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01
Maggio 2010

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Lavoro - non lavoro

IL PRECARIATO

Alcuni cenni

(Articolo pubblicato in Dossier sulla scuola a cura dell’Istituto Italiano studi Filosofici, Maggio 2010 e riprodotto in questa rivista per concessione dell’autrice)

Maria Sole Fanuzzi

 

«Hanno fatto forse qualcosa di più che pagare le spese di una mezza dozzina di commissioni d’inchiesta, i cui voluminosi rapporti sono condannati a dormine in perpetuo tra cataste di cartacce negli scaffali del Home Office?»

F. Engels

 

Studi e indagini

L’ultima Commissione d’inchiesta istituita presso gli organi del Parlamento italiano ad aver aperto un’indagine conoscitiva sul fenomeno preso qui ad esame risale alla XV Legislatura (periodo di riferimento: 2006-2007)[1]. Pertanto, è d’obbligo premettere che ancor’oggi non esiste nel panorama italiano alcuna stima sintetica, fornita in sede ufficiale e scientificamente attendibile, quanto a valutazione qualitativa e quantitativa del precariato, ciò che crea ostacoli di non poco momento finanche all’autorità competente per l’espletamento delle funzioni di garanzia nei confronti della categoria lavorativa cosiddetta «precaria».

Dalle audizioni stenografate nella Indagine citata in nota n. 1 si rileva, anzi, una vera e propria incapacità informativa nel raccogliere gli elementi precipui e necessari alle valutazioni quanto meno di statistica da parte delle Pubbliche Amministrazioni, in quanto la figura del «precario» manca di un’adeguata veste statutaria, in ambito giuridico e sociale, che possa orientare lo studio nel processo di identificazione del fenomeno e dei suoi soggetti; tanto che l’appellativo stesso di precari/ato pare essere una mera convenzione di fatto[2].

A fronte di ciò, si rende, dunque, necessario, nell’esposizione che seguirà, procedere innanzitutto per via negativa ed analogica.

La categoria lavorativa analoga di immediato riferimento è identificabile nel cosiddetto «lavoro flessibile»: con la locuzione si intende, nel dibattito italiano, una figura «atipica» – cioè non rispondente ad uno standard riproducibile sempre e solo secondo eguali modalità, quanto piuttosto declinabile, in sede di stipulazione di contratto per prestazioni lavorative, con varianti in merito alla durata complessiva dell’incarico, alla qualità o anche alla sua intensità nell’arco della giornata lavorativa etc. (es.: si considera come lavoro flessibile il cosiddetto part-time)[3] – contemplata dal diritto del lavoro, ossia dotata delle tutele e delle garanzie di ordine previdenziale, civile, penale e tributario.

La classificazione di lavoro precario, invece, è utilizzata in particolare laddove, alla temporaneità del contratto – che rappresenta una costante, inoltre, di qualsiasi nuova figura lavorativa introdotta a partire dalla metà del XX secolo ad oggi – si associno pure peculiarità, quali:

 

«in primo luogo [...] una ridotta o assente copertura previdenziale; (la) mancanza di ammortizzatori sociali per la copertura dei periodi di vacanza contrattuale; una scarsa probabilità di transitare verso contratti stabili; […] una maggiore frammentazione del percorso lavorativo; (la) brevità dei contratti (tanti piccoli contratti che si rinnovano continuamente); un sottoinquadramento contrattuale rispetto al titolo di studio; lunghezza della permanenza nella situazione di incertezza contrattuale [...]»[4].

 

Quel che preme, tuttavia, qui sottolineare è appena fatto intendere dallo stesso Biggeri nel prosieguo della sua relazione, di cui è riportato di seguito un significativo stralcio:

«[…] Se le forme di lavoro flessibile rappresentano solamente una prima tappa dell’ingresso di nuovi soggetti (giovani, o meno) nel mercato del lavoro, che successivamente sono destinati ad essere stabilizzati, si rimane nell’ambito degli obiettivi posti dalle politiche del lavoro. Non sono quindi da considerare precarie»[5].

