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01
Maggio 2010

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 Recensioni

DUE PASSI NELLA CITTÀ DEI MATTI

Paolo Fazzari

 

Il 7 e l’8 Febbraio in prima serata su Rai 1 è andata in onda la fiction dal titolo «C’era una volta la città dei matti», lungometraggio in due puntate dedicato a Franco Basaglia e alla sua attività di psichiatra che a partire dagli anni 60 ha scardinato l’impalcatura istituzionale del manicomio e mutato profondamente l’assetto legislativo dell’ospedale psichiatrico.

È il 1961. Gorizia, il suo ospedale psichiatrico. Franco Basaglia, dopo aver conseguito la libera docenza in psichiatria, ne vince il concorso per la direzione. Arriva con due figli e la moglie Franca Ongaro, compagna di vita che lo segue fiduciosa verso quel progetto che a mano a mano inizia a profilarsi: cambiare le regole dell’istituzione, l’istituzione «ospedale psichiatrico» che presenta un paesaggio drammatico ormai entrato nell’immaginario collettivo: contenzioni, celle, elettroshock, bagni di acqua gelata, urla; pazienti legati, pericolosi per sé e per gli altri, e per questo chiusi ed isolati.

È più o meno questo il panorama che si apre di fronte a chi si accingesse a entrare in un manicomio negli anni 60. Ma andiamo con ordine e partiamo dalla prima domanda che si pone il Basaglia splendidamente interpretato e parlato dall’attore Fabrizio Gifuni: «ma cos’è la malattia mentale?» – seguita da una lodevole risposta – «ecco, l’università una cosa me la aveva insegnata, che gli psichiatri, me compreso, della malattia mentale non ci capivano proprio niente». Domanda probabilmente semplice che solleva con forza la polvere finita a deposito sulle domande, che per superbia o superiorità sono considerate talmente semplici da non poter mai essere proferite. Domanda che ci porta al cuore del viaggio di Basaglia, una nave salpata verso i complessi territori della malattia mentale con il desiderio di provare a comprenderla, avendo quale compagno di viaggio il presupposto di mettere in crisi e in discussione il senso più intimo della malattia stessa. Sarà un arrovellamento felice perché partendo da quella semplice e tuttavia ardua domanda si giungerà a tale evidenza: provare a spostare l’attenzione dalla malattia al malato. La domanda su cosa sia la malattia sarà talmente importante dal finire con il pensare di poterla mettere tra parentesi, epochè basilare con la quale si inizia a pensare di guardare il soggetto e restituirgli la quota di umanità perduta e soffocata nell’isolamento dell’etichetta della malattia.

Con questo spirito nel cuore la fiction illumina per prima Margherita, l’altrettanto brava Vittoria Puccini: una ragazza semplice e una storia altrettanto, perché «difficile da credere, ma a quei tempi per una ragazzina ribelle e povera l’amore poteva essere l’inizio di un viaggio senza ritorno». Una delle tante storie che storie non sono più, di pazienti che perdono la libertà quando gli viene  sottratta la parola per narrare il racconto della propria storia. Perduta la libertà ad essere. Non ha il tempo di varcare i confini dell’istituzione che le viene sottratta la foto «di un moroso» che a detta della caposala potrà ritrovarlo ed esserne amata solo a patto di essere stata sufficientemente furba da non concedersi. Per di più: spogliata dei suoi vestiti, dei suoi averi, impasticcata, Margherita ha come destino l’avvizzimento psichico, la cronicità che la porterà a giacere sempre più lontana dalla sua soggettività, tra brandelli e residui di un vissuto che si inscriveranno come lettera morta nella stereotipia e nel consenso, catturati dall’istituzione e sincronicamente istituzionalizzati. Tale prospettiva ce la descrive nel 1964 Basaglia: «dal momento in cui oltrepassa il muro dell’internamento, il malato entra in una nuova dimensione di vuoto emozionale […] totale annullamento della sua individualità» subendo un processo sommario, cioè come posto «sotto un atto di accusa il cui testo non è mai mostrato perché è segnato dall’intera vita dell’asilo» (Foucault). Azione quella dell’istituzione dunque non neutrale, non tralasciabile, poiché si va a sovrapporre a quella perdita di progetto e desiderio che già la malattia in quanto tale pare comportare nella esistenza del malato.

