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01
Maggio 2010

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Lavoro - non lavoro

LAVORO, CAPITALE E TECNICA NELLA TERZA RIVOLUZIONE  INDUSTRIALE (parte I)

Giulio Trapanese

 

L’articolo che qui presentiamo è la prima parte pensata all’interno d’un progetto che dovrebbe includere come parti successive gli approfondimenti sul tema del capitalismo cosiddetto «immateriale» e dei risvolti sulla coscienza della precarietà come nuova dimensione di vita.

 

A mo’ d’introduzione: su spazio e tempo

È difficile probabilmente concepire la velocità del tempo storico. Così come quanto in certe sfere della vita umana si assista ad un’accelerazione, in alcuni momenti storici, e ad un rallentamento, in altri momenti: nel campo dello sviluppo delle tecniche o degli strumenti di produzione, come in quelli, invece, della cultura, delle arti e del pensiero.

Paul Valery, nei primi anni trenta, nei suoi «Sguardi sul mondo attuale» ritorna continuamente sul tema di tempo e spazio nella nuova società industrializzata e di massa. E sulle conseguenze sulla sfera della sensibilità umana e della sua mente dell’irradiazione ubiquitaria dell’elettricità, del magnetismo, dell’analisi chimica che il livello di sviluppo della scienza e dell’industria nei primi decenni del secolo scorso portava con sé. Il mondo post - elettricità è concepito come incommensurabile rispetto a quello pre-elettricità. Il paragone ardito che Valery fa è addirittura con la periodizzazione convenzionale della storia occidentale nell’era prima di Cristo e dopo di Cristo. Tutto sta cambiando per Valery, velocemente, appunto. La velocità stessa è il cambiamento della nostra civiltà, che è, a sua volta, un cambiamento veloce, rapido, a tratti forsennato. Questa sta riducendo i limiti tradizionali delle distanze spaziali e, quindi, temporali fra gli uomini che abitano il pianeta terra e che da sempre, nelle loro relazioni private, come nei commerci, e, in ultimo, nella produzione industriale, si relazionano reciprocamente, si confrontano, si aggregano, il tutto sulla base della distanza fisica che intercorre tra le diverse parti del globo,  sulla base di distanze di chilometri intervallati dalle forme della geografia terrestre di mari, monti, zone oscure più o meno disabitate, affiancatesi da sempre a centri urbanizzati con maggiore concentrazione di vita umana e cultura. Con il Quattrocento in Europa si dà inizio alla grande stagione dei viaggi oceanici, della ricerca volta alla scoperta e alla conquista, ridisegnando le cartine del mondo su basi nuove, in forme nuove, assegnando di riflesso alla geografia il ruolo di ridefinire il senso delle identità sociali e culturali di popoli, in nuove commistioni e nuovi irrigidimenti. Al giorno d’oggi, invece, ciò che allora era il contenuto di aspettative di un gruppo ristretto di avventurieri e uomini di stato lungimiranti, di progetti d’impresa e di promesse di alcuni mercanti aperti al rischio della novità di mercati e mercanzie, oggi risulta come un elemento affermatosi universalmente, e percepito con la banalità del «sempre nuovo» dei nostri tempi, sugli schermi di qualsiasi, pur mediocre, personal computer, in grado oggi istantaneamente di fotografare la totalità della spazialità geografica della terra, e di permettere, più o meno istantaneamente, e con un dispendio di energia e forza lavoro quasi nulla, una comunicazione telefonica o informatica immediata in luoghi opposti della sfera terrestre. Così la percezione del tempo e dello spazio, che in qualche modo per la realtà umana, costituiscono già i «nostri» spazio e tempo, poiché sulla base di questa percezione percepiamo la vita e le nostre possibilità di movimento, e che sono state prese in esame da ogni sistematico tentativo filosofico della nostra tradizione come forme originarie della conoscenza, sono divenute oggi il presupposto d’ogni discorso possibile sulla produzione capitalistica nel suo sviluppo tecnologico e, con esso, del ruolo del lavoro umano nell’epoca del dominio internazionale delle tecnologie informatiche. Da questo punto di vista, il nostro secolo, e del nostro secolo in particolare gli ultimi due decenni (il periodo della cosiddetta «new economy») sono stati, senz’altro, più veloci di millenni scorsi in passato per la civiltà umana, nella stessa misura in cui la velocità di trasmissione d’una mail mediata dalla velocità degli elettroni è più veloce del carro dei vecchi corsari postali dell’età moderna o anche, pure, della nostra posta aerea degli ultimi settant’anni. Poiché però la verità d’un tempo appare solo quando questo ha assunto una sua consistenza più definita nell’essere divenuto il passato di se stesso, di sicuro ci è difficile adesso parlare di noi con un’oggettività proporzionata ai tempi dello sviluppo storico più complessivo, così come anche poter subito concordare con chi, come Andrè Jacob, filosofo e linguista francese, parla della rivoluzione informatica come la seconda più grande rivoluzione dell’homo sapiens dopo la comparsa della lingua[1]; dovremo aspettare per capire meglio, tuttavia, questo non toglie che può essere assolutamente utile per la nostra vita e la nostra attività politica di questi anni, agire con la coscienza del dubbio di stare vivendo un periodo particolare di trasformazioni epocali, le quali senz’altro però, grandi o meno grandi che siano, colgono purtroppo l’umanità impreparata ad utilizzarle e organizzarle al meglio delle loro potenzialità emancipatrici, e cioè al netto dell’irrazionalità odierna dello sviluppo sociale sulla base dell’economia fondata sulla proprietà privata dei grandi capitali.

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Le ragioni e il significato della tendenza post – fordista

1. Il post – fordismo è un termine che si trova ormai sempre più di frequente nel dibattito sulle nuove forme di lavoro ed anche, più in generale, in quello sul destino delle organizzazioni sindacali e politiche dei lavoratori. Come termine lo si trova tanto adoperato da autori di riferimento dell’area moderata ex socialdemocratica, come ad esempio da Accornero che ha trattato a fondo la questione del «nuovo lavoro» e delle nuove tutele dei diritti, quanto anche in autori di impostazione marxista come Vasapollo nel suo ultimo compendio «La crisi del capitale» in cui il paradigma post fordista è il tema del capitolo forse più significativo del libro. Soprattutto però è alla base delle analisi nuove di esponenti come Toni Negri e Michael Hardt, Andrè Gorz, influente in particolare in Francia, e, infine, anche Jeremy Rifkin che è riuscito con le sue analisi più recenti a suscitare un certo interesse tra chi negli ultimi anni, tra Stati Uniti ed Europa, si è trovato alla ricerca d’una descrizione nuova del presente e insieme di soluzioni per la sua trasformazione. Viviamo in un tempo che negli ultimi tre decenni è stato definito all’ombra del suo passato, di ciò che non sarebbe più, e che sarebbe tramontato come un’era conclusa. Dal punto di vista della cultura si è discusso molto dell’inaugurazione del post – moderno, e da quello, invece, dell’organizzazione sociale della produzione, di post – fordismo. Il moderno, da un lato, il fordismo, dall’altro, vivono ad oggi, in queste definizioni, spesso un po’ azzardate e astratte, come il termine del non più, attraverso il quale solo si intuirebbe il significato di ciò che li segue. La definizione avviene per contrapposizione, come d’altra parte è stato anche per movimenti passati, ma, a differenza di questi, si ferma, anche solo nella propria definizione, senza aggiungere il contenuto effettivo della sua prospettiva differente. Per Accornero, e per lo stesso Vasapollo, il post – fordismo si accompagna alla nascita di una nuova epoca, l’epoca della terza grande rivoluzione industriale, in cui la natura del capitalismo non muterebbe ma si troverebbe ormai fondata su basi qualitativamente differenti dal passato, in particolare rispetto al paradigma dell’industria pesante e organizzata secondo il modello fordista (in sintesi: quota prevalente di industria pesante, concentrazione della classe operaia in grandi centri di produzione, definizione dei ruoli lavorativi in schemi abbastanza definiti e stabili). Certo, il post – fordismo, ad esempio, viene anche considerato come toyotismo, e quindi, in senso positivo, come il tentativo dal punto di vista del capitale di «rispondere alle ristrettezze del mercato locale diversificando e personalizzando l’offerta» (Accornero), facendo in modo cioè di ridefinire la produzione su una scala diversa basata sulla penetrazione millimetrica e scientifica nel mercato attraverso la creazione del bisogno, il monopolio quanto più grande dell’offerta, l’elasticità assoluta, nei tempi di produzione e di circolazione rispetto ai flussi della domanda. Tuttavia siamo comunque in un momento evidentemente post, in cui il nuovo modello si è andato stabilizzando solo di recente, e  che forse la stessa crisi economica rischia di minare, lasciando così ancora incerto il destino dello sviluppo del nuovo nel presente. Detto questo, adesso è importante poter dare una definizione sintetica dei caratteri del post – fordismo in funzione soprattutto di comprendere le radici del fenomeno all’interno delle nuove esigenze del capitale.

