Lavoro - non lavoro
DDL 1167-B:
DESTRUTTURAZIONE DEI DIRITTI DEI LAVORATORI.
Arbitrato,
certificazioni extragiudiziali,
licenziamenti verbali… benvenuti nel far west.
Claudia Pellegrino,
Fabrizio Forte
Abbiamo l’impressione di assistere e di essere travolti da un
fenomeno che ha assunto ormai le dimensioni e la potenza di una calamità
naturale: una bufera di sabbia e detriti.
I detriti provengono dalla demolizione di quelle poche ma
solide costruzioni comunemente definite garanzie, sono quindi il frutto
dell’erosione.
I granelli sono i fattori erodenti e rischiano di consumare
la nostra capacità di agire, reagire, entusiasmarci, unirci e difendere
con fermezza la solidità di un edificio, quello dei diritti
fondamentali, che non può essere in alcun modo compromessa.
Immaginiamoci allora dotati, nel bel mezzo della tempesta, di
una lente di ingrandimento.
È il primo strumento cui possiamo ricorrere per resistere
alla violenza di un attacco che giunge da tutte le direzioni, è il
filtro attraverso cui leggere, interpretare, conoscere la natura del
fenomeno in atto e determinare poi la scelta degli ulteriori strumenti
di cui avvalersi per arrestarlo.
Ogni granello ha una forma, un nome.
Fra i tanti ne afferriamo uno che scopriamo chiamarsi
«disegno di legge n.1167-B».
Il decreto, quali
proposte di riforma?
È stato approvato in via definitiva dal Senato il 3 marzo
2010, come collegato lavoro alla Finanziaria e si colloca in un contesto
di interventi volti, in vari settori, alla realizzazione del progetto di
destrutturazione dell’impianto di garanzie costituzionalmente sancite di
cui ancora (forse per poco) godono quanti vivono da onesti cittadini e
lavoratori nel nostro Paese.
Il Presidente della Repubblica, ricevuto il testo dal
Parlamento, lo ha rinviato alle Camere affinché queste procedano ad una
nuova deliberazione.
Ha quindi rifiutato, esercitando i poteri conferitigli
dall’art. 74 della Costituzione, di promulgare una legge che presenta,
in più punti, evidenti profili di incostituzionalità.
I rilievi del Capo dello Stato concernono principalmente
l’art.31 (conciliazione e arbitrato) del disegno di legge, ma
problematico, tra gli altri, risulta essere anche l’art.30 (clausole
generali e certificazione del contratto di lavoro).
Quali sono le ragioni di tanta preoccupazione da parte di
Napolitano, dei sindacati (in particolare della
cgil), dei lavoratori, di
autorevoli giuslavoristi e di un’opposizione parlamentare che tuttavia
si mostra possibilista, limitandosi ad avanzare timide proposte di
correttivi che per nulla intaccano il nucleo del provvedimento?
Ad agitare gli animi è semplicemente «la malafede di chi vuole accendere tensioni sociali», come sostiene
il Ministro del Lavoro Sacconi, o al contrario la buona fede di chi
comprende il pericolo di effetti disastrosi insito nelle previsioni del
ddl, ed avverte il dovere
morale di esprimere con forza la propria contrarietà?
Non è così difficile darsi una risposta, è sufficiente una
lettura costituzionalmente orientata degli articoli contestati.
La nuova disciplina introdotta dal decreto in questione
contempla la possibilità per lavoratore e datore di lavoro di pattuire,
all’atto dell’assunzione, clausole compromissorie, attraverso cui le
parti rinunciano preventivamente alla tutela giurisdizionale nel caso in
cui sorgessero controversie relative al rapporto lavorativo, e si
impegnano a devolvere la risoluzione delle stesse e la garanzia dei
propri diritti, ad una decisione, eventualmente equitativa, di arbitri
privati.
Trattasi in tutta evidenza non di una opportunità in più
riconosciuta al lavoratore ma, al limite, di una previsione che
privilegia l’esigenza di celerità (soddisfatta dall’istituto
dell’arbitrato in quanto il lodo deve essere pronunciato entro il
termine di 60 giorni), finendo però per comprimere inevitabilmente il
fondamentale ed inderogabile diritto ad agire in giudizio riconosciuto
dall’art 24 della Costituzione.
