Senescenza (del) Capitale
IL CAPITALISMO
INVECCHIA?
Nicola Marziale, Marco
Amalfi
L’esercizio di discussione lanciato da il manifesto a cavallo
tra il 2009 ed il
2010, intervistando un
certo numero di economisti, chiamati a rispondere su alcune domande,
uguali per tutti, sul tema generale «il capitalismo invecchia?»,
rappresenta un momento alto di discussione sui temi dell’economia
politica, alto come rarissimamente si è visto nei quotidiani italiani,
quale che ne sia l’orientamento politico e, men che mai, sui periodici a
maggiore caratterizzazione economica. La formulazione della domanda
tradisce tracce di materialismo storico di chi l’esercizio l’ha pensato
e proposto[1]. La formulazione delle
risposte tradisce l’irrintracciabilità del materialismo storico nei
paradigmi teorici in cui gli intervistati si muovono. Con accenti
diversi, naturalmente, a volte anche con espliciti riferimenti
storicistici, la risposta non è mai stata: «sì, certo!». Ora se da un
lato potremmo chiederci perché il lungimirante
opiniâtre intervistatore si
sia rivolto a persone che non riescono nemmeno ad inquadrare
teoreticamente la domanda tema generale, dall’altro potremmo salvare gli
intervistati attribuendogli grande senso di responsabilità di militanza
scientifico-politica che non inducesse a facili entusiasmi meccanicisti.
Proveremo ad argomentare, a nostro avviso, in sostanziale
adesione alle tesi di fondo di questa rivista, che il capitalismo non
solo non sta invecchiando, ma anzi è già decrepito da decenni, perché
non sviluppa le forze produttive a
livello globale, produce anarchicamente eteroguidato rispetto ai
bisogni delle persone, determina, in ultima analisi, rapporti sociali
strutturali e sovrastrutturali, basati sull’oppressione della minoranza
sulla maggioranza del genere umano.
Il senso di questo intervento, a partire dalla critica
dell’economia politica, contemporanea e non, è quello di indicare le
ragioni strutturali per le quali il capitalismo, pertanto, non è il
sistema economico che potrà garantire, ben lungi che indefinitamente, ma
nemmeno nel breve/medio periodo il progresso (nemmeno paretiano[2])
del genere umano.
Siamo hegeliani, nel senso che condividiamo la
caratterizzazione del manifestarsi della necessità attraverso il caso
sosteneva Hegel. La necessità cui ci si riferisce è una concatenazione
di eventi, oppure di passaggi logici, che può darsi nella misura in cui
nello stato temporalmente precedente si verifichino una serie di
condizioni tali per cui lo stato successivo può senz’altro darsi, perché
implicito nello stato delle cose, ma
non necessariamente si darà
nei modi e nei tempi nei quali la logica formale, o di qualsiasi altro
tipo, potrebbe prevedere si diano. Il senso profondo di alcune grandi
scoperte matematiche (ancora più facile a capirsi con quelle di fisica
matematica[3])
sta proprio nella percezione, ex
abrupto, di passaggi catastrofici[4]
tra sistemi logici, in cui il «vecchio», che non riesce più a spiegare
quanto si va dando o scoprendo nella realtà fisica, vien sostituito dal
«nuovo», rivoluzionario, non proprio e non solo nel senso kuhniano[5],
che getta basi epistemologiche per un balzo in avanti. Paradigma
identico seguono, secondo il materialismo storico, l’evoluzione sociale,
antropologica, storica. Paradigma identico si dà, infine, secondo parte
consistente dell’epistemologia delle scienze «dure» nello sviluppo dei
pianeti (tra cui, evidentemente,
Novello passero solitario, l’economista politico ortodosso,
non si cale dell’allegria che lo sviluppo della conoscenza umana
dovrebbe infondere, ma schiva gli spassi e autosufficiente continua a
guardare gli alberi e mancare le foreste e continuare a farsi domande
sbagliate cui, per ciò stesso, non potrà far altro che dare
rassicurantissime, per loro, risposte, nella migliore delle ipotesi
inutili.
In quanto segue, minimizzeremo il ricorso a cifre,
disponibili un po’ dappertutto, chiedendo al lettore di non considerare,
bonariamente, apodittiche le cose che diremo e di cercarsi in autonomia
eventuali riscontri e fonti, dei quali tuttavia, ove d’interesse, saremo
ben lieti di dare ascolto e seguito.
Le domande fondamentali
a cui gli economisti cercano una risposta possono essere riassunte così:
qual è la natura di questa crisi; è una crisi finanziaria o reale,
ciclica o sistemica? Ha senso un
confronto con la crisi del ’29?
Nel rispondere alla prima domanda, pertanto, cercheremo di
alzare il tiro, premesso che l’unica caratteristica comune ad ogni crisi
è quella di non essere eterna, dicendo che l’attuale crisi è, come ogni
altra, finanziaria e reale, ciclica e sistemica, più «grave» di quella
del ’29.
L’apertura hegeliana ritorna nella prima parte della
risposta. Per quale motivo la strategia vincente per un trentennio,
ovvero la spinta all’investimento finanziario puro, la deregulation dei
mercati, l’incremento della penetrazione capitalistica ai quattro angoli
del pianeta, ad un certo punto si trasforma nel suo contrario? Si è
rotto qualcosa, che si può in qualche modo aggiustare, o c’è dell’altro?