 

Dalle pagine del capitolo citato del libro di Vasapollo possiamo in qualche modo ricavare uno schema sintetico di questo tipo riguardo ai caratteri del post fordismo:

1.  Tecnologia fondamentale alla base: i nuovi sistemi di comunicazione e informazione;

2. Organizzazione interna dell’impresa: frammentazione produttiva, esternalizzazione, delocalizzazione su scala internazionale e riappalto da aziende maggiori a quelle minori;

3.  Modello sociale della fabbrica: fabbrica sociale generalizzata sul territorio e in grado di dirigere e influenzare i bisogni dei consumatori. Centralità del controllo degli indici del consumo e delle sue mode temporanee[2];

4. Forme di lavoro salariato: lavoro flessibile, precario, part time, a progetto;

5. Nuovo carattere essenziale della profittabilità del capitale: il «lavoro della conoscenza».

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Insieme al ritrovamento di questi caratteri, abbastanza realistici nella descrizione della nuova realtà del mondo del lavoro e della riorganizzazione del capitale, vanno aggiunti gli elementi essenziali dello scenario mondiale come quadro necessario per ogni evento che accada in un qualche paese, lo statuto di precarietà del lavoro esteso, a volte come volatilità, altre come insicurezza, alla dimensione umana in genere e in relazione all’accelerazione dell’esperienza della vita di cui si diceva sopra. Oltre a questi, il ruolo che la disoccupazione continua ad avere rispetto alla dinamica economica dello sviluppo capitalistico, tanto all’interno dei confini dei paesi più industrializzati d’Occidente (vedi tabella)[3], tanto quanto in un’ottica più globale come squilibrio

fra il troppo lavoro e il troppo poco lavoro, di cui dopo diremo meglio, venutosi a creare e in fase di aumento tra alcune fasce di lavoratori ed altre, e tra lavori e lavoratori di alcuni paesi rispetto a quelli di altri. Infine, ma assolutamente non per importanza, la radice più profonda dell’espulsione dei lavoratori dai grandi centri produttivi, della loro frammentazione in unità più piccole e dislocate, per quanto in perfetta comunicazione tra loro sulla base dei nuovi sistemi informatici e d’automazione, e del correlato sviluppo della tecnica (al giorno d’oggi come tecnologia software assai più che hardware) come elemento dominante del rapporto capitale -  lavoro dei nostri giorni: vale a dire, cioè, la radice legata al carattere attuale della legge della caduta tendenziale del profitto, introdotta come chiave di analisi per la prima volta da Marx nelle pagine del terzo volume del Capitale. Il suo tentativo fu di indicare una traiettoria «oggettiva» nello sviluppo nei rapporti sociali di lavoro rispetto all’aumento della quota di produzione nelle singole merci  attribuibile al lavoro «morto» delle macchine rispetto a quello «vivo» degli uomini, con il conseguente abbassamento di valore delle merci, la riduzione dell’impiego di forza lavoro umana nella produzione, e crollo progressivo, per quanto tendenziale e legato ad una serie di variabili, del saggio del profitto per unità di merce. Il tutto per via della contraddizione principale che si può così riassumere: con il passar del tempo il lavoro umano è sempre meno produttivo rispetto alle macchine, ma non per questo meno necessario, dal momento che la macchina non può sostituire del tutto l’operare umano (fosse anche nel programmare questa e revisionarla) e al tempo stesso, in particolare nelle società occidentali degli ultimi decenni, il costo del lavoro non può essere meno caro per il capitale, se questo non vuole incorrere in un probabile abbassamento del livello dei consumi. Dal punto di vista del capitale, diciamo così, la stessa terza rivoluzione industriale sarebbe la risposta ad un crollo della possibilità di profitto sul livello precedente delle forze di produzione e di strumenti tecnici. E lo stesso post – fordismo, con tutti i suoi correlati di precarietà, frammentazione, ricorso a forza lavoro immigrata e dequalificata, verrebbe fuori da questa stessa esigenza e da questo stesso impasse: l’abbassata redditività del denaro investito nella produzione di merci a fronte dell’aumentato (e necessario per lo stesso capitalismo) potere d’acquisto dei lavoratori dei paesi occidentali. La nuova produttività della nuova tecnologia e della nuova organizzazione del lavoro sarebbe la risposta al correlato aumento dei bisogni e del costo della forza lavoro nei paesi più avanzati economicamente. Per quanto oggi, lontani da una vera uscita dalla recente crisi economica e in un periodo di povertà crescente dei ceti popolari, può sembrare assurdo parlare di aumento della disponibilità economica dei lavoratori, il dato va preso nella macro dimensione dello sviluppo economico della seconda metà del secolo scorso, dimensione da cui forse oggi ci sentiamo già lontani, ma che è comunque all’origine in qualche modo di ciò che viviamo noi oggi. Fatta questa premessa, che dalla sua andrebbe certo approfondita, in particolare rispetto alla vexata quaestio della caduta del saggio del profitto, da molti economisti dopo Marx criticata, ma probabilmente mai veramente confutata, possiamo passare adesso al centro del tema della trasformazione del lavoro nella società degli ultimi vent’anni.

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2. La ricerca di studi interessanti sul post fordismo, non è semplice all’inizio. Anzitutto ci sono i testi che, soprattutto in ambiente più politicizzato, e specialmente in Italia, si chiudono a riccio rispetto alla considerazione più profonda del mutamento in corso. La paura di trarre dalle analisi del presente conclusioni antimarxiste o riformiste o «nuoviste», che dir si voglia, li frena sulle colonne d’Ercole dell’«aveva già detto tutto Marx nei libri del Capitale», ruolo delle macchine, frammentazione dei lavoratori, e caduta del saggio del profitto, tutto incluso. Se adesso si fa una ricerca banale su internet, i primi articoli che si trovano, per lo più per questioni di visibilità informatica, sono di questo tipo, ad esempio «Post – fordismo e dintorni: quali prospettive per una ripresa autonoma di classe?». D’altra parte, per trarre il poco di positivo che è contenuto in questo tipo di elaborazioni si può dire che in un certo senso qualcosa di tutto ciò è vero. Le pagine del primo libro del Capitale sul ruolo delle macchine nella semplificazione e banalizzazione del lavoro sono precise, approfondite a tutto tondo e senz’altro esaurienti per l’analisi del fenomeno macchina – uomo – capitale – lavoro di quel periodo (tra prima e seconda rivoluzione industriale in Inghilterra avanguardia del capitalismo). Nelle stesse pagine dei Manoscritti economici – filosofici di vent’anni prima, la creatività umana dell’artigiano, la sua autonomia nella produzione, il suo lavoro ancora come esperienza umana si contrappongono alla rigidità del lavoro automatizzato delle nuove fabbriche nascenti sulla base del principio di parcellizzazione, semplificazione, ripetitività monotona delle attività. Dopo questi primi incontri, che non guastano del tutto, ma tendenzialmente chiusi fino al negazionismo rispetto alla trasformazione presente, ci imbattiamo in una serie di libri attuali, validi, interessanti ma fondamentalmente troppo poco fondati su una conoscenza storica complessiva del movimento di sviluppo del capitalismo e delle società borghesi e, in più, sradicati da categorie di pensiero più generali, in grado di riportare il destino di ciò che sta accadendo alla possibilità concreta dell’altro da venire, della trasformazione. Ad esempio uno dei testi più conosciuti a riguardo è senz’altro «La fine del lavoro» di Jeremy Rifkin del 1995. In questo tempo leggiamo di come la macchina della terza rivoluzione industriale stia modificando nell’essenza il lavoro umano su scala internazionale. L’automazione, l’informatizzazione, l’elettronica, per non parlare poi di Internet, ancora quasi inesistente ai tempi de «La fine del lavoro» ma invece già ai suoi inizi come fenomeno di massa nell’altro libro di Rifkin «L’era dell’accesso» (2001), stanno letteralmente sostituendo il lavoro umano con quello delle macchine, dal momento che il software si può riprodurre all’infinito e sembra, in Rifkin, progressivamente in modo indefinito anche sostituire l’attività umana. A partire dalle società più avanzate, i lavoratori scompaiono sempre di più come figure sociali, le fabbriche continuano a produrre ma si svuotano di uomini in carne ed ossa, al massimo vi rimangono i guardiani agli ingressi dei cancelli, non più a sorvegliare l’ingresso degli operai ma su degli schermi i diagrammi del perfetto funzionamento automatico della produzione robotica. La disoccupazione come nuovo fenomeno di massa si presenta negli Stati Uniti e in Europa come la nuova vera calamità di una ricchezza sociale che non si diffonde su tutti gli strati, ma che all’accrescere delle risorse potenziali affianca l’aumento delle mancanze, della povertà e dell’emarginazione.