Con Margherita solchiamo i primi passi nei corridoi «dell’ospedale», ascoltando in sottofondo le  urla, urla di dolore, che divengono ultima possibilità di espressione del malato in tali condizioni e contenzioni. Si subiscono manovre mediche e psicoterapeutiche che hanno piuttosto la parvenza di torture. Manovre perpetrate da coloro i quali in nome dell’istituzione e della sicurezza dei «sani» riducono la vita soggettiva del malato a puro oggetto, mediante un dispositivo che finisce con il porre lo stesso medico nel ruolo di «sorvegliante» e «moderatore degli eccessi cui la malattia poteva portare» (Basaglia, 1964).

In Basaglia nasce così, e da qui, l’idea più semplice di tutte: un dispositivo manicomiale tal fatto deve cambiare. L’esperienza dell’inumanità delle manovre «terapeutiche» fa scaturire l’esigenza di rivedere i nodi teorici e concettuali a difesa di questa istituzione, ribaltando l’assioma che finisce con l’oggettualizzare il malato. Tale convinzione va posta in pratica e partendo dalle mura dell’ospedale bisogna cambiare l’impalcatura legislativa che sostiene tale idea di manicomio.

Da cosa partire? Il manicomio è un capolinea: non c’è spazio per quel processo di separazione- individuazione che appare così necessario alla crescita dell’individuo, dal momento che l’istituzione ingloba e getta la chiave d’uscita dell’asilo. E, soprattutto, il rapporto con l’altro è praticamente annullato.

Nella fiction c’è una operatrice sanitaria nella quale scaturisce una scintilla, una scossa interiore, che permette di iniziare a riannodare quel complesso rapporto che riguarda il piano dell’incontro con l’altro. Nives dice: «Io ci ho provato a far finta di niente. Per dieci anni […] erano tutte uguali, con i capelli tagliati tutti uguali…i camici. Per me era come fare la guardia alle oche; ma adesso […]. Margherita che urlava mi ha seguita fino a casa, me la son sognata tutta la notte». È in tale reazione viscerale che si apre simbolicamente una breccia nella coltre di automatismi istituzionali ai quali si è sottaciuto per tanto tempo. Certamente esse sono parole che appartengono al topos della fiction, ma legittimamente, suggeriamo, lasciano intravedere uno dei punti di partenza del «rovesciamento» necessario, della messa in «crisi», con la quale l’istituzione psichiatrica deve fare i conti.

Con questo coraggio le celle si aprono, le camicie di forza di sciolgono. Segni di una nuova era.

Basaglia, acutissimo pensatore, nel 1964 ci racconta che tuttavia un tentativo simile fosse già stato effettuato. Philippe Pinel, fondatore della moderna psichiatria, per primo nella storia libera il malato dalla sua contenzione dando dignità a lui e alla sua affezione, «separandolo dalle altre figure (poveri, vagabondi, emarginati) cui era precedentemente assimilato» (Galimberti). Qui un punto di capitale importanza. Basaglia in questi anni si interroga su come ulteriormente superare tale tipo di scenario, ed andare oltre la semplice azione di scalfittura della contenzione. E ciò avviene chiedendosi di che tipo di liberazione si possa parlare, quando sperimentata in uno «spazio che resta comunque chiuso», uno spazio che dona libertà ancora «messa nelle mani del legislatore e del medico che dovevano dosarla e tutelarla». Ce lo proviamo a chiedere anche noi.

