Inchieste
Valeria Spadini
La scelta di raccontare l’esperienza di Campione del Garda
non si lega semplicemente alla volontà di approfondire la storia di un
villaggio operaio qualsiasi, bensì nasce dall’interesse che mi ha
suscitato la sua particolare situazione di isolamento.
Quello di Campione è stato infatti un esperimento sociale
difficilmente replicabile, in quanto a partire da fine ’800 proprio la
sua morfologia ha permesso al modello imprenditoriale di tipo
paternalistico di esprimersi in maniera totalizzante. La convivenza di
un cotonificio e delle case dei suoi operai su una lingua di terra
raggiungibile quasi esclusivamente via lago, poiché sovrastata sul lato
opposto da una parete di roccia a strapiombo, ha generato un ecosistema
chiuso dove vita privata e vita di fabbrica, personale lavorativo e
comunità, tempo lineare e tempo ciclico si amalgamano in maniera
singolare, orchestrati magistralmente dal parroco e dal direttore.
Una rapida incursione nella storia di Campione e un raffronto
con le principali tematiche che attraversano l’esperienza operaia
italiana del XX sec. permetterà di individuarne più da vicino la
peculiarità.
Le fonti che hanno permesso questo lavoro sono l’intervista
con Carlo Simoni, direttore del «Sistema provinciale bresciano dei musei
di cultura materiale» ed esperto di storia industriale del bresciano, e
alcune sue ricerche segnalate in bibliografia. Ho scelto di evitare le
note alle testimonianze riportate, in quanto provengono tutte da
Oltre la strada di C. Simoni, Grafo edizioni, Brescia, 1988.
Le altre fonti, utilizzate per mettere a fuoco determinate
tematiche, sono i documenti (inchieste, testimonianze, film) del
seminario Corpi e anime della «grande trasformazione», tenuto da
Gilda Zazzara.
La penisola dove si sviluppa Campione del Garda è il
risultato di un lento deposito di sedimenti condotto dal torrente
Tignalga che qui si unisce al lago; il torrente incide la roccia che
sovrasta Campione, con una forra che divide gli altipiani di Tignale e
Tremosine, per poi scendere verso il paese, spezzando in due parti la
terra che esso stesso ha formato.
Fino al 1930 Campione è completamente scollegato dalla
riviera; solo per alcuni anni lambito dalla Gardesana occidentale, oggi,
dopo la costruzione della galleria che attraversa le rupi di Tremosine,
è nuovamente invisibile.
A partire dal XVI sec. è sede di fucine da ferro e da rame,
di mulini e probabilmente anche di una cartiera, ma raggiunge un maggior
dinamismo quando gli Archetti, nota famiglia di mercanti bresciani, lo
rendono centro della propria potenza economica. A questo periodo risale
la costruzione del palazzo settecentesco della famiglia, che
accompagnerà Campione per tutta la sua storia. Le attività degli
Archetti godono dei privilegi concessi loro dalla repubblica di Venezia
e la loro fortuna tramonta insieme alla crisi di questo sistema di
privilegi, costringendoli a cedere la loro impresa ad altri mercanti, a
fine XVIII sec.
La fase di decadenza del paese dell’alto Garda ha il suo
culmine nell’estate del 1807, che vede Campione devastato da una piena
disastrosa del torrente Tignalga. Bisognerà attendere quasi un secolo
prima che un’iniziativa rivoluzioni le sorti di Campione: Feltrinopoli.
Giacomo Feltrinelli, imprenditore che aveva esordito col
commercio di legne e carbone vegetale nell’originaria Gargnano e passato
poi al commercio delle traversine ferroviarie è ormai una figura di
primo piano nell’universo economico milanese. L’intera area di Campione
diventa proprietà della ditta Feltrinelli e C., che si occupa di una
rivalutazione generale: nella zona a sud del torrente, «Campione di
sotto», viene costruita la fabbrica, mentre la zona a nord, «Campione di
sopra», è destinata alle case degli operai.