Nulla era errato prima, nei comportamenti degli agenti
economici, nulla è errato adesso. Il senso inerente, la legge di
sviluppo, per dirla in termini marxiani, del capitalismo è la
massimizzazione del saggio di profitto[6],
nel trentennio precedente la produzione di massa ha progressivamente
ceduto il posto alla finanziarizzazione perché, anche qui ci viene
indispensabile la teoria marxiana, lo sviluppo delle forze produttive si
è accompagnato ad una crescita della composizione organica del capitale,
il capitale fisso, quegli investimenti produttivi che facevano sì che la
produzione di massa potesse darsi (i robot, per intenderci). Tuttavia,
il rendimento di tali investimenti, o meglio, il valore da essi
trasferito ai beni prodotti non può essere altro che la quota di
«ammortamento» relativa al frammento d’investimento in capitale fisso
socialmente necessario per produrre ciascuna unità di una determinata
merce. In altri termini, la corsa alla massimizzazione dell’estrazione
del plusvalore dal lavoro umano, l’unico che può produrne, ha
progressivamente abbattuto la possibilità di fare profitto producendo
«tradizionalmente», per l’azione della concorrenza tra i capitalisti,
tra i diversi paesi come all’interno di uno stesso paese. I capitalisti
hanno dovuto accontentarsi di guadagni relativi più bassi, nonostante
l’incremento assoluto e relativo dei saggi di sfruttamento della classe
lavoratrice, attraverso l’impoverimento relativo di questa nei paesi
avanzati e la proletarizzazione di amplissime masse lavoratrici nei
paesi in via di sviluppo. Tutto questo è divenuto progressivamente
troppo oneroso per la classe capitalista, il cui sogno è, come per
tutti, quello di ottenere il massimo risultato con il minimo sforzo. È
proprio in questo il ruolo della finanza. Come la produzione
capitalistica nasce per il soddisfacimento dei bisogni delle persone, la
finanza nasce per il soddisfacimento dei bisogni produttivi del
capitalismo ma, come nel caso della produzione, col tempo diviene troppo
oneroso, anche in termini di costo opportunità, mantenersi lungo vecchi
schemi di produzione. Da qui la finanza supertecnologizzata e
matematizzata e d’azzardo che si è venuta sviluppando negli ultimi
vent’anni. Per questo nuovo modo di produrre profitto, le variabili
intervenienti sono incomparabilmente di meno, in primis non ci sono
persone, in quanto chi ci capisce di queste cose è un’esigua minoranza,
non ci sono masse di lavoratori da organizzare, investimenti, spazi e
distanze fisici, e con un tocco di mouse si sposta l’equivalente di una
fabbrica da un mercato all’altro, con la massima flessibilità, alla
ricerca dell’affare.
Questo è perfettamente sensato, come è perfettamente sensato
che se sei più bravo a farlo rischierai di più, e questa è la ragione, a
contrario, per cui la crisi ha colpito meno, sul fronte finanziario,
paesi più arretrati capitalisticamente, come l’Italia, in cui queste
capacità erano estremamente ridotte, ma che, per converso, colpirà
moltissimo il lato «reale» dell’economia, sul quale minimi sono i
margini di manovra per i capitalisti poco sviluppati, nonostante il
tasso d’interesse reale quasi negativo (vent’anni fa era sette/otto
volte maggiore).
Ergo il carburante era pronto, mancava una miccia, che poteva
essere una cosa o l’altra, hegelianamente. Negli
usa è stata la crisi dei
subprime, in altri paesi il
peso del debito pubblico, in altri quello privato, in altri il tasso di
cambio della moneta. Nel paese capitalisticamente più avanzato l’innesco
è provenuto da qualcosa di molto reale: una miccia dietro cui sta
precisamente l’enorme sfruttamento reale subito dalla classe lavoratrice
america che ha venduto a credito la propria adesione ideologica al
capitalismo per rendersi conto, troppo tardi, che l’avevano fregata e
senza avere, adesso, una soluzione. L’adesione ideologica al modello
dell’economia «vero» nel senso che propugnano i liberisti «naturalisti»
di ieri e di oggi (dai «giganti» Friedman[7],
Fukuyama[8],
Lucas[9]
fino ai nostri «nani» Alesina e Giavazzi[10],
tanto per fare qualche nome) dicevamo prima è pure condizione necessaria
a che la posposizione della crisi prima, e la sua esposizione poi, si
diano nelle forme in cui si danno concretamente.
Da qui si chiarisce come il senso della seconda parte della
risposta sia legato ad una concezione dell’economia politica in cui le
crisi sono shock, elementi eccezionali, non la natura inerente del
sistema economico che, in quanto basato sull’anarchia, di mercato, non
può, per ciò stesso, avere regole né limitazioni nel tempo o nello
spazio, ma può averne nelle dimensioni reali delle variabili in gioco.
Pertanto qualcosa di congiunturale diventa strutturale nella misura in
cui porta al minimo i salari, al livello di sussistenza, fisso nei
modelli dell’economia politica classica, al di sotto del quale il
lavoratore non riesce ad essere tale. In definitiva, finché ci sono
margini perché sia possibile abbassare il salario (sia quello monetario
diretto che quello indiretto attraverso il welfare, evidentemente) la
crisi avrà sempre una via d’uscita, ma non per questo potrà essere
intesa attraverso le categorie della temporaneità, che strutturalmente
non possono essere di un sistema che si vorrebbe «naturale». La
categoria della crisi è centrale nel capitalismo, essa è il momento
supremo attraverso il quale si definiscono i rapporti sociali
all’interno del sistema economico, per ciò stesso è ineliminabile, per
ciò stesso, l’unica caratteristica comune a tutte le crisi è il fatto
che non possa durare per sempre, e che qualcuno dovrà pagarla: il
capitale fittizio, con la sua sparizione o la classe lavoratrice con
l’aumento dello sfruttamento. Lo stato di crisi, pertanto, non può
essere né permanente, né definitivo, ma si risolve precisamente nella
soluzione dello scontro sociale per l’appropriazione del plusvalore: o
ai lavoratori, o ai capitalisti, con quello che potrà conseguirne in
termini politici.
