Questione meridionale
Salerno e la morte del piano
Redazione
Si è fatto, nel periodo preelettorale campano, un gran
parlare delle magnifiche sorti possibili di una Regione da
debassolinizzare in salsa deluchiana. A qualche sparuto stuolo di
soggetti non inclini a facili entusiasmi, fra cui questa rivista, non
pareva tuttavia di scorgere in tale operazione di riconversione politica
in extremis sorti progressive alternative tanto alle forme di potere
intrinseche al sistema Bassolino, a ciò che questo era diventato negli
anni, quanto allo spauracchio di una destra che non nasce in Regione
certo dopo la sua vittoria elettorale, ma che evidentemente già in
anticipo viveva e cresceva in grembo ad una «sinistra» molto
accogliente. Eppure in molti hanno creduto che piegarsi alla soluzione
De Luca era l’unica via d’uscita dal baratro incombente della destra,
mentre altri speravano in lui proprio sinceramente, in quanto deluchiani
convinti di una sua desiderabilità oggettiva. Tutti sono rimasti delusi,
nonostante fosse chiaro che la destra regnava già senza bisogno di
eleggersi formalmente e comunque indipendentemente dagli esiti
elettorali.
L’argomento principale sciorinato da chi, pur presagendo
l’inesistenza di orizzonti alborei, si consolava con la prospettiva «De
Luca presidente» era: «ma avete
visto come tiene la città?». Al che subito affioravano alla mente di
chi ascoltava delle immagini, simbolicamente sintetizzate nel topos
Piazza della Libertà (p.d.l.) e non proprio rassicuranti a dire il
vero, di passeggiate d’altri tempi, in dechirichiane esedre generose di
inadombrato sole, dove poter cogliere frescura presso protettive teorie
di capitelli in stile Brezniev, forse retaggio inconscio di memorie
varsaviesi del primo cittadino della nuova Salerno, specchiandosi in un
mare di vetrine da spiaggia[1].
A Salerno di vetrine ce ne sono parecchie ma nessuno aveva
mai pensato di portarvi il riflesso del mare in esposizione. Questa è
davvero un’idea su cui costruire un metafisica futura.
Di fronte allo sgomento per simili visioni, ci siamo messi
alla ricerca di altri pareri contrariati quanto i nostri, forse per non
sentirci troppo soli. In questo modo ci siamo imbattuti, per nostra
fortuna, in una persona che di Salerno conosce, da una posizione
privilegiata, tutte le storie recenti: l’architetto Fausto Martino[2],
assessore all’urbanistica nella prima amministrazione De Luca ed oggi
coordinatore del settore paesaggio della soprintendenza di Salerno e
Avellino. Martino di questa città conosce più di un volto, quello
consegnatoci dalle storie recenti e meno recenti, quello immaginato
dall’uomo nella straordinaria e quasi eroica vicenda della redazione del
Piano Regolatore Generale (prg)
di Bohigas, di cui Martino è stato il principale interprete e
sostenitore, nonché materiale esecutore, durante i dieci anni che lo
hanno visto a fianco dell’urbanista spagnolo e infine quello storpiato
da chirurgie omicide praticate sul corpo di un piano che quando ha visto
la luce era già figlio di defunte speranze, ma soprattutto padre di
inquietanti futuri, come quello che si costruirà, ad esempio, con Piazza
della Libertà.
Dato che ciò che Salerno è e diventerà variandosi
indefinitivamente sarà il tempo a raccontarcelo, noi da Fausto Martino
abbiamo voluto il racconto della città che non potremo più vedere,
quella che aveva immaginato con Bohigas per dare ai salernitani una
città pensata e non solo esistente e a noi altri prima ancora che un
insegnamento concreto ed innovativo sul modo di pianificare la città
oggi, la dimostrazione che farlo era ancora possibile e, cosa ben più
importante, che farlo al Sud era cosa ancora immaginabile. Insomma
Il proponimento di questa nostra sorta di inchiesta
sull’omicidio del piano regolatore di Salerno, parallelo tra l’altro a
quello napoletano, come emblema dell’omicidio della pianificazione in
generale nella degenerazione della politica cui assistiamo, è quello di
riuscire attraverso questo breve articolo, e quelli più dettagliati che
auspichiamo seguiranno, a schizzare una bozza capace di restituire
almeno in parte l’immagine di ciò che per un tempo troppo breve Salerno
era diventata in potenza.