Feltrinelli assume come primo direttore del cotonificio di
Campione un giovane tecnico milanese, Vittorio Olcese, il quale aveva in
passato lavorato in qualità di assistente di filatura e preparazione
presso il cotonificio Crespi di Capriate d’Adda, attorno al quale si
sarebbe sviluppato uno dei villaggi operai modello in Italia. La fama di
Olcese si lega alla progettazione di un nuovo modello di cotonificio ad
un solo piano, che viene prima realizzato per i Weimann Somaini e poi a
Campione.
Nell’area dove sorgono le abitazioni il progetto prevede la
costruzione di una piazza, la cui significativa denominazione «corte»
che appare nei catasti dell’epoca ne tradisce l’opposto carattere di
privatezza.
I casermoni plurifamiliari con servizi igienici in comune,
nel loro colore rosso mattone che li rende uniformi alla fabbrica, sono
schierati secondo un assetto geometrico tipico dei villaggi operai.
Gli appartamenti vengono affittati a costi bassi alle
famiglie operaie, la cui permanenza nella casa è subordinata alla
continuità della prestazione lavorativa. Così, in un colpo solo, con
l’eventuale licenziamento arriva pure lo sfratto.
Dopo soli due anni dall’inizio dei lavori i residenti sono
circa 750, di cui la maggior parte abita a Campione di sopra; una parte
di giovani operaie, prevalenti all’interno del cotonificio, trova
alloggio nel convitto delle «Figlie di Maria Ausiliatrice» in Campione
di sotto, che ospita, oltre alla fabbrica, la chiesa, un’osteria ed
edifici per attività ricreative. Inoltre sono previsti uno spaccio
aziendale, una «Cassa di Risparmio», un ufficio postale e telegrafico e
la biglietteria del piroscafo, insomma tutti quei servizi che rispondono
alle ambizioni di autosufficienza di Feltrinopoli.
2.1 Il medico sulla
teleferica
Riguardo alla salute dei propri dipendenti, l’azienda si
affida al comune, che designa per questo compito il medico di Tignale.
Il beneficio che l’azienda concede agli abitanti di Campione, ossia la
gratuità delle spese mediche che essa stessa si perita di coprire, ha
però la seguente condizione: gli interventi devono essere vagliati dalla
ditta e ottenere la sua autorizzazione.
Inoltre l’isolamento del luogo limita ogni tempestività
d’azione del medico, il quale, partendo da uno dei paesi della riviera,
si deve inventare mezzi di fortuna per arrivare in tempo:
«Nel 1915 – racconta il dottor Turri di Tremosine -
per facilitare ed evitare una
soverchia fatica, approfittavo molto della teleferica che serviva, da
Pieve al porto di Tremosine e viceversa, per il trasporto merci. Quindi
continuavo col battello fino a Campione […]. Però quando volevo andare e
tornare quando mi faceva comodo, percorrevo molte volte il pericoloso e
difficile sentiero che da Pregasio scendeva a Campione».
Nonostante le testimonianze registrino numerosi infortuni,
data la pericolosità degli ingranaggi delle macchine per le mani delle
filatrici, don Cipani sembra voler dipingere un quadro idilliaco,
funzionale al modus filantropico che vanta la ditta:
«Ho visto non poche
operaie piangere nel di che per qualche ragione di famiglia, furono
tolte al lavoro della propria macchina! Una morente nel delirio della
febbre mi fu detto, inviava baci alla sua macchina a cui aveva dato il
nome di Iolanda; perché v’era stata posta a lavorare il 1 giugno 1901:
giorno natalizio della Principessa Iolanda, dell’augusta Casa dei nostri
Sovrani. Una gara di emulazione e quasi un culto in tutte le giovani per
la tenuta della loro macchina: su ognuna è un’immagine sacra; un fiore e
nastri col tricolore della patria, svolazzanti senza posa alla corsa
vertiginosa delle ruote!».
Sicuramente il fatto
che un danno alla macchina preveda l’indennizzo da parte del lavoratore
responsabile oppure il suo immediato licenziamento funziona da
incentivo.
