Lavoro - non lavoro
LAVORO, CAPITALE E
TECNICA NELLA TERZA RIVOLUZIONE
INDUSTRIALE (parte I)
Giulio Trapanese
L’articolo che qui presentiamo è la prima parte pensata
all’interno d’un progetto che dovrebbe includere come parti successive
gli approfondimenti sul tema del capitalismo cosiddetto «immateriale» e
dei risvolti sulla coscienza della precarietà come nuova dimensione di
vita.
A mo’ d’introduzione:
su spazio e tempo
È difficile probabilmente concepire la velocità del tempo
storico. Così come quanto in certe sfere della vita umana si assista ad
un’accelerazione, in alcuni momenti storici, e ad un rallentamento, in
altri momenti: nel campo dello sviluppo delle tecniche o degli strumenti
di produzione, come in quelli, invece, della cultura, delle arti e del
pensiero.
Paul Valery, nei primi anni trenta, nei suoi «Sguardi sul
mondo attuale» ritorna continuamente sul tema di tempo e spazio nella
nuova società industrializzata e di massa. E sulle conseguenze sulla
sfera della sensibilità umana e della sua mente dell’irradiazione
ubiquitaria dell’elettricità, del magnetismo, dell’analisi chimica che
il livello di sviluppo della scienza e dell’industria nei primi decenni
del secolo scorso portava con sé. Il mondo post - elettricità è
concepito come incommensurabile rispetto a quello pre-elettricità. Il
paragone ardito che Valery fa è addirittura con la periodizzazione
convenzionale della storia occidentale nell’era prima di Cristo e dopo
di Cristo. Tutto sta cambiando per Valery, velocemente, appunto. La
velocità stessa è il cambiamento della nostra civiltà, che è, a sua
volta, un cambiamento veloce, rapido, a tratti forsennato. Questa sta
riducendo i limiti tradizionali delle distanze spaziali e, quindi,
temporali fra gli uomini che abitano il pianeta terra e che da sempre,
nelle loro relazioni private, come nei commerci, e, in ultimo, nella
produzione industriale, si relazionano reciprocamente, si confrontano,
si aggregano, il tutto sulla base della distanza fisica che intercorre
tra le diverse parti del globo,
sulla base di distanze di chilometri intervallati dalle forme
della geografia terrestre di mari, monti, zone oscure più o meno
disabitate, affiancatesi da sempre a centri urbanizzati con maggiore
concentrazione di vita umana e cultura. Con il Quattrocento in Europa si
dà inizio alla grande stagione dei viaggi oceanici, della ricerca volta
alla scoperta e alla conquista, ridisegnando le cartine del mondo su
basi nuove, in forme nuove, assegnando di riflesso alla geografia il
ruolo di ridefinire il senso delle identità sociali e culturali di
popoli, in nuove commistioni e nuovi irrigidimenti. Al giorno d’oggi,
invece, ciò che allora era il contenuto di aspettative di un gruppo
ristretto di avventurieri e uomini di stato lungimiranti, di progetti
d’impresa e di promesse di alcuni mercanti aperti al rischio della
novità di mercati e mercanzie, oggi risulta come un elemento affermatosi
universalmente, e percepito con la banalità del «sempre nuovo» dei
nostri tempi, sugli schermi di qualsiasi, pur mediocre, personal
computer, in grado oggi istantaneamente di fotografare la totalità della
spazialità geografica della terra, e di permettere, più o meno
istantaneamente, e con un dispendio di energia e forza lavoro quasi
nulla, una comunicazione telefonica o informatica immediata in luoghi
opposti della sfera terrestre. Così la percezione del tempo e dello
spazio, che in qualche modo per la realtà umana, costituiscono già i
«nostri» spazio e tempo, poiché sulla base di questa percezione
percepiamo la vita e le nostre possibilità di movimento, e che sono
state prese in esame da ogni sistematico tentativo filosofico della
nostra tradizione come forme originarie della conoscenza, sono divenute
oggi il presupposto d’ogni discorso possibile sulla produzione
capitalistica nel suo sviluppo tecnologico e, con esso, del ruolo del
lavoro umano nell’epoca del dominio internazionale delle tecnologie
informatiche. Da questo punto di vista, il nostro secolo, e del nostro
secolo in particolare gli ultimi due decenni (il periodo della
cosiddetta «new economy») sono stati, senz’altro, più veloci di millenni
scorsi in passato per la civiltà umana, nella stessa misura in cui la
velocità di trasmissione d’una mail mediata dalla velocità degli
elettroni è più veloce del carro dei vecchi corsari postali dell’età
moderna o anche, pure, della nostra posta aerea degli ultimi
settant’anni. Poiché però la verità d’un tempo appare solo quando questo
ha assunto una sua consistenza più definita nell’essere divenuto il
passato di se stesso, di sicuro ci è difficile adesso parlare di noi con
un’oggettività proporzionata ai tempi dello sviluppo storico più
complessivo, così come anche poter subito concordare con chi, come Andrè
Jacob, filosofo e linguista francese, parla della rivoluzione
informatica come la seconda più grande rivoluzione dell’homo sapiens
dopo la comparsa della lingua[1];
dovremo aspettare per capire meglio, tuttavia, questo non toglie che può
essere assolutamente utile per la nostra vita e la nostra attività
politica di questi anni, agire con la coscienza del dubbio di stare
vivendo un periodo particolare di trasformazioni epocali, le quali
senz’altro però, grandi o meno grandi che siano, colgono purtroppo
l’umanità impreparata ad utilizzarle e organizzarle al meglio delle loro
potenzialità emancipatrici, e cioè al netto dell’irrazionalità odierna
dello sviluppo sociale sulla base dell’economia fondata sulla proprietà
privata dei grandi capitali.
Le ragioni e il
significato della tendenza post – fordista
1.
Il post – fordismo è un
termine che si trova ormai sempre più di frequente nel dibattito sulle
nuove forme di lavoro ed anche, più in generale, in quello sul destino
delle organizzazioni sindacali e politiche dei lavoratori. Come termine
lo si trova tanto adoperato da autori di riferimento dell’area moderata
ex socialdemocratica, come ad esempio da Accornero che ha trattato a
fondo la questione del «nuovo lavoro» e delle nuove tutele dei diritti,
quanto anche in autori di impostazione marxista come Vasapollo nel suo
ultimo compendio «La crisi del
capitale» in cui il paradigma post fordista è il tema del capitolo
forse più significativo del libro. Soprattutto però è alla base delle
analisi nuove di esponenti come Toni Negri e Michael Hardt, Andrè Gorz,
influente in particolare in Francia, e, infine, anche Jeremy Rifkin che
è riuscito con le sue analisi più recenti a suscitare un certo interesse
tra chi negli ultimi anni, tra Stati Uniti ed Europa, si è trovato alla
ricerca d’una descrizione nuova del presente e insieme di soluzioni per
la sua trasformazione. Viviamo in un tempo che negli ultimi tre decenni
è stato definito all’ombra del suo passato, di ciò che non sarebbe più,
e che sarebbe tramontato come un’era conclusa. Dal punto di vista della
cultura si è discusso molto dell’inaugurazione del post – moderno, e da
quello, invece, dell’organizzazione sociale della produzione, di post –
fordismo. Il moderno, da un lato, il fordismo, dall’altro, vivono ad
oggi, in queste definizioni, spesso un po’ azzardate e astratte, come il
termine del non più, attraverso il quale solo si intuirebbe il
significato di ciò che li segue. La definizione avviene per
contrapposizione, come d’altra parte è stato anche per movimenti
passati, ma, a differenza di questi, si ferma, anche solo nella propria
definizione, senza aggiungere il contenuto effettivo della sua
prospettiva differente. Per Accornero, e per lo stesso Vasapollo, il
post – fordismo si accompagna alla nascita di una nuova epoca, l’epoca
della terza grande rivoluzione industriale, in cui la natura del
capitalismo non muterebbe ma si troverebbe ormai fondata su basi
qualitativamente differenti dal passato, in particolare rispetto al
paradigma dell’industria pesante e organizzata secondo il modello
fordista (in sintesi: quota prevalente di industria pesante,
concentrazione della classe operaia in grandi centri di produzione,
definizione dei ruoli lavorativi in schemi abbastanza definiti e
stabili). Certo, il post – fordismo, ad esempio, viene anche considerato
come toyotismo, e quindi, in senso positivo, come il tentativo dal punto
di vista del capitale di «rispondere alle ristrettezze del mercato locale diversificando e
personalizzando l’offerta» (Accornero), facendo in modo cioè di
ridefinire la produzione su una scala diversa basata sulla penetrazione
millimetrica e scientifica nel mercato attraverso la creazione del
bisogno, il monopolio quanto più grande dell’offerta, l’elasticità
assoluta, nei tempi di produzione e di circolazione rispetto ai flussi
della domanda. Tuttavia siamo comunque in un momento evidentemente post,
in cui il nuovo modello si è andato stabilizzando solo di recente, e
che forse la stessa crisi economica rischia di minare, lasciando
così ancora incerto il destino dello sviluppo del nuovo nel presente.
