nuovo banner vecchio
01
Maggio 2010

home - indice

Questione meridionale

LA CITTÀ VARIANTE

Salerno e la morte del piano

Redazione

 

Si è fatto, nel periodo preelettorale campano, un gran parlare delle magnifiche sorti possibili di una Regione da debassolinizzare in salsa deluchiana. A qualche sparuto stuolo di soggetti non inclini a facili entusiasmi, fra cui questa rivista, non pareva tuttavia di scorgere in tale operazione di riconversione politica in extremis sorti progressive alternative tanto alle forme di potere intrinseche al sistema Bassolino, a ciò che questo era diventato negli anni, quanto allo spauracchio di una destra che non nasce in Regione certo dopo la sua vittoria elettorale, ma che evidentemente già in anticipo viveva e cresceva in grembo ad una «sinistra» molto accogliente. Eppure in molti hanno creduto che piegarsi alla soluzione De Luca era l’unica via d’uscita dal baratro incombente della destra, mentre altri speravano in lui proprio sinceramente, in quanto deluchiani convinti di una sua desiderabilità oggettiva. Tutti sono rimasti delusi, nonostante fosse chiaro che la destra regnava già senza bisogno di eleggersi formalmente e comunque indipendentemente dagli esiti elettorali.

L’argomento principale sciorinato da chi, pur presagendo l’inesistenza di orizzonti alborei, si consolava con la prospettiva «De Luca presidente» era: «ma avete visto come tiene la città?». Al che subito affioravano alla mente di chi ascoltava delle immagini, simbolicamente sintetizzate nel topos Piazza della Libertà (p.d.l.) e non proprio rassicuranti a dire il vero, di passeggiate d’altri tempi, in dechirichiane esedre generose di inadombrato sole, dove poter cogliere frescura presso protettive teorie di capitelli in stile Brezniev, forse retaggio inconscio di memorie varsaviesi del primo cittadino della nuova Salerno, specchiandosi in un mare di vetrine da spiaggia[1].

A Salerno di vetrine ce ne sono parecchie ma nessuno aveva mai pensato di portarvi il riflesso del mare in esposizione. Questa è davvero un’idea su cui costruire un metafisica futura.

Di fronte allo sgomento per simili visioni, ci siamo messi alla ricerca di altri pareri contrariati quanto i nostri, forse per non sentirci troppo soli. In questo modo ci siamo imbattuti, per nostra fortuna, in una persona che di Salerno conosce, da una posizione privilegiata, tutte le storie recenti: l’architetto Fausto Martino[2], assessore all’urbanistica nella prima amministrazione De Luca ed oggi coordinatore del settore paesaggio della soprintendenza di Salerno e Avellino. Martino di questa città conosce più di un volto, quello consegnatoci dalle storie recenti e meno recenti, quello immaginato dall’uomo nella straordinaria e quasi eroica vicenda della redazione del Piano Regolatore Generale (prg) di Bohigas, di cui Martino è stato il principale interprete e sostenitore, nonché materiale esecutore, durante i dieci anni che lo hanno visto a fianco dell’urbanista spagnolo e infine quello storpiato da chirurgie omicide praticate sul corpo di un piano che quando ha visto la luce era già figlio di defunte speranze, ma soprattutto padre di inquietanti futuri, come quello che si costruirà, ad esempio, con Piazza della Libertà.

Dato che ciò che Salerno è e diventerà variandosi indefinitivamente sarà il tempo a raccontarcelo, noi da Fausto Martino abbiamo voluto il racconto della città che non potremo più vedere, quella che aveva immaginato con Bohigas per dare ai salernitani una città pensata e non solo esistente e a noi altri prima ancora che un insegnamento concreto ed innovativo sul modo di pianificare la città oggi, la dimostrazione che farlo era ancora possibile e, cosa ben più importante, che farlo al Sud era cosa ancora immaginabile. Insomma la Salerno di Bohigas e Martino era una vera e propria speranza che per le sue implicazioni esulava dall’ambito squisitamente disciplinare del governo dello sviluppo urbano e del territorio e da quello ancora più ristretto e non per questo meno degno, di una prospettiva promettente per gli abitanti della città che ne avrebbero giovato direttamente.