Curiosi di capire i modi concreti in cui poteva impostarsi un
tipo di pianificazione urbanistica capace di evitare le distorsioni
comuni a tutte le città disegnate, ai quattro angoli del pianeta,
dall’unico grande pianificatore di successo mondiale: il mercato
fondiario; siamo lieti di riportare quanto appreso in merito dal nostro
interlocutore, il quale ci ha chiarito anche i contorni extra
disciplinari di questa vicenda partita oramai più di vent’anni fa, nel
1989, quando
Bohigas, a fronte dell’incarico ricevuto nell’89, ha
cominciato ad operare concretamente solo nel 1994, poiché prima di
allora non esisteva neanche una cartografia di riferimento, che
fotografasse lo stato di uno sviluppo fuori controllo degli anni
dell’espansione selvaggia, sulla quale poter elaborare analisi e
proposte. Prima di avviare il processo di analisi e progettazione urbana
che sarebbe andato a formare il piano, Bohigas elaborò un corpus di
principi sui quali sviluppare il lavoro di redazione del piano.
Con il piano di Salerno l’urbanista spagnolo coglieva dunque
l’occasione di concretizzare una riflessione più generale sulle
problematiche della città contemporanea e Salerno, dal suo canto,
l’occasione di poter fare scuola sull’argomento. Tale corpus di principi
è raccolto nel Documento
programmatico di preparazione del piano. Riportiamo di seguito,
alcuni rimandi ad esso.
Le città non si devono
espandere.
Si deve cioè cercare di evitare, limitandola, la continua erosione del
territorio all’esterno dell’area urbana, mentre parallelamente va
degradandosi l’ambiente interno alla città. Questo è ottenibile ponendo
un limite all’espansione al fine di dirottare le complesse dinamiche
alla base degli investimenti immobiliari sul già costruito in vista
della sua riqualificazione necessaria. È noto che costruire ex novo è
più semplice e comodo, nel senso che permette maggiori margini di
profitto, del riqualificare, ristrutturare o conservare e restaurare,
pertanto la naturale tendenza degli investimenti nel settore immobiliare
è quella della colonizzazione edilizia di qualsiasi area libera a
scapito dell’attenzione progettuale e finanziaria che invece la città
consolidata invecchiando pone, nell’abbandono ai propri bisogni. Inoltre
proiettando esclusivamente in direzione centrifuga gli unici interventi
costruttivi si elude qualsiasi discorso organico sulla possibilità
stessa di riconfigurare, ove necessario, parti di città recentemente
consolidata, le quali però non sono frutto di processi di costruzione
pianificati, sottraendo in questo modo fin’anche la possibilità di
riparare guasti.
Mai più quartieri
popolari.
Uno dei maggiori problemi degli interventi residenziali pubblici al Sud,
anche quando condotti con le migliori intenzioni, è rappresentato dalla
difficoltà acutissima di evitare la ghettizzazione urbana dei ceti
sociali destinatari dell’edilizia economica e popolare. Mai più
quartieri popolari significa mai più concentrazione monofunzionale di
edilizia economica e non «mai più edilizia pubblica». Cioè Bohigas non
pensa che non si debba fare edilizia economica, anzi, solo che questa
deve essere diffusa, vale a dire sparsa in giro fra i quartieri
esistenti. Non si tratta di eliminare la distinzione di censo (obiettivo
che l’urbanistica, da sola, non è in grado di assumere), ma quantomeno
di configurare una città non divisa per censo, senza quartieri
dormitorio.
Spostare l’attenzione
dagli indici di edificabilità alla qualità urbana dei progetti.