Leggiamo ad esempio in Rifkin nel primo dei suoi capitoli: «Le schiere dei disoccupati crescono quotidianamente in Nord America, in Europa e Giappone. Anche le nazioni in via di sviluppo stanno affrontando una crescente disoccupazione tecnologica, dal momento che le imprese multinazionali stanno ammodernando i propri stabilimenti in tutto il mondo, eliminando milioni di lavoratori non qualificati, che non possono più competere con i costi, la qualità e la velocità di consegna raggiunte dalla produzione automatizzata. In un numero sempre crescente di Paesi, i giornali si riempiono di articoli che parlano di produzione leggera, re – engineering, qualità totale, post fordismo, decruiting e downsizing. Dovunque la gente è preoccupata del proprio futuro. I giovani hanno iniziato a dare sfogo alle proprie frustrazioni e alla propria rabbia con comportamenti sempre più antisociali. I lavoratori più anziani, in bilico tra un passato prospero e un futuro incerto, paiono rassegnati e si sentono sempre più intrappolati da forze sociali sulle quali hanno poco o punto controllo. Tutto il mondo è pervaso dalla sensazione che sia in corso un inarrestabile cambiamento tanto ampio nel suo raggio da renderci quasi incapaci di ipotizzarne l’impatto. La vita, così come la conosciamo, viene modificata nei suoi aspetti fondamentali» .

Lo stesso Rifkin riporta poche pagine più avanti le parole di Attali, allora ministro e consulente del presidente francese Mitterand che fiduciosamente affermava: «Le macchine sono il nuovo proletariato. La classe lavoratrice è stata liberata». Certo, se la macchina lavora al posto dell’uomo, l’uomo progressivamente si libera dal lavoro, e così dalla alienante fatica che questo comporta. Il problema è che senza lavoro umano, nell’analisi di Rifkin, la produzione non diminuisce, anzi aumenta, ma dal punto di vista dell’individuo - lavoratore la produzione non è più la propria neppure oramai rispetto al salario. I lavoratori non lavorano, ma ovviamente non guadagnano neppure, perdono il lavoro, vanno ad ingrossare le fila già nutrite della leva dei disoccupati. La risposta classica, infatti, di quegli anni (e di questi?) era che il terzo settore avrebbe con il suo sviluppo creato al contempo nuovi posti di lavoro che avrebbero ricoperto ciò che l’industria nella sua nuova forma tecnologica lasciava fuori. Al giorno d’oggi senz’altro possiamo vedere come in quote percentuali i lavoratori impiegati nei diversi paesi dell’Europa occidentale nel terziario aumentano rispetto a quelli ancora impiegati nel secondo, per non parlare poi dei reduci del primo, quello dell’agricoltura, rispetto a cui Rifkin fa bene a dedicare un ampio approfondimento. È lo stesso Rifkin a notare l’insufficienza di questa prospettiva: il travaso non è (e non è stato infatti) automatico né dal punto di vista quantitativo né soprattutto da quello qualitativo. Una parte dei posti di lavoro complessivi senz’altro è stata persa, ma il dato più interessante è che la parte recuperata nei nuovi investimenti, in particolare nel terziario, o in aziende che a loro volta sono sorte come produttrici e gestori di software e nuova tecnologia, è passata attraverso il filtro delle nuove forme di lavoro impostesi negli ultimi anni con la compiacenza e l’iniziativa diretta dei principali governi, e cioè con la precarietà, la flessibilità e tutte le varie e variegate forme di contratto a termine. Il valore, quindi, del libro di Rifkin è proprio forse nella sua tempestività, e nel suo tener fermo alla dimensione dell’irrecuperabilità del vecchio sistema rispetto al nuovo inesorabile installarsi di tecnologie di potenza incomparabile rispetto al passato. Rifkin nota che qualcosa di importante sta cambiando, in un certo senso che nulla sarà più come prima, che la dimensione della trasformazione del mondo del lavoro incide in modo sostanziale sulla vita degli individui che la compongono in modo complessivo. E nel titolo, corrispondente d’altra parte alle sue analisi, fissa quest’ impressione in una dicitura forte, anche ambivalente, ad impressione immediata. Questo perché il sogno della fine del lavoro è divenuto, di contrappasso, oggi, l’incubo della perdita generalizzata della propria attività di vita e delle basi essenziali delle proprie risorse economiche. D’altra parte, quello che è assai chiaro è che il declino della forza lavoro su scala globale (sottotitolo del libro) non può di per sé giustificare l’ipotesi che siamo di fronte alla fine del lavoro in quanto tale. L’ipotesi sarebbe abbastanza ingenua; e, per quanto Rifkin non è così ingenuo da portarla alle sue estreme conseguenze, le sue analisi non sono supportate però da una visione d’insieme in grado di fargli prospettare un quadro più definito della società post – fordista. Il suo grido di preoccupazione per la rottura degli equilibri tradizionali a metà degli anni novanta si stempera in una visione nuova delle prospettive della società umana nei suo testi successivi, da «L’era dell’accesso» (2001) fino all’ultimo «La civiltà dell’empatia» (2009), in cui Internet e i nuovi sistemi di comunicazione sono posti alla base della possibile unificazione del genere umano su basi migliori. La questione però non secondaria della barbarie dell’esistenza effettiva degli ultimi decenni del capitalismo su scala globale, in termini di pressione sulla riduzione dei diritti dei lavoratori, questione ecologica, innesco di nuove guerre e tensioni, è trattata troppo superficialmente rispetto, invece, alle nuove, forse anche presenti, possibilità che la tecnologia delle reti offre alla civiltà umana impegnata in questo slancio verso nuove forme di relazioni sociali.

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Il testo di Andrè Gorz edito nel 1988 «La metamorfosi del lavoro», è invece di uno spessore maggiore, ancorato alla conoscenza delle basi dell’economia politica, e orientato secondo una visione filosofica interessante, attenta a sfuggire ad incrostazioni dogmatiche.

Alla base della sua considerazione del lavoro c’è la convinzione che lo sviluppo del capitalismo abbia ormai portato ad una separazione netta fra lavoro e vita rispetto alla formazione dell’ identità individuale. E questo come il risultato del processo di più lungo corso, attivatosi a partire dalla fine del lavoro domestico e del superamento progressivo del lavoro artigiano ad opera della manifattura industriale e sviluppatosi attraverso il crescente peso della macchina, la semplificazione del lavoro e con la relativa alienazione del lavoratore dal prodotto di lavoro. Nella spirale delle nuove tecnologie a servizio della produzione il lavoratore fa sempre meno, si identifica sempre meno con quello che fa e si avvia progressivamente a limitare la propria mansione alla progettazione, alla supervisione e al controllo del processo della macchina. Dalla prima alla terza rivoluzione industriale la macchina  è venuta ad aumentare la durata della propria vita, lo spessore e l’ampiezza del proprio lavoro, la capacità di correggere da sé i propri errori, fino ad arrivare ultimamente ad essere programmata nel poter ricorrere all’aiuto in rete per il proprio aggiornamento e la propria manutenzione.