Nonostante questo racconto si inscriva perfettamente nella logica
paternalistica dell’epoca,
la tematica del rapporto ambivalente che si instaura tra operaio e
macchina merita un approfondimento. Ce lo illustrano alcune scene dei
film Giovanna
di Gillo Pontecorvo e La classe operaia va in paradiso
di Elio Petri: il fatto che le operaie «accudiscano» le proprie macchine
anche nei giorni di occupazione della fabbrica e che Lulù Massa si
immagini la sua macchina con le fattezze di un corpo di donna, per
essere precisi «il culo dell’Adalgisa», mettono in luce il fenomeno di
umanizzazione della macchina che l’operaio mette in atto per far fronte
all’alienazione spersonalizzante. Dare un nome significa anche dare un
senso, un’unità a un lavoro che invece la catena di montaggio tende a
rendere frammentario, poiché impedisce di seguire la lavorazione del
prodotto fino al suo compimento. Proprio l’interruzione della relazione
causa/effetto tra fatica del lavoro e prodotto compiuto porta a una
perdita completa di riferimenti e quindi all’alienazione che, come
spiega Ottieri, «[…] è il cancello di ferro che trattiene chi lavora,
lo isola in una responsabilità così frazionata e lontana dagli ultimi
scopi, da violare l’istinto, la volontà, l’intelligenza»[1].
Come unico riferimento, se così si può definire, resta quel congegno
sferragliante a cui l’operaio è incatenato, impenetrabile anche quando
se ne conoscono i meccanismi di funzionamento.
Proprio per esorcizzarne la meccanicità seriale, è necessario per
l’operaio crearsi una macchina di carne, con i brandelli che essa gli
strappa giorno per giorno. Solo attraverso questo processo di
umanizzazione ci si può costruire un interlocutore, seppur impietoso,
che si lascia odiare e amare come soltanto un essere umano può fare. E
alla fine sembra quasi di sentire, dietro quel respiro affannoso, i
battiti di un cuore meccanico.
2.2 La maestra senza
scuola
Se l’azienda delega al comune il problema sanitario, così non
avviene per la questione dell’educazione; la scelta nel 1903 di
sobbarcarsi le spese necessarie alla gestione dell’istruzione elementare
garantisce all’azienda il pieno controllo non solo sull’ambito
produttivo, ma anche su quello riproduttivo.
Poco tempo dopo la stipulazione
della convenzione tra Campione e i due comuni di cui fa parte, Tremosine
e Tignale, un decreto prefettizio impone l’istituzione di una «scuola
unica mista obbligatoria» a carico del comune di Tremosine. Seppure
messa alle strette, la ditta fa di tutto per impedire l’attuazione del
progetto: inizialmente si rifiuta di concedere i locali per la scuola;
dopo l’intervento dell’autorità scolastica provinciale che garantisce
finalmente la creazione della scuola pubblica, la ditta minaccia di
licenziamento e di sfratto qualsiasi operaio che voglia iscrivervi i
figli.
La direzione del cotonificio
infatti si era adoperata per organizzare il «percorso di crescita» di
quelli che sarebbero stati i suoi operai del domani, assumendo nella
propria scuola privata una suora salesiana.
Nel frattempo però il comune ha
assegnato, attraverso regolare concorso, il posto di insegnante nella
scuola pubblica di Campione ad una maestra, che è posta nella
paradossale situazione di non poter svolgere il proprio lavoro in quanto
si trova senza alunni. Si apre una fase di tensione tra il cotonificio e
il comune, che deve retribuire un’insegnante che in realtà non può
insegnare.
«[...] Tre bimbe si presentano dicendomi che il giorno appresso
m’avrebbero consegnati i documenti necessari per l’iscrizione – scrive
nel dicembre del 1905 la maestra Sofia Baroni – ma invece non le vidi
più comparire, poiché fu loro proibito, come a tutti gli altri alunni,
di frequentare la scuola comunale».
Nel 1909 la vicenda si conclude con
la vittoria dell’azienda, ossia la soppressione della scuola pubblica e
la conferma del diritto della ditta di gestire l’istruzione dei bambini
del paese.
