IL MOVIMENTO, IL SUD, L'EURO
Rino Malinconico
Il presente testo recava il seguente sottotitolo: "A proposito dell’incontro di Bologna dell’undici maggio", in quanto scritto per la «Assemblea per un movimento politico anticapitalista e libertario», tenutasi l’11 Maggio 2013 a Bologna, per maggiori info:
http://perunmovimentoanticapitalista.wordpress.com/ [N.d.R.]
L’appello, che nelle sue linee generali
condivido, è alla costruzione di un movimento anticapitalista e
libertario. Ritengo, tuttavia, che il termine “movimento” vada
ulteriormente spiegato. Poiché non si tratta di un movimento di lotta su
una questione specifica, sia pur importante e capace di alludere a
tematiche di carattere più generale, ma di un movimento, per l’appunto,
“anticapitalista e libertario”, che si presenta, cioè, col proposito di
una trasformazione complessiva della società, è evidente che il
riferimento è a una soggettività politica vera e propria.
Può anche andar bene, ma a condizione
che si aggiunga subito, senza possibilità di equivoci, che tale
soggettività politica non è immediatamente all’ordine del giorno.
Appartiene senz’altro al novero delle possibilità, e anzi è auspicabile
che i percorsi che metteremo in campo sfocino, ad un certo momento, in
una identità unitaria, in una soggettività esplicitamente rivendicata e
in una formazione politica complessiva; ma non è una questione
dell’oggi. Se questo aspetto non viene chiarito con la necessaria
nettezza, si rischia di ingenerare, da un lato, confusione, e,
dall’altro, soprattutto, di saltare a piè pari l’effettivo stato delle
cose che ci sta di fronte.
Si farebbe confusione perché diversi
firmatari, anzi la maggioranza di essi, sono già inseriti, più o meno
convintamente, in organizzazione propriamente politiche. Avrebbe poco
senso, per un compagno o una compagna della Rete dei comunisti, di
Rifondazione comunista o di Sinistra critica duplicare la propria
identità politica esattamente nei suoi termini generali. Meno che mai
avrebbe senso chiedere una rinuncia
ex-abrupto alla collocazione
di provenienza, a pro di una nuova, indistinta, e tutta da sperimentare,
soggettività politica organizzata.
Ma la precipitazione immediata in
movimento politico sarebbe negativa soprattutto perché sfuggirebbe alla
principale difficoltà che noi tutti, testardi sognatori dell’alternativa
e persone non riconciliate col capitalismo, abbiamo effettivamente di
fronte. Senza tirarla troppo per le lunghe, la questione, per me, si
pone nel seguente modo: mentre è possibile, e ragionevole, rivendicare
la maturità storica del comunismo, non ci è consentito scambiare i
desideri per realtà. Il fatto è che non esistono per nulla le dinamiche
sociali, di lotta e di movimento, che possano rendere realistica, oggi,
la prospettiva del comunismo. Di più: i comunisti, e gli anticapitalisti
in genere, non possiedono più, almeno in Italia, un insediamento sociale
degno di questo nome (e per il resto del mondo, eviterei comunque le
apologie a-critiche). Oggi come oggi, i comunisti non attivano
riconoscimento e connessione sentimentale neppure nei settori più
drammaticamente colpiti dalla crisi, più precari e più poveri. Siamo
tutti ridotti, come militanti, ad iniziative poco più che
autoreferenziali.
In altre parole, porsi oggi il tema
della “rappresentanza”, mi pare assolutamente velleitario. Non c’è un
retroterra che si muove nella nostra stessa direzione di marcia, per cui
noi, come parte più consapevole, saremmo urgentemente chiamati a “fare
sintesi”, a dare voce compiuta alla dinamica spontanea della lotta di
classe. Non c’è questo scenario. La lotta di classe prima ancora che
“rappresentata”, va propriamente costruita e ri-costruita. Ma se io dico
“movimento politico”, tenderò ad assumere, ne sia o no consapevole,
proprio il problema della rappresentanza come immediatamente attuale. Se
invece dico semplicemente, come mi permetterei di suggerire, “collettivi
di lavoro politico e culturale”, o ancor più direttamente “aggregazione
di compagni e compagne”, eviterò, forse, una tale torsione, e potrò più
limpidamente definirmi come una “struttura di servizio”, aperta e agile,
finalizzata alla costruzione e ri-costruzione della lotta di classe.
Diverremmo così un ambito che, non per finta ma lealmente, eviterebbe di
chiedere strappi rispetto alle organizzazioni di provenienza; e nel
quale chi non sia già associato a qualcos’altro potrebbe svolgere,
davvero e non per finta, un ruolo attivo, muovendosi senza problemi
assieme ad altri che magari, diversamente da lui, continueranno a
partecipare anche ad altri luoghi di discussione e di impegno.