L’uomo - lavoratore rimane sempre più alle spalle del processo effettivo di produzione in quanto «fare» manuale e sensibile, e diventa il tecnico della macchina, il guardiano del processo, lo spettatore della produzione. La «fine dell’umanesimo del lavoro» per Gorz è tutta qui: l’uomo – operaio non è più operaio né riconosce quella dimensione sociale come la principale della sua vita, piuttosto fa l’operaio, o ancora meglio, ha un posto di lavoro da operaio. Quando nel film di Bertolucci «Novecento» il patriarca della famiglia contadina inizia il giovane Olmo in piedi sulla tavola imbandita della famiglia (di diverse decine di membri tutti braccianti agricoli) le sue parole sono: «Dovunque andrai, qualunque cosa farai, chiunque sposerai, ricordati di essere Olmo Dal Cò, paisano». Egli è convinto, infatti, che il tempo non vincerà la sua appartenenza di classe, il suo destino è scritto in quella stessa tavola su cui, non a caso avviene la sua iniziazione, mangia la stessa minestra dei suoi parenti e degli altri che sono nella sua stessa dimensione, la dimensione di vita sacrificata dei braccianti e di lavoro faticato a contatto con la natura. Nella terza rivoluzione industriale, invece, il lavoro non possiede più, per forza di cose, la portata di questa identificazione di vita e lavoro, di lavoro e appartenenza sociale. Rispetto a questo Gorz cita gli autori di «Le travail et après» che rilevano come anche la richiesta salariale ormai è divenuta svincolata dalla vera e propria produttività individuale anche nell’immaginario dell’operaio, il quale più che come individuo produttore, reclama il suo stipendio in base al posto di lavoro più che al lavoro vero e proprio, dal momento che «l’operaio massa non contratta il valore del suo lavoro concreto, di cui coglie il carattere uniforme, universale. Egli chiede il massimo di retribuzione della sua forza lavoro in quanto elemento indifferenziato d’un processo collettivo produttore di ricchezza». In un certo senso, cioè, il lavoratore nelle società più avanzate riconosce effettivamente nel tempo il criterio principale di valutazione del suo lavoro. Non il prodotto in sé, ma il tempo di lavoro in quanto tale, sottratto al tempo della vita. Il tempo della vita ha assunto un significato simbolico più alto, è il vero tempo, il tempo per sé, il tempo del consumo, il tempo della vita privata. Questa astrazione del lavoro ha anche un’altra radice tuttavia, molto legata al discorso che stiamo facendo. Si tratta di quella che Gorz stesso definisce «la polivalenza dell’operaio di processo» e che si spiega con il fatto che «la loro (dei nuovi operai) mobilità potenziale è pertanto maggiore di quella degli operai professionali tradizionali: passare da una raffineria a una fabbrica di lampadine elettriche o da un cementificio a una fabbrica di spaghetti è cosa molto più facile che passare dal mestiere del meccanico a quello del’elettricista. Lo stesso vale per una parte significativa degli addetti alla manutenzione: meccanici, idraulici, elettricisti, periti elettronici di sistemi di produzione flessibili integrati col calcolatore, nonché per i programmatori». In questo modo, quindi, sostiene Gorz, il tempo della formazione professionale si è notevolmente abbassato per una gran parte dei lavoratori di tipo manuale e questo ha il suo effetto sul rapporto fra la vita e il lavoro di questi individui.

In questo modo gli stessi autori de «Le travail et après» descrivono la situazione di alcuni operai chimici nella separazione che intercorre fra la loro cultura professionale e la loro cultura del quotidiano: «Qualcosa c’è da fare sempre, ma la produzione si fa in gran parte da sola e le regolazioni, le correzioni, i lavori di manutenzione che si svolgono possono essere difficilmente interpretati come un vero lavoro […] L’operaio non può nemmeno dire che ha un’influenza decisiva sulla qualità della produzione […]. Nonostante la sua qualificazione, egli ritiene di detenere solo un sapere professionale e non una capacità professionale che si possa tradurre in realizzazioni materiali: il pezzo costruito, l’apparecchio radio riparato».

La banalizzazione del lavoro odierno nel post – fordismo non è per Gorz la semplice dequalificazione, l’abbassamento del lavoro a qualcosa di meccanico e noioso, ma corrisponde piuttosto all’ «ampia accessibilità della qualificazione richiesta dal lavoro», al fatto che una serie di mestieri, potremmo dire noi, mentre per Gorz sembra che riguardi la loro totalità, possono essere appresi in sempre meno tempo, senza una vera e propria formazione specifica a riguardo. Pensiamo ai call center di oggi ad esempio: quante conoscenze specifiche richiede lavorare lì, rispetto alla vecchia figura di operaio tradizionale, alle sue conoscenze dei materiali utilizzati, alle tecniche di produzione, alle variabili in campo? Ma possiamo anche fermarci al lavoro di tipo più tradizionale di fabbrica e alle sue più recenti trasformazioni: in questi giorni di fine Aprile (2010) l’amministratore delegato del gruppo Fiat dichiara in un piano quadriennale la possibilità di nuovi investimenti e aumento di produttività al vincolo della massima flessibilità da parte dei lavoratori. Nello stabilimento di Pomigliano ad esempio viene proposto ai lavoratori il ritorno al lavoro pieno e non parziale permesso dalla cassa integrazione in cui sono la maggior parte dei lavoratori da un anno e mezzo a patto della possibilità da parte dell’azienda di poterli dislocare continuamente in reparti e ruoli differenti, a riprova del nuovo clima generato dalla contrazione economica ma anche, per quello che riguarda il nostro discorso, della rottura dell’indispensabilità di una conoscenza specifica sul posto di lavoro[4]. Consisterebbe in questo il nuovo esperimento della classe padronale per i prossimi anni. Tutto ciò dal punto di vista di Gorz interessa, tuttavia, un processo più ampio avvenuto nella nostra società: l’esclusività di certe conoscenze o di certi campi del sapere è stata superata a favore di un’estensione di queste conoscenze in una forma semplificata e più accessibile. «Una moltitudine di conoscenze, riservate in precedenza a delle èlite, sono state banalizzate negli ultimi vent’anni: la conoscenza delle lingue straniere, l’uso di un calcolatore, i principi della dietetica, della prevenzione di varie malattie, della contraccezione ecc; ma lo stesso può dirsi dello sci, del tennis, dell’equitazione, della vela, e così via». Lo stesso, anche, possiamo pensarlo della musica, ritornando col pensiero agli scritti di Adorno sul passaggio dalla musica classica alla musica leggera, proseguendo poi, arrivando ai giorni d’oggi, alla nuova musica dance, tecno, house, e in generale disco diffusesi a partire dagli anni novanta, tra i giovani soprattutto nelle società occidentali. La contraddizione, cioè, è più generale e sembra riguardare il concetto stesso di «democratizzazione» del consumo di beni materiali e immateriali nella società di massa. Adesso tutti ascoltano continuamente musica, nella loro casa, sul loro posto di lavoro, alle cuffie di Ipod, nelle metropolitane d’ogni città, la musica (per non parlare della nuova ars universalis della fotografia digitale) è praticata come hobby o semi professione da un numero crescente di individui, ma è senz’altro un tipo di musica più semplice, elementare, meno difficile da imparare a suonare e da imparare ad ascoltare rispetto a quella di uno o due secoli fa. La macchina e la macchina informatica nel particolare, cambiano la natura del lavoro, lo rendono più preciso, produttivo, ma anche più indipendente dai tempi d’apprendimento e di ritmo umani, più astratto, oggettivo, spersonalizzato, non nel significato tradizionale di alienato, ma in quello di praticabile da un numero maggiore di individui sulla base di una preparazione più bassa. Allora di fronte a ciò abbiamo diverse possibilità: la prima è quella di resistere a tutto questo, alzando la bandiera del vecchio lavoro d’una volta, che richiedeva professionalità e che conferiva a sua volta professionalità al lavoratore, che garantiva un’identificazione abbastanza stabile con il proprio ruolo sociale, che in cambio della fatica restituiva la possibilità di appartenere ad una certa dimensione sociale. Un’altra è quella di immaginare, un po’ ingenuamente, che più tecnologia significa meno fatica sul lavoro, e che meno fatica significa lavoro necessariamente migliore, e che la tecnologia a sua volta ci indichi un destino ineluttabile riguardo al mondo del lavoro. La posizione di Gorz, che è senz’altro interessante, è che non si può tornare indietro: la tecnica libera il lavoro da una parte del suo carattere opprimente, ma soprattutto libera tempo e risorse per il non lavoro, aumenta la produttività, rendendo l’attività umana in grado di conferire più valore in meno tempo alle merci prodotte, e liberare (in potenza) tempo per altro, per la vita. Lo sviluppo delle nuove forme di produzione, oggi di internet e delle reti informatiche non è un destino di tipo metafisico e sovraordinato ma senz’altro una direzione oggettiva del corso delle cose che non può essere ritrattata in alcun modo e soprattutto riguardo al seguente elemento: la macchina come lavoro «morto» si scambia con il tempo del lavoro «vivo», perché aumenta il volume dei beni possibili e riduce i tempi necessari alla loro produzione,  e il tempo della vita potenziale degli individui si allunga arricchendosi di elementi materiali e di possibilità di vita nuove e più ampie. In un certo senso, il famoso regno della necessità è superabile proprio in virtù di questa dimensione tecnologica di rapporto nuovo fra l’uomo e le cose, il lavoro e le macchine, la società umana e la natura. Negli ultimi decenni si sono aperte delle possibilità incredibili da questo punto di vista: la produzione, i trasporti, le comunicazioni, la riproducibilità di elementi cosiddetti «immateriali» (software e files di qualunque genere) cambiano la natura dell’attività lavorativa e della vita umana. Tuttavia la tecnica per Gorz non è solo questo, anzi la tecnica in quanto tale non è affatto solo questo:  la tecnica fatta di strumenti, a sua volta, è uno strumento, qualcosa di subordinato e che subordina a sé. Questo è vero per le prime macchine filatrici dai ritmi compulsivi della prima rivoluzione industriale, è vero per la mastodonticità di quelle più tarde della grande industria chimica e siderurgica, ma lo diventa paradossalmente ancora di più, da un altro punto di vista, per la macchine del nostro tempo, le macchine leggere e veloci della terza rivoluzione industriale. In pochi centimetri cubi, si racchiude un intero universo di informazioni, programmi, comandi, archivi, immagini, suoni, tutti a loro volta in connessione possibile con quelle di altri in qualunque altra parte del mondo. Lo spazio si ridimensiona, si estende nella geografia del mondo, e si approfondisce nel micro degli elettroni e dei fotoni, accelera nei chilometri appena visibili dai nostri occhi, perché è condizionato da interazioni in dimensioni infinitamente più piccole  verso cui la scienza e la tecnica hanno condotto il nostro sguardo e le nostre parole,  di noi che, per lo più però, seguiamo il corso del nostro tempo estranei alla comprensione di ciò che ci accade e da cui siamo trasportati come individui di questo mondo. Gli elettroni non si vedono, le informazioni bit neanche, le lettere che battiamo sui nostri programmi di scrittura sono eguali per forma a quelle di chiunque altro, la spersonalizzazione avviene come tratto della necessità d’una astrazione continua della nostra individualità senziente nel momento in cui ci relazioniamo ad un personal computer. La descrizione precedente dei lavoratori del settore chimico riportata da Gorz è già superata rispetto ai nuovi sviluppi. La fabbrica interamente guidata dal calcolatore è una realtà ormai già presente. Il lavoro umano diventa quello dei controllori delle macchine. Il lavoro vivo progetta, collauda e infine controlla l’opposto di se stesso nella forma dell’autoregolazione della macchina. «In una stanza tre persone sono sedute ciascuna davanti al proprio quadro di visualizzazione; ogni quadro ha due monitor. Una tastiera permette di dare, in codice, istruzioni al calcolatore – che integra 1500 parametri, 200 circuiti di regolazione e 600 dispositivi d’allarme – e d’interrogarlo sullo svolgimento del processo in corso. La materialità della produzione è messa tra parentesi, rinviata in un aldilà invisibile col quale l’operaio, diventato operatore, comunica per mezzo di simboli numerici: batte numeri sulla tastiera, legge numeri sul video.» Il mondo sensibile si assottiglia, il corpo umano del lavoratore non si relaziona più a materie grezze, elementi chimici, tessuti, ferro, rame, cuoio, solventi ma a files e programmi dalla natura incorporea e a macchine animate da queste invisibili realtà che le sono state introdotte dalle oscure, e queste sì elitarie, figure di specialisti informatici. «Lo spessore sensibile del mondo è abolito. Il lavoro come attività materiale è abolito. Non resta che un’attività puramente intellettuale, o piuttosto mentale [...]. Il lavoro è scomparso perché la vita si è ritirata dall’universo. Non c’è più nessuno; solo numeri che in silenzio si susseguono a numeri, indiscutibili perché insensibili, muti. Alla fine della giornata l’operatore si alza. Di ciò che ha fatto non gli resta niente, nessun elemento materiale, visibile, misurabile: non ha realizzato niente. Ma questo niente lo ha inaridito: durante la giornata (o nottata) di lavoro, si è imposto un’ascesi che consiste nella repressione in se stesso dell’esperienza sensibile; si è costretto a esistere come puro intelletto, eliminando, reprimendo come altrettanti potenziali disturbi della sua funzione, tutto ciò che è in rapporto vivente con il mondo vissuto nel e col suo corpo». Nell’esperienza degli ultimi anni in qualunque dipartimento universitario italiano ed europeo di ingegneria, matematica, fisica, informatica ma anche medicina, biotecnologie, agraria, questi individui ancora non entrati come lavoratori li abbiamo già potuti incontrare: nella loro stessa dimensione fisica c’è una sproporzione della testa, del collo rispetto all’armonia degli altri muscoli, hanno sempre risposte pronte, ma mai una buona ragione per spiegare in termini di scelta individuale ciò che stanno facendo. Sono questi i nuovi tipi, ai livelli sociali più alti, prodotti dalla new economy , e continuano ad essere in netto aumento, quanto più dai centri ci spostiamo nelle periferie dove le minori resistenze culturali  le rendono il laboratorio di sperimentazione privilegiato d’ogni innovazione.