Così l’ambiente scolastico diviene
l’anticamera della vita di fabbrica: durante le vacanze estive il
direttore porta i ragazzi nel cotonificio e insegna loro il mestiere;
Olcese, accompagnato dalla moglie o dal parroco, compie numerose visite,
presiede agli esami di fine anno, dirige le cerimonie di premiazione ed
elargisce doni a natale. Durante questi avvenimenti, che assumono valore
rituale, il direttore è insieme maestro, padre e alle volte Babbo
Natale.
È importante in ultimo accennare
anche alla priorità che l’insegnamento religioso vanta sulle altre
materie.
2.3 La castità non è
una scelta
Le suore salesiane gestiscono anche
il convitto che ospita le operaie nubili, permettendo alla mentalità
dell’azienda di insediarsi anche nella vita privata di molte ragazze e
creando una continuità tra disciplina del convitto e disciplina di
fabbrica.
Gli insegnamenti etici delle
«Figlie di Maria Ausiliatrice» consistono infatti nel
«non lamentarsi di niente e di nessuno»,
«obbligo di non farsi giudici della condotta delle Superiori, ma di
sottomettersi alle loro disposizioni umilmente»,
«Pregare, tacere e patire»[2].
L’organizzazione dell’istituto
prevede l’interscambiabilità delle suore sia dal punto di vista delle
persone che delle mansioni; ciò comporta una rotazione continua del
personale, secondo modalità stabilite a livello centrale, che non
permette la creazione di legami amicali e sentimenti di familiarità tra
personale e utenti.
La separatezza della vita del
convitto è tradita dalla sua stessa ubicazione: collocato in Campione di
sotto, quindi nell’area della fabbrica, il palazzo è adiacente alla
chiesa.
Lo stretto legame tra l’azienda e
convitto prevede che il reclutamento per la fabbrica spesso avvenga
attraverso quest’ultimo: non è raro che gli orfanotrofi gestiti dalle
salesiane forniscano manodopera dodicenne al cotonificio. Quindi
l’assunzione prende la forma di un affidamento e l’ingresso in fabbrica
fa tutt’uno con quello nel convitto.
Proprio il fatto di alloggiare nel
convitto operaie nubili e quindi spesso molto giovani garantisce un
vantaggio per l’azienda; le ragazzine infatti rappresentano una
manodopera con un costo più basso rispetto alle operaie adulte. Grande è
pure il risparmio sul vestiario, molto misero, e sugli alimenti; la
reazione delle convittrici spesso consiste in furti del cotone della
fabbrica.
La questione che merita maggior
attenzione, però, è la ristrettezza dei margini di autonomia e libertà
delle convittrici. Innanzitutto le suore si peritano di tenere occupate
il più possibile le giovani operaie nei pochi momenti di libertà con
pratiche religiose, con occupazioni domestiche come il rammendo, con la
scuola festiva e il catechismo di domenica. Le gite organizzate
somigliano più a pellegrinaggi, e non rappresentano certo occasioni di
nuovi contatti o esperienze.
Le punizioni previste per la
trasgressione delle regole del convitto sono inflessibili: espulsione
dall’istituto e licenziamento dal cotonificio per tutte le convittrici
che si incontrino con coetanei dell’altro sesso.
La convittrice, figlia del rapporto
morboso tra azienda e chiesa, viene infine prescelta come operaia
modello per rappresentare Campione in occasione di celebrazioni
importanti o arrivo di personaggi illustri.
3. Santo patrono e padrone-santo
L’amministrazione del tempo libero
e della socialità sono sotto la giurisdizione dell’azienda, che se ne è
appropriata attraverso la costruzione di nuovi riti che hanno
soppiantato quelli che si erano formati naturalmente. Questo processo
non è avvenuto gradatamente, anzi, gli abitanti sono stati spettatori di
uno sradicamento talvolta brusco delle loro consuetudini: per esempio la
chiusura nel 1923 del circolo vinicolo, sorto per iniziativa dei
lavoratori, a cui viene attribuita la responsabilità del diffondersi
dell’alcolismo nel paese.