Il proponimento di questa nostra sorta di inchiesta sull’omicidio del piano regolatore di Salerno, parallelo tra l’altro a quello napoletano, come emblema dell’omicidio della pianificazione in generale nella degenerazione della politica cui assistiamo, è quello di riuscire attraverso questo breve articolo, e quelli più dettagliati che auspichiamo seguiranno, a schizzare una bozza capace di restituire almeno in parte l’immagine di ciò che per un tempo troppo breve Salerno era diventata in potenza.

Curiosi di capire i modi concreti in cui poteva impostarsi un tipo di pianificazione urbanistica capace di evitare le distorsioni comuni a tutte le città disegnate, ai quattro angoli del pianeta, dall’unico grande pianificatore di successo mondiale: il mercato fondiario; siamo lieti di riportare quanto appreso in merito dal nostro interlocutore, il quale ci ha chiarito anche i contorni extra disciplinari di questa vicenda partita oramai più di vent’anni fa, nel 1989, quando la Campania era ancora lontanissima dal promulgare la sua legge urbanistica regionale (l.r. 16/2004, quella che ha determinato anche la nuova nomenclatura urbanistica regionale per cui il prg è diventato puc cioè piano urbanistico comunale).

Bohigas, a fronte dell’incarico ricevuto nell’89, ha cominciato ad operare concretamente solo nel 1994, poiché prima di allora non esisteva neanche una cartografia di riferimento, che fotografasse lo stato di uno sviluppo fuori controllo degli anni dell’espansione selvaggia, sulla quale poter elaborare analisi e proposte. Prima di avviare il processo di analisi e progettazione urbana che sarebbe andato a formare il piano, Bohigas elaborò un corpus di principi sui quali sviluppare il lavoro di redazione del piano.

Con il piano di Salerno l’urbanista spagnolo coglieva dunque l’occasione di concretizzare una riflessione più generale sulle problematiche della città contemporanea e Salerno, dal suo canto, l’occasione di poter fare scuola sull’argomento. Tale corpus di principi è raccolto nel Documento programmatico di preparazione del piano. Riportiamo di seguito, alcuni rimandi ad esso.

(torna su)

Le città non si devono espandere. Si deve cioè cercare di evitare, limitandola, la continua erosione del territorio all’esterno dell’area urbana, mentre parallelamente va degradandosi l’ambiente interno alla città. Questo è ottenibile ponendo un limite all’espansione al fine di dirottare le complesse dinamiche alla base degli investimenti immobiliari sul già costruito in vista della sua riqualificazione necessaria. È noto che costruire ex novo è più semplice e comodo, nel senso che permette maggiori margini di profitto, del riqualificare, ristrutturare o conservare e restaurare, pertanto la naturale tendenza degli investimenti nel settore immobiliare è quella della colonizzazione edilizia di qualsiasi area libera a scapito dell’attenzione progettuale e finanziaria che invece la città consolidata invecchiando pone, nell’abbandono ai propri bisogni. Inoltre proiettando esclusivamente in direzione centrifuga gli unici interventi costruttivi si elude qualsiasi discorso organico sulla possibilità stessa di riconfigurare, ove necessario, parti di città recentemente consolidata, le quali però non sono frutto di processi di costruzione pianificati, sottraendo in questo modo fin’anche la possibilità di riparare guasti.

Mai più quartieri popolari. Uno dei maggiori problemi degli interventi residenziali pubblici al Sud, anche quando condotti con le migliori intenzioni, è rappresentato dalla difficoltà acutissima di evitare la ghettizzazione urbana dei ceti sociali destinatari dell’edilizia economica e popolare. Mai più quartieri popolari significa mai più concentrazione monofunzionale di edilizia economica e non «mai più edilizia pubblica». Cioè Bohigas non pensa che non si debba fare edilizia economica, anzi, solo che questa deve essere diffusa, vale a dire sparsa in giro fra i quartieri esistenti. Non si tratta di eliminare la distinzione di censo (obiettivo che l’urbanistica, da sola, non è in grado di assumere), ma quantomeno di configurare una città non divisa per censo, senza quartieri dormitorio.