L’arbitrato ha ragion d’essere come forma di giustizia
privata tra soggetti che hanno la stessa forza contrattuale. È evidente
che questo presupposto non ricorre nei rapporti di lavoro, essendo di
immediata intuibilità che il lavoratore è, al momento della stipulazione
del contratto, nella condizione di massima debolezza. È soprattutto
questa considerazione che ha motivato la decisione di rinvio da parte
del Capo dello Stato il quale ha sottolineato, nel messaggio alle Camere
che «occorre
verificare attentamente che le disposizioni siano pienamente coerenti
con la volontarietà dell’arbitrato e la tutela del contraente debole».
La natura vessatoria di una clausola arbitrale stipulata
nella fase genetica del rapporto, sarebbe dal lavoratore presumibilmente
tollerata in ragione di una valutazione di mera necessità: lavorare
seppur rinunciando ad un diritto che non è più così indisponibile o non
lavorare affatto? In questo bilanciamento l’ago rischierebbe di pendere
nella prima direzione.
Il correttivo proposto dall’opposizione, in particolare
dall’ex Ministro del Lavoro Damiano, consiste nell’accordare al
lavoratore la facoltà di scelta tra arbitrato e ricorso giurisdizionale
ogni qual volta sorga un contenzioso, non
a priori, vincolandolo in tal
modo a decidere una volta per tutte. Ciò consentirebbe, nelle intenzioni
manifestate dai proponenti, di accogliere l’utilità, in termini di
rapidità della decisione, dell’arbitrato anche in materia di lavoro,
facendo leva sulla professionalità e competenza degli arbitri (che sono
solitamente scelti tra professori universitari e avvocati cassazionisti,
come sottolineato da Arturo Maresca in un articolo del Sole 24 ore del 3
Aprile), rimanendo entro i confini della costituzionalità.
In realtà è evidente che la proposta non fa che spostare il
problema: anche in costanza di rapporto infatti, il lavoratore è spesso
soggetto ai ricatti più vari, la questione investendo la stessa
possibilità di rinunciare e transigere su diritti (dal diritto alla
stabilità del rapporto a quello alla sicurezza nei luoghi di lavoro, dal
diritto ad una retribuzione adeguata e dignitosa a quelli che riguardano
i modi e i tempi del lavoro, fino al diritto di sciopero) dei quali non
dovrebbe poter disporre.
Le modifiche apportate in merito dalla maggioranza, a seguito
del rinvio, non hanno tenuto conto tuttavia dell’emendamento Damiano e
si limitano a differire la decisione dal momento dell’assunzione al
momento della conferma del contratto (cioè dopo il periodo di prova) o
dopo 30 giorni dalla stipula, senza mutare quindi nella sostanza la
precedente previsione, ed escludono dalle clausole compromissorie
soltanto la risoluzione del rapporto di lavoro. Ciò è valso a
tranquillizzare cisl e
uil sulla salvezza
dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori. Non altrettanto può dirsi per
Licenziamento verbale,
«nostalgico» ritorno al passato.
Come se ciò non bastasse (e quasi a «compensare» l’espunzione
dell’art. 18 dai diritti compromettibili in arbitrato), si è proposto di
reintrodurre il «licenziamento verbale». È da una legge del 1966 che
questa fattispecie viene considerata inefficace ed, in quanto tale, non
soggetta a termini per l’impugnazione, che sono invece di 60 giorni
dalla comunicazione scritta, in caso di licenziamento comunicato per
iscritto (il solo «efficace», per intenderci). Adesso l’impugnativa
varrà anche per i licenziamenti inefficaci, il termine è precisamente di
90 giorni, che decorre dalla data della presunta comunicazione orale al
lavoratore da parte del datore. Salta agli occhi l’equazione
oralità/incertezza, risultando per il lavoratore estremamente difficile
dimostrare di non essere incorso in decadenza ed esercitare, in
definitiva, il suo diritto di agire in giudizio.