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Confronto Italia - Europa

É, infatti, in merito alla considerazione della reale possibilità di stabilizzazione del lavoratore precario che deve concentrarsi l’attenzione, soprattutto nell’ottica di tracciare un profilo di confronto tra la situazione italiana e quella europea continentale.

Come rileva lo stesso Biggeri, mentre in Italia

 

«[…] dall’indagine condotta dall’Istat sulle forze di lavoro, risulta che l’80 per cento dei lavoratori titolari di un contratto di lavoro a termine ha affermato di avere un contratto di lavoro a termine non per propria scelta volontaria di temporaneità, ma perché hanno trovato solo quel tipo di offerta»[6],

 

in quanto

 

«La domanda da parte delle imprese era di lavoro precario e di conseguenza i lavoratori hanno accettato quel tipo di contratto»[7],

 

si deve, diversamente, notare che

 

«[...] nel resto dei paesi dell’Unione europea la percentuale è del 55 per cento [...]»[8].

 

Ad esempio,

 

«[...] in Germania [...] il lavoro flessibile riguarda circa un terzo dei giovani tra i 20 e i 29 anni, ma solo il 6,5 per cento degli adulti tra 30 e 54 anni. In questo caso, il lavoro a termine sembra effettivamente essere utilizzato come via d’accesso al lavoro, che porta a situazioni contrattuali standard in tempi relativamente brevi»[9].

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Normativa di riferimento

All’altezza circa degli anni Settanta del Novecento, infatti, a livello europeo si è assistito ad una rivalutazione complessiva del processo di regolamentazione dei fenomeni economici e sociali, tale che, in nome di un liberismo ottimista quanto contingente nelle sue manovre, si credé di poter dare avvio senza particolari preoccupazioni ad una progressiva deregolarizzazione (deregulation) di tutti gli ambiti della Pubblica Amministrazione – politica, questa, meglio conosciuta nella nostra penisola col nome di semplificazione amministrativa (e, all’occorrenza, legislativa)[10].

A questo proposito, nell’audizione del 17 gennaio 2007, l’allora Commissario straordinario dell’ARAN (Agenzia per la Rappresentanza Negoziale delle Pubbliche Amministrazioni), Massimo Massella Ducci Teri, spiegava alla Commissione come

 

«Specialmente negli anni Settanta e Ottanta, si vennero però a costituire in vari ambiti forme di lavoro precario che richiesero da parte del Parlamento e del legislatore interventi che venivano qualificati come provvedimenti di sanatoria»[11].

 

Dapprima

 

«La riforma del lavoro pubblico e la privatizzazione del rapporto di lavoro, intervenute con il decreto legislativo n. 29 del 1993, hanno innovato profondamente anche la materia delle forme contrattuali flessibili di assunzione e di impiego del personale nelle pubbliche amministrazioni. In particolare – continua il Commissario –, è stato l’articolo 36 dell’originario decreto legislativo n. 29 ad estendere alle Pubbliche Amministrazioni la possibilità di avvalersi delle norme contrattuali flessibili […]. La stessa norma ha demandato ai contratti collettivi nazionali di lavoro la disciplina della materia dei contratti a tempo determinato, dei contratti di formazione lavoro e degli altri rapporti formativi, nonché la fornitura del lavoro temporaneo»[12].