L’indice di
fabbricabilità indica la quantità di metri cubi di costruito che può
realizzarsi per metro quadro di terreno, (di superficie fondiaria) a
seconda delle zone «omogenee individuate», come ad esempio la zona A
centro consolidato o zona storica,
B zona edificata recentemente,
C zona di espansione, D
industriale, E
agricola, e così via. Per
molti anni i piani regolatori sono stati sostanzialmente la divisione
del territorio urbano in diverse zone con edificabilità differenziate (zonizzazione), cosa che tra l’atro favoriva chi aveva lotti
disponibili in zone con alta edificabilità rispetto a chi i terreni li
aveva in zone a bassa o nulla edificabilità. Con il
prg di Salerno si tenta di
liberare la pianificazione dall’ambito esclusivamente zonizzante (e
sclerotizzante) e restituire ad essa anche delle modalità più concrete
per dare indirizzi progettuali e stabilire standard qualitativi oltre
che quantitativi. Quindi diventava importante individuare al livello del
piano alcuni ambiti omogenei, per così dire strategici, in cui andare a
concentrare degli interventi pianificati pubblicamente (capaci di
sfruttare anche finanziamenti privati) che fossero in grado di avere un
impatto qualificante anche per il loro immediato contorno urbano. Esempi
ne sono i progetti della Lungo Irno, della Cittadella giudiziaria, il
Grand hotel Salerno al posto dell’ex cementificio, ed altri. La
strategia era quindi quella di partire da 4 o 5 progetti di respiro
urbano intorno ai quali «ammagliare» il piano.
Evitare il
monofunzionalismo di interi pezzi di città. Evitare cioè quanto rappresentato dal centro
direzionale di Napoli, dove si svolge quasi solo attività da terziario e
non c’è vita durante l’arco intero delle 24 ore, come invece dovrebbe
essere e porre attenzione a tenere bene insieme tutte le funzioni
compatibili tra loro, ottenendo il cosiddetto «mix di funzioni». Questo
nella piena consapevolezza che il monofunzionalismo è facile da
realizzare e da gestire (controllare), ma al costo di configurare un
insieme urbano come somma di luoghi di reclusione sociale, mentre al
contrario la compresenza funzionale è di difficile pianificazione e
gestione, ma rappresenta ciò che contribuisce a dare qualità alla vita
cittadina. Bohigas sosteneva che la maggiore complessità derivante dal
miscuglio delle attività era tutto sommato gestibile attraverso una
corretta pianificazione e attraverso i nuovi strumenti concettuali che
l’urbanistica andava definendo e che quindi era proprio il caso di
raccogliere in pieno la sfida. Per questo motivo ad esempio si era
capito che la cosiddetta Cittadella giudiziaria non dovesse sorgere
monoliticamente fuori dalla città, come era accaduto per l’Università a
Fisciano, quest’ultima configurata sul modello americano del college, ma
piuttosto essere organizzata sulla connessione dei suoi uffici ed
attività all’interno dell’esistente. Anch’essa doveva essere diffusa. Il
monofunzionalismo è infatti un problema che non riguarda solo l’edilizia
economica. Si trattava, come si può capire, di mettere in discussione
alcuni assiomi urbanistici che per decenni avevano condizionato
negativamente lo sviluppo anche delle città pianificate.
Bohigas, però, si rende conto che questi principi, giusti dal
punto di vista sociale ed urbanistico, si scontrano con una
contraddizione determinata dal mercato. Infatti la riqualificazione
della città attraverso una serie coerente e pianificata di progetti
urbani sui quali impostare lo sviluppo futuro, porta come conseguenza
inevitabile, in un’economia di mercato, al problema della crescita
incontrollata e disomogenea della rendita fondiaria. Nasce dunque
l’esigenza di individuare quei meccanismi di piano per abbattere la
rendita fondiaria (che è oggi invece uno dei problemi maggiori di
Salerno). Bohigas pensa di arrivare a spalmare la rendita in modo
uniforme e così, traendo spunto dagli esempi migliori di piani
urbanistici dell’epoca (il Piano di Torino[3]
di Vittorio Gregotti e Augusto Cagnardi, il Piano di Ferrara[4]
e quello di Reggio Emilia[5]),
giunge a ritenere centrale il concetto di «perequazione urbanistica»,
oggi recepito dalla stessa Legge Regionale urbanistica della Campania
del 2004, ma che all’epoca era ancora solo «teoria». Come funziona, o
dovrebbe, la «perequazione urbanistica»? In pratica si tratta di
definire il valore delle aree urbane non in termini monetari ma in
termini volumetrici, attribuendo ad ogni zona «non agricola»
un’edificabilità che deriva dal suo stato prima delle scelte di piano e
non dopo. In questo modo si riusciva a svincolare la proprietà fondiaria
dalle scelte di piano ed evitare dunque la determinazione del piano in
funzione delle proprietà fondiarie. Il problema maggiore della
pianificazione urbanistica infatti è sempre stato rappresentato dal
fatto che le sue scelte finivano per determinare enormi incrementi di
valore di alcune aree cittadine a discapito di altre (sperequazione) e
che in ogni caso o si accettavano queste conseguenze o si rinunciava a
fare delle scelte. Questo faceva del
prg sostanzialmente uno
strumento di definizione di rendite più che uno strumento di
pianificazione dello sviluppo urbano. Con la perequazione, invece,
stabilita l’edificabilità delle zone, nel loro assetto ante-piano,
questa veniva poi spalmata armoniosamente su tutto il corpo urbano,
compensando gli squilibri. Il «dimensionamento» del piano diventava
allora la determinazione dell’edificabilità della città in modo da
ottenere una distribuzione livellante delle rendite fondiarie e questo
significa che si innescava un meccanismo efficace ma delicato che
sarebbe saltato non appena si fossero fatti interventi di nuova edilizia
senza rispettare le previsioni di piano. La perequazione è infatti come
una coperta, cioè sempre troppo corta, se la si tira da un lato lascia
scoperto l’altro.