Insomma, ci troviamo in un bel groviglio storico. Tante possibilità, ma infinita dispersività, la tecnica che da strumento potenziale di liberazione di tempi e risorse si sta trasformando in un meccanismo ubiquitario di degradazione delle facoltà umane e della sua condizione di essere sociale in relazione con altri individui, di svilimento del livello della comunicazione e abbassamento della individualizzazione dell’attività. Da un lato, da alcuni punti di vista, come lo stesso Gorz nota, oggigiorno siamo vicini quanto mai alla possibile rotazione dei lavori, e ad una divisione dei lavori non così rigida come era nel quadro delle rivoluzioni industriali e delle società che se ne svilupparono in cui il lavoro del figlio era la continuazione di quello del padre, del nonno e così via e le possibilità di cambiare e sfuggire ad un destino prefissato erano molto ridotte, in modo che le stesse pagine dell’Ideologia tedesca sulla divisione della giornata umana in diversi tipi di lavoro e di interessi non risultano più oggi così assurde per via della semplificazione di molte delle attività di lavoro contemporanee; dall’altro, la nostra vita si muove in un pieno irrigidimento delle sue prospettive, senza più slancio, identità in grado di resistere ai minimi passaggi di vita, coraggio di provare a trasformare le cose in corso, asserviti oramai ad un ritmo troppo veloce, ad un sistema articolatissimo al proprio interno, che travalica i confini di città e nazioni, che si dispiega lungo la trama della innovazione della forma capitalistica dei nostri giorni nel quadro del post – fordismo, che, d’altra parte, non è se non la storia del capitalismo dopo il suo mancato superamento negli eventi del secolo scorso. La storia, quella del capitalismo, che da molti punti di vista ha perso già la sua necessità, ma che non per questo si può dire sia vicino ad essere «oggettivamente» superata, come sostengono alcuni fra cui Toni Negri negli scritti dei primi anni di questo nuovo secolo.