 

In seguito, l’accesso alle Pubbliche Amministrazioni per il lavoro flessibile fu, in gran parte, escluso, tanto che nella legge del 14 febbraio 2003, n. 30[13], conosciuta come «legge Biagi» (vedi nota n. 10), all’articolo 3 (Delega al Governo in materia di riforma della disciplina del lavoro a tempo parziale) si può leggere:

 

«Il Governo è delegato ad adottare, su proposta del Ministro del lavoro e delle politiche sociali [...] uno o più decreti legislativi, con esclusione dei rapporti di lavoro alle dipendenze di amministrazioni pubbliche, recanti norme per promuovere il ricorso a prestazioni di lavoro a tempo parziale, quale tipologia contrattuale idonea a favorire l’incremento del tasso di occupazione e, in particolare, del tasso di partecipazione delle donne, dei giovani e dei lavoratori con età superiore ai 55 anni, al mercato del lavoro, nel rispetto dei seguenti principi e criteri direttivi [...]»[14].

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L’osservazione del ruolo che il lavoro flessibile ha avuto nella pubblica amministrazione riconduce a considerazioni ulteriori, in particolare sul rapporto tra lavoro flessibile e blocco del turnover. Come dichiara, tra molte altre voci concordi, il Presidente della XI Commissione – Lavoro pubblico e privato, Gianni Pagliarini,

 

«spesso le forme di lavoro atipiche sono state utilizzate per raggirare il blocco delle assunzioni, del turnover»[15].

 

L’osservazione di ciò induce a non poter prestare più oltre fede alle molte e molto spesso fraseologiche dichiarazioni di principio, le quali vorrebbero far intendere simili complicati meccanismi di alternanza alle «maestranze» come fine strumento per la realizzazione di

 

«un sistema efficace e coerente di strumenti intesi a garantire trasparenza ed efficienza al mercato del lavoro e a migliorare le capacità di inserimento professionale dei disoccupati e di quanti sono in cerca di una prima occupazione, con particolare riguardo alle donne e ai giovani»[16],

 

poiché è chiaro ormai, e giova citare a questo punto ancora il Presidente Pagliarini, che

 

«i 10 occupati di trenta anni fa oggi (risultano) 20, solo perché in realtà si stanno dividendo esattamente le ore dei 10 occupati di trenta anni fa. Ho il sospetto che le cose stiano effettivamente così – continua il Presidente –, altrimenti non si spiegherebbe perché in questo paese si avverte un problema salariale enorme e il livello delle retribuzioni è basso (se anziché 36 o 40 ore si lavora 15, 18 o 20 ore, è evidente che c’è anche un problema di salario e di retribuzione)»[17].

 

Interpretazione che viene confermata da un precedente storico-giuridico di importanza rilevante e che emerge nell’Indagine durante l’audizione del 17 gennaio 2007, quando Massimo Massella Ducci Teri (Commissario straordinario dell’ARAN), completando la sua illustrazione della portata del decreto legislativo n. 29/1993, precisa:

«L’altra norma fondamentale già presente nel decreto legislativo n. 29, che non è stata modificata ed è stata addirittura ritenuta fondata dalla Corte di giustizia delle Comunità europee con due recenti sentenze del 2006, prevede comunque il divieto della trasformazione del rapporto di lavoro da tempo determinato a tempo indeterminato»[18].

 

E a nulla o pochissimo è valsa la disposizione contenuta nella finanziaria 2007 (legge del 27 dicembre 2006, n. 296), quando al comma 519 dell’art. 1 disponeva che

 

«il personale interessato alla stabilizzazione debba essere in possesso dei seguenti requisiti: essere in servizio a tempo determinato da almeno tre anni, anche non continuativi, ed essere stato assunto mediante selezione concorsuale o altre modalità previste dalla legge. Qualora le unità in attesa di stabilizzazione fossero state assunte a tempo determinato tramite selezioni diverse da quella concorsuale, si rende necessario l’espletamento di apposite prove selettive»[19],

 

poiché essa tendeva inevitabilmente, per le caratteristiche richieste agli «interessati», a rivolgersi ad un numero estremamente esiguo di soggetti, come poi, in effetti, è stato denunciato a mezzo stampa da numerose inchieste giornalistiche (vedi soprattutto articoli de L’Unità).