Arbitrato secondo
equità, quanto equo è?
Molto preoccupante è anche la novità dell’arbitrato secondo
equità che entra, senza lasciare più dubbi,nella disciplina del diritto
del lavoro. Il «senso del buono e del giusto», secondo quanto ritenuto
dall’arbitro, si sostituirebbe inesorabilmente ai diritti
legislativamente previsti e frutto di decenni di lotte e conquiste dei
lavoratori. In realtà risale al 2006 un intervento legislativo che
abrogò la parte dell’art.808 del
c.p.c. in cui era
prevista la nullità della clausola compromissoria contenuta in contratti
o accordi collettivi o in contratti individuali di lavoro ove
autorizzasse gli arbitri a pronunciare secondo equità. Il decreto 1167
addirittura prevede espressamente questa possibilità.
La pattuizione di clausole compromissorie che autorizzino gli
arbitri a decidere secondo equità è consentita solo ove ciò sia previsto
da accordi interconfederali o contratti collettivi di lavoro stipulati
dalle organizzazioni dei datori di lavoro e dei lavoratori
comparativamente più rappresentative sul piano nazionale.
La clausola compromissoria, a pena di nullità, deve essere
certificata. Le commissioni di certificazione accertano l’effettiva
volontà delle parti di devolvere ad arbitri le controversie che
dovessero insorgere in relazione al rapporto di lavoro.
Il problema è che l’art 31 prosegue precisando che
«in assenza dei predetti accordi
interconfederali o contratti collettivi, trascorsi dodici mesi dalla
data di entrata in vigore della presente legge, il Ministro del lavoro e
delle politiche sociali definisce con proprio decreto, sentite le parti
sociali, le modalità di attuazione e di piena operatività delle
disposizioni» di cui sopra. Appare a questo punto evidente che se le
parti sociali (imprese e sindacati confederali, con la sola eccezione
della cgil dato lo strappo consumatosi con
cisl e uil) non
raggiungeranno entro un anno un accordo interconfederale sull’arbitrato,
sarà il governo a decidere.
Ciò significa che «la
contrattazione potrebbe diventare l’unica vera base legale minima per
consentire l’arbitrato di equità in materia di lavoro e che nel giro di
qualche anno si è passati da vietare tassativamente l’arbitrato di
equità per le controversie individuali di lavoro a consentirne la
previsione anche solo attraverso una clausola del contratto individuale»
(L.Zoppoli, Certificazione dei contratti di lavoro ed arbitrato, in wp
«Massimo D’Antona.it»-102/2010).
In contrasto con l’art 24 Cost. è anche la previsione che
sottrae al giudice la facoltà di pronunciarsi nel merito circa le
valutazioni tecniche, organizzative e produttive dei datori di lavoro in
tutti i casi in cui le leggi
«contengono clausole generali, comprese le norme in tema di
instaurazione di un rapporto di lavoro, esercizio dei poteri datoriali,
trasferimento di azienda e recesso». L’unico sindacato ammesso
resterebbe quello di legittimità.
Se quindi formalmente non risulta esserci violazione di
sorta, il giudice avrà le mani legate: non potrà rilevare eventuali
violazioni sostanziali, non potrà provvedere a reprimerle con gli
strumenti del diritto, laddove è evidente che la maggior parte di esse
non avviene nella fase di qualificazione formale del rapporto, bensì in
costanza di esso, durante il suo svolgimento.
Non finisce qui.
Commissioni di
certificazione e ruolo dei giudici.
L’articolo 101 della nostra Costituzione sancisce che
«i giudici sono soggetti soltanto
alla legge».
L’art. 30 del ddl
invece vincola il giudice ad attenersi, quanto alla qualificazione del
contratto, alle certificazioni, extragiudiziali, elaborate da
commissioni a ciò deputate e gli fa espresso divieto di interpretare le
clausole negoziali in maniera difforme rispetto alle valutazioni
espresse dalle parti nei contratti certificati. Ma innanzitutto queste
certificazioni sono provvedimenti ben diversi dalla legge, hanno la
natura di provvedimenti amministrativi.