Ma intanto una corda si tende e la prima parete crolla. Il primo muro, simbolo della clausura. Il primo a cadere è quello che separa tra loro i gruppi di pazienti, i reparti maschili e femminili. Bisogna continuare di questo passo per scardinare quello che comunque resta a presidiare il perimetro della contenzione eretta intorno alla vita del malato. E un passo viene compiuto sul piano legislativo. Dopo varie lotte viene promulgata la legge 431 del 1968 che riconfigura le modalità del ricovero, sancendo l’abbattimento del ricovero coatto e segnando di fatto una tappa importante nell’opera di riqualificazione delle coordinate psichiatriche, processo in divenire che porterà fino alla legge 180.

1971. Trieste. Franco Basaglia assume la direzione dell’ospedale psichiatrico. L’esperienza di Gorizia, sebbene tra tante difficoltà può reputarsi consolidata e determina la direzione da intraprendere: «trasformare l’organizzazione non per riformarla, ma per superarla attraverso la costruzione di una rete di servizi territoriali, alternativi e sostituivi delle molteplici funzioni di cura, ospitalità, protezione e assistenza assolte dall’ospedale» (dsm Trieste). Questa è la nuova sfida. Sfida accettata che tuttavia bene la fiction ci aiuta ad illuminare in tutta la sua problematicità: la difficoltà di riannodare i fili del rapporto con l’esterno quando lo spettro della cronicità e dell’istituzionalizzazione hanno così lungamente lavorato e quando gli altri, i sani, sotto l’effetto dello stigma sociale proclamano un’immagine pericolosa e morbosa del matto.

Così suscitano una enorme simpatia i primi tentativi dei pazienti di ritrovare-riscoprire-inventare-creare la propria storia ed un proprio progetto di vita e di mondo. Affettuoso da vedere nel luogo della fiction, commovente da leggere e ritrovare nelle pagine di Giuseppe Dell’Acqua in «Non ho l’arma che uccide il leone - Storie del manicomio di Trieste», pagine queste che permettono di  assaporare sentimenti, vissuti, mai presi in considerazione prima di allora, perché «il malato», ad esempio, «non può essere una persona che si innamora». È questa la cornice che deve cambiare, ed alcuni reparti subiscono un processo di riconfigurazione iniziando ad essere adibiti a laboratori. È da uno di questi che vede la luce una cavallo di nome Marco, Marco Cavallo che contiene le speranze, i sogni, le fantasie di coloro che desiderano varcare il baratro dell’isolamento. E che un giorno, un bel giorno, viene condotto per le strade con il suo corteo di «matti».

Occasione finalmente per fare festa. Benché non sia semplice ritrovare una nuova vita dopo l’allontanamento subito. Ma la macchina ormai è partita ed è inarrestabile, perché ormai si parla di «dar corso a un progetto politico che non si arresti alla bonifica umanitaria del manicomio, né alla semplice trasformazione delle sue dinamiche di funzionamento interno, ma metta in discussione la persistenza stessa dell’istituzione totale» (dsm Trieste). E l’istituzione in effetti crolla, seppure tra tante difficoltà sia burocratiche che talvolta provenienti dagli stessi pazienti e le loro famiglie che improvvisamente si trovano a doversi prendere cura di quei soggetti che la società aveva tentato di ripudiare. O forse semplicemente in attesa della costruzione di una rete che possa accogliere la persona che chiusa nella dimensione manicomiale associava allo spettro mortifero della malattia il reale dell’allontanamento e reclusione.

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È ormai passato del tempo dai tentativi pioneristici che hanno visto l’Italia tentare di modificare il proprio assetto istituzionale in tema di salute mentale. La presa in carico della salute mentale riguarda oggi le singole regioni dalle quali dipendono direttamente le asl e i nuovi spdc, servizi psichiatrici di diagnosi e cura.