Come arguisce Simoni,
«Indipendentemente dal sospetto
che il circolo aveva potuto ingenerare, soprattutto in anni di forti
tensioni politiche e sociali quali sarebbero stati quelli del primo
dopoguerra, ciò che la ditta non era disposta ad accettare era che si
mettesse in discussione il suo diritto a gestire tutte le attività
extra-lavorative dei suoi dipendenti, che si cercasse di incrinare il
suo potere assoluto sul tempo degli abitanti del villaggio: alla base di
questo atteggiamento, ravvisabile in tutte le esperienze ispirate dal
paternalismo industriale, stava senza dubbio la convinzione, o piuttosto
la presunzione, di una radicale inferiorità culturale degli operai e
quindi della necessità di guidarli in ogni loro atto da un lato, e
dall’altro di preservarli dalla propaganda di sobillatori e sovversivi,
sempre supposti, o rappresentati, come estranei alla realtà della
fabbrica e del paese»[3].
La sincronizzazione della fabbrica detta i ritmi anche della
vita sociale, con un doppio risultato: da una parte gli abitanti sono
tenuti a partecipare a cerimonie ritenute essenziali da Olcese, a tal
punto che, in caso un abitante venga scoperto a «marinarle» , rischia
sanzioni pesantissime (dalle multe al licenziamento); dall’altra i nuovi
rituali hanno fondato una comunità che si identifica più o meno
consciamente nei valori dominanti della fabbrica. Quindi la
trasgressione delle regole sociali e lavorative comporta anche la
disapprovazione o l’esclusione dal corpo sociale.
La festa più sentita nel paese è quella di S. Ercolano,
patrono di Campione, figura nella quale si fondono significato religioso
e civile: la scelta di eremitaggio del vescovo leggendario è
implicitamente paragonata alla situazione di isolamento che vivono gli
abitanti di Campione.
Essenziale, per un buon svolgimento della festa, è la
partecipazione del dirigente e della sua famiglia, identificati come i
fondatori del paese. Talvolta accade che, a causa dell’impossibilità di
Olcese, che ormai non risiede più a Campione, di essere presente, venga
rimandata la celebrazione. Nei ricordi di alcuni abitanti la figura
carismatica del padrone tende ad identificarsi in quella mitica del
santo.
Nonostante l’aura sacralizzante, il padrone è anche capace di
divertirsi insieme ai suoi operai, arrampicandosi, uno tra i tanti,
sull’albero della cuccagna. In questi momenti agli abitanti sembra che
la solidarietà e la collaborazione non siano mai venuti meno.
Ancora una volta sotto l’abito camaleontico del compagno di
lavoro, del padre e del santo, il padrone riceve sorrisi di riconoscenza
da ogni angolo della piazza.
Bisogna tener presente, come sottolinea Simoni, un altro
aspetto di queste celebrazioni rituali: la loro ripetitività fa in modo
che il tempo sociale soffochi quello individuale. La mentalità
dell’azienda vuole infatti che sia sconveniente per il lavoratore
semplicemente passare il tempo, che quindi viene impiegato per «l’economia
sociale del paese-fabbrica»[4].
Questo modello di «lavoratore a tempo pieno» contraddice il principio
Lafargueiano del «diritto alla pigrizia»[5],
in quanto crea una forma di lavoro indiretto che occupa l’operaio nella
costruzione del consenso all’istituzione paternalistica. La sensazione,
in molti operai già spenta dall’abitudine, è quella di non uscire mai
dalla fabbrica, per la quale ci si affatica senza interruzione, nel
ruolo del lavoratore o dello spettatore attivo. Il ruolo dell’operaio si
sovrappone a quello del cittadino in modo così preciso da oscurarne
completamente la sagoma. Quindi per gli operai di Campione non avviene
mai completamente quello stacco dal lavoro che Palma Plini descrive come
fondamentale per la salute mentale:
«Appena si mette il piede fuori
dalla fabbrica quello che si desidera ( e lo desideriamo tutti) è di non
pensare fino alla mattina dopo ad essa. È uno stato d’animo
naturalissimo quando non si può essere sé stessi»[6].
La stessa vita familiare viene sacrificata ad una
collettività il cui collante ideologico ed etico è quello della regola
padronale.