In secondo luogo il contratto così come eseguito potrebbe non
rispecchiare il contratto così come concluso; in una simile ipotesi il
giudice nulla può.
Infine si introduce la possibilità di derogare a livello
individuale alla disciplina di legge o del contratto collettivo.
Anche se attraverso lo strumento delle commissioni di
certificazione si alleggerisce il carico giudiziario in materia di
lavoro e si mira formalmente alla valorizzazione dell’autonomia
individuale, non mancano critiche stringenti che vertono soprattutto
sulla ambiguità ed approssimazione di questa disciplina introdotta nel
2004 dall’allora Ministro Maroni.
Il Capo dello Stato, sempre in virtù dell’art 74 Cost. sarà
obbligato a promulgare la legge se le Camere la approvano nuovamente,
come sicuramente accadrà.
Il rischio è che questa sarà arricchita di emendamenti
peggiorativi. Non essendo contemplato nel nostro ordinamento il
sindacato preventivo di legittimità costituzionale, il passaggio
ulteriore potrebbe essere l’attesa che divenga legge per sollevare poi
la questione di incostituzionalità.
Opposizione dove sei?
Il quadro dell'attuale situazione non sarebbe tuttavia
completo (e, forse, nemmeno comprensibile, perché non ci si spiegherebbe
la facilità e la quasi totale assenza di resistenze con cui certe
proposte attraversano la sede politica), se non facessimo nemmeno un
breve accenno a quelle che sono le posizioni in merito del più grande
partito di opposizione.
In un clima di generale nascondimento del lavoro dagli spazi
angusti della contesa politica, in cui non è più sulla base della
rappresentanza e della tutela del mondo del lavoro che si determinano le
appartenenze e si dispongono gli schieramenti, traspare una comune
convinzione: questa non tanto riguarda le concrete soluzioni prescelte –
per quanto anche su di esse non è raro che si riescano ad individuare
inedite convergenze – quanto la presunta impossibilità di fare marcia
indietro nella moltiplicazione delle figure contrattuali in vario modo
precarie e sprovviste di tutele.
Così, ad esempio, accade che 48 senatori del PD presentino
una proposta di legge (primo firmatario l’ex
cgil Paolo Nerozzi) per
l’introduzione di un Contratto Unico d’Ingresso, che intenderebbe
superare la miriade di figure contrattuali atipiche introdotte dalle
riforme del 1997 e del 2003 (solo conservando i contratti a tempo
determinato e le collaborazioni coordinate e continuative), prevedendo
però per tutti una fase di ingresso della durata di tre anni durante la
quale non sarebbe garantita alcuna stabilità del rapporto lavorativo: il
datore sarebbe cioè libero di licenziare
ad nutum il lavoratore, salvo
indennizzarlo con una somma di danaro pari a cinque giorni per ogni mese
di prestazione lavorativa.
Quasi che l’aspetto ingiusto e inaccettabile della precarietà
sia non tanto la precarietà in sé, ma il fatto che finora non abbia
toccato tutti (convinzione, tra l’altro, più volte apertamente
confessata in sede politica).
Si tratta di una proposta in tutto simile a quel
cpe, contratto di primo
impiego, contro cui in Francia nella primavera del 2006 scesero in
piazza tre milioni di studenti e lavoratori, mettendo a rischio la
stessa tenuta del governo di Chirac, che fu alla fine costretto a fare
marcia indietro. Nel nostro Paese, nel momento di massima ripercussione
degli effetti della crisi sull’economia reale, tra licenziamenti, casse
integrazioni, chiusura di interi stabilimenti, questa proposta viene da
quel che resta della sinistra in Parlamento.
Se il mantra delle
non meglio specificate «esigenze delle imprese» da salvaguardare vuol
significare che i parametri umani della vita debbano ulteriormente
adeguarsi a quelli disumani di un’attività economica privata che si
vuole sempre più libera (e la gravità e il portato ideologico della
proposta di riforma dell’art. 41 della Costituzione non è probabilmente
stata ancora compresa a fondo), allora è il momento che ci si dica chi è
d’accordo e chi intenda invece ribaltare questo assunto.
MAGGIO 2010