Recensioni
DUE PASSI NELLA CITTÀ
DEI MATTI
Paolo Fazzari
Il 7 e l’8 Febbraio in prima serata su Rai 1 è andata in onda
la fiction dal titolo «C’era una
volta la città dei matti», lungometraggio in due puntate dedicato a
Franco Basaglia e alla sua attività di psichiatra che a partire dagli
anni
È il 1961. Gorizia, il suo ospedale psichiatrico. Franco
Basaglia, dopo aver conseguito la libera docenza in psichiatria, ne
vince il concorso per la direzione. Arriva con due figli e la moglie
Franca Ongaro, compagna di vita che lo segue fiduciosa verso quel
progetto che a mano a mano inizia a profilarsi: cambiare le regole
dell’istituzione, l’istituzione «ospedale psichiatrico» che presenta un
paesaggio drammatico ormai entrato nell’immaginario collettivo:
contenzioni, celle, elettroshock, bagni di acqua gelata, urla; pazienti
legati, pericolosi per sé e per gli altri, e per questo chiusi ed
isolati.
È più o meno questo il panorama che si apre di fronte a chi
si accingesse a entrare in un manicomio negli anni 60. Ma andiamo con
ordine e partiamo dalla prima domanda che si pone il Basaglia
splendidamente interpretato e
parlato dall’attore Fabrizio Gifuni:
«ma cos’è la malattia mentale?»
– seguita da una lodevole risposta –
«ecco, l’università una cosa me la aveva insegnata, che gli psichiatri,
me compreso, della malattia mentale non ci capivano proprio niente».
Domanda probabilmente semplice che solleva con forza la polvere finita a
deposito sulle domande, che per superbia o superiorità sono considerate
talmente semplici da non poter
mai essere proferite. Domanda che ci porta al cuore del viaggio di
Basaglia, una nave salpata verso i complessi territori della malattia
mentale con il desiderio di provare a comprenderla, avendo quale
compagno di viaggio il presupposto di mettere in crisi e in discussione
il senso più intimo della malattia stessa. Sarà un arrovellamento felice
perché partendo da quella semplice e tuttavia ardua domanda si giungerà
a tale evidenza: provare a spostare l’attenzione dalla malattia al
malato. La domanda su cosa sia la malattia sarà talmente importante dal
finire con il pensare di poterla mettere
tra parentesi, epochè basilare
con la quale si inizia a pensare di guardare il soggetto e restituirgli
la quota di umanità perduta e soffocata nell’isolamento dell’etichetta
della malattia.
Con questo spirito nel cuore la fiction illumina per prima
Margherita, l’altrettanto brava Vittoria Puccini: una ragazza semplice e
una storia altrettanto, perché «difficile da credere, ma a quei tempi
per una ragazzina ribelle e povera l’amore poteva essere l’inizio di un
viaggio senza ritorno». Una delle tante storie che storie non sono più,
di pazienti che perdono la libertà quando gli viene
sottratta la parola per narrare il racconto della propria storia.
Perduta la libertà ad essere. Non ha il tempo di varcare i confini
dell’istituzione che le viene sottratta la foto «di un moroso» che a
detta della caposala potrà ritrovarlo ed esserne amata solo a patto di
essere stata sufficientemente furba da non concedersi. Per di più:
spogliata dei suoi vestiti, dei suoi averi, impasticcata, Margherita ha
come destino l’avvizzimento psichico, la cronicità che la porterà a
giacere sempre più lontana dalla sua soggettività, tra brandelli e
residui di un vissuto che si inscriveranno come lettera morta nella
stereotipia e nel consenso, catturati dall’istituzione e sincronicamente
istituzionalizzati. Tale prospettiva ce la descrive nel 1964 Basaglia:
«dal momento in cui oltrepassa il
muro dell’internamento, il malato entra in una nuova dimensione di vuoto
emozionale […] totale annullamento della sua individualità» subendo un
processo sommario, cioè come posto «sotto un atto di accusa il cui testo
non è mai mostrato perché è segnato dall’intera vita dell’asilo»
(Foucault). Azione quella dell’istituzione dunque non neutrale, non
tralasciabile, poiché si va a sovrapporre a quella perdita di
progetto e desiderio che già
la malattia in quanto tale
pare comportare nella esistenza del malato.