Detto questo, adesso è importante poter dare una definizione sintetica
dei caratteri del post – fordismo in funzione soprattutto di comprendere
le radici del fenomeno all’interno delle nuove esigenze del capitale.
Dalle pagine del capitolo citato del libro di Vasapollo
possiamo in qualche modo ricavare uno schema sintetico di questo tipo
riguardo ai caratteri del post fordismo:
1. Tecnologia
fondamentale alla base: i nuovi
sistemi di comunicazione e informazione;
2. Organizzazione interna dell’impresa:
frammentazione produttiva, esternalizzazione, delocalizzazione su scala
internazionale e riappalto da aziende maggiori a quelle minori;
3. Modello
sociale della fabbrica: fabbrica
sociale generalizzata sul territorio e in grado di dirigere e
influenzare i bisogni dei consumatori. Centralità del controllo degli
indici del consumo e delle sue mode temporanee[2];
4. Forme di lavoro salariato:
lavoro flessibile, precario, part time, a progetto;
5. Nuovo carattere essenziale della profittabilità del
capitale: il «lavoro della
conoscenza».
Insieme al ritrovamento di questi caratteri, abbastanza
realistici nella descrizione della nuova realtà del mondo del lavoro e
della riorganizzazione del capitale, vanno aggiunti gli elementi
essenziali dello scenario mondiale come quadro necessario per ogni
evento che accada in un qualche paese, lo statuto di precarietà del
lavoro esteso, a volte come volatilità, altre come insicurezza, alla
dimensione umana in genere e in relazione all’accelerazione
dell’esperienza della vita di cui si diceva sopra. Oltre a questi, il
ruolo che la disoccupazione continua ad avere rispetto alla dinamica
economica dello sviluppo capitalistico, tanto all’interno dei confini
dei paesi più industrializzati d’Occidente (vedi tabella)[3],
tanto quanto in un’ottica più globale come squilibrio
fra il troppo lavoro e il troppo poco lavoro, di cui dopo
diremo meglio, venutosi a creare e in fase di aumento tra alcune fasce
di lavoratori ed altre, e tra lavori e lavoratori di alcuni paesi
rispetto a quelli di altri. Infine, ma assolutamente non per importanza,
la radice più profonda dell’espulsione dei lavoratori dai grandi centri
produttivi, della loro frammentazione in unità più piccole e dislocate,
per quanto in perfetta comunicazione tra loro sulla base dei nuovi
sistemi informatici e d’automazione, e del correlato sviluppo della
tecnica (al giorno d’oggi come tecnologia software assai più che
hardware) come elemento dominante del rapporto capitale -
lavoro dei nostri giorni: vale a dire, cioè, la radice legata al
carattere attuale della legge della caduta tendenziale del profitto,
introdotta come chiave di analisi per la prima volta da Marx nelle
pagine del terzo volume del Capitale. Il suo tentativo fu di indicare
una traiettoria «oggettiva» nello sviluppo nei rapporti sociali di
lavoro rispetto all’aumento della quota di produzione nelle singole
merci attribuibile al lavoro
«morto» delle macchine rispetto a quello «vivo» degli uomini, con il
conseguente abbassamento di valore delle merci, la riduzione
dell’impiego di forza lavoro umana nella produzione, e crollo
progressivo, per quanto tendenziale e legato ad una serie di variabili,
del saggio del profitto per unità di merce. Il tutto per via della
contraddizione principale che si può così riassumere: con il passar del
tempo il lavoro umano è sempre meno produttivo rispetto alle macchine,
ma non per questo meno necessario, dal momento che la macchina non può
sostituire del tutto l’operare umano (fosse anche nel programmare questa
e revisionarla) e al tempo stesso, in particolare nelle società
occidentali degli ultimi decenni, il costo del lavoro non può essere
meno caro per il capitale, se questo non vuole incorrere in un probabile
abbassamento del livello dei consumi. Dal punto di vista del capitale,
diciamo così, la stessa terza rivoluzione industriale sarebbe la
risposta ad un crollo della possibilità di profitto sul livello
precedente delle forze di produzione e di strumenti tecnici. E lo stesso
post – fordismo, con tutti i suoi correlati di precarietà,
frammentazione, ricorso a forza lavoro immigrata e dequalificata,
verrebbe fuori da questa stessa esigenza e da questo stesso impasse:
l’abbassata redditività del denaro investito nella produzione di merci a
fronte dell’aumentato (e necessario per lo stesso capitalismo) potere
d’acquisto dei lavoratori dei paesi occidentali. La nuova produttività
della nuova tecnologia e della nuova organizzazione del lavoro sarebbe
la risposta al correlato aumento dei bisogni e del costo della forza
lavoro nei paesi più avanzati economicamente. Per quanto oggi, lontani
da una vera uscita dalla recente crisi economica e in un periodo di
povertà crescente dei ceti popolari, può sembrare assurdo parlare di
aumento della disponibilità economica dei lavoratori, il dato va preso
nella macro dimensione dello sviluppo economico della seconda metà del
secolo scorso, dimensione da cui forse oggi ci sentiamo già lontani, ma
che è comunque all’origine in qualche modo di ciò che viviamo noi oggi.
Fatta questa premessa, che dalla sua andrebbe certo approfondita, in
particolare rispetto alla vexata quaestio della caduta del saggio del
profitto, da molti economisti dopo Marx criticata, ma probabilmente mai
veramente confutata, possiamo passare adesso al centro del tema della
trasformazione del lavoro nella società degli ultimi vent’anni.
2.
La ricerca di studi
interessanti sul post fordismo, non è semplice all’inizio. Anzitutto ci
sono i testi che, soprattutto in ambiente più politicizzato, e
specialmente in Italia, si chiudono a riccio rispetto alla
considerazione più profonda del mutamento in corso. La paura di trarre
dalle analisi del presente conclusioni antimarxiste o riformiste o
«nuoviste», che dir si voglia, li frena sulle colonne d’Ercole dell’«aveva
già detto tutto Marx nei libri del Capitale», ruolo delle macchine,
frammentazione dei lavoratori, e caduta del saggio del profitto, tutto
incluso. Se adesso si fa una ricerca banale su internet, i primi
articoli che si trovano, per lo più per questioni di visibilità
informatica, sono di questo tipo, ad esempio
«Post – fordismo e dintorni: quali prospettive per una ripresa autonoma
di classe?». D’altra parte, per trarre il poco di positivo che è
contenuto in questo tipo di elaborazioni si può dire che in un certo
senso qualcosa di tutto ciò è vero. Le pagine del primo libro del
Capitale sul ruolo delle macchine nella semplificazione e banalizzazione
del lavoro sono precise, approfondite a tutto tondo e senz’altro
esaurienti per l’analisi del fenomeno macchina – uomo – capitale –
lavoro di quel periodo (tra prima e seconda rivoluzione industriale in
Inghilterra avanguardia del capitalismo). Nelle stesse pagine dei
Manoscritti economici – filosofici di vent’anni prima, la creatività
umana dell’artigiano, la sua autonomia nella produzione, il suo lavoro
ancora come esperienza umana si contrappongono alla rigidità del lavoro
automatizzato delle nuove fabbriche nascenti sulla base del principio di
parcellizzazione, semplificazione, ripetitività monotona delle attività.