Conseguenza ultima è stato il perdurare di una situazione ambigua in cui una percentuale elevatissima di lavoratori, calcolata in modo molto approssimativo, nel corso dell’Indagine, in vari milioni, si è ritrovata costretta ad operare.

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Lavoro precario e lavoro sommerso

Tuttavia, la gravità della vicenda non riceverebbe giustizia se non ci si soffermasse sui suoi effetti in relazione ad un ulteriore aspetto: il cosiddetto «lavoro sommerso»[20].

Si può, anzi, affermare, in prima istanza, che il rapporto tra lavoro precario e lavoro sommerso è di parentela: alcune quote di lavoro precario possono, cioè, essere intese propriamente come lavoro sommerso, non visibile, ossia, nella sua completezza giuridica, sociale, economica.

«Sommersa» è, infatti, qualsiasi tipologia di impiego lavorativo non assistito da tutela, o meglio, i cui soggetti agenti non sono titolari di fatto dei diritti di garanzia e di tutela né dei diritti previdenziali previsti, innanzitutto, in sede costituzionale: e simile – per gran parte della categoria precaria – è tale descrizione[21].

E ciò in conseguenza del fatto che, come è stato anticipato sin dall’inizio, la figura del precario non è «visibile», ossia non si posseggono ad oggi le categorie di riferimento per mettere a fuoco con precisione i contorni e la fisionomia delle sue  vicende, cosicché la ricerca resta invogliata nella confusione di una visione meramente analitica.

A livello risolutivo, dunque, è importante prendere in considerazione le politiche di controllo sul lavoro.

Tra i precedenti storici, presi in esame nell’Indagine, interessante è il riferimento all’art. 1, comma 1198 della legge del 27 dicembre 2006, n. 296 (finanziaria 2007)[22], menzionato dal prof. Alberto Burgio durante la seduta del 2 maggio 2007 per l’audizione del ministro del lavoro e della previdenza sociale, Cesare Damiano, di cui riportiamo la parte essenziale:

 

«Una questione che mi permetto di sollevare riguarda l’ormai famosa parte del comma 1198 del maxi-emendamento all’articolo 16 (se non sbaglio) della finanziaria, che prevede un anno di sospensione di tutte le attività ispettive (ivi comprese quelle che concernono la materia della sicurezza e della tutela della salute dei lavoratori) alle imprese che accedono al percorso di regolarizzazione»[23].

 

E immediatamente dopo il prof. Burgio sottolinea quanto viene riportato:

«Inevitabilmente questa disposizione […] rischia di essere interpretata come un avallo o addirittura come un’esortazione, per non dire un’istigazione, a violare quelle norme, giacché si prevede che, anche in caso di violazione, per un anno nessuno sarà chiamato a svolgere i controlli e a comminare sanzioni. Credo che sarebbe opportuno cancellare quanto prima quella norma per trasmettere un segnale positivo al paese»[24].

 

In Parlamento non seguirono il consiglio ed oggi il comma 1198 è ancora al suo posto.

Né si è cambiato rotta col cambio di Legislatura. Il Documento di programmazione dell’attività di vigilanza per l’anno 2009[25], stilato nel febbraio dell’anno scorso dal Ministero del Lavoro, della Salute e delle Politiche Sociali – Direzione generale per l’Attività Ispettiva, sotto la direzione del dott. Paolo Pennesi, infatti, in nome di un decentramento dai colori secessionistici delle funzioni e degli uffici dell’Amministrazione Pubblica, prevede

 

«Rispetto al numero delle aziende da ispezionare programmate nel 2008 il cambiamento «di rotta» dell’azione di vigilanza (che) comporterà la realizzazione di un minor numero di interventi ispettivi – circa il 17%»[26].