Con Margherita solchiamo i primi passi nei corridoi
«dell’ospedale», ascoltando in sottofondo le
urla, urla di dolore, che divengono ultima possibilità di
espressione del malato in tali condizioni e contenzioni. Si subiscono
manovre mediche e psicoterapeutiche che hanno piuttosto la parvenza di
torture. Manovre perpetrate da coloro i quali in nome dell’istituzione e
della sicurezza dei «sani» riducono la vita soggettiva del malato a puro
oggetto, mediante un dispositivo che finisce con il porre lo stesso
medico nel ruolo di «sorvegliante»
e «moderatore degli eccessi cui la malattia poteva portare» (Basaglia,
1964).
In Basaglia nasce così, e da qui, l’idea più semplice di
tutte: un dispositivo manicomiale tal fatto deve cambiare. L’esperienza
dell’inumanità delle manovre «terapeutiche» fa scaturire l’esigenza di
rivedere i nodi teorici e concettuali a difesa di questa istituzione,
ribaltando l’assioma che finisce con l’oggettualizzare il malato. Tale
convinzione va posta in pratica e partendo dalle mura dell’ospedale
bisogna cambiare l’impalcatura legislativa che sostiene tale idea di
manicomio.
Da cosa partire? Il manicomio è un capolinea: non c’è spazio
per quel processo di separazione- individuazione che appare così
necessario alla crescita dell’individuo, dal momento che l’istituzione
ingloba e getta la chiave d’uscita dell’asilo. E, soprattutto, il
rapporto con l’altro è praticamente annullato.
Nella fiction c’è una operatrice sanitaria nella quale
scaturisce una scintilla, una scossa interiore, che permette di iniziare
a riannodare quel complesso rapporto che riguarda il piano dell’incontro
con l’altro. Nives dice: «Io ci ho
provato a far finta di niente. Per dieci anni […] erano tutte uguali,
con i capelli tagliati tutti uguali…i camici. Per me era come fare la
guardia alle oche; ma adesso […]. Margherita che urlava mi ha seguita
fino a casa, me la son sognata tutta la notte». È in tale reazione
viscerale che si apre simbolicamente una breccia nella coltre di
automatismi istituzionali ai quali si è sottaciuto per tanto tempo.
Certamente esse sono parole che appartengono al
topos della fiction, ma
legittimamente, suggeriamo, lasciano intravedere uno dei punti di
partenza del «rovesciamento» necessario, della messa in «crisi», con la
quale l’istituzione psichiatrica deve fare i conti.
Con questo coraggio le celle si aprono, le camicie di forza
di sciolgono. Segni di una nuova era.
Basaglia, acutissimo pensatore, nel 1964 ci racconta che
tuttavia un tentativo simile fosse già stato effettuato. Philippe Pinel,
fondatore della moderna psichiatria, per primo nella storia libera il
malato dalla sua contenzione dando dignità a lui e alla sua affezione,
«separandolo dalle altre figure (poveri, vagabondi, emarginati) cui era
precedentemente assimilato» (Galimberti). Qui un punto di capitale
importanza. Basaglia in questi anni si interroga su come ulteriormente
superare tale tipo di scenario, ed andare oltre la
semplice azione di scalfittura
della contenzione. E ciò avviene chiedendosi di che tipo di liberazione
si possa parlare, quando sperimentata in uno «spazio che resta comunque
chiuso», uno spazio che dona libertà ancora «messa nelle mani del
legislatore e del medico che dovevano dosarla e tutelarla». Ce lo
proviamo a chiedere anche noi.
Ma intanto una corda si tende e la prima parete crolla. Il
primo muro, simbolo della clausura. Il primo a cadere è quello che
separa tra loro i gruppi di pazienti, i reparti maschili e femminili.