Spostare l’attenzione dagli indici di edificabilità alla qualità urbana dei progetti. L’indice di fabbricabilità indica la quantità di metri cubi di costruito che può realizzarsi per metro quadro di terreno, (di superficie fondiaria) a seconda delle zone «omogenee individuate», come ad esempio la zona A centro consolidato o zona storica, B zona edificata recentemente, C zona di espansione, D industriale, E agricola, e così via. Per molti anni i piani regolatori sono stati sostanzialmente la divisione del territorio urbano in diverse zone con edificabilità differenziate (zonizzazione), cosa che tra l’atro favoriva chi aveva lotti disponibili in zone con alta edificabilità rispetto a chi i terreni li aveva in zone a bassa o nulla edificabilità. Con il prg di Salerno si tenta di liberare la pianificazione dall’ambito esclusivamente zonizzante (e sclerotizzante) e restituire ad essa anche delle modalità più concrete per dare indirizzi progettuali e stabilire standard qualitativi oltre che quantitativi. Quindi diventava importante individuare al livello del piano alcuni ambiti omogenei, per così dire strategici, in cui andare a concentrare degli interventi pianificati pubblicamente (capaci di sfruttare anche finanziamenti privati) che fossero in grado di avere un impatto qualificante anche per il loro immediato contorno urbano. Esempi ne sono i progetti della Lungo Irno, della Cittadella giudiziaria, il Grand hotel Salerno al posto dell’ex cementificio, ed altri. La strategia era quindi quella di partire da 4 o 5 progetti di respiro urbano intorno ai quali «ammagliare» il piano.

Evitare il monofunzionalismo di interi pezzi di città. Evitare cioè quanto rappresentato dal centro direzionale di Napoli, dove si svolge quasi solo attività da terziario e non c’è vita durante l’arco intero delle 24 ore, come invece dovrebbe essere e porre attenzione a tenere bene insieme tutte le funzioni compatibili tra loro, ottenendo il cosiddetto «mix di funzioni». Questo nella piena consapevolezza che il monofunzionalismo è facile da realizzare e da gestire (controllare), ma al costo di configurare un insieme urbano come somma di luoghi di reclusione sociale, mentre al contrario la compresenza funzionale è di difficile pianificazione e gestione, ma rappresenta ciò che contribuisce a dare qualità alla vita cittadina. Bohigas sosteneva che la maggiore complessità derivante dal miscuglio delle attività era tutto sommato gestibile attraverso una corretta pianificazione e attraverso i nuovi strumenti concettuali che l’urbanistica andava definendo e che quindi era proprio il caso di raccogliere in pieno la sfida. Per questo motivo ad esempio si era capito che la cosiddetta Cittadella giudiziaria non dovesse sorgere monoliticamente fuori dalla città, come era accaduto per l’Università a Fisciano, quest’ultima configurata sul modello americano del college, ma piuttosto essere organizzata sulla connessione dei suoi uffici ed attività all’interno dell’esistente. Anch’essa doveva essere diffusa. Il monofunzionalismo è infatti un problema che non riguarda solo l’edilizia economica. Si trattava, come si può capire, di mettere in discussione alcuni assiomi urbanistici che per decenni avevano condizionato negativamente lo sviluppo anche delle città pianificate.

Bohigas, però, si rende conto che questi principi, giusti dal punto di vista sociale ed urbanistico, si scontrano con una contraddizione determinata dal mercato. Infatti la riqualificazione della città attraverso una serie coerente e pianificata di progetti urbani sui quali impostare lo sviluppo futuro, porta come conseguenza inevitabile, in un’economia di mercato, al problema della crescita incontrollata e disomogenea della rendita fondiaria. Nasce dunque l’esigenza di individuare quei meccanismi di piano per abbattere la rendita fondiaria (che è oggi invece uno dei problemi maggiori di Salerno). Bohigas pensa di arrivare a spalmare la rendita in modo uniforme e così, traendo spunto dagli esempi migliori di piani urbanistici dell’epoca (il Piano di Torino[3] di Vittorio Gregotti e Augusto Cagnardi, il Piano di Ferrara[4] e quello di Reggio Emilia[5]), giunge a ritenere centrale il concetto di «perequazione urbanistica», oggi recepito dalla stessa Legge Regionale urbanistica della Campania del 2004, ma che all’epoca era ancora solo «teoria». Come funziona, o dovrebbe, la «perequazione urbanistica»? In pratica si tratta di definire il valore delle aree urbane non in termini monetari ma in termini volumetrici, attribuendo ad ogni zona «non agricola» un’edificabilità che deriva dal suo stato prima delle scelte di piano e non dopo. In questo modo si riusciva a svincolare la proprietà fondiaria dalle scelte di piano ed evitare dunque la determinazione del piano in funzione delle proprietà fondiarie. Il problema maggiore della pianificazione urbanistica infatti è sempre stato rappresentato dal fatto che le sue scelte finivano per determinare enormi incrementi di valore di alcune aree cittadine a discapito di altre (sperequazione) e che in ogni caso o si accettavano queste conseguenze o si rinunciava a fare delle scelte. Questo faceva del prg sostanzialmente uno strumento di definizione di rendite più che uno strumento di pianificazione dello sviluppo urbano. Con la perequazione, invece, stabilita l’edificabilità delle zone, nel loro assetto ante-piano, questa veniva poi spalmata armoniosamente su tutto il corpo urbano, compensando gli squilibri. Il «dimensionamento» del piano diventava allora la determinazione dell’edificabilità della città in modo da ottenere una distribuzione livellante delle rendite fondiarie e questo significa che si innescava un meccanismo efficace ma delicato che sarebbe saltato non appena si fossero fatti interventi di nuova edilizia senza rispettare le previsioni di piano. La perequazione è infatti come una coperta, cioè sempre troppo corta, se la si tira da un lato lascia scoperto l’altro.