Dopo questi primi incontri, che non guastano del tutto, ma
tendenzialmente chiusi fino al negazionismo rispetto alla trasformazione
presente, ci imbattiamo in una serie di libri attuali, validi,
interessanti ma fondamentalmente troppo poco fondati su una conoscenza
storica complessiva del movimento di sviluppo del capitalismo e delle
società borghesi e, in più, sradicati da categorie di pensiero più
generali, in grado di riportare il destino di ciò che sta accadendo alla
possibilità concreta dell’altro da venire, della trasformazione. Ad
esempio uno dei testi più conosciuti a riguardo è senz’altro
«La fine del lavoro» di Jeremy
Rifkin del
Leggiamo ad esempio in Rifkin nel primo dei suoi capitoli: «Le
schiere dei disoccupati crescono quotidianamente in Nord America, in
Europa e Giappone. Anche le nazioni in via di sviluppo stanno
affrontando una crescente disoccupazione tecnologica, dal momento che le
imprese multinazionali stanno ammodernando i propri stabilimenti in
tutto il mondo, eliminando milioni di lavoratori non qualificati, che
non possono più competere con i costi, la qualità e la velocità di
consegna raggiunte dalla produzione automatizzata. In un numero sempre
crescente di Paesi, i giornali si riempiono di articoli che parlano di
produzione leggera, re – engineering, qualità totale, post fordismo,
decruiting e downsizing. Dovunque la gente è preoccupata del proprio
futuro. I giovani hanno iniziato a dare sfogo alle proprie frustrazioni
e alla propria rabbia con comportamenti sempre più antisociali. I
lavoratori più anziani, in bilico tra un passato prospero e un futuro
incerto, paiono rassegnati e si sentono sempre più intrappolati da forze
sociali sulle quali hanno poco o punto controllo. Tutto il mondo è
pervaso dalla sensazione che sia in corso un inarrestabile cambiamento
tanto ampio nel suo raggio da renderci quasi incapaci di ipotizzarne
l’impatto. La vita, così come la conosciamo, viene modificata nei suoi
aspetti fondamentali» .
Lo stesso Rifkin riporta poche pagine più avanti le parole di
Attali, allora ministro e consulente del presidente francese Mitterand
che fiduciosamente affermava: «Le
macchine sono il nuovo proletariato. La classe lavoratrice è stata
liberata». Certo, se la macchina lavora al posto dell’uomo, l’uomo
progressivamente si libera dal lavoro, e così dalla alienante fatica che
questo comporta. Il problema è che senza lavoro umano, nell’analisi di
Rifkin, la produzione non diminuisce, anzi aumenta, ma dal punto di
vista dell’individuo - lavoratore la produzione non è più la propria
neppure oramai rispetto al salario. I lavoratori non lavorano, ma
ovviamente non guadagnano neppure, perdono il lavoro, vanno ad
ingrossare le fila già nutrite della leva dei disoccupati. La risposta
classica, infatti, di quegli anni (e di questi?) era che il terzo
settore avrebbe con il suo sviluppo creato al contempo nuovi posti di
lavoro che avrebbero ricoperto ciò che l’industria nella sua nuova forma
tecnologica lasciava fuori. Al giorno d’oggi senz’altro possiamo vedere
come in quote percentuali i lavoratori impiegati nei diversi paesi
dell’Europa occidentale nel terziario aumentano rispetto a quelli ancora
impiegati nel secondo, per non parlare poi dei reduci del primo, quello
dell’agricoltura, rispetto a cui Rifkin fa bene a dedicare un ampio
approfondimento. È lo stesso Rifkin a notare l’insufficienza di questa
prospettiva: il travaso non è (e non è stato infatti) automatico né dal
punto di vista quantitativo né soprattutto da quello qualitativo. Una
parte dei posti di lavoro complessivi senz’altro è stata persa, ma il
dato più interessante è che la parte recuperata nei nuovi investimenti,
in particolare nel terziario, o in aziende che a loro volta sono sorte
come produttrici e gestori di software e nuova tecnologia, è passata
attraverso il filtro delle nuove forme di lavoro impostesi negli ultimi
anni con la compiacenza e l’iniziativa diretta dei principali governi, e
cioè con la precarietà, la flessibilità e tutte le varie e variegate
forme di contratto a termine. Il valore, quindi, del libro di Rifkin è
proprio forse nella sua tempestività, e nel suo tener fermo alla
dimensione dell’irrecuperabilità del vecchio sistema rispetto al nuovo
inesorabile installarsi di tecnologie di potenza incomparabile rispetto
al passato. Rifkin nota che qualcosa di importante sta cambiando, in un
certo senso che nulla sarà più come prima, che la dimensione della
trasformazione del mondo del lavoro incide in modo sostanziale sulla
vita degli individui che la compongono in modo complessivo. E nel
titolo, corrispondente d’altra parte alle sue analisi, fissa quest’
impressione in una dicitura forte, anche ambivalente, ad impressione
immediata. Questo perché il sogno della fine del lavoro è divenuto, di
contrappasso, oggi, l’incubo della perdita generalizzata della propria
attività di vita e delle basi essenziali delle proprie risorse
economiche. D’altra parte, quello che è assai chiaro è che il declino
della forza lavoro su scala globale (sottotitolo del libro) non può di
per sé giustificare l’ipotesi che siamo di fronte alla fine del lavoro
in quanto tale. L’ipotesi sarebbe abbastanza ingenua; e, per quanto
Rifkin non è così ingenuo da portarla alle sue estreme conseguenze, le
sue analisi non sono supportate però da una visione d’insieme in grado
di fargli prospettare un quadro più definito della società post –
fordista. Il suo grido di preoccupazione per la rottura degli equilibri
tradizionali a metà degli anni novanta si stempera in una visione nuova
delle prospettive della società umana nei suo testi successivi, da
«L’era dell’accesso» (2001)
fino all’ultimo «La civiltà
dell’empatia» (2009), in cui Internet e i nuovi sistemi di
comunicazione sono posti alla base della possibile unificazione del
genere umano su basi migliori. La questione però non secondaria della
barbarie dell’esistenza effettiva degli ultimi decenni del capitalismo
su scala globale, in termini di pressione sulla riduzione dei diritti
dei lavoratori, questione ecologica, innesco di nuove guerre e tensioni,
è trattata troppo superficialmente rispetto, invece, alle nuove, forse
anche presenti, possibilità che la tecnologia delle reti offre alla
civiltà umana impegnata in questo slancio verso nuove forme di relazioni
sociali.
Il testo di Andrè Gorz edito nel 1988
«La metamorfosi del lavoro», è invece di uno spessore maggiore,
ancorato alla conoscenza delle basi dell’economia politica, e orientato
secondo una visione filosofica interessante, attenta a sfuggire ad
incrostazioni dogmatiche.
Alla base della sua considerazione del lavoro c’è la
convinzione che lo sviluppo del capitalismo abbia ormai portato ad una
separazione netta fra lavoro e vita rispetto alla formazione dell’
identità individuale. E questo come il risultato del processo di più
lungo corso, attivatosi a partire dalla fine del lavoro domestico e del
superamento progressivo del lavoro artigiano ad opera della manifattura
industriale e sviluppatosi attraverso il crescente peso della macchina,
la semplificazione del lavoro e con la relativa alienazione del
lavoratore dal prodotto di lavoro. Nella spirale delle nuove tecnologie
a servizio della produzione il lavoratore fa sempre meno, si identifica
sempre meno con quello che fa e si avvia progressivamente a limitare la
propria mansione alla progettazione, alla supervisione e al controllo
del processo della macchina. Dalla prima alla terza rivoluzione
industriale la macchina è
venuta ad aumentare la durata della propria vita, lo spessore e
l’ampiezza del proprio lavoro, la capacità di correggere da sé i propri
errori, fino ad arrivare ultimamente ad essere programmata nel poter
ricorrere all’aiuto in rete per il proprio aggiornamento e la propria
manutenzione.