La critica che d’altra parte Gorz muove a Marx rispetto alla descrizione della liberazione del lavoro che egli avrebbe dato a partire da alcune pagine dei Manoscritti economico – filosofici fino ad alcuni scritti successivi, e cioè di un lavoro di per sé non alienato in quanto lavoro, e cioè in quanto attività in cui il soggetto uomo – lavoratore si riconosce, e riconoscendosi se ne appropria come ciò che lo fa essere quello che è in modo essenziale,  riguarda per l’appunto la prospettiva presente della semplificazione del lavoro e della subordinazione della produzione di beni materiali al lavoro morto delle macchine. Esiste ancora oggi la possibilità, infatti, che alcuni lavori possano essere soddisfacenti, ma questo non cambia la finalità complessiva cui tende l’organizzazione del lavoro e del mondo del lavoro nel suo complesso. La quale rimane disarmonica e opprimente dello sviluppo umano potenziale.  È quanto mai necessaria un’organizzazione nuova sulla base di un riequilibrio e di una razionalizzazione delle energie sociali disponibili, delle risorse presenti, dei tempi di lavoro effettivamente necessari alla produzione e allo sviluppo sociale contemporaneo. Gorz quindi affianca, senz’altro, Marx dal punto di vista della considerazione necessaria di una riorganizzazione del lavoro su scala globale e sulla base di un piano razionale, ma prova a farlo calandosi nella dimensione della nuova società in cui il fordismo è giunto al tramonto. In sostanza Gorz  ritiene che non si possa tornare indietro, che il lavoro per come l’abbiamo conosciuto fino a qualche decennio fa stia, più o meno velocemente, scomparendo. Per quanto forse, e questo Gorz lo tralascia, ci siano delle differenze molto forti fra paesi occidentali e il resto dei paesi (e non è una questione da poco[5]), all’interno delle società occidentali questa è la situazione. Il lavoro è svilito, non definisce più identità sociali e culturali stabili, il post fordismo fagocita la coscienza dei lavoratori in quanto soggetti sociali dotati d’una specificità, d’un ruolo, d’una cultura, e di qui anche, in potenza, d’una prospettiva politica. È una contraddizione lacerante: da un lato ci sono le possibilità d’una liberazione progressiva dal lavoro attraverso lo sviluppo delle macchine, dall’altro la situazione attuale non libera tempo ripartendo e razionalizzando il lavoro, ma aumenta le differenze fra lavoratori in preda a lavori frenetici ed ex lavoratori espulsi dal sistema oramai disoccupati senza salario e senza garanzie. In questo c’è l’irrazionalità del meccanismo capitalistico nel suo sviluppo attuale. Uno spreco infinito di energie, tempo, attività, in definitiva, vite, in cui il godimento delle possibilità raggiunte attualmente è reso difficile alla stragrande maggioranza degli attori in campo. Il lavoro necessario, da un certo punto di vista, è di gran lunga inferiore al lavoro di cui attualmente dispone e utilizza il sistema. Che utilità sociale hanno infatti i produttori di pubblicità? Quale ruolo i lavoratori di call center che rispondono ai centralini da altre parti della nazione ad ogni ora giorno e notte? I creatori di immagini? E i nuovi psicologi e filosofi assunti come neodirettori del personale con la mansione di gestire i conflitti conseguenti al taglio di posti di lavoro nelle ristrutturazioni aziendali con o senza l’ultima crisi? Tutti questi lavori non hanno alcun senso sociale. Lo sviluppo umano ne può e ne farebbe senz’altro a meno, dedicherebbe tempo, energie e risorse a tutt’altro. L’unico senso di molti di questi lavori del cosiddetto terzo settore è quello di garantire la massimizzazione del profitto delle aziende e dei monopoli aziendali basate unicamente (e molto spesso su base del tutto irrazionale) sugli assunti di una società fondata sull’immagine della merce e del prodotto, una società dello spettacolo in cui il consumatore è chiamato ad essere attore protagonista della farsa attuale del prolungamento in vita del sistema dominante. Il Marx del Capitale e Gorz su questo concordano in pieno: la liberazione umana è una liberazione progressiva dal giogo del lavoro in direzione di uno sviluppo differente della personalità umana.  Se andiamo alla fine del cap. 15 del I volume del Capitale troviamo infatti, a questo riguardo, una pagina preziosa: «Quanto più cresce la forza produttiva del lavoro, tanto più può essere abbreviata la giornata lavorativa, e, quanto più viene abbreviata la giornata lavorativa, tanto più potrà crescere l’intensità del lavoro (questo tra l’altro è un altro elemento fondamentale, e di contatto anche con Gorz, se si lavora meno, evidentemente, si fa meglio quel che si è chiamati a fare). Da un punto di vista sociale la produttività del lavoro cresce anche con la sua economia. Quest’ultima comprende non soltanto il risparmio nei mezzi di produzione, ma l’esclusione di ogni lavoro senza utilità. Mentre il modo di produzione capitalistico impone risparmio in ogni azienda individuale, il suo anarchico sistema della concorrenza determina lo sperpero più smisurato dei mezzi di produzione sociali e delle forze – lavoro sociali oltre a un numero stragrande di funzioni attualmente indispensabili (al mantenimento del sistema per come è attualmente), ma in sé e per sé (cioè per lo sviluppo sociale in quanto tale) superflue. Date l’intensità e la forza produttiva del lavoro, la parte della giornata lavorativa sociale necessaria per la produzione materiale sarà tanto più breve, e la parte di tempo conquistata per la libera attività mentale e sociale degli individui sarà quindi tanto maggiore, tanto più il lavoro sarà distribuito proporzionalmente su tutti i membri della società capaci di lavorare, e quanto meno uno strato della società potrà allontanare da sé la necessità naturale del lavoro e addossarla ad un altro strato. Il limite assoluto dell’abbreviamento della giornata lavorativa è sotto questo aspetto l’obbligo generale del lavoro. Nella società capitalistica si produce tempo libero per una classe mediante la trasformazione in tempo di lavoro di tutto il tempo di vita delle masse». Non casualmente questo testo si trova alla fine del capitolo sulla produzione di plus valore relativo, cioè nell’aumento di ritmi e produttività all’interno degli stessi orari di lavoro.

Spostandoci invece dalla biblioteca del British Museum negli anni sessanta del diciannovesimo secolo, verso la Francia poco più di un secolo dopo, ritroviamo Gorz e le sue seguenti conclusioni: «Possiamo ora vedere meglio ciò che si può e ciò che non si può chiedere alla tecnica. Le si può chiedere di accrescere l’efficienza del lavoro e di ridurne la durata, la penosità. Ma bisogna essere consapevoli che l’accresciuta potenza della tecnica ha un prezzo: essa separa il lavoro dalla vita e la cultura professionale dalla cultura del quotidiano [...]. Il prezzo della tecnicizzazione diventa accettabile solo nella misura in cui essa economizza il lavoro e il tempo. Questo è il suo scopo dichiarato. Non ne ha altri. È fatta perché gli uomini producano di più e meglio con meno sforzo e in minor tempo. In un’ora del suo tempo di lavoro, ogni lavoratore di tipo nuovo economizza dieci ore di lavoro tradizionale; o trenta o cinque, non importa. Se l’economia del tempo di lavoro non fosse il suo scopo, la sua professione non avrebbe senso. Se ha l’ambizione o l’ideale che il lavoro riempia la vita di ciascuno e ne sia la principale fonte di senso, è in completa contraddizione con quello che fa. Se crede in quel che fa, deve credere anche che gli individui non si realizzano soltanto nella professione. Se ama fare il suo lavoro, deve essere convinto che il lavoro non è tutto, e che ci sono cose altrettanto o più importanti. Cose per le quali la gente non ha mai abbastanza tempo, per le quali egli stesso ha bisogno di più tempo. Cose che il tecnicismo macchinale darà il tempo di fare, deve dare il tempo di fare, restituendo così alla gente, centuplicato, ciò che «l’impoverimento del pensiero come dell’esperienza» sensibile le ha fatto perdere». Della tecnica per il momento rischiamo di prenderci quasi solo il negativo se non procediamo ad una trasformazione sia dell’organizzazione sociale del lavoro che insieme della scala di valori della nostra vita.

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Chiarite questi elementi fondanti, nella seconda parte del suo testo Gorz discute più nel concreto le possibilità e rischi che si aprono per il nostro futuro. La civiltà post – industriale, anziché ridimensionare il peso della forma merce, la estende alla totalità della vita, nelle manifestazioni originariamente meno assorbite dal meccanismo della profittabilità capitalistica: l’arte, la cultura, la comunicazione, e soprattutto quello che Gorz chiama il lavoro per sé. Il fatto che la ragione economica invada tutte queste altre sfere della vita da cui inizialmente era tenuta fuori dimostra «al negativo» quale sarebbe, invece, la possibilità storica dell’oltrepassamento d’una forma di produzione e di organizzazione sociale basata sull’arricchimento privato e su di una sostanziale disarmonia. La macina a vuoto dei lavori improduttivi e senza fine sociale (quando non addirittura con fini esplicitamente anti sociali come quello di imbonire i consumatori con la pubblicità) a sua volta ne nutre degli altri. Gorz osserva come il lavoro servile, stia aumentando nell’ultimo periodo (pensiamo soprattutto ai nuovi lavoratori immigrati in Occidente da altre nazioni). «Le schiere dei lavoratori domestici, uomini e donne, dei camerieri e cameriere, dei cuochi e degli aiutocuochi, dei fattorini chiamati a fare per noi le spese, le pulizie, la cucina, a portarci a casa piatti caldi, non impiegano meno (tenuto conto del tempo di lavoro accumulato negli impianti e nelle attrezzature di cui si servono) di quanti ne avremmo impiegato noi a fare da soli ciò che essi fanno al nostro posto. Il tempo che ci fanno guadagnare non è tempo produttivo ma tempo di consumo, di comodità». Il lavoratore che dopo una notte di lavoro ad un call center a spiegare quali sono i ristoranti più vicini a sperduti e a, loro volta, solitari viaggiatori notturni o a mandare mail promozionali da altre parti del mondo, torna a casa e, non senza ragioni, si fa portare la colazione a casa dal bar, fa senz’altro girare la macchina economica ma su di un binario fine a se stesso, e del tutto irrazionale. Il lavoro che svolge e quello che chiede è sostanzialmente superfluo allo sviluppo sociale. «Si mette così in opera una divisione sociale del lavoro completamente assurda. Gli uni sono talmente occupati nella sfera economica che non hanno il tempo per le loro mansioni domestiche; gli altri sono costretti ad assumersi i lavori di casa dei primi, i quali impediscono ai secondi, con la loro assiduità al lavoro, di trovare modi di guadagnarsi da vivere più interessanti. Solo la perseveranza ostinata nell’ideologia del lavoro impedisce ai sostenitori di questo modello di rendersi conto che se tutti lavorassero meno, tutti potrebbero assumersi i propri lavori domestici (nel senso anche più generico di cura di sé) e guadagnarsi da vivere lavorando».