 

Neppure si creda, tuttavia, che quanto stabilito nel paragrafo Coordinamento con Enti previdenziali[27] possa rappresentare un valido strumento di risoluzione dei tanti problemi connessi al fenomeno del precariato, in quanto gli Enti previdenziali, se anche riuscissero – in futuro, poiché ad oggi nulla è ancora migliorato – a fornire aiuti preziosi nella gestione dei lavoratori flessibili, poco o nulla potranno fare per i precari, che, non essendo destinatari di politiche di previdenza sociale, non sono iscritti negli albi degli Enti previdenziali, che, quindi, non ne hanno, se non in modo approssimativo e indiretto, alcuna contezza precisa.

Tutto ciò in un contesto europeo che continua a vedere nel processo di deregulation il rimedio principale alle patologie del mercato unico, confondendo visibilmente la causa con uno degli effetti.

A buon diritto, dunque, il presidente della Commissione XI, Pagliarini, commentava:

 

«Altra cosa è invece la precarietà. Essa non è l’utilizzo temporaneo di lavoratori per cogliere una opportunità di mercato, ma è un uso distorto della buona flessibilità in funzione di un inferiore costo del lavoro»[28].

 

FEBBRAIO 2010

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[1] Cfr. Indagine conoscitiva sulle cause e le dimensioni del precariato nel mondo del lavoro, commissione XI – lavoro pubblico e privato (2006-2007)

fonte internet:  

http://legxv.camera.it/_dati/lavori/bollet/chiscobollt.asp?content=/_dati/lavori/stencomm/11/indag/precariato/elenco.htm

[2] Cfr. Indagine conoscitiva sulle cause e le dimensioni del precariato nel mondo del lavoro, Commissione XI – lavoro pubblico e privato, seduta del 7 novembre 2006, audizione di Luigi Biggeri (Presidente Istat): «Le opinioni e le valutazioni sull’impatto, cioè sull’efficacia, l’entità e la qualità del lavoro mancante di stabilità, sono però differenti. Ciò non sorprende, perché molto spesso, quando nelle legislature si prevedono determinate politiche, non c’è poi nessun elemento per poter effettuare una valutazione del loro impatto. Manca, cioè, un sistema informativo che consenta di valutare qual è l’impatto della politica che si vuole attuare. […] Per il settore in esame siamo scoperti: non è possibile effettuare un’analisi di impatto. […] Al momento, quindi, non è possibile dare una risposta a tutti i quesiti che si è posta la commissione». Cfr. anche la seduta del 18 gennaio 2007, audizione di Giuseppe Lucibello (Ispettore generale capo dell’ispettorato generale per gli ordinamenti del personale e l’analisi dei costi del lavoro pubblico della Ragioneria generale dello Stato): «Purtroppo, la rilevazione del conto annuale, nata negli anni Novanta, non è finalizzata a gestire tutte le informazioni in materia, laddove invece le informazioni risultano anche eccessive per quanto concerne il lavoro a tempo indeterminato. Non disponiamo, infatti, di informazioni relative al titolo di studio, all’anzianità, alla specifica tipologia del rapporto, e, per esempio, per quanto concerne le collaborazioni coordinate e continuative, disponiamo dei dati dal 2003 e, per quanto riguarda l’incarico di studio, consulenza e ricerca, dal 2004». In ultima analisi, importante è la dichiarazione del presidente della XI commissione, Gianni Pagliarini: «[…] non ho alcuna certezza, anzi nutro una serie di dubbi sul metodo di rilevazione, per due ragioni. innanzitutto, in base al sistema di rilevazione che applichiamo in italia, è considerato occupato chiunque svolga un’ora di lavoro nella settimana precedente a quella della rilevazione; in secondo luogo, la rilevazione avviene per interviste. Non vi è un sistema codificato che obblighi i datori di lavoro a trasmettere, in questo caso all’ente pubblico, i dati relativi agli occupati ed alle loro caratteristiche. Se vogliamo svolgere un ragionamento serio e precisare il significato del termine «precario», forse sarebbe bene riflettere sul sistema di rilevazione. Un conto è il numero delle persone che hanno un lavoro, un conto sono le ore complessivamente lavorate in un paese» (Cfr. seduta del 2 maggio 2007, p. 12).