L’uomo - lavoratore rimane sempre più alle spalle del
processo effettivo di produzione in quanto «fare» manuale e sensibile, e
diventa il tecnico della macchina, il guardiano del processo, lo
spettatore della produzione. La
«fine dell’umanesimo del lavoro» per Gorz è tutta qui: l’uomo –
operaio non è più operaio né riconosce quella dimensione sociale come la
principale della sua vita, piuttosto fa l’operaio, o ancora meglio, ha
un posto di lavoro da operaio. Quando nel film di Bertolucci
«Novecento» il patriarca della
famiglia contadina inizia il giovane Olmo in piedi sulla tavola
imbandita della famiglia (di diverse decine di membri tutti braccianti
agricoli) le sue parole sono:
«Dovunque andrai, qualunque cosa farai, chiunque sposerai, ricordati di
essere Olmo Dal Cò, paisano». Egli è convinto, infatti, che il tempo
non vincerà la sua appartenenza di classe, il suo destino è scritto in
quella stessa tavola su cui, non a caso avviene la sua iniziazione,
mangia la stessa minestra dei suoi parenti e degli altri che sono nella
sua stessa dimensione, la dimensione di vita sacrificata dei braccianti
e di lavoro faticato a contatto con la natura. Nella terza rivoluzione
industriale, invece, il lavoro non possiede più, per forza di cose, la
portata di questa identificazione di vita e lavoro, di lavoro e
appartenenza sociale. Rispetto a questo Gorz cita gli autori di «Le
travail et après» che rilevano come anche la richiesta salariale
ormai è divenuta svincolata dalla vera e propria produttività
individuale anche nell’immaginario dell’operaio, il quale più che come
individuo produttore, reclama il suo stipendio in base al posto di
lavoro più che al lavoro vero e proprio, dal momento che «l’operaio massa non contratta il valore del suo lavoro concreto, di cui
coglie il carattere uniforme, universale. Egli chiede il massimo di
retribuzione della sua forza lavoro in quanto elemento indifferenziato
d’un processo collettivo produttore di ricchezza». In un certo
senso, cioè, il lavoratore nelle società più avanzate riconosce
effettivamente nel tempo il criterio principale di valutazione del suo
lavoro. Non il prodotto in sé, ma il tempo di lavoro in quanto tale,
sottratto al tempo della vita. Il tempo della vita ha assunto un
significato simbolico più alto, è il vero tempo, il tempo per sé, il
tempo del consumo, il tempo della vita privata. Questa astrazione del
lavoro ha anche un’altra radice tuttavia, molto legata al discorso che
stiamo facendo. Si tratta di quella che Gorz stesso definisce
«la polivalenza dell’operaio di
processo» e che si spiega con il fatto che
«la loro (dei nuovi operai)
mobilità potenziale è pertanto maggiore di quella degli operai
professionali tradizionali: passare da una raffineria a una fabbrica di
lampadine elettriche o da un cementificio a una fabbrica di spaghetti è
cosa molto più facile che passare dal mestiere del meccanico a quello
del’elettricista. Lo stesso vale per una parte significativa degli
addetti alla manutenzione: meccanici, idraulici, elettricisti, periti
elettronici di sistemi di produzione flessibili integrati col
calcolatore, nonché per i programmatori». In questo modo, quindi,
sostiene Gorz, il tempo della formazione professionale si è notevolmente
abbassato per una gran parte dei lavoratori di tipo manuale e questo ha
il suo effetto sul rapporto fra la vita e il lavoro di questi individui.
In questo modo gli stessi autori de
«Le travail et après» descrivono la situazione di alcuni operai
chimici nella separazione che intercorre fra la loro cultura
professionale e la loro cultura del quotidiano: «Qualcosa
c’è da fare sempre, ma la produzione si fa in gran parte da sola e le
regolazioni, le correzioni, i lavori di manutenzione che si svolgono
possono essere difficilmente interpretati come un vero lavoro […]
L’operaio non può nemmeno dire che ha un’influenza decisiva sulla
qualità della produzione […]. Nonostante la sua qualificazione, egli
ritiene di detenere solo un sapere professionale e non una capacità
professionale che si possa tradurre in realizzazioni materiali: il pezzo
costruito, l’apparecchio radio riparato».
La banalizzazione del lavoro odierno nel post – fordismo non
è per Gorz la semplice dequalificazione, l’abbassamento del lavoro a
qualcosa di meccanico e noioso, ma corrisponde piuttosto all’ «ampia accessibilità della qualificazione richiesta dal lavoro», al
fatto che una serie di mestieri, potremmo dire noi, mentre per Gorz
sembra che riguardi la loro totalità, possono essere appresi in sempre
meno tempo, senza una vera e propria formazione specifica a riguardo.
Pensiamo ai call center di oggi ad esempio: quante conoscenze specifiche
richiede lavorare lì, rispetto alla vecchia figura di operaio
tradizionale, alle sue conoscenze dei materiali utilizzati, alle
tecniche di produzione, alle variabili in campo? Ma possiamo anche
fermarci al lavoro di tipo più tradizionale di fabbrica e alle sue più
recenti trasformazioni: in questi giorni di fine Aprile (2010)
l’amministratore delegato del gruppo Fiat dichiara in un piano
quadriennale la possibilità di nuovi investimenti e aumento di
produttività al vincolo della massima flessibilità da parte dei
lavoratori. Nello stabilimento di Pomigliano ad esempio viene proposto
ai lavoratori il ritorno al lavoro pieno e non parziale permesso dalla
cassa integrazione in cui sono la maggior parte dei lavoratori da un
anno e mezzo a patto della possibilità da parte dell’azienda di poterli
dislocare continuamente in reparti e ruoli differenti, a riprova del
nuovo clima generato dalla contrazione economica ma anche, per quello
che riguarda il nostro discorso, della rottura dell’indispensabilità di
una conoscenza specifica sul posto di lavoro[4].
Consisterebbe in questo il nuovo esperimento della classe padronale per
i prossimi anni. Tutto ciò dal punto di vista di Gorz interessa,
tuttavia, un processo più ampio avvenuto nella nostra società:
l’esclusività di certe conoscenze o di certi campi del sapere è stata
superata a favore di un’estensione di queste conoscenze in una forma
semplificata e più accessibile. «Una
moltitudine di conoscenze, riservate in precedenza a delle èlite, sono
state banalizzate negli ultimi vent’anni: la conoscenza delle lingue
straniere, l’uso di un calcolatore, i principi della dietetica, della
prevenzione di varie malattie, della contraccezione ecc; ma lo stesso
può dirsi dello sci, del tennis, dell’equitazione, della vela, e così
via». Lo stesso, anche, possiamo pensarlo della musica, ritornando
col pensiero agli scritti di Adorno sul passaggio dalla musica classica
alla musica leggera, proseguendo poi, arrivando ai giorni d’oggi, alla
nuova musica dance, tecno, house, e in generale disco diffusesi a
partire dagli anni novanta, tra i giovani soprattutto nelle società
occidentali. La contraddizione, cioè, è più generale e sembra riguardare
il concetto stesso di «democratizzazione» del consumo di beni materiali
e immateriali nella società di massa. Adesso tutti ascoltano
continuamente musica, nella loro casa, sul loro posto di lavoro, alle
cuffie di Ipod, nelle metropolitane d’ogni città, la musica (per non
parlare della nuova ars universalis della fotografia digitale) è
praticata come hobby o semi professione da un numero crescente di
individui, ma è senz’altro un tipo di musica più semplice, elementare,
meno difficile da imparare a suonare e da imparare ad ascoltare rispetto
a quella di uno o due secoli fa. La macchina e la macchina informatica
nel particolare, cambiano la natura del lavoro, lo rendono più preciso,
produttivo, ma anche più indipendente dai tempi d’apprendimento e di
ritmo umani, più astratto, oggettivo, spersonalizzato, non nel
significato tradizionale di alienato, ma in quello di praticabile da un
numero maggiore di individui sulla base di una preparazione più bassa.