Nel particolare
di questa crisi, la maniera
di produzione, il modello di
accumulazione (e non solo di distribuzione, come qualcuno ritiene),
basato sulla finanziarizzazione resiste con la forza delle immense
risorse in grado di mobilitare che, anche se temperate dalla crisi,
restano al di sopra di quanto nelle possibilità di controllo dei sistemi
di regolazione in essere[11].
In più, conta l’elemento strutturale della fine del modello di
globalizzazione basato sull’indebitamento americano e su una politica
monetaria «dollarizzata» e lo smascheramento del(lo) (stra)potere di
(poche) banche e (pochi) intermediari sull’economia reale. In
congiuntura, l’autoreferenzialità del sistema finanziario, le «bolle» ed
i relativi crack, che si succedono sempre più devastanti e ravvicinati
(in media uno ogni tre anni).
Ne consegue la risposta sul terzo passaggio. È curioso, in
effetti, come i paragoni in cifre vadano cercati con il lanternino. A
noi basterà evidenziare che la crisi attuale si riferisce ad un mondo
con un indice di penetrazione del capitalismo pressoché totale su tutta
l’attività economica terrestre, tutta legata dalle leggi di movimento
che ricordavamo sopra. Nel ’29 il crollo dei corsi azionari fu maggiore
e la velocità di propagazione della crisi minore. Quella crisi finì con
i milioni di morti della seconda guerra mondiale. Questa crisi non è
finita.
Quanto ha giocato,
nella loro incapacità di valutare la probabilità della crisi, la
predilezione degli economisti mainstream per la formalizzazione
matematica, a scapito della conoscenza della storia dell’analisi
economica – e della storia in generale?
Il trade off tra
studiare la matematica e studiare la storia è del tutto infondato:
dall’una e dall’altra si possono trarre lezioni importanti e passaggi di
grande eleganza, così come se ne possono derivare ritualità
propagandistiche, inutili o dannose. Nell’una e nell’altra, in
definitiva, se non si vogliano vedere delle cose si farà di tutto per
non vederle, ergo se ci si richiama allo studio della storia per
individuare i germi della follia delle superspeculazioni che precedono i
tracolli finanziari, basterà ripetere, come nel caso degli esperti di
politica economica, che errori del passato sarebbero oggi impossibili
(ad esempio il rialzo dei tassi in un frangente di crisi tipo ’29, cosa
che infatti non si ripete oggi, stante l’abbondanza di liquidità che
caratterizza il sistema economico contemporaneo) per sterilizzarne la
memoria riducendola a mera curiosità. Non è un fatto di storia o di
matematica, quindi, ma di obiettivi politico-ideologici cui si vuole
piegare le discipline (tutte ugualmente passibili di tale
sottomissione). La matematizzazione ha dei portati interessanti per le
classi dominanti: i) poche persone ne sanno, ergo poche persone possono
capire che cosa stia succedendo; ii) un certo quid «esoterico» della
matematica (non solo nella nostra
scuoletta gentiliana via via sempre più indebolita) ne allontana gli
spiriti «deboli» e; iii) per converso, conferisce un grandissimo crisma
di oggettività alla cose che con essa si dicono.
Una vera manna, insomma, per la finanziarizzazione. Un po’
più rognosa, invece, per l’economia politica classica che, dovendo
matematizzare concetti complessi quali l’equilibrio, le scelte, gli
aggregati sociali, per riuscirci è costretta ad un riduzionismo feroce
che la porta a tagliare complessità in ogni modo possibile,
teorizzandola esplicitamente e, dove non basta, limitandosi a glissare
sulle forzature esercitate nei modelli, quali quelle sugli andamenti
«well-behaved»[12]
delle funzioni matematiche che rappresentano le dinamiche dei modelli o
il teorema di impossibilità del paretiano liberale[13].
Per provare ad
esemplificare ulteriormente di cosa stiamo parlando è appena il caso di
rilevare che i modelli mainstream, si riferiscono immancabilmente
ad economie di puro scambio, non sequenziali, senza alcun conflitto di
classe, quindi con un gap di sostanza rispetto al reale, che non
può essere certo colmato dalla mera forma di un linguaggio.