Sulla questione delle rendite ci sono inoltre da distinguere
due aspetti: a) il problema delle opere pubbliche; b) il problema delle
rendite private.
Se il piano non era ancora definito, questo non andava in
contraddizione con la scelta di partire da alcuni progetti urbani,
perché in assenza di regole certe le opere pubbliche si possono fare lo
stesso, dato che esse non producono rendite private. Producono sì
profitto per le imprese di costruzione e tutto ciò che vi ruota attorno,
ma non rendita, che è cosa diversa. Con la perequazione dunque la
normativa del piano trova delle soluzioni ai due obiettivi dichiarati di
evitare il meccanismo perverso della crescita incontrollata delle
rendite fondiarie e al contempo rispondere al fabbisogno di standard,
cioè il minimo di servizi urbani, come verde, parcheggi, scuole ecc.. da
garantire comunque zona per zona e di cui Salerno era in ogni modo
deficitaria. L’esistenza di un piano organico è inoltre di per se stessa
un fattore di senso generale anche dei singoli progetti pubblici che si
vanno a realizzare.
Sulla base di queste premesse ad Aprile del 2003 il piano di
Bohigas era pronto dopo quasi 10 anni di lavoro. Era nato, su principi
innovativi, prima della Legge urbanistica regionale, anzi dando degli
spunti consistenti alla sua elaborazione. Non doveva farsi altro che
adottare il piano per cominciare la sua attuazione in vista
dell’approvazione definitiva. L’iter di legge infatti prevede la
distinzione fra adozione ed approvazione, l’una come atto dovuto appena
possibile, l’altra come atto anche di democrazia per evitare che uno
strumento della portata di un piano regolatore generale possa diventare
legge senza essere pubblicato, discusso ed eventualmente emendato. Fino
a qui i voli della mente.
A questo punto della storia comincia il processo inverso a
quello precedente, la castrazione dell’avvenire. Dieci anni di lavoro
per dare vita al piano, ora quelli necessari per evitarne
l’applicazione. Infatti immediatamente prima dell’adozione si fanno
avanti una serie di privati che vogliono in qualche modo mettere le mani
su ciò che il prg propone. Questo ovviamente rischia di far saltare tutto
il meccanismo delicato della perequazione.
Solo ora Martino comincia a conoscere le reali intenzioni di
De Luca, quando, a seguito delle sue pressioni per l’adozione del piano,
questi gli comunica che invece esso non va approvato, pena la chiusura
dello Sportello unico. Lo
sportello unico è un ufficio comunale previsto dalla normativa nazionale
che consente di fare gli «scopi produttivi» cioè le edificazioni «non
residenziali» ovunque si voglia a condizione che: a) non siano previste
zone dedicate a tali scopi nel territorio comunale; b) che ove previste
esse siano già sature. In sostanza la legge permette di edificare con
indici adatti all’industria su qualsiasi parte del territorio, sia
quando non esista pianificazione comunale, come è possibile in tutta una
serie di piccole realtà urbane, sia quando le aree previste per questo
tipo di destinazioni siano già esaurite. Lo sportello unico (art. 5 del
d.p.r. 447/1998) si
configura quindi come il canale principale di elargizione (politica)
delle licenze comunali, ma non ha senso in presenza di un piano
regolatore vigente.