Allora di fronte a ciò abbiamo diverse possibilità: la prima è quella di
resistere a tutto questo, alzando la bandiera del vecchio lavoro d’una
volta, che richiedeva professionalità e che conferiva a sua volta
professionalità al lavoratore, che garantiva un’identificazione
abbastanza stabile con il proprio ruolo sociale, che in cambio della
fatica restituiva la possibilità di appartenere ad una certa dimensione
sociale. Un’altra è quella di immaginare, un po’ ingenuamente, che più
tecnologia significa meno fatica sul lavoro, e che meno fatica significa
lavoro necessariamente migliore, e che la tecnologia a sua volta ci
indichi un destino ineluttabile riguardo al mondo del lavoro. La
posizione di Gorz, che è senz’altro interessante, è che non si può
tornare indietro: la tecnica libera il lavoro da una parte del suo
carattere opprimente, ma soprattutto libera tempo e risorse per il non
lavoro, aumenta la produttività, rendendo l’attività umana in grado di
conferire più valore in meno tempo alle merci prodotte, e liberare (in
potenza) tempo per altro, per la vita. Lo sviluppo delle nuove forme di
produzione, oggi di internet e delle reti informatiche non è un destino
di tipo metafisico e sovraordinato ma senz’altro una direzione oggettiva
del corso delle cose che non può essere ritrattata in alcun modo e
soprattutto riguardo al seguente elemento: la macchina come lavoro
«morto» si scambia con il tempo del lavoro «vivo», perché aumenta il
volume dei beni possibili e riduce i tempi necessari alla loro
produzione, e il tempo della
vita potenziale degli individui si allunga arricchendosi di elementi
materiali e di possibilità di vita nuove e più ampie. In un certo senso,
il famoso regno della necessità è superabile proprio in virtù di questa
dimensione tecnologica di rapporto nuovo fra l’uomo e le cose, il lavoro
e le macchine, la società umana e la natura. Negli ultimi decenni si
sono aperte delle possibilità incredibili da questo punto di vista: la
produzione, i trasporti, le comunicazioni, la riproducibilità di
elementi cosiddetti «immateriali» (software e files di qualunque genere)
cambiano la natura dell’attività lavorativa e della vita umana. Tuttavia
la tecnica per Gorz non è solo questo, anzi la tecnica in quanto tale
non è affatto solo questo:
la tecnica fatta di strumenti, a sua volta, è uno strumento, qualcosa di
subordinato e che subordina a sé. Questo è vero per le prime macchine
filatrici dai ritmi compulsivi della prima rivoluzione industriale, è
vero per la mastodonticità di quelle più tarde della grande industria
chimica e siderurgica, ma lo diventa paradossalmente ancora di più, da
un altro punto di vista, per la macchine del nostro tempo, le macchine
leggere e veloci della terza rivoluzione industriale. In pochi
centimetri cubi, si racchiude un intero universo di informazioni,
programmi, comandi, archivi, immagini, suoni, tutti a loro volta in
connessione possibile con quelle di altri in qualunque altra parte del
mondo. Lo spazio si ridimensiona, si estende nella geografia del mondo,
e si approfondisce nel micro degli elettroni e dei fotoni, accelera nei
chilometri appena visibili dai nostri occhi, perché è condizionato da
interazioni in dimensioni infinitamente più piccole
verso cui la scienza e la tecnica hanno condotto il nostro
sguardo e le nostre parole,
di noi che, per lo più però, seguiamo il corso del nostro tempo estranei
alla comprensione di ciò che ci accade e da cui siamo trasportati come
individui di questo mondo. Gli elettroni non si vedono, le informazioni
bit neanche, le lettere che battiamo sui nostri programmi di scrittura
sono eguali per forma a quelle di chiunque altro, la spersonalizzazione
avviene come tratto della necessità d’una astrazione continua della
nostra individualità senziente nel momento in cui ci relazioniamo ad un
personal computer. La descrizione precedente dei lavoratori del settore
chimico riportata da Gorz è già superata rispetto ai nuovi sviluppi. La
fabbrica interamente guidata dal calcolatore è una realtà ormai già
presente. Il lavoro umano diventa quello dei controllori delle macchine.
Il lavoro vivo progetta, collauda e infine controlla l’opposto di se
stesso nella forma dell’autoregolazione della macchina. «In
una stanza tre persone sono sedute ciascuna davanti al proprio quadro di
visualizzazione; ogni quadro ha due monitor. Una tastiera permette di
dare, in codice, istruzioni al calcolatore – che integra 1500 parametri,
200 circuiti di regolazione e 600 dispositivi d’allarme – e
d’interrogarlo sullo svolgimento del processo in corso. La materialità
della produzione è messa tra parentesi, rinviata in un aldilà invisibile
col quale l’operaio, diventato operatore, comunica per mezzo di simboli
numerici: batte numeri sulla tastiera, legge numeri sul video.»
Il mondo sensibile si assottiglia, il corpo umano del lavoratore non si
relaziona più a materie grezze, elementi chimici, tessuti, ferro, rame,
cuoio, solventi ma a files e programmi dalla natura incorporea e a
macchine animate da queste invisibili realtà che le sono state
introdotte dalle oscure, e queste sì elitarie, figure di specialisti
informatici. «Lo spessore sensibile del mondo è abolito. Il lavoro come attività
materiale è abolito. Non resta che un’attività puramente intellettuale,
o piuttosto mentale [...]. Il lavoro è scomparso perché la vita si è
ritirata dall’universo. Non c’è più nessuno; solo numeri che in silenzio
si susseguono a numeri, indiscutibili perché insensibili, muti. Alla
fine della giornata l’operatore si alza. Di ciò che ha fatto non gli
resta niente, nessun elemento materiale, visibile, misurabile: non ha
realizzato niente. Ma questo niente lo ha inaridito: durante la giornata
(o nottata) di lavoro, si è imposto un’ascesi che consiste nella
repressione in se stesso dell’esperienza sensibile; si è costretto a
esistere come puro intelletto, eliminando, reprimendo come altrettanti
potenziali disturbi della sua funzione, tutto ciò che è in rapporto
vivente con il mondo vissuto nel e col suo corpo». Nell’esperienza
degli ultimi anni in qualunque dipartimento universitario italiano ed
europeo di ingegneria, matematica, fisica, informatica ma anche
medicina, biotecnologie, agraria, questi individui ancora non entrati
come lavoratori li abbiamo già potuti incontrare: nella loro stessa
dimensione fisica c’è una sproporzione della testa, del collo rispetto
all’armonia degli altri muscoli, hanno sempre risposte pronte, ma mai
una buona ragione per spiegare in termini di scelta individuale ciò che
stanno facendo. Sono questi i nuovi tipi, ai livelli sociali più alti,
prodotti dalla new economy , e continuano ad essere in netto aumento,
quanto più dai centri ci spostiamo nelle periferie dove le minori
resistenze culturali le
rendono il laboratorio di sperimentazione privilegiato d’ogni
innovazione.
Insomma, ci troviamo in un bel groviglio storico. Tante
possibilità, ma infinita dispersività, la tecnica che da strumento
potenziale di liberazione di tempi e risorse si sta trasformando in un
meccanismo ubiquitario di degradazione delle facoltà umane e della sua
condizione di essere sociale in relazione con altri individui, di
svilimento del livello della comunicazione e abbassamento della
individualizzazione dell’attività. Da un lato, da alcuni punti di vista,
come lo stesso Gorz nota, oggigiorno siamo vicini quanto mai alla
possibile rotazione dei lavori, e ad una divisione dei lavori non così
rigida come era nel quadro delle rivoluzioni industriali e delle società
che se ne svilupparono in cui il lavoro del figlio era la continuazione
di quello del padre, del nonno e così via e le possibilità di cambiare e
sfuggire ad un destino prefissato erano molto ridotte, in modo che le
stesse pagine dell’Ideologia tedesca sulla divisione della giornata
umana in diversi tipi di lavoro e di interessi non risultano più oggi
così assurde per via della semplificazione di molte delle attività di
lavoro contemporanee; dall’altro, la nostra vita si muove in un pieno
irrigidimento delle sue prospettive, senza più slancio, identità in
grado di resistere ai minimi passaggi di vita, coraggio di provare a
trasformare le cose in corso, asserviti oramai ad un ritmo troppo
veloce, ad un sistema articolatissimo al proprio interno, che travalica
i confini di città e nazioni, che si dispiega lungo la trama della
innovazione della forma capitalistica dei nostri giorni nel quadro del
post – fordismo, che, d’altra parte, non è se non la storia del
capitalismo dopo il suo mancato superamento negli eventi del secolo
scorso. La storia, quella del capitalismo, che da molti punti di vista
ha perso già la sua necessità, ma che non per questo si può dire sia
vicino ad essere «oggettivamente» superata, come sostengono alcuni fra
cui Toni Negri negli scritti dei primi anni di questo nuovo secolo.
