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01
Maggio 2010

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Lavoro - non lavoro

DDL 1167-B: DESTRUTTURAZIONE DEI DIRITTI DEI LAVORATORI.

Arbitrato, certificazioni extragiudiziali,  licenziamenti verbali… benvenuti nel far west.

Claudia Pellegrino, Fabrizio Forte

 

Abbiamo l’impressione di assistere e di essere travolti da un fenomeno che ha assunto ormai le dimensioni e la potenza di una calamità naturale: una bufera di sabbia e detriti.

I detriti provengono dalla demolizione di quelle poche ma solide costruzioni comunemente definite garanzie, sono quindi il frutto dell’erosione.

I granelli sono i fattori erodenti e rischiano di consumare la nostra capacità di agire, reagire, entusiasmarci, unirci e difendere con fermezza la solidità di un edificio, quello dei diritti fondamentali, che non può essere in alcun modo compromessa.

Immaginiamoci allora dotati, nel bel mezzo della tempesta, di una lente di ingrandimento.

È il primo strumento cui possiamo ricorrere per resistere alla violenza di un attacco che giunge da tutte le direzioni, è il filtro attraverso cui leggere, interpretare, conoscere la natura del fenomeno in atto e determinare poi la scelta degli ulteriori strumenti di cui avvalersi per arrestarlo.

Ogni granello ha una forma, un nome.

Fra i tanti ne afferriamo uno che scopriamo chiamarsi «disegno di legge n.1167-B».

 

Il decreto, quali proposte di riforma?

È stato approvato in via definitiva dal Senato il 3 marzo 2010, come collegato lavoro alla Finanziaria e si colloca in un contesto di interventi volti, in vari settori, alla realizzazione del progetto di destrutturazione dell’impianto di garanzie costituzionalmente sancite di cui ancora (forse per poco) godono quanti vivono da onesti cittadini e lavoratori nel nostro Paese.

Il Presidente della Repubblica, ricevuto il testo dal Parlamento, lo ha rinviato alle Camere affinché queste procedano ad una nuova deliberazione.

Ha quindi rifiutato, esercitando i poteri conferitigli dall’art. 74 della Costituzione, di promulgare una legge che presenta, in più punti, evidenti profili di incostituzionalità.

I rilievi del Capo dello Stato concernono principalmente l’art.31 (conciliazione e arbitrato) del disegno di legge, ma problematico, tra gli altri, risulta essere anche l’art.30 (clausole generali e certificazione del contratto di lavoro).

Quali sono le ragioni di tanta preoccupazione da parte di Napolitano, dei sindacati (in particolare della cgil), dei lavoratori, di autorevoli giuslavoristi e di un’opposizione parlamentare che tuttavia si mostra possibilista, limitandosi ad avanzare timide proposte di correttivi che per nulla intaccano il nucleo del provvedimento?

Ad agitare gli animi è semplicemente «la malafede di chi vuole accendere tensioni sociali», come sostiene il Ministro del Lavoro Sacconi, o al contrario la buona fede di chi comprende il pericolo di effetti disastrosi insito nelle previsioni del ddl, ed avverte il dovere morale di esprimere con forza la propria contrarietà?

Non è così difficile darsi una risposta, è sufficiente una lettura costituzionalmente orientata degli articoli contestati.

La nuova disciplina introdotta dal decreto in questione contempla la possibilità per lavoratore e datore di lavoro di pattuire, all’atto dell’assunzione, clausole compromissorie, attraverso cui le parti rinunciano preventivamente alla tutela giurisdizionale nel caso in cui sorgessero controversie relative al rapporto lavorativo, e si impegnano a devolvere la risoluzione delle stesse e la garanzia dei propri diritti, ad una decisione, eventualmente equitativa, di arbitri privati.

Trattasi in tutta evidenza non di una opportunità in più riconosciuta al lavoratore ma, al limite, di una previsione che privilegia l’esigenza di celerità (soddisfatta dall’istituto dell’arbitrato in quanto il lodo deve essere pronunciato entro il termine di 60 giorni), finendo però per comprimere inevitabilmente il fondamentale ed inderogabile diritto ad agire in giudizio riconosciuto dall’art 24 della Costituzione.