Prendendo spunto
dall’ultima crisi, non si può non notare che, specie nell’ultimo
decennio, l’impiego della matematica in Finanza è dilagato. La
matematica è stata spinta in Finanza seguendo gli obiettivi delle classi
dominanti limitandosi, perciò, a concentrarsi sulla «forma» dei modelli,
relegando al margine ciò che marginale non era (ovvero la sostanza degli
oggetti matematici utilizzati, cosa questi rappresentassero nella
realtà). Perché se di «modelli» parliamo, proprio il
modulus, l’essenza
dell’oggetto di studio, dovrebbe stare al centro del discorso. Ad
esempio, per interpretare correttamente il comportamento degli operatori
finanziari sarebbe essenziale distinguere tra «funzione cognitiva» e «funzione
manipolativa», tra razionalità economica e comportamento imitativo; ma
nulla di tutto ciò compare nei contributi più diffusi. I quali hanno
rimosso sistematicamente l’intrinseca
incertezza dei mercati
finanziari, sempre più basata sul venire meno della separazione tra
economia reale e finanziaria. Abbiamo quindi una particolare debolezza
ontologica dei modelli di
calcolo di probabilità utilizzati per valutare i rischi che è
riconducibile al mancato riconoscimento della natura
endogena delle interazioni
degli attori. Se la razionalità è una buona guida per leggere il mondo
in tempi normali, senz’altro lo è meno in situazioni di stress positivo
(le bolle speculative) o negativo (le crisi). L’ortodossia non ha
previsto la crisi, e fa tanta fatica ad uscire dall’impasse in cui è
caduta, perché non può tenere conto di questo fattore, accecata dalla
purezza delle deduzioni.
Nella gestione
di rischi finanziari, per insistere sulla finanza, si è giunti a modelli
di misurazione dei rischi sofisticatissimi dal punto di vista del
calculus. Tali modelli,
tuttavia, perché siano trattabili sono basati sempre sull’assunzione di
stazionarietà[14],
nell’ipotesi, quanto meno opinabile che, nel vorticoso mondo
finanziario, esistano proprietà che rimangono costanti tra il passato ed
il futuro.
La questione non
è affatto banale: in termini statistici, i risk managers devono
affrontare lo spinoso problema di stimare lo «spessore» della coda di
una distribuzione di perdita, della quale, per definizione, si hanno ben
pochi dati disponibili. Dato che la maggior parte delle osservazioni
sono «centrali», la distribuzione «fittata»[15]
è adatta, primariamente, a fare previsioni per i valori «centrali».
Quindi, credere che i modelli di risk-management, con la loro matematica
e la buona performance in giorni «normali», siano ben «equipaggiati» per
prevedere gli eventi estremi futuri è, quanto meno, fuori luogo.
Esistono senz’altro schemi di risk management che possono gestire meglio
di altri questo genere di difetto, ma nessun modello riesce a
sbarazzarsene in via definitiva. E questo dovrebbe essere tenuto sempre
ben presente. Altrimenti, si rischia
seriamente di produrre un
enorme armamentario matematico capace di difendere i corsi dei titoli, e
in generale il valore di un’attività finanziaria, da fluttuazioni
piccole e non significative al costo, però, di incrementare la propria
esposizione a quelle più importanti, che davvero dovremmo temere. O, a
essere più precisi, lo si rischia
nuovamente. «Trasformare un
modello in una formula quantitativa -
diceva Keynes, che era un buon matematico –
significa distruggerne ogni
utilità come strumento intellettuale».
Tutte queste cose non sono nascoste in un libro segreto, sono
alla portata (e note) a tutti, solo che semplicemente gli economisti
mainstream non se ne curano e
costruiscono modelli straordinariamente eleganti e straordinariamente ad
hoc al problema del momento. L’abilità massima dell’economista
neoclassico, pertanto, è l’abilità di fornire alla classe dominante
risposte alla domanda politica di teoria. Nulla a che vedere con
l’illuminismo delle discipline: anche se nessuno mentisse
spudoratamente, basterebbe non farsi capire, o parlare d’altro.
Da tempo commentatori
autorevoli avevano fatto notare che la libera e frenetica circolazione
dei capitali (risultato delle liberalizzazioni e deregolamentazioni
della finanza) mina le basi stesse della democrazia economica, cioè
della democrazia stessa. Ritiene che il ruolo della politica, oggi,
dovrebbe essere soltanto quello di regolatore del mercato o dovrebbe
spingersi più in là?
Se vale l’assunto che un operatore economico sia
too big to fail, molto
probabilmente varrà pure che altri siano
too big to be regulated.
Questo passaggio non darebbe solo ragione alla legge marxiana della
concentrazione crescente dei mercati, ma spiega anche molta parte delle
dinamiche di concorrenza industriale internazionale, in cui la cifra
della concentrazione si dà, al momento, principalmente per le produzione
a maggior valore aggiunto, economico e tecnologico (automotive,
metallurgia, aerospaziale, militare,
ict[16],
agricoltura, biomedicale, finanza). In tutti questi settori la potestà
normativa degli stati è sostanzialmente nulla come testimonia l’intero
panorama regolatorio sia direttamente determinato dai grandi gruppi
industriali internazionali, quali che siano i governi o i sistemi
legislativi. Per fare un unico esempio sintomatico della portata di tale
sproporzione basta ricordare che nel pieno della crisi finanziaria,
l’unico intervento regolatorio significativo restrittivo è stata la
proibizione delle vendite allo scoperto[17]
su alcuni mercati, ma è durata meno di un mese. Tutte le riflessioni
sulla limitazione di democrazia economia che minerebbero le basi della
democrazie stessa parrebbero essere mere pruderie liberali di poco o
punto valore analitico perché immemori, ad esempio che nel caso delle
dittature nazifasciste, gran parte degli elementi di «democrazia
economica» rimanevano valide, le imprese erano messe nelle migliori
condizioni normative, il movimento operaio era schiacciato, i profeti
del liberalismo divisi tra l’afasia e la connivenza. Nel panorama
contemporaneo vieppiù, quella dello stato regolatore arbitro imparziale
è una pia illusione, nella migliore delle ipotesi, una panzana per
piccoloborghesi nell’intermedia, uno strumento di oppressione di massa
nella peggiore.