La critica che d’altra parte Gorz muove a Marx rispetto alla
descrizione della liberazione del lavoro che egli avrebbe dato a partire
da alcune pagine dei Manoscritti economico – filosofici fino ad alcuni
scritti successivi, e cioè di un lavoro di per sé non alienato in quanto
lavoro, e cioè in quanto attività in cui il soggetto uomo – lavoratore
si riconosce, e riconoscendosi se ne appropria come ciò che lo fa essere
quello che è in modo essenziale,
riguarda per l’appunto la prospettiva presente della
semplificazione del lavoro e della subordinazione della produzione di
beni materiali al lavoro morto delle macchine. Esiste ancora oggi la
possibilità, infatti, che alcuni lavori possano essere soddisfacenti, ma
questo non cambia la finalità complessiva cui tende l’organizzazione del
lavoro e del mondo del lavoro nel suo complesso. La quale rimane
disarmonica e opprimente dello sviluppo umano potenziale.
È quanto mai necessaria un’organizzazione nuova sulla base di un
riequilibrio e di una razionalizzazione delle energie sociali
disponibili, delle risorse presenti, dei tempi di lavoro effettivamente
necessari alla produzione e allo sviluppo sociale contemporaneo. Gorz
quindi affianca, senz’altro, Marx dal punto di vista della
considerazione necessaria di una riorganizzazione del lavoro su scala
globale e sulla base di un piano razionale, ma prova a farlo calandosi
nella dimensione della nuova società in cui il fordismo è giunto al
tramonto. In sostanza Gorz
ritiene che non si possa tornare indietro, che il lavoro per come
l’abbiamo conosciuto fino a qualche decennio fa stia, più o meno
velocemente, scomparendo. Per quanto forse, e questo Gorz lo tralascia,
ci siano delle differenze molto forti fra paesi occidentali e il resto
dei paesi (e non è una questione da poco[5]),
all’interno delle società occidentali questa è la situazione. Il lavoro
è svilito, non definisce più identità sociali e culturali stabili, il
post fordismo fagocita la coscienza dei lavoratori in quanto soggetti
sociali dotati d’una specificità, d’un ruolo, d’una cultura, e di qui
anche, in potenza, d’una prospettiva politica. È una contraddizione
lacerante: da un lato ci sono le possibilità d’una liberazione
progressiva dal lavoro attraverso lo sviluppo delle macchine, dall’altro
la situazione attuale non libera tempo ripartendo e razionalizzando il
lavoro, ma aumenta le differenze fra lavoratori in preda a lavori
frenetici ed ex lavoratori espulsi dal sistema oramai disoccupati senza
salario e senza garanzie. In questo c’è l’irrazionalità del meccanismo
capitalistico nel suo sviluppo attuale. Uno spreco infinito di energie,
tempo, attività, in definitiva, vite, in cui il godimento delle
possibilità raggiunte attualmente è reso difficile alla stragrande
maggioranza degli attori in campo. Il lavoro necessario, da un certo
punto di vista, è di gran lunga inferiore al lavoro di cui attualmente
dispone e utilizza il sistema. Che utilità sociale hanno infatti i
produttori di pubblicità? Quale ruolo i lavoratori di call center che
rispondono ai centralini da altre parti della nazione ad ogni ora giorno
e notte? I creatori di immagini? E i nuovi psicologi e filosofi assunti
come neodirettori del personale con la mansione di gestire i conflitti
conseguenti al taglio di posti di lavoro nelle ristrutturazioni
aziendali con o senza l’ultima crisi? Tutti questi lavori non hanno
alcun senso sociale. Lo sviluppo umano ne può e ne farebbe senz’altro a
meno, dedicherebbe tempo, energie e risorse a tutt’altro. L’unico senso
di molti di questi lavori del cosiddetto terzo settore è quello di
garantire la massimizzazione del profitto delle aziende e dei monopoli
aziendali basate unicamente (e molto spesso su base del tutto
irrazionale) sugli assunti di una società fondata sull’immagine della
merce e del prodotto, una società dello spettacolo in cui il consumatore
è chiamato ad essere attore protagonista della farsa attuale del
prolungamento in vita del sistema dominante. Il Marx del Capitale e Gorz
su questo concordano in pieno: la liberazione umana è una liberazione
progressiva dal giogo del lavoro in direzione di uno sviluppo differente
della personalità umana. Se
andiamo alla fine del cap. 15 del I volume del Capitale troviamo
infatti, a questo riguardo, una pagina preziosa:
«Quanto più cresce la forza
produttiva del lavoro, tanto più può essere abbreviata la giornata
lavorativa, e, quanto più viene abbreviata la giornata lavorativa, tanto
più potrà crescere l’intensità del lavoro (questo tra l’altro è un
altro elemento fondamentale, e di contatto anche con Gorz, se si lavora
meno, evidentemente, si fa meglio quel che si è chiamati a fare).
Da un punto di vista sociale la produttività del lavoro cresce anche con
la sua economia. Quest’ultima comprende non soltanto il risparmio nei
mezzi di produzione, ma l’esclusione di ogni lavoro senza utilità.
Mentre il modo di produzione capitalistico impone risparmio in ogni
azienda individuale, il suo anarchico sistema della concorrenza
determina lo sperpero più smisurato dei mezzi di produzione sociali e
delle forze – lavoro sociali oltre a un numero stragrande di funzioni
attualmente indispensabili (al mantenimento del sistema per come è
attualmente), ma in sé e per sé
(cioè per lo sviluppo sociale in quanto tale)
superflue. Date l’intensità e la forza produttiva del lavoro, la parte
della giornata lavorativa sociale necessaria per la produzione materiale
sarà tanto più breve, e la parte di tempo conquistata per la libera
attività mentale e sociale degli individui sarà quindi tanto maggiore,
tanto più il lavoro sarà distribuito proporzionalmente su tutti i membri
della società capaci di lavorare, e quanto meno uno strato della società
potrà allontanare da sé la necessità naturale del lavoro e addossarla ad
un altro strato. Il limite assoluto dell’abbreviamento della giornata
lavorativa è sotto questo aspetto l’obbligo generale del lavoro. Nella
società capitalistica si produce tempo libero per una classe mediante la
trasformazione in tempo di lavoro di tutto il tempo di vita delle masse».
Non casualmente questo testo si trova alla fine del capitolo sulla
produzione di plus valore relativo, cioè nell’aumento di ritmi e
produttività all’interno degli stessi orari di lavoro.