A mo’ di chiusura tornerei però a soffermarmi su una questione. Il lavoro di Basaglia è stato un lavoro di equipe che ha impegnato un grande numero di attori, intellettuali ed operatori che con passione si sono dedicati in questa opera. In tal senso, in una intervista recentemente rilasciata a Fahrenheit da Franco Rotelli (subentrato a Trieste dopo Basaglia), sarebbe improprio parlare del lascito di Basaglia come ad una eredità e forse pensare, come in parte la fiction ha fatto, che questa celebrata opera di «rivoluzione» abbia riguardato un solo uomo. Certamente anche la sua prematura scomparsa ha lasciato nelle mani di altri un’opera, la legge 180, da continuare, da rendere concreta e reale, nonché vicina alle esigenze di quanti abbiano bisogno di rivolgersi a servizi per la cosiddetta salute mentale. Si sente dire tuttavia che a distanza di trenta anni da questa legge è stato fatto molto ma molto c’è ancora da fare.

Senza poter entrare nel merito di una complessità storica e sociologica che riguarda il discorso sulla salute mentale, vorrei fare la seguente considerazione.

Freud, sappiamo, ha guardato il fenomeno schizofrenico dal punto di vista del dispositivo analitico, definendo il paziente schizofrenico «strutturalmente» improbabile da raggiungere con il metodo psicoanalitico a causa della sua particolare configurazione libidica e relazionale.

Riprendendo tale sommaria ed imprecisa (a causa mia) definizione freudiana desidero usarla per porre l’accento su la questione che ritengo saliente, cioè, i vissuti che possono mobilitarsi negli operatori che si trovano a confrontarsi con una tale tipologia di formazione psicologica. Il paziente «schizofrenico» costruisce un mondo appartato con il quale ci sono poche o punto possibilità di mettersi in contatto. In una relazione di tal sorta nell’operatore possono mobilitarsi sentimenti di sgomento e di impotenza, a causa proprio dell’incontro con un soggetto così difficile da raggiungere.

Senza poter approfondire oltre in tale sede tale discussione, ma sperando che ce ne sia l’occasione in futuro, torno a Nives, la nostra operatrice sanitaria. È lei che ci porta nel punto in cui, come è stato bene descritto nel testo «Il paese degli specchi», «modificare un assetto cancrenoso, stabilizzato da oltre un secolo, non significa infatti solo cambiare una cornice, bensì entrare nel vivo dei problemi di ordine relazionale che il confronto con la sofferenza psichica impone» (De Martis, Petrella, Caverzasi, 1980). È su tale punto che si gioca – e combatte – la sfida del presente, sul campo della relazione, punto di incontro mai scontato con l’altro che ci sta di fronte; incontro che tuttavia troppo spesso diviene per gli operatori e le strutture che si occupano di salute mentale, chiuso nelle categorie diagnostiche di un manuale e di un immaginario che con troppa facilità finisce a parlare di disturbo. È molto più faticoso praticare l’ascolto nel tentativo di dare rilievo, colore, espressione, al vissuto esistenziale della persona, spostandosi cioè sul versante del disagio, senza ricadere a racchiudere ed incasellare l’esistenza dell’altro in categorie aride e incapaci di aiutarlo nella ricerca di una propria forma di significato. Le manovre terapeutiche poco attente all’ascolto temo possano oggi diventare la prosecuzione della contenzione fisica perpetrata a suo tempo. Un modo più evoluto di perpetrare emarginazione.

Concludo davvero riprendendo uno scritto di Franco Rotelli del 1974 sulle tappe della «Pratica psichiatrica di Trieste», che credo possano essere ancora luce per i soggetti che a vario titolo e livello vivono da vicino il mondo del disagio mentale: «Ad un livello più arretrato si pone il primo momento: lotta contro le attuali strutture psichiatriche come repressivo-custodialistiche. – ad un secondo livello si pone la lotta contro le strutture psichiatriche, anche riformate, come comunque luoghi di istituzionalizzazione della malattia. – ad un terzo livello si pone la lotta contro la malattia come istituzionalizzazione della sofferenza. – ad un quarto livello la lotta contro la sofferenza come necessità nel mondo del capitale e della società dello scambio».

È questa la sfida cui la pratica medica, psichiatrica e psicologica devono ancora costantemente accettare.

 

«A tutti coloro impegnati nella relazione di cura con l'altro».

 

APRILE 2010

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