La verità del post fordismo è che siamo in un’epoca in cui gli uomini vengono costretti come criceti a girare a vuoto in ruote ferme su stesse così che qualunque elemento di profittabilità nel campo della produzione e in quello delle condizioni dell’orientamento del consumo può essere ben visto dagli stessi lavoratori, più o meno giovani, e più o meno precari, sulla base della promessa (e presunta) creazione di nuovi posti di lavoro. Lo stato di osmosi e oscillazione fra precarietà del lavoro e disoccupazione vera e propria sta intrappolando la dimensione di vita e di crescita delle nuove generazioni e portandoli a considerare qualsiasi lavoro come un lavoro, ed ogni attività come un mero mezzo di sostentamento. «Qualunque cosa andrebbe bene» è la frase che si sente dire spesso. Al livello di sviluppo della macchina e del capitale l’uomo con le sue capacità si trova di fronte al lavoro come una semplice variabile dipendente. Non potendo più rivendicare la vecchia identificazione dell’individuo col proprio lavoro, avvertiamo il bisogno di pensare diversamente e nuovamente al senso dell’attività politica di oggi.

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3. Nella parte finale del libro, Gorz prova a tracciare alcuni caratteri per la nuova sinistra. Sulla base dell’analisi della realtà, prova a definire in cosa e come le prerogative di liberazione possono divenire concrete nel punto in cui siamo arrivati. In accordo con Touraine, crede che alcune vecchie categorie, anziché rendere possibile la trasformazione, diventino esse stesse nuovi ostacoli oggettivi alla presa di responsabilità verso il rivoluzionamento del presente. Non si tratta di buttar via Marx, e nessun marxista dovrebbe impaurirsi o sentirsi attaccato da tali posizioni. Marx è senz’altro il primo vero e più grande critico della natura del sistema capitalistico. Ma non basta accontentarsi di ciò che di Marx ci è arrivato dalla storia di centocinquanta anni del marxismo tra interpretazioni, rielaborazioni, adattamenti. Abbiamo bisogno di grimaldelli attuali rispetto all’onnilateralità del sistema d’oggi, alla coincidenza di produzione e creazione del bisogno, di potere dell’economia e potere politico, oppressione nel lavoro e controllo sistematico dei flussi d’opinione e coscienza. Siamo, come si diceva all’inizio, di fronte ad un’accelerazione della vita sociale, delle sue possibilità distruttive e delle sue potenzialità d’emancipazione. C’è bisogno in tempi rapidi d’armarsi di strumenti adeguati. Se «l’ideologia dello sforzo e del merito individuale, la difesa dell’occupazione, l’identificazione con il lavoro sono così diventati temi di destra che permettono di conquistare settori della classe operaia a una nuova alleanza nazionalproduttivistica (specialmente in tempi di ripresa dell’economia) a favore d’una modernizzazione liberalcapitalista», la lotta della sinistra, dalla sua, dovrà invece tendere al fine principale «della riappropriazione sociale e individuale del tempo di lavoro» e cioè «lottare per l’espansione degli spazi di autonomia sottratti ai fini economici e alla logica mercantile: rendere lo sviluppo economico, tecnico, organizzativo, urbano ecc. favorevole alla riappropriazione da parte degli individui del tempo, dell’ambiente di vita, del modello di consumo e del modo di cooperazione sociale: questa è grosso modo la prospettiva che si apre (o che si aprirebbe) a un sinistra che si definisse con la scelta di cogliere le potenzialità della civiltà post industriale». Per quanto questo riguarda necessariamente in primo luogo i paesi più avanzati capitalisticamente e quindi in questo senso più de – industrializzati, il ragionamento ha un senso forte. Non si tratta più di rivendicare la piena occupazione stabile all’interno del quadro capitalistico, come è accaduto nel fordismo in un momento in cui ancora era in auge l’etica del lavoro e un legame forte fra gli appartenenti alla stessa classe, ma di avviarsi a sganciare l’elemento del reddito dal lavoro, in modo da rendere effettivamente disponibile all’individuo il tempo che lo sviluppo tecnologico libera dall’applicazione al lavoro. Se non si può tornare indietro dall’odierna volatilità del sistema del consumo e di ciò che questo ha innescato rispetto alla produzione e all’adattamento del capitalismo a criteri differenti rispetto a quelli del fordismo[6], bisogna provare a concepire la trasformazione del carattere discontinuo del salario impostosi per le nuove generazioni a partire dalla flessibilizzazione del lavoro nel nuovo diritto di poter avere un reddito di base indipendente dallo stare o meno lavorando, di essere cioè inserito o meno in quel momento nel ciclo di lavoro o di esserne stati invece temporaneamente esclusi per le necessità del mercato. Il reddito di cittadinanza, che è una proposta che si è fatta strada a partire dalla metà degli anni novanta in Europa a partire da alcuni intellettuali francesi, tra cui Gorz, e italiani, tra cui ad esempio Fumagalli, incarna nel concreto questa idea di una nuova garanzia sociale[7]. Nella prima stesura delle sue dieci tesi sul reddito di cittadinanza, Fumagalli, ad esempio, nel 1998 introduce realisticamente la questione e la considera un’esigenza alla portata dello sviluppo economico raggiunto sulla base del nuovo modello di produzione flessibile[8]. Da un lato, infatti, la capacità tecnologica informatica consente di aumentare la produzione senza che aumenti  necessariamente l’occupazione e dall’altro, il salario del lavoro dipendente è oggi sempre più sganciato dalle capacità produttive effettive del singolo lavoratore, sia fisiche che intellettuali. Questo rapporto, infatti, si fa più astratto, e proprio per questo, in un certo senso, si avvicina all’espressione di ciò che è nell’essenza, e cioè uno scambio fondamentalmente di tempo, prima che di qualunque altra capacità. Il tempo così, nella terza rivoluzione industriale, torna al centro. Il valore della forza lavoro di ciascun individuo è legata all’irrecuperabilità del tempo perduto quotidianamente da ciascuno nel proprio lavoro a scapito dello sviluppo di sé e della propria personalità. Il tempo non si può fermare ed è rispetto alla vita il criterio supremo di valutazione d’ogni altra cosa. Perder tempo a chi più sa più spiace. E, ad oggi, l’eterogenesi stessa dei fini dello sviluppo della società capitalistica porta le persone ad essere molto più coscienti di quanto tempo il lavoro sottragga alla propria vita, di quante possibilità ed esperienze sprecate comporta, di quanto potrebbe essere fatto se solo se ne avesse il tempo. Il tempo libero dal lavoro e il tempo del lavoro. Si contrappongono nella coscienza media dell’individuo occidentale come due spazi separati da una linea netta. Il rapporto fra fini e mezzi emerge in superficie in qualche modo più chiaramente[9].

La strumentalità di ogni valore imposta dal regime capitalistico e dalla tecnica che con esso si sviluppa porta a degradare il lavoro stesso per fasce crescenti di individui dall’essere un’attività formatrice a divenire un mero elemento di sostentamento e guadagno. Sganciare il reddito dal lavoro, significherebbe, invece, aprire la possibilità, in ultimo, di avviarsi su una strada differente, di avviare nella coscienza umana la separazione fra ciò che è necessario e ciò che è strumentale, di ridimensionare l’influenza che oggi il cinismo o l’indifferenza presenti nel lavoro hanno nella dimensione della vita in termini di rapporti sociali reificati e subordinati alla logica della difesa di interessi e posizioni. Sarebbe un discorso interessante: aprirebbe la possibilità di iniziare a riflettere su come, quando oggi la gente crede di stare guadagnando di più dai suoi comportamenti sociali, sia in verità il momento in cui più (si) sta perdendo.

 

APRILE 2010

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Bibliografia

 

- ACCORNERO ARIS, L’individualismo di mercato e il lavoro post fordista, dal sito:

http://archivio.rassegna.it/2004/granditemi/articoli/accornero.htm

- ADORNO, Il carattere di feticcio in musica e il regresso dell’ascolto, in Dissonanze, Milano Feltrinelli 1974.

- ARDILLI e DONATO, La sinistra senza aggettivi e senza Marx. Una critica da In difesa del marxismo n°10, La crisi, la sinistra e il marxismo, articolo presente anche on line su www.marxismo.net

- BOLOGNA, Post fordismo e ceti medi, articolo on line al sito:

http://www.dossetti.com/corso/corso%202009/200905bologna.html

- CIRCOLO CULTURALE OMBRE ROSSE, Post fordismo e dintorni: Quali prospettive per una ripresa autonoma di classe?, da http://www.mercatiesplosivi.com/ombre1.html

- FUMAGALLI, Dieci tesi sul reddito garantito, www.ecn.org/andrea.fumagalli/10tesi.htm

- GORZ, La metamorfosi del lavoro. Critica della ragione economica, Bollati Boringhieri 2001.

- GORZ, L’immateriale. Conoscenza, valore e capitale. Bollati Boringhieri 2009.

- MARX, Capitale libri I e III. Critica dell’economia politica. Editori riuniti, 1994.

- MARX, Manoscritti economico – filosofici del ’44, a cura di Bobbio, Einaudi 2004.

- NEGRI, HARDT, Il lavoro di Dioniso, Manifestolibri, 2001.