(torna su)

Sulla questione delle rendite ci sono inoltre da distinguere due aspetti: a) il problema delle opere pubbliche; b) il problema delle rendite private.

Se il piano non era ancora definito, questo non andava in contraddizione con la scelta di partire da alcuni progetti urbani, perché in assenza di regole certe le opere pubbliche si possono fare lo stesso, dato che esse non producono rendite private. Producono sì profitto per le imprese di costruzione e tutto ciò che vi ruota attorno, ma non rendita, che è cosa diversa. Con la perequazione dunque la normativa del piano trova delle soluzioni ai due obiettivi dichiarati di evitare il meccanismo perverso della crescita incontrollata delle rendite fondiarie e al contempo rispondere al fabbisogno di standard, cioè il minimo di servizi urbani, come verde, parcheggi, scuole ecc.. da garantire comunque zona per zona e di cui Salerno era in ogni modo deficitaria. L’esistenza di un piano organico è inoltre di per se stessa un fattore di senso generale anche dei singoli progetti pubblici che si vanno a realizzare.

Sulla base di queste premesse ad Aprile del 2003 il piano di Bohigas era pronto dopo quasi 10 anni di lavoro. Era nato, su principi innovativi, prima della Legge urbanistica regionale, anzi dando degli spunti consistenti alla sua elaborazione. Non doveva farsi altro che adottare il piano per cominciare la sua attuazione in vista dell’approvazione definitiva. L’iter di legge infatti prevede la distinzione fra adozione ed approvazione, l’una come atto dovuto appena possibile, l’altra come atto anche di democrazia per evitare che uno strumento della portata di un piano regolatore generale possa diventare legge senza essere pubblicato, discusso ed eventualmente emendato. Fino a qui i voli della mente.

A questo punto della storia comincia il processo inverso a quello precedente, la castrazione dell’avvenire. Dieci anni di lavoro per dare vita al piano, ora quelli necessari per evitarne l’applicazione. Infatti immediatamente prima dell’adozione si fanno avanti una serie di privati che vogliono in qualche modo mettere le mani su ciò che il prg propone. Questo ovviamente rischia di far saltare tutto il meccanismo delicato della perequazione.

Solo ora Martino comincia a conoscere le reali intenzioni di De Luca, quando, a seguito delle sue pressioni per l’adozione del piano, questi gli comunica che invece esso non va approvato, pena la chiusura dello Sportello unico. Lo sportello unico è un ufficio comunale previsto dalla normativa nazionale che consente di fare gli «scopi produttivi» cioè le edificazioni «non residenziali» ovunque si voglia a condizione che: a) non siano previste zone dedicate a tali scopi nel territorio comunale; b) che ove previste esse siano già sature. In sostanza la legge permette di edificare con indici adatti all’industria su qualsiasi parte del territorio, sia quando non esista pianificazione comunale, come è possibile in tutta una serie di piccole realtà urbane, sia quando le aree previste per questo tipo di destinazioni siano già esaurite. Lo sportello unico (art. 5 del d.p.r. 447/1998) si configura quindi come il canale principale di elargizione (politica) delle licenze comunali, ma non ha senso in presenza di un piano regolatore vigente.