Lo Stato, in quanto espressione del potere della classe
dominante non può che farne gli interessi[18].
Tutto sta, pertanto, a cambiare classe dominante, se si ha intenzione di
cambiare il ruolo dello stato rispetto al sistema economico. Le
considerazioni sulla gradualità possibile od auspicata di questo
passaggio sono un’altra discussione (ad esempio sulla situazione in
Venezuela).
Molti ritengono che la
soluzione della crisi non possa avvenire che sull’asse Washington -
Pechino. È ipotizzabile che il modello europeo di stato sociale, se
ancora di un modello europeo si può parlare, possa rappresentare un
riferimento per politiche economiche alternative tanto al Washington
Consensus, quanto al capitalismo di stato cinese? O c’è il rischio che
nel futuro assetto economico politico mondiale l’Europa (con il sud del
mondo) venga confinata ad una posizione marginale?
Gli esercizi di riflessione geopolitico-economica,
dall’avventato Fukuyama della fine della storia in poi, si
caratterizzano per un elevatissimo tasso d’impressionismo. Ricordiamo,
senza alcuna pretesa di esaustività, tigri asiatiche e celtiche, nuovi
ordini mondiali dollarizzati e magnifiche sorti e progressive di nuove
monete sovranazionali. Nessuno dei modelli osannati nel corso degli
ultimi trent’anni ha retto alla prova del tempo. Anche qui attraverso
l’esercizio di necessità espresso dal caso sono sempre molteplici le
spiegazioni per questa o quella dinamica storica, talvolta non senza
fondamento. Oggi non ci sembra che si possa pensare diversamente agli
stati monstre che guru vari
propongono. La «suggestiva» Cindia è oggi un nucleo potentissimo di
produzione a basso costo, e non necessariamente bassa qualità, né bassa
tecnologia, né bassa gamma, basato come tale su un altrettanto
potentissimo esercito industriale di riserva[19].
Prima che ne esplodesse il fenomeno, occorre ricordare attraverso
capitali esteri ed oppressione spietata interna (il perdurare delle
segregazioni indiane non è meno brutale del pugno di ferro del partito
sedicente comunista cinese), è stata la volta dei paesi dell’est
europeo, la cui parabola è durata poco più di un decennio, chi più chi
meno, nel quale le risorse interne sono state cannibalizzate, in
particolare, ovviamente il lavoro, ancorché, come ad esempio nel caso
dell’Africa potremmo ricorrere alle categorie del colonialismo vecchio
stampo, imperniato sulle risorse minerarie. Alla fine della parabola ci
sono società più inique, con redditi medi bassissimi, redditi mediani
infimi e perfino (in Africa come nell’ex
urss) un’aspettativa di
vita media alla nascita inferiore. Europa, Cina e
usa sembrerebbero, oggi
legate a doppio filo una all’altra, certo in misura maggiore queste
ultime (in particolare i cinesi posseggono gran parte del debito
pubblico usa, oceani di riserve in dollari, con cui vengono pagati per
le grandissime esportazioni verso gli
usa, di cui questi ultimi
non potrebbero, evidentemente, fare a meno), ma la velocità di
propagazione degli shock economici, di borsa, ma come abbiamo visto già
dai tempi dei tequila bonds[20] o più
recentemente in Grecia, anche dei prestiti di stato ed il livello
d’interconnessione della proprietà del capitale fa sì che nessuno dei
blocchi possa esercitare qualsivoglia forma di decoupling[21],
semplicemente perché in nessun caso riuscirebbe ad imprimere ai mercati
interni tassi di sviluppo paragonabili a quelli ottenuti ed ottenibili
attraverso l’apertura di sbocchi internazionali per le proprie merci.
Nell’approfondire un poco il rapporto tra Stati (e politica)
e finanziarizzazione, ovvero sul ruolo dei mercati finanziari (o,
meglio, delle logiche finanziarie), ritroviamo la finanziarizzazione al
momento dell’accumulazione, con capitali che richiedono forti rendimenti
attraverso alti corsi azionari, quindi plusvalenze, meglio se nel breve
periodo, e stimolano così una continua innovazione molto spesso via
riorganizzazioni produttive e precarietà del lavoro. La finanza permette
anche la distribuzione, grazie a mercati finanziari (o qualora questi
non riescano ad «intervenire» per via dello scoppio di una bolla ecco
l’indebitamento verso le banche) che agiscono come una sorta di
moltiplicatore keynesiano, e come meccanismo di redistribuzione
(distorta) del reddito. I mercati finanziari svolgono il ruolo di
assicuratori sociali, canalizzando quote crescenti dei redditi verso
istituti di assicurazione privati e fondi pensione. Infine, sui mercati
finanziari si misura la produttività; e la si misura in termini
convenzionali, quindi i
paradigmi tecnologici possono affermarsi ad una velocità inaudita, così
come possono stentare a diffondersi, legati a filo rosso alle idee, se
non agli umori, degli operatori in titoli. Il potere dei mercati
finanziari è divenuto inaudito, i Governi vi sono sottomessi, le Banche
Centrali assecondano la crescita delle Borse, con un governo della
moneta sempre più deciso dalle dinamiche di prezzo sul Nyse[22] o sulla piazza di
Shangai. Il passaggio a questa nuova forma di capitalismo è stata la
risposta politica alla crisi in cui era caduto negli anni ’70 l’ormai
vecchio e inutile (agli occhi della classe dominante) fordismo.