Bisogna continuare di questo passo per scardinare quello che comunque
resta a presidiare il perimetro della contenzione eretta intorno alla
vita del malato. E un passo viene compiuto sul piano legislativo. Dopo
varie lotte viene promulgata la legge 431 del 1968 che riconfigura le
modalità del ricovero, sancendo l’abbattimento del ricovero coatto e
segnando di fatto una tappa importante nell’opera di riqualificazione
delle coordinate psichiatriche, processo in divenire che porterà fino
alla legge 180.
1971. Trieste. Franco Basaglia assume la direzione
dell’ospedale psichiatrico. L’esperienza di Gorizia, sebbene tra tante
difficoltà può reputarsi consolidata e determina la direzione da
intraprendere: «trasformare
l’organizzazione non per riformarla, ma per superarla attraverso la
costruzione di una rete di servizi territoriali, alternativi e
sostituivi delle molteplici funzioni di cura, ospitalità, protezione e
assistenza assolte dall’ospedale» (dsm
Trieste). Questa è la nuova sfida. Sfida accettata che tuttavia bene la
fiction ci aiuta ad illuminare in tutta la sua problematicità: la
difficoltà di riannodare i fili del rapporto con
l’esterno quando lo spettro
della cronicità e dell’istituzionalizzazione hanno così lungamente
lavorato e quando gli altri, i sani, sotto l’effetto dello stigma
sociale proclamano un’immagine pericolosa e morbosa del matto.
Così suscitano una enorme simpatia i primi tentativi dei
pazienti di ritrovare-riscoprire-inventare-creare la propria storia ed
un proprio progetto di vita e di mondo. Affettuoso da vedere nel luogo
della fiction, commovente da leggere e ritrovare nelle pagine di
Giuseppe Dell’Acqua in «Non ho l’arma che uccide il leone - Storie del
manicomio di Trieste», pagine queste che permettono di
assaporare sentimenti, vissuti, mai presi in considerazione prima
di allora, perché «il malato», ad esempio,
«non può essere una persona che si
innamora». È questa la cornice che deve cambiare, ed alcuni reparti
subiscono un processo di riconfigurazione iniziando ad essere adibiti a
laboratori. È da uno di questi che vede la luce una cavallo di nome
Marco, Marco Cavallo che contiene le speranze, i sogni, le fantasie di
coloro che desiderano varcare il baratro dell’isolamento. E che un
giorno, un bel giorno, viene condotto per le strade con il suo corteo di
«matti».
Occasione finalmente per fare festa. Benché non sia semplice
ritrovare una nuova vita dopo l’allontanamento subito. Ma la macchina
ormai è partita ed è inarrestabile, perché ormai si parla di
«dar corso a un progetto politico che non si arresti alla bonifica
umanitaria del manicomio, né alla semplice trasformazione delle sue
dinamiche di funzionamento interno, ma metta in discussione la
persistenza stessa dell’istituzione totale» (dsm
Trieste). E l’istituzione in effetti crolla, seppure tra tante
difficoltà sia burocratiche che talvolta provenienti dagli stessi
pazienti e le loro famiglie che improvvisamente si trovano a doversi
prendere cura di quei soggetti che la società aveva tentato di ripudiare. O forse
semplicemente in attesa della costruzione di una rete che possa
accogliere la persona che chiusa nella dimensione manicomiale associava
allo spettro mortifero della malattia il reale dell’allontanamento e
reclusione.
È ormai passato del tempo dai tentativi pioneristici che
hanno visto l’Italia tentare di modificare il proprio assetto
istituzionale in tema di salute mentale. La presa in carico della salute
mentale riguarda oggi le singole regioni dalle quali dipendono
direttamente le asl e i
nuovi spdc, servizi psichiatrici di diagnosi e cura.