L’arbitrato ha ragion d’essere come forma di giustizia privata tra soggetti che hanno la stessa forza contrattuale. È evidente che questo presupposto non ricorre nei rapporti di lavoro, essendo di immediata intuibilità che il lavoratore è, al momento della stipulazione del contratto, nella condizione di massima debolezza. È soprattutto questa considerazione che ha motivato la decisione di rinvio da parte del Capo dello Stato il quale ha sottolineato, nel messaggio alle Camere che «occorre verificare attentamente che le disposizioni siano pienamente coerenti con la volontarietà dell’arbitrato e la tutela del contraente debole».

La natura vessatoria di una clausola arbitrale stipulata nella fase genetica del rapporto, sarebbe dal lavoratore presumibilmente tollerata in ragione di una valutazione di mera necessità: lavorare seppur rinunciando ad un diritto che non è più così indisponibile o non lavorare affatto? In questo bilanciamento l’ago rischierebbe di pendere nella prima direzione.

Il correttivo proposto dall’opposizione, in particolare dall’ex Ministro del Lavoro Damiano, consiste nell’accordare al lavoratore la facoltà di scelta tra arbitrato e ricorso giurisdizionale ogni qual volta sorga un contenzioso, non a priori, vincolandolo in tal modo a decidere una volta per tutte. Ciò consentirebbe, nelle intenzioni manifestate dai proponenti, di accogliere l’utilità, in termini di rapidità della decisione, dell’arbitrato anche in materia di lavoro, facendo leva sulla professionalità e competenza degli arbitri (che sono solitamente scelti tra professori universitari e avvocati cassazionisti, come sottolineato da Arturo Maresca in un articolo del Sole 24 ore del 3 Aprile), rimanendo entro i confini della costituzionalità.

In realtà è evidente che la proposta non fa che spostare il problema: anche in costanza di rapporto infatti, il lavoratore è spesso soggetto ai ricatti più vari, la questione investendo la stessa possibilità di rinunciare e transigere su diritti (dal diritto alla stabilità del rapporto a quello alla sicurezza nei luoghi di lavoro, dal diritto ad una retribuzione adeguata e dignitosa a quelli che riguardano i modi e i tempi del lavoro, fino al diritto di sciopero) dei quali non dovrebbe poter disporre.

Le modifiche apportate in merito dalla maggioranza, a seguito del rinvio, non hanno tenuto conto tuttavia dell’emendamento Damiano e si limitano a differire la decisione dal momento dell’assunzione al momento della conferma del contratto (cioè dopo il periodo di prova) o dopo 30 giorni dalla stipula, senza mutare quindi nella sostanza la precedente previsione, ed escludono dalle clausole compromissorie soltanto la risoluzione del rapporto di lavoro. Ciò è valso a tranquillizzare cisl e uil sulla salvezza dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori. Non altrettanto può dirsi per la cgil di Epifani per il quale è l’arbitrato in sé ad essere incostituzionale in questa materia. Così, nell’imminenza di uno sciopero generale indetto dal primo sindacato italiano contro il «collegato lavoro», cisl e uil si affrettavano a stipulare con la confindustria un’intesa separata, con la quale in sostanza davano il loro assenso all’intervento di riforma.

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Licenziamento verbale, «nostalgico» ritorno al passato.

Come se ciò non bastasse (e quasi a «compensare» l’espunzione dell’art. 18 dai diritti compromettibili in arbitrato), si è proposto di reintrodurre il «licenziamento verbale». È da una legge del 1966 che questa fattispecie viene considerata inefficace ed, in quanto tale, non soggetta a termini per l’impugnazione, che sono invece di 60 giorni dalla comunicazione scritta, in caso di licenziamento comunicato per iscritto (il solo «efficace», per intenderci). Adesso l’impugnativa varrà anche per i licenziamenti inefficaci, il termine è precisamente di 90 giorni, che decorre dalla data della presunta comunicazione orale al lavoratore da parte del datore. Salta agli occhi l’equazione oralità/incertezza, risultando per il lavoratore estremamente difficile dimostrare di non essere incorso in decadenza ed esercitare, in definitiva, il suo diritto di agire in giudizio.