[3] Riguardo alla classificazione del lavoro «flessibile», cfr. Indagine conoscitiva sulle cause e le dimensioni del precariato nel mondo del lavoro, Commissione XI – lavoro pubblico e privato, seduta del 7 novembre 2006, audizione di Luigi Biggeri (Presidente Istat): «È quindi opportuno distinguere almeno fra «flessibilità oraria» e «flessibilità contrattuale» (in tal caso si parla di «lavoro temporaneo»: al riguardo, vedi sotto), tenendo separate le due cose, in quanto solo la seconda sembra associarsi – non sempre, ma comunque con maggiore frequenza – anche a una condizione di precarietà. […] a livello internazionale si riconosce che l’andamento e le caratteristiche dei contratti a termine – che sono chiamati temporary contracts – rappresentano una solida base, sulla quale appoggiare una riflessione riguardante le trasformazioni del mercato del lavoro, in quanto si riferiscono ad un universo «potenziale» di possibili situazioni di precarietà del lavoro. […] Un’occupazione viene considerata temporanea se la durata del lavoro è contrattualmente determinata da condizioni oggettive». Cfr. anche il verbale della seduta del 6 dicembre 2006, audizione di Luigi Marchione (direttore generale dell’Inpdap): «Vi è poi una figura, quella dei lavoratori interinali; voi sapete che costoro non hanno un rapporto diretto con l’istituto che invece stipula contratti per la prestazione di servizi da parte di società le quali, quindi, forniscono tale personale».

[4] Cfr. Indagine conoscitiva sulle cause e le dimensioni del precariato nel mondo del lavoro, Commissione XI – lavoro pubblico e privato, seduta del 7 novembre 2006, audizione di Luigi Biggeri (Presidente istat), p. 5.

[5] ibidem.

[6] Ibidem.

[7] Ibidem.

[8] Ibidem.

[9] Cfr. Indagine conoscitiva sulle cause e le dimensioni del precariato nel mondo del lavoro, Commissione XI – Lavoro pubblico e privato, seduta del 7 novembre 2006, audizione di Luigi Biggeri (Presidente Istat), p. 7.

[10] Cfr. Indagine conoscitiva sulle cause e le dimensioni del precariato nel mondo del lavoro, Commissione XI – Lavoro pubblico e privato, seduta del 7 novembre 2006, audizione di Luigi Biggeri (Presidente Istat): «[…] il fenomeno ha incominciato a manifestarsi [...], anche perché si è verificata una marcata deregolamentazione, non solo a livello italiano, anzi inizialmente al livello OCSE e poi come strategia dell’occupazione a livello di Unione europea. A partire dal 1997, tale deregolamentazione ha condizionato certamente, in modo rilevante, le politiche del lavoro e dell’occupazione nei vari paesi dell’Unione». È chiaro che in questo passo della sua relazione, Biggeri fa riferimento alla cosiddetta «Legge Treu» (Legge del 24 giugno 1997, n. 196: Norme in materia di promozione dell’occupazione), che può a giusta ragione essere considerata come la disposizione che complessivamente introduce palesemente in Italia la realtà del lavoro flessibile e delle sue varie degenerazioni, fra cui possiamo includere quella del «precariato». Con la legge del 14 febbraio 2003, n. 30 (cosiddetta «Legge Biagi») il Parlamento italiano ha portato ad ulteriore approfondimento la fattispecie del lavoro flessibile, tanto che la legge in esame viene considerata erede e continuatrice della Treu.

[11] Cfr. Indagine conoscitiva sulle cause e le dimensioni del precariato nel mondo del lavoro, Commissione XI – Lavoro pubblico e privato, seduta del 17 gennaio 2007, audizione di Massimo Massella Ducci Teri (Commissario straordinario dell’ARAN), p. 4.