Sostenere che a queste condizioni si possa efficacemente
parlare di regolazione della finanza, o del mercato in genere, è pura
chiacchiera.
Il problema,
infatti, nasce nei momenti di crisi economica sincrona e generalizzata,
in cui qualcuno deve cedere per primo ed espellere il capitale fittizio
dai propri sistemi economici. In questo forse Europa ed
usa hanno giocato
d’anticipo, colpendo per prima le proprie classi lavoratrici attraverso
la redistribuzione di risorse in favore delle classi più abbienti (ad
esempio con l’esplosione della, regressiva, tassazione indiretta, con i
tagli al welfare, con le privatizzazioni, con le riduzioni del monte
salari), ma
La politica
dovrebbe senz’altro spingersi
oltre, «attaccare» dall’esterno il sistema, anche se al momento
parte con un indubitabile svantaggio. L’unico modo per far riguadagnare
spazio all’agire politico, pertanto, sembra essere il ricorso ad un
movimento di lavoratori per un
generale rivolgimento dei rapporti sociali ingenerati dal
capitalismo, quali che ne siano le difficoltà e la tempistica storica.
Ma questa, è un’altra storia (ineludibile, però, per le organizzazioni
della sinistra che vogliano in qualche modo riprendere a «cambiare il
mondo»).
L’attuale aumento della
spesa pubblica non riguarda la spesa sociale (istruzione, sanità,
pensioni e sussidi di disoccupazione), bensì il salvataggio di banche,
società finanziarie e grandi gruppi. Ciò avviene però comprimendo i
redditi da lavoro (salari reali e le pensioni): un intervento dal lato
dell’offerta, anziché della domanda, è la giusta strategia per uscire
dalla crisi, tornando a livelli accettabili di disoccupazione?
L’intervento pubblico dal lato dell’offerta è in larga misura
ideologico, in quanto si basa sulla convinzione della validità della
legge di Say, secondo la quale l’offerta crea la propria domanda
attraverso gli automatismi insiti nella mano invisibile che, per qualche
motivo razionalmente inconcepibile, dovrebbe orientare le scelte di
consumo, produzione ed investimento nella direzione dell’esaurimento del
prodotto e della massimizzazione del profitto, che però, quando è
davvero massimizzato, per l’economia politica marginalista, è zero!
Questo ovviamente in assenza di alcuna frizione nei mercati, da cui il
precetto normativo della rimozione dei vincoli del
laissez faire laissez passer les
marchandises. Non staremo a ripercorre la straordinaria quanto inane
eleganza formale di questo modello, di cui da un altro punto di vista si
è detto prima, resta l’assunto ideologico della composizione delle
scelte individuali preordinata secondo un modello di razionalità
standardizzato ed autosimilare negli attori economici, quali che siano.
Tutti gli attori economici conoscono il modello dell’economia,
volgarizzando Lucas, e questo modello… è il mio!
L’intervento da parte dell’offerta, ovvero l’intervento che
consentirebbe il solo appannaggio alle imprese di parte del capitale
socialmente accumulato riposa, ancora una volta, sull’assunto che il
modello «azienda» di soddisfacimento dei bisogni è quello ottimale, che
consente al contempo la realizzazione del «giusto» profitto da parte
delle stesse, che queste possono «giustamente» distribuire attraverso la
remunerazione, al margine del fattore di produzione. In tale modello,
tuttavia, sull’altare della libera intrapresa non si può in alcun modo
determinare socialmente le quantità e le qualità delle produzioni, se
non attraverso le decisioni degli attori economici, ciascuno attraverso
il proprio potere di mercato: l’offerente determinerà pertanto le scelte
disponibili, il domandante potrà, certo, scegliere, ma solo, ovviamente,
tra le alternative disponibili. Appare evidente come il potere di
mercato di quest’ultimo, dunque, sia strutturalmente subordinato a
quello dei primi, sarà pertanto, esercizio fittizio di libertà, che in
alcun modo non possa rimuovere le impasse determinate dal punto di vista
dell’offerta nella realizzazione dei valori delle merci. Le scelte
esercitate dal lato dell’offerta, quindi, determinano quelle
esercitabili dal lato della domanda, pertanto in nessun modo in una
situazione di crisi, in cui si verifichino anche razionamenti al consumo
(e quindi, mediatamente, al soddisfacimento dei bisogni) sarà l’offerta
a sbloccare la situazione, nemmeno rimanendo nell’ottica del modello
capitalistica. È Crono che sbrana i suoi figli, precisamente.
Resta, a margine, una postilla sui sostenitori, in ottica
capitalistica dell’intervento dal lato della domanda. Posto questo modo
d’intervento, senz’altro migliore per i lavoratori, non intaccando le
dinamiche fondamentali della produzione e delle scelte, ma
semplicemente, fornendo un minimo di arbitrio in più nella
determinazione delle scelte di consumo, allevia un poco le condizioni di
vita della classe lavoratrice, rimandando il problema ad epoca
successiva, in cui, nella migliore delle ipotesi saremo tutti morti,
nella peggiore, pur non interessandoci noi della guerra, sarà la guerra
ad interessarsi a noi. Questo è stato valido in esito al celebrato New
Deal americano, questo è stato il keynesismo reazionario della dinastia
Bush, questo è anche un pezzo delle principali scelte di politica
industriale che si vanno delineando oggi in Italia (quali il ritorno al
nucleare, il ponte sullo stretto, l’alta velocità).