Spostandoci invece dalla biblioteca del British Museum negli
anni sessanta del diciannovesimo secolo, verso
Chiarite questi elementi fondanti, nella seconda parte del
suo testo Gorz discute più nel concreto le possibilità e rischi che si
aprono per il nostro futuro. La civiltà post – industriale, anziché
ridimensionare il peso della forma merce, la estende alla totalità della
vita, nelle manifestazioni originariamente meno assorbite dal meccanismo
della profittabilità capitalistica: l’arte, la cultura, la
comunicazione, e soprattutto quello che Gorz chiama il lavoro per sé. Il
fatto che la ragione economica invada tutte queste altre sfere della
vita da cui inizialmente era tenuta fuori dimostra «al negativo» quale
sarebbe, invece, la possibilità storica dell’oltrepassamento d’una forma
di produzione e di organizzazione sociale basata sull’arricchimento
privato e su di una sostanziale disarmonia. La macina a vuoto dei lavori
improduttivi e senza fine sociale (quando non addirittura con fini
esplicitamente anti sociali come quello di imbonire i consumatori con la
pubblicità) a sua volta ne nutre degli altri. Gorz osserva come il
lavoro servile, stia aumentando nell’ultimo periodo (pensiamo
soprattutto ai nuovi lavoratori immigrati in Occidente da altre
nazioni). «Le schiere dei
lavoratori domestici, uomini e donne, dei camerieri e cameriere, dei
cuochi e degli aiutocuochi, dei fattorini chiamati a fare per noi le
spese, le pulizie, la cucina, a portarci a casa piatti caldi, non
impiegano meno (tenuto conto del tempo di lavoro accumulato negli
impianti e nelle attrezzature di cui si servono) di quanti ne avremmo
impiegato noi a fare da soli ciò che essi fanno al nostro posto. Il
tempo che ci fanno guadagnare non è tempo produttivo ma tempo di
consumo, di comodità». Il lavoratore che dopo una notte di lavoro ad
un call center a spiegare quali sono i ristoranti più vicini a sperduti
e a, loro volta, solitari viaggiatori notturni o a mandare mail
promozionali da altre parti del mondo, torna a casa e, non senza
ragioni, si fa portare la colazione a casa dal bar, fa senz’altro girare
la macchina economica ma su di un binario fine a se stesso, e del tutto
irrazionale. Il lavoro che svolge e quello che chiede è sostanzialmente
superfluo allo sviluppo sociale. «Si mette così in opera una divisione sociale del lavoro completamente
assurda. Gli uni sono talmente occupati nella sfera economica che non
hanno il tempo per le loro mansioni domestiche; gli altri sono costretti
ad assumersi i lavori di casa dei primi, i quali impediscono ai secondi,
con la loro assiduità al lavoro, di trovare modi di guadagnarsi da
vivere più interessanti. Solo la perseveranza ostinata nell’ideologia
del lavoro impedisce ai sostenitori di questo modello di rendersi conto
che se tutti lavorassero meno, tutti potrebbero assumersi i propri
lavori domestici (nel senso anche più generico di cura di sé)
e guadagnarsi da vivere lavorando».
La verità del post fordismo è che siamo in un’epoca in cui
gli uomini vengono costretti come criceti a girare a vuoto in ruote
ferme su stesse così che qualunque elemento di profittabilità nel campo
della produzione e in quello delle condizioni dell’orientamento del
consumo può essere ben visto dagli stessi lavoratori, più o meno
giovani, e più o meno precari, sulla base della promessa (e presunta)
creazione di nuovi posti di lavoro. Lo stato di osmosi e oscillazione
fra precarietà del lavoro e disoccupazione vera e propria sta
intrappolando la dimensione di vita e di crescita delle nuove
generazioni e portandoli a considerare qualsiasi lavoro come un lavoro,
ed ogni attività come un mero mezzo di sostentamento.
«Qualunque cosa andrebbe bene»
è la frase che si sente dire spesso. Al livello di sviluppo della
macchina e del capitale l’uomo con le sue capacità si trova di fronte al
lavoro come una semplice variabile dipendente. Non potendo più
rivendicare la vecchia identificazione dell’individuo col proprio
lavoro, avvertiamo il bisogno di pensare diversamente e nuovamente al
senso dell’attività politica di oggi.
3.
Nella parte finale del
libro, Gorz prova a tracciare alcuni caratteri per la nuova sinistra.
Sulla base dell’analisi della realtà, prova a definire in cosa e come le
prerogative di liberazione possono divenire concrete nel punto in cui
siamo arrivati. In accordo con Touraine, crede che alcune vecchie
categorie, anziché rendere possibile la trasformazione, diventino esse
stesse nuovi ostacoli oggettivi alla presa di responsabilità verso il
rivoluzionamento del presente. Non si tratta di buttar via Marx, e
nessun marxista dovrebbe impaurirsi o sentirsi attaccato da tali
posizioni. Marx è senz’altro il primo vero e più grande critico della
natura del sistema capitalistico. Ma non basta accontentarsi di ciò che
di Marx ci è arrivato dalla storia di centocinquanta anni del marxismo
tra interpretazioni, rielaborazioni, adattamenti. Abbiamo bisogno di
grimaldelli attuali rispetto all’onnilateralità del sistema d’oggi, alla
coincidenza di produzione e creazione del bisogno, di potere
dell’economia e potere politico, oppressione nel lavoro e controllo
sistematico dei flussi d’opinione e coscienza. Siamo, come si diceva
all’inizio, di fronte ad un’accelerazione della vita sociale, delle sue
possibilità distruttive e delle sue potenzialità d’emancipazione. C’è
bisogno in tempi rapidi d’armarsi di strumenti adeguati. Se «l’ideologia
dello sforzo e del merito individuale, la difesa dell’occupazione,
l’identificazione con il lavoro sono così diventati temi di destra che
permettono di conquistare settori della classe operaia a una nuova
alleanza nazionalproduttivistica (specialmente in tempi di ripresa
dell’economia) a favore d’una
modernizzazione liberalcapitalista», la lotta della sinistra, dalla
sua, dovrà invece tendere al fine principale
«della riappropriazione sociale e individuale del tempo di lavoro» e
cioè «lottare per l’espansione
degli spazi di autonomia sottratti ai fini economici e alla logica
mercantile: rendere lo sviluppo economico, tecnico, organizzativo,
urbano ecc. favorevole alla riappropriazione da parte degli individui
del tempo, dell’ambiente di vita, del modello di consumo e del modo di
cooperazione sociale: questa è grosso modo la prospettiva che si apre (o
che si aprirebbe) a un sinistra che si definisse con la scelta di
cogliere le potenzialità della civiltà post industriale». Per quanto
questo riguarda necessariamente in primo luogo i paesi più avanzati
capitalisticamente e quindi in questo senso più de – industrializzati,
il ragionamento ha un senso forte. Non si tratta più di rivendicare la
piena occupazione stabile all’interno del quadro capitalistico, come è
accaduto nel fordismo in un momento in cui ancora era in auge l’etica
del lavoro e un legame forte fra gli appartenenti alla stessa classe, ma
di avviarsi a sganciare l’elemento del reddito dal lavoro, in modo da
rendere effettivamente disponibile all’individuo il tempo che lo
sviluppo tecnologico libera dall’applicazione al lavoro. Se non si può
tornare indietro dall’odierna volatilità del sistema del consumo e di
ciò che questo ha innescato rispetto alla produzione e all’adattamento
del capitalismo a criteri differenti rispetto a quelli del fordismo[6],
bisogna provare a concepire la trasformazione del carattere discontinuo
del salario impostosi per le nuove generazioni a partire dalla
flessibilizzazione del lavoro nel nuovo diritto di poter avere un
reddito di base indipendente dallo stare o meno lavorando, di essere
cioè inserito o meno in quel momento nel ciclo di lavoro o di esserne
stati invece temporaneamente esclusi per le necessità del mercato. Il
reddito di cittadinanza, che è una proposta che si è fatta strada a
partire dalla metà degli anni novanta in Europa a partire da alcuni
intellettuali francesi, tra cui Gorz, e italiani, tra cui ad esempio
Fumagalli, incarna nel concreto questa idea di una nuova garanzia
sociale[7].
Nella prima stesura delle sue dieci tesi sul reddito di cittadinanza,
Fumagalli, ad esempio, nel 1998 introduce realisticamente la questione e
la considera un’esigenza alla portata dello sviluppo economico raggiunto
sulla base del nuovo modello di produzione flessibile[8].
Da un lato, infatti, la capacità tecnologica informatica consente di
aumentare la produzione senza che aumenti
necessariamente l’occupazione e dall’altro, il salario del lavoro
dipendente è oggi sempre più sganciato dalle capacità produttive
effettive del singolo lavoratore, sia fisiche che intellettuali. Questo
rapporto, infatti, si fa più astratto, e proprio per questo, in un certo
senso, si avvicina all’espressione di ciò che è nell’essenza, e cioè uno
scambio fondamentalmente di tempo, prima che di qualunque altra
capacità. Il tempo così, nella terza rivoluzione industriale, torna al
centro. Il valore della forza
lavoro di ciascun individuo è legata all’irrecuperabilità del tempo
perduto quotidianamente da ciascuno nel proprio lavoro a scapito dello
sviluppo di sé e della propria personalità. Il tempo non si può fermare
ed è rispetto alla vita il criterio supremo di valutazione d’ogni altra
cosa. Perder tempo a chi più sa
più spiace. E, ad oggi, l’eterogenesi stessa dei fini dello sviluppo
della società capitalistica porta le persone ad essere molto più
coscienti di quanto tempo il lavoro sottragga alla propria vita, di
quante possibilità ed esperienze sprecate comporta, di quanto potrebbe
essere fatto se solo se ne avesse il tempo. Il tempo libero dal lavoro e
il tempo del lavoro. Si contrappongono nella coscienza media
dell’individuo occidentale come due spazi separati da una linea netta.