La periodicità con cui vengono imposti i rituali collettivi
permette all’azienda di inserirsi e sostituirsi ai ritmi stagionali del
villaggio, insinuando lentamente accanto al tempo ciclico il tempo
lineare del progresso.
4. «Abbasso il re!»
4.1 Napoleone non vuole
essere capo
Bisogna aspettare il 1908 per assistere alla prima vera
protesta degli operai del cotonificio, nel contesto di una crisi di
sovrapproduzione, che porta
all’espulsione di oltre il 40% della forza lavoro. Sebbene il socialismo
avesse già iniziato a farsi strada tra gli operai, il processo di
sindacalizzazione aveva incontrato notevoli ostacoli.
Le principali proteste degli operai di Campione denunciano
l’inasprimento della disciplina di fabbrica e nel 1912 giungono a
richiedere le dimissioni del direttore, il signor Re. Questo episodio
svela, oltre che l’insofferenza nei confronti di un direttore troppo
severo, la difficoltà degli operai di far fronte all’inasprimento dei
ritmi di produzione dovuto al ridimensionamento del numero dei
lavoratori e all’abbassamento dei loro salari.
A proposito della mancanza di un’organizzazione sindacale a
Campione, significativa è la lettera dell’operaio meccanico in risposta
al sindaco di Tremosine, che lo ha identificato come il capo della
rivolta:
«Campione 4/7/1912
Egregio Sig. Sindaco
A colui che vi informò
che io fui Capo, ditteli, e voi tenettelo per norma e regola: che nelle
Lotte fra Capitale e Lavoro, in questi ultimi non vi fu, e non vi sarà
mai nessun capo; al massimo dalla massa Operaia verrebbe eletto una
Commissione, e se questa con votto di fiducia ha piena libertà da
discutere con la classe Padronale, può e deve, con quest’ultima decidere
le sorti della Lotta.
Ma che io vi rispondi
nei più minuti dettalli dello sciopero non posso.
(N.B.) Vi è
indispensabile quanto che a mè chiedete?…Bene, scrivette ed usufruite
del mio indirizzo, chiedendo (alla Commissione) dello sciopero quanto
che ingenuamente chiedeste ha me come Capo.
N. Turolla».
Nonostante le lotte tra capitale e lavoro menzionate da Napoleone Turolla, del quale dopo questa lettera non si ha più traccia, Vittorio Olcese e don Cipani si adoperano alla meglio per tenere in piedi il teatrino di carta dell’armonia e della pace sociale: le celebrazioni e le processioni non vengono interrotte, ma solamente posticipate in caso di disordini.
Nel dopoguerra le difficoltà del cotonificio si sublimano nella fusione
tra la società Feltrinelli e il Cotonificio Francesco Turati. La ripresa
del movimento sindacale vede alla propria testa l’attività dei
cotonieri, che nel 1919 ottengono le 8 ore. Questo clima impensierisce
Olcese, tornato nel frattempo come direttore,che promuove la nomina di
un nuovo sacerdote, don Tavernini, con la speranza di ristabilire
l’ordine sociale e
«che si ritorni alla Religione e al buon senso»
[7].
La fitta corrispondenza
tra direttore e parroco avviluppa il paese in una trama anti-socialista:
non è raro che don Tavernini inviti esponenti del partito popolare con
il tacito consenso dell’industriale. Ma le azioni degli operai sono
dirette anche contro le suore e il parroco, denunciati per le misere
condizioni in cui tengono le convittrici, oltre che per la rigida
disciplina a cui sono sottoposte e i ricatti verso le giovani che si
avvicinano alle «leghe rosse».
4.2.
Silvia e Catina
Negli anni ’20 la
dialettica tra azienda e lavoratori assume una nuova fisionomia;
innanzitutto perché nuova è l’identità dei suoi protagonisti o, per
meglio dire, protagoniste (era infatti avvenuta una progressiva
sostituzione di manodopera femminile alla maschile dopo la guerra).
L’inasprimento dello
scontro tra la lega rossa e quella bianca, e la loro relazione con la
figura padronale, sono simboleggiati dalle storie parallele e poi
violentemente tangenti di Silvia e Catina.