Quale sarà il prezzo
che le future generazioni dovranno sopportare a fronte delle forme e
delle dimensioni dell’indebitamento a cui oggi i governi hanno fatto
ricorso nel tentativo di non far naufragare l’economia mondiale?
Sulla scorta di quanto siamo andati dicendo, il peso della
crisi è sulle spalle della classe lavoratrice internazionale, quale che
ne sia il grado di proletarizzazione. Chiedersi, pertanto, se saranno
più o meno le generazioni future ad esserne interessate rimane comunque
privo di grande senso analitico. Nella misura in cui, infatti, alcuni
paesi potrebbero finanziare a debito il costo della via d’uscita, ovvero
attraverso il ripianamento pubblico delle perdite private, la tagliola
dell’interesse composto farebbe il suo corso inesorabile schiavizzando
le economie dei paesi più deboli alla servitù dei crediti gentilmente
concessi, tanto all’interno quanto all’esterno del paese interessato.
Questo passaggio tiene anche se si voglia rimanere nella prospettiva
delle compatibilità capitalistiche, in questo senso occorre ricordare
che il debito pubblico non rileva tanto quanto grandezza in sé, in
termini assoluti, quanto nel suo rapporto con il prodotto interno lordo
(non entriamo qui nel dibattito sullo scarso contenuto informativo di
questa grandezza nell’economia politica di oggi). Trattandosi di un
rapporto, se il denominatore, il
pil, cresce, il debito potrà continuare indefinitamente a
crescere in termini assoluti fino ad un tasso pari a quello della
crescita del pil. Ma il
pil può crescere stante le
riforme strutturali intraprese per ridurre il debito? Quanto pesa, ad
esempio, la riforma delle pensioni del ’93 per un paese come l’Italia,
interessato, guarda caso dallo stesso periodo, dal crollo della
produttività? Si tratta di un caso abbastanza ovvio di «anoressia»
produttiva: meno si investe nella produzione meno si realizza il
prodotto meno si sarà in grado di mantenere accesi i motori senza
iniezioni di capitale esterno al sistema in oggetto. Pertanto, in ogni
caso, i giovani in ogni periodo sono condannati a pagare, contano poco,
qui, le riflessioni sull’età dei decisori in ogni sistema sociale in un
dato momento.
Quale che sia quest’ultima infatti le decisioni intraprese
saranno sostanzialmente identiche perché riflesse dalle dinamiche di
classe nell’esercizio del potere. Alcune generazioni, per ragioni
storiche complesse che potrebbero essere oggetto di future riflessioni,
sono state più pronte a comprendere questi fenomeni ed a contrastarli,
ma nelle scontro tra forze vive, finora, o sono state tradite o hanno
perso. Il capitale è, finora, sempre riuscito a riorganizzarsi e
scaricare il peso delle proprie malefatte altrove. Le giovani
generazioni di oggi, come quelle di ieri, con i potenti strumenti a
disposizione (ma purtroppo padroneggiati dalla controparte di classe),
hanno il compito di ribaltare questo stato di cose, di smettere di
pagare e riappropriarsi del prodotto per il soddisfacimento di, tutte,
le proprie esigenze.
APRILE 2010
[1]
La traduzione del tema d’indagine nelle domande specifiche,
tuttavia, segna una sostanziale adesione alla semantica
mainstream nell’analisi del sistema economico. Se questo è
senz’altro un modo per utilizzare un linguaggio comune, le
categorie proposte dalle domande non ci sembrano essere quelle
più utili ad una chiara focalizzazione del problema del
capitalismo oggi. Tuttavia, si può forse riconoscere un intento
didascalico, che non necessariamente guasta, e a cui alcune
delle interviste rispondono egregiamente (quella a Giorgio
Lunghini, ad esempio, ma anche l’intervento breve di Alberto
Russo), nello smascherare alcune finzioni teoriche care
all’economia politica dominante e forse perfino un,
giustificatissimo, istinto di rivalsa, per economisti eterodossi
più che marginalizzati negli ultimi trent’anni.
[2]
Il termine si riferisce al concetto di ottimalità proposto da
Vilfredo Pareto, cui si fa amplissimo ricorso in economia
politica per indicare un’allocazione di risorse per la quale si
ha una situazione in cui, in sostanza, nessun agente può stare
meglio senza ledere il benessere altrui.
[3]
Ad esempio,
l’intera opera di Poincaré si dispiega attraverso un
potentissimo continuum di intuizioni multidisciplinari di
soluzioni «di fisica» e problemi matematici, e viceversa,
gettando così le basi per la definitiva affermazione della
teoria quantistica, della relatività, della topologia, dei
sistemi dinamici complessi.
[4]
È interessante
notare come nel senso della teoria matematica delle catastrofi,
queste ultime sono passaggi di stato o condizione radicali, a
partire da situazioni normali, che si danno in punti dello
spazio del tutto simili ad altri «non catastrofici» (cfr.
Woodcock, Davis, La teoria delle catastrofi )
[5]
Il termine si
riferisce al pensiero dell’epistemologo statunitense Thomas
Kuhn, che definisce il concetto di paradigma come il corpus di
teorie e strumenti che compongono un filone consolidato. Con
«rivoluzioni scientifiche» K. intende il passaggio ad un nuovo
paradigma di riferimento, completamente diverso dal primo, ma
che si sviluppa a partire da alcuni elementi dello stesso.
