L'inesplicabile gesto di immeritato perdono cristiano rende il colpevole
debitore per sempre.
Quando però
il crimine è di entità talmente enorme da rendere assurda la triade
detta, il risentimento è l'unico atteggiamento che sia praticabile
(l'idea di dimenticare e perdonare l'olocausto appare tanto grottesca
quanto quella di vendicarlo).
La critica
alla volontà emancipatrice che si esprime tramite la denuncia del
risentimento covato deve essere smantellata: è proprio da questa
sporcizia, da questa impurità, che sorge l'autentico desiderio di una
posizione emancipatrice universale, nei termini descritti nel capitolo
precedente. Questa non può essere ridotta a un basso effetto dei
processi libidici. Persino Kant, spinto dal sospetto, disse che era
effettivamente impossibile sapere se un'azione fosse davvero etica (e
quindi libera) e non mossa da una motivazione patologica: in realtà ciò
che è sconvolgente è che questa libertà è possibile, siamo noi
che cerchiamo di ridurla a uno stato patologico.
Infine
cos'è. Diversamente da quella mitica, la violenza divina è una violenza
pura, non sacrificale, non espiatoria della colpa. E solo la violenza
mitica è manifesta: non esistono criteri universali per identificare
quella divina. Questa identificazione è un atto dell'individuo e su di
esso ricade la responsabilità di tale scelta. Per questo non dobbiamo
aver paura a definire un evento storico come sua manifestazione (Zizek
cita il terrore rivoluzionario del 92). Non può essere compiuta in nome
di qualcosa, di un grande Altro, di un Dio: è un atto compiuto in
solitudine nel nome dell'antico detto vox populi vox dei inteso
nella sua traduzione letterale: è la decisione presa in solitudine,
senza la protezione di qualcos'Altro.
«Quando individui al di fuori del
campo sociale strutturato irrompono e colpiscono alla cieca attuando la
giustizia/vendetta, quella è certamente violenza divina». È
l'irrompere delle cavallette bibliche.
È il puro
atto d'amore compiuto dal soggetto. Come disse Che Guevara:
«a rischio di apparire ridicolo, lasciatemi dire che il vero
rivoluzionario è guidato da un grande sentimento d'amore. È impossibile
pensare a un autentico rivoluzionario che sia privo di questa qualità»,
e in un altro passo «hay que endurecerse sin perder hamàs la
ternura».
«E così il
cerchio si chiude. Abbiamo viaggiato dal rifiuto della falsa
antiviolenza all'approvazione della violenza emancipatrice». Iniziando contro l'ipocrisia di coloro i quali
combattendo la violenza soggettiva ne producono una sistemica. Abbiamo
poi identificato la causa prima della violenza nella paura del Prossimo,
e mostrato come questa si fondi sulla violenza inerente al linguaggio.
In seguito analizzato le violenze che infestano i nostri media, come le
banlieu per analizzare i limiti della tolleranza come categoria
ideologica. Infine analizzato la dimensione emancipatoria della violenza
nella concezione di Violenza Divina di Benjamin».
Da ciò tre
lezioni: la prima è che condannare la violenza senza riserve è
un'operazione ideologica. La seconda è che è molto difficile essere
davvero violenti, compiere un atto che turbi davvero i parametri della
vita sociale, che non venga riassorbito. Per ultimo, abbiamo capito che
la violenza non è una dimensione che concerne soltanto l'atto, ma è
distribuita fra l'atto e il contesto. Perciò anche il non-agire può
essere un atto estremamente violento.
MAGGIO 2010