Lo sportello unico rappresenta per De Luca lo strumento di
potere principale, per questo egli comincia a vedere l’adozione del
prg come un ostacolo al suo
controllo personale su cosa si costruisca in città. Il citato L’articolo
5 del citato d.p.r è
qualcosa che vale in regime di straordinarietà (assenza di piano) e che
in mancanza di strumentazione urbanistica diviene perciò «ordinario»,
esso è da un punto di vista di gestione in contraddizione con il
prg nel senso che se esiste
l’uno non può valere l’altro e viceversa. De Luca comincia
coscientemente ad elaborare una strategia per evitare l’adozione del
piano, mettendo in piedi un «grande processo democratico» di discussione
del piano, prima della sua adozione. In pratica si tratta di inventarsi
un modo qualsiasi per evitarne l’adozione, come se questa fosse cosa da
discutere e non un fatto dovuto. La citata differenza fra adozione ed
approvazione serve anche ad evitare l’assurdo di una crescita
disorganica della città in presenza di uno strumento urbanistico
esistente seppure non ancora approvato definitivamente. Quindi il piano
una volta concluso va adottato e a seguito della sua adozione si avvia
il processo di discussione pubblica, come già previsto per legge. De
Luca è invece scaltro a far passare quest’ostacolo all’adozione come
un’intenzione di democraticità, mentre il suo movente essenziale è
semplicemente quello di differire e rimandare quanto più possibile la
definizione di regole certe nel processo di crescita urbano al fine di
poterne conservare il controllo.
È così che si mette in piedi un gruppo di «intellettuali» (il
gruppo dei 30) che hanno il compito di vagliare criticamente e
pubblicamente il prg di
Bohigas, mentre in parallelo dietro il sipario delle trenta comparse si
procede con la concessione di varianti rispetto ad un piano non ancora
adottato e già spacciato. Per i meccanismi della perequazione, si
capisce bene che ogni variante, se concessa in deroga alle previsioni
del piano, è qualcosa che condiziona il piano stesso, cambiandone via
via gli equilibri fino a snaturarlo completamente. La conclusione del
gruppo dei 30 è, niente meno, che la non adottabilità del piano. Persino
Rifondazione Comunista (esperta in spaccature) si divide su questa
questione, cadendo sostanzialmente nella trappola diversiva di De Luca
(«cadendoci» nella sua presupposta buonafede). Tra parentesi, mentre il
piano originario di Bohigas veniva vagliato «criticamente» prima della
sua adozione, nessun dibattito è stato poi fatto in sede di
approvazione, avvenuta infine nel 2006 ed ancora oggi il
puc di Salerno non è
neanche reperibile sul sito del comune, a riprova che la democraticità
dei processi concreti non è mai obiettivo sincero del potere, ma sempre
comodissima strumentalizzazione.
Martino a questo punto capisce che sono a rischio, oltre che
10 anni di lavoro, anche tutti i potenziali frutti socialmente positivi
di tale impegno e continua a difendere il piano praticamente da solo
contro tutti. Arriva persino a non porre pregiudiziali di merito
sostenendo che le varianti si possono approvare tranquillamente a patto
che siano in coerenza con il prg.
È in questo momento che Martino viene «processato»
(sommariamente) dai consiglieri comunali DS e nella sede dei DS, i quali
prendono spunto da alcune sue dichiarazioni rilasciate al quotidiano
il Mattino in quella che lui
ritiene essere stata una sorta di intervista/trappola. L’esito del
processo è il seguente nei confronti di Martino: puoi restare se fai
passare le varianti a prescindere. Martino ovviamente si dimette, non
può essere lui a sfasciare quanto realizzato faticosamente.