Lo sportello unico rappresenta per De Luca lo strumento di potere principale, per questo egli comincia a vedere l’adozione del prg come un ostacolo al suo controllo personale su cosa si costruisca in città. Il citato L’articolo 5 del citato d.p.r è qualcosa che vale in regime di straordinarietà (assenza di piano) e che in mancanza di strumentazione urbanistica diviene perciò «ordinario», esso è da un punto di vista di gestione in contraddizione con il prg nel senso che se esiste l’uno non può valere l’altro e viceversa. De Luca comincia coscientemente ad elaborare una strategia per evitare l’adozione del piano, mettendo in piedi un «grande processo democratico» di discussione del piano, prima della sua adozione. In pratica si tratta di inventarsi un modo qualsiasi per evitarne l’adozione, come se questa fosse cosa da discutere e non un fatto dovuto. La citata differenza fra adozione ed approvazione serve anche ad evitare l’assurdo di una crescita disorganica della città in presenza di uno strumento urbanistico esistente seppure non ancora approvato definitivamente. Quindi il piano una volta concluso va adottato e a seguito della sua adozione si avvia il processo di discussione pubblica, come già previsto per legge. De Luca è invece scaltro a far passare quest’ostacolo all’adozione come un’intenzione di democraticità, mentre il suo movente essenziale è semplicemente quello di differire e rimandare quanto più possibile la definizione di regole certe nel processo di crescita urbano al fine di poterne conservare il controllo.

È così che si mette in piedi un gruppo di «intellettuali» (il gruppo dei 30) che hanno il compito di vagliare criticamente e pubblicamente il prg di Bohigas, mentre in parallelo dietro il sipario delle trenta comparse si procede con la concessione di varianti rispetto ad un piano non ancora adottato e già spacciato. Per i meccanismi della perequazione, si capisce bene che ogni variante, se concessa in deroga alle previsioni del piano, è qualcosa che condiziona il piano stesso, cambiandone via via gli equilibri fino a snaturarlo completamente. La conclusione del gruppo dei 30 è, niente meno, che la non adottabilità del piano. Persino Rifondazione Comunista (esperta in spaccature) si divide su questa questione, cadendo sostanzialmente nella trappola diversiva di De Luca («cadendoci» nella sua presupposta buonafede). Tra parentesi, mentre il piano originario di Bohigas veniva vagliato «criticamente» prima della sua adozione, nessun dibattito è stato poi fatto in sede di approvazione, avvenuta infine nel 2006 ed ancora oggi il puc di Salerno non è neanche reperibile sul sito del comune, a riprova che la democraticità dei processi concreti non è mai obiettivo sincero del potere, ma sempre comodissima strumentalizzazione.

Martino a questo punto capisce che sono a rischio, oltre che 10 anni di lavoro, anche tutti i potenziali frutti socialmente positivi di tale impegno e continua a difendere il piano praticamente da solo contro tutti. Arriva persino a non porre pregiudiziali di merito sostenendo che le varianti si possono approvare tranquillamente a patto che siano in coerenza con il prg.

È in questo momento che Martino viene «processato» (sommariamente) dai consiglieri comunali DS e nella sede dei DS, i quali prendono spunto da alcune sue dichiarazioni rilasciate al quotidiano il Mattino in quella che lui ritiene essere stata una sorta di intervista/trappola. L’esito del processo è il seguente nei confronti di Martino: puoi restare se fai passare le varianti a prescindere. Martino ovviamente si dimette, non può essere lui a sfasciare quanto realizzato faticosamente.

In tutto questo il prg resta nel cassetto, viene congelato e se ne comincia la revisione, mentre nel frattempo si approvano le «varianti», che non coerenti al piano redatto da Bohigas, sono unicamente rivolte a scaricare rendita fondiaria su alcuni ben individuati suoli; in assenza di una coerenza di fondo, divengono semplicemente realizzazioni eversive del piano, slegate e pertanto fini a se stesse. La rimodulazione del prg (che nel frattempo si chiama puc e che appare  come processo indotto dalla nuova Legge urbanistica regionale) è fatta in modo da conservare l’immagine apparente e superficiale del piano di Bohigas, ma avendo cambiato tutto ciò che non è immediatamente visibile in termini di grafica e colori. È scomparsa l’edilizia popolare diffusa, scomparso il concetto di chiara delimitazione della città, abbassato il lotto minimo (per poter edificare) in zona agricola, introdotte nuove norme che permettono alle zone industriali di crescere più di quanto previsto se cambiano destinazione (se diventano cioè qualcosa di diverso da insediamenti produttivi). Un ritratto screziato del piano precedente. Ad esempio nell’area industriale della mcm, l’indice di edificabilità previsto da Bohigas era già di 3,5 mc/mq (cioè alto), ma viene portato, già con una «variante anticipatoria» a 7,4 (più del doppio) e questo «premio» volumetrico si ottiene paradossalmente in ragione del «cambio di destinazione» dell’area che da industriale diviene altro. Va detto che in generale gli indici alti in zone industriali si giustificano per consentire agli opifici di assumere la forma che i processi produttivi impongono, qui invece al contrario si concedono indici elevatissimi proprio se non si fa industria o produzione materiale.