Il rapporto fra fini e mezzi emerge in superficie in qualche modo più
chiaramente[9].
La strumentalità di ogni valore imposta dal regime
capitalistico e dalla tecnica che con esso si sviluppa porta a degradare
il lavoro stesso per fasce crescenti di individui dall’essere
un’attività formatrice a divenire un mero elemento di sostentamento e
guadagno. Sganciare il reddito dal lavoro, significherebbe, invece,
aprire la possibilità, in ultimo, di avviarsi su una strada differente,
di avviare nella coscienza umana la separazione fra ciò che è necessario
e ciò che è strumentale, di ridimensionare l’influenza che oggi il
cinismo o l’indifferenza presenti nel lavoro hanno nella dimensione
della vita in termini di rapporti sociali reificati e subordinati alla
logica della difesa di interessi e posizioni. Sarebbe un discorso
interessante: aprirebbe la possibilità di iniziare a riflettere su come,
quando oggi la gente crede di stare guadagnando di più dai suoi
comportamenti sociali, sia in verità il momento in cui più (si) sta
perdendo.
APRILE 2010
Bibliografia
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lavoro post fordista, dal sito:
http://archivio.rassegna.it/2004/granditemi/articoli/accornero.htm
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Il carattere di feticcio in musica
e il regresso dell’ascolto, in Dissonanze, Milano Feltrinelli 1974.
- ARDILLI e DONATO,
La sinistra senza aggettivi e
senza Marx. Una critica da In difesa del marxismo n°10, La crisi, la
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www.marxismo.net
- BOLOGNA,
Post fordismo e ceti medi,
articolo on line al sito:
http://www.dossetti.com/corso/corso%202009/200905bologna.html
- CIRCOLO CULTURALE
OMBRE ROSSE, Post fordismo e
dintorni: Quali prospettive per una ripresa autonoma di classe?, da
http://www.mercatiesplosivi.com/ombre1.html
- FUMAGALLI,
Dieci tesi sul reddito garantito,
www.ecn.org/andrea.fumagalli/10tesi.htm
- GORZ,
La metamorfosi del lavoro. Critica
della ragione economica, Bollati Boringhieri 2001.
- GORZ, L’immateriale.
Conoscenza, valore e capitale. Bollati Boringhieri 2009.
- MARX,
Capitale libri I e III. Critica
dell’economia politica. Editori riuniti, 1994.
- MARX, Manoscritti
economico – filosofici del
’44, a cura di Bobbio, Einaudi 2004.
- NEGRI, HARDT,
Il lavoro di Dioniso,
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- NEGRI, HARDT,
Impero. Il nuovo ordine della
globalizzazione, Bur 2000.
- PERAZZA FILIPPO,
Ad esempio,
- RIFKIN,
L’era dell’accesso, Mondadori
2001.
- RIFKIN,
La fine del lavoro, Mondadori
2005.
- SENNETT,
L’uomo flessibile. Le conseguenze
del nuovo capitalismo sulla vita personale, Feltrinelli 2001.
- VALERY,
Sguardi sul mondo attuale,
Adelphi 1994.
- VASAPOLLO,
La crisi del capitale,
Jacabook 2009.
[1]
Definizione tratta da un suo discorso tenuto all’interno di un
ciclo di seminari presso l’Istituto italiano studi filosofici
tenutosi a Napoli dal 12 al 16 Aprile 2010
[2]
Da questo punto di vista il sistema toyotista d’organizzazione
della fabbrica e della produzione punta alla coincidenza di
produzione e domanda, riducendo al minimo la sovrapproduzione
fisiologica al sistema capitalistico in sé e alla sua forma
fordista. Lo sviluppo del capitalismo odierno avviene sulla
linea della capacità di previsione e condizionamento della
domanda in tempi rapidi. Interessante in un articolo comparso su
InterMarx di Filippo Perazza il confronto tra il modello
toyotista originale e la sua migliore applicazione italiana,
|
|
[4]
Vedi articolo di Loris Campetti comparso su il quotidiano Il
manifesto del 22 Aprile 2010.
[5]
Scrive Sergio Bologna in un articolo presente su Intermarx a
proposito di post fordismo e classi medie: «Prima domanda: che diavolo è questo post – fordismo? Per definirlo, per
capire più o meno cosa intendo dire con questo termine, mi
servirò di qualche esempio concreto. Se guardiamo le immagini di
una fabbrica cinese di oggi, come quelle scattate dal fotografo
americano Burtynsky, ricordiamo una catena di montaggio portata
all’estremo, quasi una caricatura di quella che in tutto il
mondo industrializzato aveva portato la produzione di massa,
quella delle grandi fabbriche che tutti noi abbiamo conosciuto e
nelle quali si è costruita anche la storia del sindacato, la
storia del movimento operaio. La cosiddetta cultura
dell’operaismo si è formata lì dentro. Quindi, quando si dice
postfordismo si vuole indicare un’epoca storica che è venuta
dopo. Questo «dopo» si è verificato soprattutto nei paesi
occidentali, mentre il vecchio fordismo sta impiantandosi
pesantemente proprio nei paesi a basso costo del lavoro». Un
discorso interessante da aprire sarebbe quanto il post fordismo
di alcuni pochi paesi su scala globale si basa sul nuovo
fordismo dell’industrializzazione della maggioranza degli altri.
E, ancora, se e quanto, il fordismo sia destinato al tramonto
progressivo anche in questi ultimi.
[6]
Guardiamo ancora al caso italiano esemplare della Benetton per
come ce lo descrive
Perazza. Riguardo al rapporto tra produzione e
commercializzazione scrive infatti: «Non
è solo grazie al
ricorso alla subfornitura (il primo degli elementi
strutturali del post fordismo)
che
[7]
Rispetto al tema del reddito di cittadinanza si può consigliare
per approfondire Reddito per tutti, edito da Derive Approdi nel
2009.
[8]
Lo stesso Fumagalli nel suo articolo tiene a precisare da un
lato, nella Tesi 3 che «Il
reddito di cittadinanza è una misura di politica economica
riformistica e radicale e non di modificazione strutturale
dell’organizzazione capitalistica intervenendo sul lato della
distribuzione e non sul lato del conflitto capitale – lavoro»
e dall’altro, nella Tesi 4, che «Il reddito di cittadinanza è una proposta di politica economica
parziale, non esaustiva e non in contraddizione con altre
proposte di riformismo radicale (quali riduzione di orario di
lavoro, sviluppo dell’autorganizzazione sociale, attivazione di
lavori concreti, ecc.)». Il punto non è quindi intendere questa proposta come una
rivendicazione già socialista, proprio perché di per sé non
intacca la proprietà privata degli strumenti di produzione, ma
senz’altro però come un elemento da introdurre nel catalogo
delle rivendicazioni transitorie nella lotta anticapitalistica
odierna.
[9]
Tornano alla mente anche le parole di Foucault in
Volontà di sapere
quando scrive: «È la vita,
molto più del diritto, che è diventata la posta in gioco delle
lotte politiche, anche se queste si formulano attraverso
affermazioni di diritto. Il «diritto» alla vita, al corpo, alla
salute, alla felicità, alla soddisfazione dei bisogni, il
«diritto» a ritrovare, al di là di tutte le oppressioni o
alienazioni, quel che si è e tutto quel che si può essere,
questo «diritto» così incomprensibile per il sistema giuridico
classico, è stato la replica politica a tutte queste nuove
procedure di potere che, a loro volta, non partecipano del
diritto tradizionale della sovranità».