Silvia Dominici,
responsabile della sezione tessile socialista, ha 26 anni ed è la terza
di sei figli di una famiglia originaria di Gargnano, ma che si è
stabilita da anni a Campione. Nel dopoguerra essa è ormai un’operaia con
una notevole esperienza, e svolge la funzione di «maestra del lavoro»
delle operaie assunte recentemente. In questi anni inizia l’attività
nella lega socialista, nella quale in breve tempo ottiene un ruolo di
primo piano. Agli interventi in occasioni ufficiali affianca
un’aggressiva pratica sindacale:
«[…] se non firmava, Re
Giuseppe, il barbetta, lo prendevo e lo piantavo contro il muro […]:
quando andavo fuori in ufficio, perché facevano finta di sbagliare
facilmente i libretti della paga, andavo a parlare col direttore!».
Catina Andreoli, di 20
anni, è la primogenita di una famiglia di otto figli originaria di
Gargnano. I genitori, contadini, decidono di mandarla a lavorare al
cotonificio di Campione, dove collabora con la lega bianca e ne diventa
presto la segretaria.
Il crescente
antagonismo tra le due leghe si incarna nelle rispettive segretarie, a
partire dalle loro posizioni politiche fino alla loro stessa
auto-percezione: Silvia, irruente nell’attività politica, possiede la
giusta dose di coraggio e irriverenza per distaccarsi dalle dinamiche
soffocanti del convitto, colti anche solo nel gesto di mettersi il
profumo; Catina, pacata ma carismatica, disprezza la vanità e
l’apparenza, optando per un profilo modesto e morigerato.
La tensione esplode il
9 dicembre 1920, quando Silvia decide di dare una lezione
all’avversaria; l’episodio viene così
narrato dal quotidiano cattolico «Cittadino»:
«Giunta nei pressi del
ponticello sotto il quale passa il piccolo fiume che dà la forza motrice
allo stabilimento, da un angolo buio sbucarono quattro giovinotti e una
donna i quali assalirono le tre operaie. Due dei giovani staccarono
dall’Andreoli le due compagne prendendole per il collo per impedir loro
di gridare, mentre gli altri due presa la giovane Andreoli per le
braccia lasciarono alla donnaccia, ben conosciuta in paese, il compito
di batterla con calci, pugni e schiaffi, adoperando anche un corpo
contundente. Colpita l’operaia agli occhi, al naso, alla bocca,
sanguinante da tutte le parti, strappatigli persino gli orecchini
lacerandole le orecchie, la forsennata continuava a batterla gridando: -
Ve l’avevo detto che eravamo stanchi di voi e che l’ora della vendetta
sarebbe giunta -. Uno sforzo fatto dalla giovane riuscì a liberarla
dalle strette degli assalitori; ma essa non fece che pochi passi, quando
cadde a terra priva di sensi. La belva umana la rincorreva ancora e,
anche svenuta, la colpiva di nuovo a calci e poi, assieme ai suoi
complici fuggiva […] Si dice che gli aggressori abbiano tentato di
gettarla anche nel fiume».
Esagerazioni e
forzature ovviamente sono presenti anche nei giornali di posizione
opposta, come quello del foglio socialista «Brescia Nuova», che parla di
fatti inventati.
Contestualizzando
questo atto di violenza all’interno delle dinamiche socio-politiche del
cotonificio, è forse opportuno leggerlo non come una banale rissa, ma
come un’azione intrapresa dai socialisti per porre termine a un
conflitto quotidiano in cui combattono ad armi impari. Catina Andreoli
infatti è la vetrina dietro la quale stanno schierati il direttore e la
sua compagine, intenti nel processo di smantellamento
dell’organizzazione socialista locale.
Il «Brescia nuova»
racconta anche di tentativi di corruzione, che si alternano a campagne
di discredito, nei confronti di Silvia Dominici, la quale rifiuta
sdegnosamente le offerte.
In seguito agli eventi
del 9 dicembre, Silvia viene convocata dal direttore, di fronte al quale
la giovane non abbassa lo sguardo:
«[…] io ti rispetto
come mio principale ma non come giudice! A Gargnano c’è la pretura: mi
faccia il rapporto e io verrò a rispondere».