- NEGRI, HARDT, Impero. Il nuovo ordine della globalizzazione, Bur 2000.

- PERAZZA FILIPPO, Ad esempio, la Benetton, dal sito http://www.intermarx.com/temi/benetton.html

- RIFKIN, L’era dell’accesso, Mondadori 2001.

- RIFKIN, La fine del lavoro, Mondadori 2005.

- SENNETT, L’uomo flessibile. Le conseguenze del nuovo capitalismo sulla vita personale, Feltrinelli 2001.

- VALERY, Sguardi sul mondo attuale, Adelphi 1994.

- VASAPOLLO, La crisi del capitale, Jacabook 2009.

 



[1] Definizione tratta da un suo discorso tenuto all’interno di un ciclo di seminari presso l’Istituto italiano studi filosofici tenutosi a Napoli dal 12 al 16 Aprile 2010

[2] Da questo punto di vista il sistema toyotista d’organizzazione della fabbrica e della produzione punta alla coincidenza di produzione e domanda, riducendo al minimo la sovrapproduzione fisiologica al sistema capitalistico in sé e alla sua forma fordista. Lo sviluppo del capitalismo odierno avviene sulla linea della capacità di previsione e condizionamento della domanda in tempi rapidi. Interessante in un articolo comparso su InterMarx di Filippo Perazza il confronto tra il modello toyotista originale e la sua migliore applicazione italiana, la Benetton. «Innanzi tutto in entrambi c’è rovesciamento del processo di produzione: la sua attivazione non è più, come il fordismo, indipendente dalla domanda, ma ne è la conseguenza. Ambedue i sistemi prevedono infatti che a seconda delle richieste si metta in moto la produzione. Il sistema toyota ha addirittura eliminato i magazzini, e le merci vengono prodotte dall’azienda su commessa senza che sia necessario lo stoccaggio. Quello della Benetton, invece, prevede la permanenza di piccoli quantitativi in magazzino che, anche se fanno lievitare leggermente i costi, assicurano una risposta immediata ad improvvisi aumenti della domanda. I due metodi sono accomunati anche dalla possibilità di offrire una produzione più varia: per effetto della sincronizzazione, della divisione, della coordinazione della produzione è possibile ottenere merci diversificate […]. La Benetton, che utilizza filati non tinti e provvede alla colorazione dei capi solo una volta che sono stati completati, può variare i colori anche all’ultimo momento, a seconda dei dettami del mercato, e presentare abiti variegati».

 

[3]Stato membro

 % Disoccupazione

Marzo 2005

Marzo 2006

Marzo 2007

Marzo 2008

Marzo 2009

Austria

5.1

5.1

4.5

4.1

4.5

Belgio

8.4

8.2

7.7

6.9

7.3

Danimarca

5.4

4.3

4.1

3.0

5.7

Finlandia

8.5

7.9

7.0

6.3

7.4

Francia

9.7

9.1

8.6

7.6

8.8

Germania

9.8

8.7

8.6

7.4

7.6

Grecia

9.9

9.6

8.6

7.8

7.8

Irlanda

4.5

4.2

4.6

5.6

10.6

Italia

7.8

7.7

6.1

6.6

8.5

Lussemburgo

4.3

4.8

4.9

4.4

6.1

Paesi Bassi

4.9

4.0

3.4

2.8

2.8

Portogallo

7.4

7.6

8.2

7.6

8.5

Regno Unito

4.6

5.0

5.5

5.2

6.6

Spagna

9.9

8.7

8.1

9.5

17.4

Svezia

6.3

7.2

6.6

5.8

8.0

 

Stato membro

 % Tasso di disoccupazione

Marzo 2005

Marzo 2006

Marzo 2007

Marzo 2008

Marzo 2009

Bulgaria

x

x

7.5

6.1

5.9

Cipro

5.1

5.2

4.1

3.7

4.9

Estonia

8.8

5.3

4.9

4.0

11.1

Lettonia

9.1

7.6

6.4

6.1

16.1

Lituania

9.2

6.4

4.6

4.3

15.5

Malta

7.2

8.1

6.6

5.8

6.7

Polonia

18.0

16.8

10.3

7.4

7.7

Repubblica Ceca

8.0

7.7

5.6

4.4

5.5

Romania

x

x

6.6

6.2

5.8

Slovacchia

16.7

15.7

11.3

9.9

10.5

Slovenia

6.4

6.2

5.2

4.5

5.0

Ungheria

6.8

7.4

7.3

7.6

9.2

Unione europea

8.9

8.4

7.3

6.7

8.3

Stati Uniti

5.1

4.7

4.4

5.1

8.5

Giappone

4.5

4.1

4.0

3.9

4.4

 

 

[4] Vedi articolo di Loris Campetti comparso su il quotidiano Il manifesto del 22 Aprile 2010.

[5] Scrive Sergio Bologna in un articolo presente su Intermarx a proposito di post fordismo e classi medie: «Prima domanda: che diavolo è questo post – fordismo? Per definirlo, per capire più o meno cosa intendo dire con questo termine, mi servirò di qualche esempio concreto. Se guardiamo le immagini di una fabbrica cinese di oggi, come quelle scattate dal fotografo americano Burtynsky, ricordiamo una catena di montaggio portata all’estremo, quasi una caricatura di quella che in tutto il mondo industrializzato aveva portato la produzione di massa, quella delle grandi fabbriche che tutti noi abbiamo conosciuto e nelle quali si è costruita anche la storia del sindacato, la storia del movimento operaio. La cosiddetta cultura dell’operaismo si è formata lì dentro. Quindi, quando si dice postfordismo si vuole indicare un’epoca storica che è venuta dopo. Questo «dopo» si è verificato soprattutto nei paesi occidentali, mentre il vecchio fordismo sta impiantandosi pesantemente proprio nei paesi a basso costo del lavoro». Un discorso interessante da aprire sarebbe quanto il post fordismo di alcuni pochi paesi su scala globale si basa sul nuovo fordismo dell’industrializzazione della maggioranza degli altri. E, ancora, se e quanto, il fordismo sia destinato al tramonto progressivo anche in questi ultimi.

[6] Guardiamo ancora al caso italiano esemplare della Benetton per come ce lo descrive  Perazza. Riguardo al rapporto tra produzione e commercializzazione scrive infatti: «Non è solo grazie  al ricorso alla subfornitura (il primo degli elementi strutturali del post fordismo) che la Benetton è riuscita a imporsi: altro punto cardine per il suo successo è il rovesciamento del rapporto tra produzione e commercializzazione. Con la realizzazione di negozi monomarca che sono costantemente in contatto, attraverso una rete informatica, con villa Minelli, dove inviano gli ordini, l’azienda trevigiana ha potuto infatti, avere una percezione in tempo reale degli orientamenti del mercato. Le è stato così possibile far conseguire la produzione alla domanda, riuscendo ad ottenere una produzione praticamente sul venduto, che le ha permesso di risparmiare sui costi di magazzino, anche se in realtà la Benetton preferisce mantenere delle scorte di merce, sia pur molto limitate, per rispondere molto prontamente a eventuali richieste improvvise della clientela».

[7] Rispetto al tema del reddito di cittadinanza si può consigliare per approfondire Reddito per tutti, edito da Derive Approdi nel 2009.

[8] Lo stesso Fumagalli nel suo articolo tiene a precisare da un lato, nella Tesi 3 che «Il reddito di cittadinanza è una misura di politica economica riformistica e radicale e non di modificazione strutturale dell’organizzazione capitalistica intervenendo sul lato della distribuzione e non sul lato del conflitto capitale – lavoro» e dall’altro, nella Tesi 4, che «Il reddito di cittadinanza è una proposta di politica economica parziale, non esaustiva e non in contraddizione con altre proposte di riformismo radicale (quali riduzione di orario di lavoro, sviluppo dell’autorganizzazione sociale, attivazione di lavori concreti, ecc.. Il punto non è quindi intendere questa proposta come una rivendicazione già socialista, proprio perché di per sé non intacca la proprietà privata degli strumenti di produzione, ma senz’altro però come un elemento da introdurre nel catalogo delle rivendicazioni transitorie nella lotta anticapitalistica odierna.

[9] Tornano alla mente anche le parole di Foucault in Volontà di sapere quando scrive: «È la vita, molto più del diritto, che è diventata la posta in gioco delle lotte politiche, anche se queste si formulano attraverso affermazioni di diritto. Il «diritto» alla vita, al corpo, alla salute, alla felicità, alla soddisfazione dei bisogni, il «diritto» a ritrovare, al di là di tutte le oppressioni o alienazioni, quel che si è e tutto quel che si può essere, questo «diritto» così incomprensibile per il sistema giuridico classico, è stato la replica politica a tutte queste nuove procedure di potere che, a loro volta, non partecipano del diritto tradizionale della sovranità».