In tutto questo il prg
resta nel cassetto, viene congelato e se ne comincia la revisione,
mentre nel frattempo si approvano le «varianti», che non coerenti al
piano redatto da Bohigas, sono unicamente rivolte a scaricare rendita
fondiaria su alcuni ben individuati suoli; in assenza di una coerenza di
fondo, divengono semplicemente realizzazioni eversive del piano, slegate
e pertanto fini a se stesse. La rimodulazione del
prg (che nel frattempo si
chiama puc e che appare
come processo indotto dalla nuova Legge urbanistica regionale) è
fatta in modo da conservare l’immagine apparente e superficiale del
piano di Bohigas, ma avendo cambiato tutto ciò che non è immediatamente
visibile in termini di grafica e colori. È scomparsa l’edilizia popolare
diffusa, scomparso il concetto di chiara delimitazione della città,
abbassato il lotto minimo (per poter edificare) in zona agricola,
introdotte nuove norme che permettono alle zone industriali di crescere
più di quanto previsto se cambiano destinazione (se diventano cioè
qualcosa di diverso da insediamenti produttivi). Un ritratto screziato
del piano precedente. Ad esempio nell’area industriale della
mcm, l’indice di
edificabilità previsto da Bohigas era già di 3,5 mc/mq (cioè alto), ma
viene portato, già con una «variante anticipatoria» a 7,4 (più del
doppio) e questo «premio» volumetrico si ottiene paradossalmente in
ragione del «cambio di destinazione» dell’area che da industriale
diviene altro. Va detto che in generale gli indici alti in zone
industriali si giustificano per consentire agli opifici di assumere la
forma che i processi produttivi impongono, qui invece al contrario si
concedono indici elevatissimi proprio se non si fa industria o
produzione materiale.
Quindi la produzione (il secondario) viene progressivamente
eliminata in favore di destinazioni il cui unico fine è la rendita
garantita dai fitti residenziali o commerciali elevatissimi. Questo
processo rappresenta la finanziarizzazione dell’economia edilizia, e di
riflesso la terziarizzazione post-fordista della città, cioè il
territorio non è più sede di investimenti con finalità produttive, ma
solo speculative, perché più facile, più comodo e più remunerativo, in
termini di profitto, s’intende. Da questo punto di vista le città
diventano un enorme contenitore di rendite potenziali per i costruttori
proprio quando perdono il loro ruolo industriale. Ovviamente più si
costruisce densamente, più il rapporto degli standard urbanistici si
squilibra in senso negativo e con il mercato delle costruzioni
controllato da pochi soggetti non si riesce neanche ad avere un
abbassamento dei fitti. Il risultato è necessariamente un fitto maggiore
per una città peggiore. La città come privilegio degli abbienti.
Di passata è utile notare, sollecitati da Martino, la
speculazione colossale e preventiva rappresentata dal «piano casa
Campania»[6]
(legge pasticcio in vigore dalla fine del dicembre 2009) in cui il
premio volumetrico per i fabbricati industriali, in luogo di quello di
superficie, significa questo: se si dispone, poniamo, di un capannone
industriale di 600 mq (metri quadri) e si può ampliarlo del 20%
«volumetricamente» anche trasformandolo in edilizia residenziale,
significa che, posto il volume come prodotto di superficie per altezza,
in ragione dell’altezza dei capannoni industriali molto maggiore dei
piani residenziali, dal capannone di partenza si ottengono non 600 mq
incrementati del 20% (cioè 720 mq), ma 600 mq che per la loro altezza
(ad esempio di
L’opposizione fra speculazione edilizia e burocrazia è solo
il riflesso delle poste in gioco esistenti fra interessi privati e loro
mediazione politica, tutto il resto, e cioè quello che veramente conta
socialmente, rimane esterno da qualsiasi discorso sul futuro del
territorio.
In conclusione nonostante lo sforzo profuso da Bohigas e
Martino per fare del piano di Salerno un’occasione di invertire queste
tendenze perverse intrinseche alle dinamiche naturali del settore
edilizio, alla fine del discorso abbiamo l’ennesimo omicidio di
qualsiasi volontà di progresso urbano e l’erezione a sistema proprio
dell’esatto opposto rappresentato dal depotenziamento funzionale, in
generale, delle discipline scientifiche e in particolare dei principi
che avevano ispirato la rinascita di una città necessaria prima che
possibile.
Questo come splendida eredità dell’inquietante parabola del
centro sinistra regionale.
APRILE 2010
[1]
per farsi un’idea:
www.archiportale.com/news/2010/03/architettura/il-nuovo-waterfront-di-salerno-disegnato-da-ricardo-bofill_18302_3.html
[2]
Vedi anche:
www.ilsemesottolaneve.org/site/?p=220
[3]
Per approfondimenti in merito:
www.siat.torino.it/public/Comuniato%20Stampa.pdf
[4]
Per approfondimenti in merito:
http://urbanistica.comune.fe.it/index.phtml?id=79
[5]
Per approfondimenti in merito:
http://progettare.pianotelematico.re.it/portal/page?_pageid=73,41713&_dad=portal&_schema=PORTAL
[6]
vedi anche:
www.eddyburg.it/article/articleview/14461/0/356/