 

Arbitrato secondo equità, quanto equo è?

Molto preoccupante è anche la novità dell’arbitrato secondo equità che entra, senza lasciare più dubbi,nella disciplina del diritto del lavoro. Il «senso del buono e del giusto», secondo quanto ritenuto dall’arbitro, si sostituirebbe inesorabilmente ai diritti legislativamente previsti e frutto di decenni di lotte e conquiste dei lavoratori. In realtà risale al 2006 un intervento legislativo che abrogò la parte dell’art.808 del c.p.c. in cui era  prevista la nullità della clausola compromissoria contenuta in contratti o accordi collettivi o in contratti individuali di lavoro ove autorizzasse gli arbitri a pronunciare secondo equità. Il decreto 1167 addirittura prevede espressamente questa possibilità.

La pattuizione di clausole compromissorie che autorizzino gli arbitri a decidere secondo equità è consentita solo ove ciò sia previsto da accordi interconfederali o contratti collettivi di lavoro stipulati dalle organizzazioni dei datori di lavoro e dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale.

La clausola compromissoria, a pena di nullità, deve essere certificata. Le commissioni di certificazione accertano l’effettiva volontà delle parti di devolvere ad arbitri le controversie che dovessero insorgere in relazione al rapporto di lavoro.

Il problema è che l’art 31 prosegue precisando che «in assenza dei predetti accordi interconfederali o contratti collettivi, trascorsi dodici mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, il Ministro del lavoro e delle politiche sociali definisce con proprio decreto, sentite le parti sociali, le modalità di attuazione e di piena operatività delle disposizioni» di cui sopra. Appare a questo punto evidente che se le parti sociali (imprese e sindacati confederali, con la sola eccezione della cgil dato lo strappo consumatosi con cisl e uil) non raggiungeranno entro un anno un accordo interconfederale sull’arbitrato, sarà il governo a decidere.

Ciò significa che «la contrattazione potrebbe diventare l’unica vera base legale minima per consentire l’arbitrato di equità in materia di lavoro e che nel giro di qualche anno si è passati da vietare tassativamente l’arbitrato di equità per le controversie individuali di lavoro a consentirne la previsione anche solo attraverso una clausola del contratto individuale» (L.Zoppoli, Certificazione dei contratti di lavoro ed arbitrato, in wp «Massimo D’Antona.it»-102/2010).

In contrasto con l’art 24 Cost. è anche la previsione che sottrae al giudice la facoltà di pronunciarsi nel merito circa le valutazioni tecniche, organizzative e produttive dei datori di lavoro in tutti i casi in cui le leggi «contengono clausole generali, comprese le norme in tema di instaurazione di un rapporto di lavoro, esercizio dei poteri datoriali, trasferimento di azienda e recesso». L’unico sindacato ammesso resterebbe quello di legittimità.

Se quindi formalmente non risulta esserci violazione di sorta, il giudice avrà le mani legate: non potrà rilevare eventuali violazioni sostanziali, non potrà provvedere a reprimerle con gli strumenti del diritto, laddove è evidente che la maggior parte di esse non avviene nella fase di qualificazione formale del rapporto, bensì in costanza di esso, durante il suo svolgimento.

Non finisce qui.

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Commissioni di certificazione e ruolo dei giudici.

L’articolo 101 della nostra Costituzione sancisce che «i giudici sono soggetti soltanto alla legge».

L’art. 30 del ddl invece vincola il giudice ad attenersi, quanto alla qualificazione del contratto, alle certificazioni, extragiudiziali, elaborate da commissioni a ciò deputate e gli fa espresso divieto di interpretare le clausole negoziali in maniera difforme rispetto alle valutazioni espresse dalle parti nei contratti certificati. Ma innanzitutto queste certificazioni sono provvedimenti ben diversi dalla legge, hanno la natura di provvedimenti amministrativi.