Quindi la produzione (il secondario) viene progressivamente eliminata in favore di destinazioni il cui unico fine è la rendita garantita dai fitti residenziali o commerciali elevatissimi. Questo processo rappresenta la finanziarizzazione dell’economia edilizia, e di riflesso la terziarizzazione post-fordista della città, cioè il territorio non è più sede di investimenti con finalità produttive, ma solo speculative, perché più facile, più comodo e più remunerativo, in termini di profitto, s’intende. Da questo punto di vista le città diventano un enorme contenitore di rendite potenziali per i costruttori proprio quando perdono il loro ruolo industriale. Ovviamente più si costruisce densamente, più il rapporto degli standard urbanistici si squilibra in senso negativo e con il mercato delle costruzioni controllato da pochi soggetti non si riesce neanche ad avere un abbassamento dei fitti. Il risultato è necessariamente un fitto maggiore per una città peggiore. La città come privilegio degli abbienti.

 (torna su)

Di passata è utile notare, sollecitati da Martino, la speculazione colossale e preventiva rappresentata dal «piano casa Campania»[6] (legge pasticcio in vigore dalla fine del dicembre 2009) in cui il premio volumetrico per i fabbricati industriali, in luogo di quello di superficie, significa questo: se si dispone, poniamo, di un capannone industriale di 600 mq (metri quadri) e si può ampliarlo del 20% «volumetricamente» anche trasformandolo in edilizia residenziale, significa che, posto il volume come prodotto di superficie per altezza, in ragione dell’altezza dei capannoni industriali molto maggiore dei piani residenziali, dal capannone di partenza si ottengono non 600 mq incrementati del 20% (cioè 720 mq), ma 600 mq che per la loro altezza (ad esempio di 10 m) diventano 6.000 mc (metri cubi), i quali aumentati del 20% (cioè 7.200 mc) e divisi per 3 (altezza di un piano residenziale) mi danno 2.400 mq residenziali rispetto ai 600 di partenza (cioè 4 volte tanto, non il 20% in più in termini di superficie, cioè del prodotto vendibile). Piccole sottigliezze matematiche per grandi speculazioni, su un territorio già deficiente di standard, come quello campano. Se poi il piano casa non produrrà effettivamente gli scempi attendibili sarà solo nella misura dell’estrema burocratizzazione alla base della sua concezione. Allo stesso modo se la gara d’appalto per Piazza Della Libertà va deserta è solo per negoziare condizioni di realizzazione più vantaggiose per le imprese di costruzione, non certo per esercitare una critica estetica a quanto si andrà a realizzare, come qualcuno vorrebbe indurre a credere.

L’opposizione fra speculazione edilizia e burocrazia è solo il riflesso delle poste in gioco esistenti fra interessi privati e loro mediazione politica, tutto il resto, e cioè quello che veramente conta socialmente, rimane esterno da qualsiasi discorso sul futuro del territorio.

 

In conclusione nonostante lo sforzo profuso da Bohigas e Martino per fare del piano di Salerno un’occasione di invertire queste tendenze perverse intrinseche alle dinamiche naturali del settore edilizio, alla fine del discorso abbiamo l’ennesimo omicidio di qualsiasi volontà di progresso urbano e l’erezione a sistema proprio dell’esatto opposto rappresentato dal depotenziamento funzionale, in generale, delle discipline scientifiche e in particolare dei principi che avevano ispirato la rinascita di una città necessaria prima che possibile.

Questo come splendida eredità dell’inquietante parabola del centro sinistra regionale.

 

APRILE 2010

 (torna su)