[12] Ibidem.

[13] La legge Biagi presenta aspetti interessanti anche per i rilevanti risvolti in materia di mercato del lavoro nel settore agricolo; non essendo questa la sede per approfondire tale punto, si rimanda alla lettura integrale dell’art. 3.

[14] Cfr. anche l’art. 6: «Le disposizioni degli articoli da 1 a 5 non si applicano al personale delle pubbliche amministrazioni ove non siano espressamente richiamate».

[15] Cfr. Indagine conoscitiva sulle cause e le dimensioni del precariato nel mondo del lavoro, Commissione XI – Lavoro pubblico e privato, seduta del 17 gennaio 2007, p. 9.

[16] Cfr. legge del 14 febbraio 2003 n. 30, art. 1, comma 1.

[17] Cfr. Indagine conoscitiva sulle cause e le dimensioni del precariato nel mondo del lavoro, Commissione XI – Lavoro pubblico e privato, seduta del 2 maggio 2007, audizione di Cesare Damiano (Ministro del Lavoro e della Previdenza sociale), p. 12.

[18] Cfr. Indagine conoscitiva sulle cause e le dimensioni del precariato nel mondo del lavoro, Commissione XI – Lavoro pubblico e privato, seduta del 17 gennaio 2007, audizione di Massimo Massella Ducci Teri (Commissario straordinario dell’ARAN), p. 5.

[19] Cfr. Indagine conoscitiva sulle cause e le dimensioni del precariato nel mondo del lavoro, Commissione XI – Lavoro pubblico e privato, seduta del 30 maggio 2007, audizione di Luigi Nicolais (Ministro per le Riforme e le Innovazioni nella Pubblica Amministrazione), p. 5.

[20] Molto spesso si tende ad eguagliare la dizione «lavoro sommerso» con l’espressione «lavoro nero»: in effetti si tratta di concetti teoricamente differenti, anche se di frequente, nell’osservazione concreta, intrecciati. Per «lavoro nero» si intende precisamente l’impiego nella cui esplicazione si riscontrano irregolarità sul piano tributario; per «lavoro sommerso» possiamo, invece, intendere una categoria anche più estesa di quella inquadrata nella definizione di cui sopra, in quanto «sommersa» può essere qualsiasi occupazione lavorativa che, pur rispettando formalmente i crismi ordinamentali, è sostanzialmente irregolare nell’aspetto contrattuale, gestionale o di altra natura concreta (come appunto sovente è stato rilevato per il precariato).

[21] Vedi nota n. 4.

[22] Legge del 27 dicembre 2006 n. 296, art. 1, comma 1198: «Nei confronti dei datori di lavoro che hanno presentato l’istanza di regolarizzazione di cui al comma 1192, per la durata di un anno a decorrere dalla data di presentazione, sono sospese le eventuali ispezioni e verifiche da parte degli organi di controllo e vigilanza nella materia oggetto della regolarizzazione anche con riferimento a quelle concernenti la tutela della salute e sicurezza dei lavoratori».

[23] Cfr. Indagine conoscitiva sulle cause e le dimensioni del precariato nel mondo del lavoro, Commissione XI – Lavoro pubblico e privato, seduta del 2 maggio 2007, audizione di Cesare Damiano (ministro del lavoro e della previdenza sociale), p. 7.

[24] Ibidem.

[26] Cfr. Documento di programmazione dell’attività di vigilanza per l’anno 2009, p. 5.

[27] Cfr. Documento di programmazione dell’attività di vigilanza per l’anno 2009, p. 6-7.

[28] Per il rapporto tra precariato e immigrazione clandestina, vedi Indagine conoscitiva sulle cause e le dimensioni del precariato nel mondo del lavoro, Commissione XI – Lavoro pubblico e privato, seduta del 29 maggio 2007, audizione di Paolo Ferrero (Ministro della solidarietà sociale).