In secondo luogo il contratto così come eseguito potrebbe non rispecchiare il contratto così come concluso; in una simile ipotesi il giudice nulla può.

Infine si introduce la possibilità di derogare a livello individuale alla disciplina di legge o del contratto collettivo.

Anche se attraverso lo strumento delle commissioni di certificazione si alleggerisce il carico giudiziario in materia di lavoro e si mira formalmente alla valorizzazione dell’autonomia individuale, non mancano critiche stringenti che vertono soprattutto sulla ambiguità ed approssimazione di questa disciplina introdotta nel 2004 dall’allora Ministro Maroni.

Il Capo dello Stato, sempre in virtù dell’art 74 Cost. sarà obbligato a promulgare la legge se le Camere la approvano nuovamente, come sicuramente accadrà.

Il rischio è che questa sarà arricchita di emendamenti peggiorativi. Non essendo contemplato nel nostro ordinamento il sindacato preventivo di legittimità costituzionale, il passaggio ulteriore potrebbe essere l’attesa che divenga legge per sollevare poi la questione di incostituzionalità.

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Opposizione dove sei?

Il quadro dell'attuale situazione non sarebbe tuttavia completo (e, forse, nemmeno comprensibile, perché non ci si spiegherebbe la facilità e la quasi totale assenza di resistenze con cui certe proposte attraversano la sede politica), se non facessimo nemmeno un breve accenno a quelle che sono le posizioni in merito del più grande partito di opposizione.

In un clima di generale nascondimento del lavoro dagli spazi angusti della contesa politica, in cui non è più sulla base della rappresentanza e della tutela del mondo del lavoro che si determinano le appartenenze e si dispongono gli schieramenti, traspare una comune convinzione: questa non tanto riguarda le concrete soluzioni prescelte – per quanto anche su di esse non è raro che si riescano ad individuare inedite convergenze – quanto la presunta impossibilità di fare marcia indietro nella moltiplicazione delle figure contrattuali in vario modo precarie e sprovviste di tutele.

Così, ad esempio, accade che 48 senatori del PD presentino una proposta di legge (primo firmatario l’ex cgil Paolo Nerozzi) per l’introduzione di un Contratto Unico d’Ingresso, che intenderebbe superare la miriade di figure contrattuali atipiche introdotte dalle riforme del 1997 e del 2003 (solo conservando i contratti a tempo determinato e le collaborazioni coordinate e continuative), prevedendo però per tutti una fase di ingresso della durata di tre anni durante la quale non sarebbe garantita alcuna stabilità del rapporto lavorativo: il datore sarebbe cioè libero di licenziare ad nutum il lavoratore, salvo indennizzarlo con una somma di danaro pari a cinque giorni per ogni mese di prestazione lavorativa.

Quasi che l’aspetto ingiusto e inaccettabile della precarietà sia non tanto la precarietà in sé, ma il fatto che finora non abbia toccato tutti (convinzione, tra l’altro, più volte apertamente confessata in sede politica).

Si tratta di una proposta in tutto simile a quel cpe, contratto di primo impiego, contro cui in Francia nella primavera del 2006 scesero in piazza tre milioni di studenti e lavoratori, mettendo a rischio la stessa tenuta del governo di Chirac, che fu alla fine costretto a fare marcia indietro. Nel nostro Paese, nel momento di massima ripercussione degli effetti della crisi sull’economia reale, tra licenziamenti, casse integrazioni, chiusura di interi stabilimenti, questa proposta viene da quel che resta della sinistra in Parlamento.

Se il mantra delle non meglio specificate «esigenze delle imprese» da salvaguardare vuol significare che i parametri umani della vita debbano ulteriormente adeguarsi a quelli disumani di un’attività economica privata che si vuole sempre più libera (e la gravità e il portato ideologico della proposta di riforma dell’art. 41 della Costituzione non è probabilmente stata ancora compresa a fondo), allora è il momento che ci si dica chi è d’accordo e chi intenda invece ribaltare questo assunto.

 

MAGGIO 2010

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