[6]
Su questo
concordano anche gli economisti mainstream, solo che per amor di
formalizzazione, nei loro modelli matematici il profitto massimo
corrisponde ad una derivata uguale a zero, ovvero profitto
massimo raggiungibile, stante l’azione della concorrenza, è
zero.
[7]
Milton Friedman, economista USA, premio nobel nel ’76,
capostipite della scuola monetarista, alfiere del libero mercato
e del rifiuto di qualsiasi intervento dello stato in economia.
Fu l’ispiratore delle tesi di politica economica della Thatcher,
di Reagan, di Pinochet.
[8]
Francis Fukuyama, autore del libello
La fine della storia
fortunatissimo instant-book successivo alla caduta del muro
(1992), in cui si sostenevano le magnifiche sorti e progressive
del modo intiero dopo la caduta del comunismo. Oggi si è buttato
sul futuro «postumano» introdotto dalla genetica.
[9]
Robert Lucas, economista USA, inventore della microfondazione
della macroeconomia, basando quest’ultima sull’ipotesi di
aspettative razionali (prive di errori sistematici) degli attori
economici, ovvero sulla generalizzata conoscenza del modello
dell’economia (che, per inciso, è quello monetarista!), in
conseguenza del quale aggiusteranno le proprie scelte in termini
di prezzi e consumi verso l’unico equilibrio dinamico esistente,
in cui si riassume il sistema economico.
[10]
Roberto Alesina e Francesco Giavazzi, noti economisti italiani
autori del surreale Il
liberismo è di sinistra in cui, in continuità con i filoni
di pensiero degli economisti già citati in nota, sostengono che
le liberalizzazione siano la vera sfida della sinistra italiana.
[11]
Non è un caso che regolazioni restrittive della finanza seguano
sempre, storicamente, grandi crisi (e.g. la legge bancaria
italiana del ’36, il Glass-Steagall act americano del ’32)
[12]
Letteralmente in inglese significa «beneducato», i matematici
usano tale concetto per indicare in breve che gli oggetti che
studiano hanno un insieme di proprietà funzionali al problema in
analisi. Allo stesso modo gli economisti chiamano così le
funzioni che fanno funzionare bene i loro modelli.
[13]
In estrema sintesi, il teorema, dimostrato dal premio nobel
Amartya Sen dimostra come sia impossibile trovare una forma di
scelta collettiva in cui siano salvaguardati un insieme minimo
di diritti a tutti i soggetti coinvolti nella scelta senza
diminuire il benessere di almeno uno di loro.
[14]
Si usa qui il termine «stazionarietà» in un senso più ampio
rispetto a quello del termine tecnico che compare per i modelli
stocastici. Per questi, una serie di dati storici si dice
stazionaria se tende sempre ad assestarsi attorno ad una media,
quale che sia, ma mai ad «esplodere» (ovvero a crescere o
decrescere indefinitamente). In questo contesto, invece, usiamo
«stazionarietà» nel senso che alcune proprietà rimangono
costanti tra il passato ed il futuro (quali, ad es., l’ordine
degli eventi).
[15]
Nel gergo degli economisti (e prima ancora degli statistici),
«fittare» sta per «adattare un modello teorico ad un insieme di
dati a disposizione».
[16]
Information and communication technology
[17]
Si tratta della vendita di titoli che non si posseggono. È una
modalità di speculazione che nasce, in origine, per coprirsi dal
rischio delle fluttuazioni di prezzo di un’attività finanziaria.
Naturalmente, può essere interpretato, ed esperito, come una
vera e propria scommessa ribassista. Questo secondo utilizzo
riguarda la massima parte di tali transazioni.
[18]
In questo senso teorizzano anche numerosi economisti mainstream,
nel sostenere che la regolazione non può che essere prociclica,
ovvero fare gli interessi degli attori economici, e
microfondata, ovvero focalizzata sui comportamenti individuali,
nell’assioma che l’insieme dei comportamenti individuali, la
mera somma degli individui, debba costituire i sistemi sociali,
eliminandone, riduzionisticamente, ogni altra complessità.
[19]
In particolare, nel caso della Cina, tuttavia, riteniamo questo
possa non esaurire il dibattito, va esplicitamente considerato,
in quel caso il ruolo della burocrazia statale, se non le ultime
tracce contemporanee di pianificazione dell’economia. È un
dibattito molto interessante che consentirebbe di evidenziare la
superiorità di tali elementi di socialismo nel consentire
dinamiche competitive migliori a quel paese. Non siamo sicuri,
infatti, che le mere dimensioni spieghino tutto, nel caso dell’urss,
ad esempio, le dimensioni non erano dissimili. L’immensa
capacità di estrazione di plusvalore dalla classe lavoratrice
potrebbe fare la differenza, ma a livello aggregato mondiale non
ci sembra sufficiente, tanto da rendere necessario il ricorso
analitico ai fattori sopra accennati. Questo, tuttavia, non
introduce dubbi rispetto alla caratterizzazione della Cina di
stato pienamente capitalistico.
[20]
Il nome che fu dato ai titoli di stato messicani nel
[21]
Con il termine si indica nel dibattito di questi ultimi anni, la
possibilità per una economia di sganciarsi dalle altre nel senso
di essere in grado di non subire contraccolpi economici
o finanziari da crisi «esterne». La realtà dei fatti ne
ha dimostrato l’impossibilità, perfino per
[22]
New York Stock Exchange, è l’acronimo della borsa di New York.