Le parole dell’operaia
stracciano il teatrino di carta di fronte agli occhi del direttore
pietrificato, il quale non ha la prontezza di raccoglierne i coriandoli.
Non resta che il licenziamento.
La fabbrica viene
immediatamente occupata, ma nel giro di poco pure sgomberata. Sul
licenziamento della Dominici non si riesce a trattare, l’azienda è
irremovibile.
L’attacco contro Olcese
non riguarda il suo ruolo di direttore di fabbrica, bensì la sua pretesa
di essere anche padre e di avere la completa giurisdizione anche sulla
vita fuori di fabbrica.
5. Da villaggio operaio
a villaggio turistico
Con gli anni ’20
termina anche l’età del paternalismo industriale, incrinato
irrimediabilmente durante la stagione degli scioperi e delle occupazioni
operaie. Il sistema che si fonda sull’alleanza direttore-parroco non può
essere restaurato; Vittorio Olcese ricostruisce il proprio impero
radicandolo nell’emergente organizzazione fascista. In realtà anche
questa nuova alleanza assume una forma non tanto distante dal vecchio
paternalismo, proprio perché l’isolamento di Campione, che non verrà
interrotto neppure dalla costruzione della strada gardesana ultimata nel
’31, si presta ad un controllo sociale totalizzante.
Durante la seconda
guerra mondiale l’attività del cotonificio viene interrotta, per lasciar
spazio a officine che si occupano della costruzione di parti d’aereo
servendosi di macchine della Fiat. Le sale dello stabilimento vengono
svuotate per alloggiare circa mille persone, civili ingaggiati per il
servizio della Tod. Le operaie del cotonificio vengono in gran parte
licenziate e adibite ai lavori nelle cucine e alla pulizia dei dormitori
come aiutanti delle suore.
Nel dopoguerra Achille
Olcese prende il posto del padre nella direzione della fabbrica di
Campione, riattivando il «normale» corso dell’esistenza nel paese fino
al 1981, data di chiusura del cotonificio.
Negli ultimi anni è
nato un progetto di rivalutazione
del paese operaio in un insediamento abitativo e turistico,
promosso da Coopsette. Campione infatti non lascia alternative, è
destinato a morire insieme al progetto di paternalismo aziendale con il
quale era nato; il suo isolamento è in controtendenza rispetto ad una
storia che rincorre la globalizzazione.
Fortunatamente c’è chi
si sta battendo perché il progetto sia compatibile e rispettoso del
territorio e degli attuali abitanti e perché si lasci almeno un piccolo
spazio per la memoria, che dovrebbe essere custodita da una struttura
museale.
Di fronte alle ruspe
che cancellano le ultime tracce della memoria, resta ancora qualche
operaia insieme al marito e ai figli, e quel busto, gonfio di potere ed
alterigia, che osserva lo smantellamento, stravolta definitivo, del suo
dominio.
GENNAIO 2010
Bibliografia:
- CARLO SIMONI,
Oltre la strada, Grafo edizioni, Brescia, 1988
- CARLO SIMONI,
Campione del Garda. La memoria e il progetto, Fondazione Negri, 2008
- Rivista
quadrimestrale Ricerche storiche, Edizioni Polistampa.
Archeologia industriale gennaio-aprile 2009
[1]
Ottiero Ottieri, Donnarumma all’assalto, Garzanti, Milano
2004 (1959).
[2]
Carlo Simoni, Oltre la strada, Grafo edizioni, Brescia,
1988 (pag 130)
[3]
Ibidem, p. 104
[4]
Ibidem, p. 106
[5]
Paul Lafargue, Il diritto alla pigrizia. Confutazione del
diritto al lavoro, Spartaco, S. Maria Capua Vetere, 204
(1887)
[6]
Palma Plini, Diario di un’operaia di fabbrica, edizioni
Devoniane, Bologna, 1968
[7] Lettera da V. Olcese a G. Tavernini, da Carlo Simoni, Oltre la strada, Grafo edizioni, Brescia, 1988, p. 163.