A mo’ di chiusura tornerei però a soffermarmi su una
questione. Il lavoro di Basaglia è stato un lavoro di equipe che ha
impegnato un grande numero di attori, intellettuali ed operatori che con
passione si sono dedicati in questa opera. In tal senso, in una
intervista recentemente rilasciata a Fahrenheit da Franco Rotelli
(subentrato a Trieste dopo Basaglia), sarebbe improprio parlare del
lascito di Basaglia come ad una eredità e forse pensare, come in parte
la fiction ha fatto, che questa celebrata opera di «rivoluzione» abbia
riguardato un solo uomo. Certamente anche la sua prematura scomparsa ha
lasciato nelle mani di altri un’opera, la legge 180, da continuare, da
rendere concreta e reale, nonché vicina alle esigenze di quanti abbiano
bisogno di rivolgersi a servizi per la cosiddetta salute mentale. Si
sente dire tuttavia che a distanza di trenta anni da questa legge è
stato fatto molto ma molto c’è ancora da fare.
Senza poter entrare nel merito di una complessità storica e
sociologica che riguarda il discorso sulla salute mentale, vorrei fare
la seguente considerazione.
Freud, sappiamo, ha guardato il fenomeno schizofrenico dal
punto di vista del dispositivo analitico, definendo il paziente
schizofrenico «strutturalmente» improbabile da raggiungere con il metodo
psicoanalitico a causa della sua particolare configurazione libidica e
relazionale.
Riprendendo tale sommaria ed imprecisa (a causa mia)
definizione freudiana desidero usarla per porre l’accento su la
questione che ritengo saliente, cioè, i vissuti che possono mobilitarsi
negli operatori che si trovano a confrontarsi con una tale tipologia di
formazione psicologica. Il paziente «schizofrenico» costruisce un mondo
appartato con il quale ci sono poche o punto possibilità di mettersi in
contatto. In una relazione di tal sorta nell’operatore possono
mobilitarsi sentimenti di sgomento e di impotenza, a causa proprio
dell’incontro con un soggetto così difficile da raggiungere.
Senza poter approfondire oltre in tale sede tale discussione,
ma sperando che ce ne sia l’occasione in futuro, torno a Nives, la
nostra operatrice sanitaria. È lei che ci porta nel punto in cui, come è
stato bene descritto nel testo «Il paese degli specchi»,
«modificare un assetto cancrenoso, stabilizzato da oltre un secolo, non
significa infatti solo cambiare una cornice, bensì entrare nel vivo dei
problemi di ordine relazionale che il confronto con la sofferenza
psichica impone» (De Martis, Petrella, Caverzasi, 1980). È su tale
punto che si gioca – e combatte – la sfida del presente, sul campo della
relazione, punto di incontro mai scontato con l’altro che ci sta di
fronte; incontro che tuttavia troppo spesso diviene per gli operatori e
le strutture che si occupano di salute mentale, chiuso nelle categorie
diagnostiche di un manuale e di un immaginario che con troppa facilità
finisce a parlare di disturbo. È molto più faticoso praticare l’ascolto nel tentativo di
dare rilievo, colore, espressione, al vissuto esistenziale della
persona, spostandosi cioè sul versante del
disagio, senza ricadere a
racchiudere ed incasellare l’esistenza dell’altro in categorie aride e incapaci di aiutarlo nella
ricerca di una propria forma di significato. Le manovre terapeutiche
poco attente all’ascolto temo possano oggi diventare la prosecuzione
della contenzione fisica perpetrata a suo tempo. Un modo più evoluto di
perpetrare emarginazione.
Concludo davvero riprendendo uno scritto di Franco Rotelli
del 1974 sulle tappe della «Pratica psichiatrica di Trieste», che credo
possano essere ancora luce per i soggetti che a vario titolo e livello
vivono da vicino il mondo del disagio mentale:
«Ad un livello più arretrato si
pone il primo momento: lotta contro le attuali strutture
psichiatriche come repressivo-custodialistiche. – ad un secondo livello si pone la lotta contro le strutture psichiatriche, anche riformate, come comunque
luoghi di istituzionalizzazione della malattia. – ad un terzo livello si pone la lotta contro la malattia come
istituzionalizzazione della sofferenza.
– ad un quarto livello la lotta contro la sofferenza come necessità
nel mondo del capitale e della società dello scambio».
È questa la sfida cui la pratica medica, psichiatrica e
psicologica devono ancora costantemente accettare.
«A tutti coloro
impegnati nella relazione di cura con l'altro».
APRILE 2010