Ciò che propongo sul piano generale, lo
propongo a maggior ragione sul piano della realtà territoriale nella
quale agisco, che è Napoli, la Campania, il Sud. Ritengo, infatti, che
solo assumendo con molta decisione la logica della costruzione e non
della rappresentanza, un collettivo di compagne e compagni della
Campania potrebbe significativamente contribuire al conflitto possibile
dell’attuale passaggio di fase, nel quale continua la crisi economica, e
contemporaneamente sembrano affacciarsi anche talune dinamiche
capitalisticamente indirizzate al suo superamento. Il punto è che
proprio su Napoli, sulla Campania e sul Sud si scarica con violenza
l’esito finale dei processi economici e politici di crisi e governo
della crisi. Più in generale, il groviglio di contraddizioni che
percorrere il Mezzogiorno d’Italia pone con maggiore urgenza, e forse
con maggiore intelligibilità, il tema decisivo del superamento del
capitalismo.
Occorre comprendere, in sostanza, come
il Sud sia un effettivo crocevia della modernità capitalistica, la quale
prevede interi territori specificamente vocati a “lavorare il degrado” e
a portare a compimento la pratica della marcescenza sociale connaturata
al capitalismo contemporaneo. Degrado e marcescenza sono aspetti normali
dello sviluppo capitalistico nell’età della totalizzazione del rapporto
di capitale; e però nel corso di questa crisi economica sono divenuti
ancora più giganteschi. La gran parte del Sud, per la sua storia e per
le relazioni sociali che lo hanno caratterizzato, si è presentato quasi
naturalmente come il luogo privilegiato per assolvere al compito di polo
del degrado e della marcescenza. Il senso comune che vuole la crisi
mordere maggiormente le città e le campagne meridionali, è senz’altro
vero. Ma essa morde esattamente perché attiva, in questi nostri
territori, lo spreco assoluto degli esseri umani, consegnando alla
“lavorazione finale” i detriti di uno sviluppo che è alle prese,
appunto, con la crisi.
Il fatto è che morderà nel Sud anche la
possibile uscita capitalistica dalla crisi, oggi largamente incerta ed
embrionale, ma pure capace di muovere qualche primo passo. Del resto una
crisi, che è sempre la chiusura di un percorso, comporta anche,
contemporaneamente, l’apertura di un altro. La stessa parola “crisi”
etimologicamente vuol dire “nuovo inizio”; ed è così anche per la crisi
economica. Solo che il chiudersi di un ciclo di sviluppo, e analogamente
il chiudersi di un ciclo di crisi, producono sempre un accumulo
eccezionale di scorie e di rifiuti. Il destino del Sud in ambito
capitalistico appare, perciò, segnato da tutte e due i lati: è
penalizzato dalla crisi; sarà penalizzato ugualmente da una eventuale
ripresa capitalistica. In entrambi i casi esso svolgerà, dal punto di
vista capitalistico, esattamente la funzione di luogo delle scorie e
dell’accumulo di rifiuti. E mi riferisco ai rifiuti in tutti i sensi:
non solo alla spazzatura, ma anche alle produzioni in via di dismissione
e alle strutture di circolazione dei valori in via di abbandono.
Nel Mezzogiorno d’Italia è così
visivamente all’opera il risvolto di guasto sociale della crisi
economica. Ma sarà all’opera anche, e non è un paradosso, il risvolto
drammatico di superamento capitalistico della crisi economica, la quale
già delinea, se non un vero e proprio avvio di cammino, certamente i
suoi tratti caratterizzanti sul piano della composizione tecnica del
lavoro e della struttura sociale che la regge. Si va nella direzione,
soprattutto, di una organizzazione più precaria dell’attività di lavoro,
intermittente e meno onerosa per gli anticipi di capitale; e si
struttura attorno all’insieme del lavoro immediato un welfare ridotto
all’essenziale, considerato esso stesso, al di là dei titoli giuridici
di proprietà, null’altro che un sistema di aziende, con i cittadini
ridotti ad utenti e finanche a autentici clienti.
Da questo punto di vista, hanno
perfettamente ragione coloro che, crisi o non crisi, paventano un’Italia
sempre più simile a Napoli, con i servizi a scartamento ridotto, il
lavoro con minori garanzie e una massa considerevole di persone in
eccedenza. A tale prospettiva, Napoli e il Sud aggiungeranno il
particolare abnorme delle lavorazioni costitutivamente “povere” di
contenuti tecnologici e un più gigantesco decadimento delle
infrastrutture e della coesione sociale. Insomma, la crisi ha prodotto e
produce sofferenze; ma l’uscita dalla crisi, beninteso l’uscita
capitalistica dalla crisi, non produrrà affatto il paese di bengodi.
Se il quadro qui delineato possiede una
qualche veridicità, ne consegue che un collettivo di compagne e compagni
impegnato a costruire e a ri-costruire qui nel Sud una pratica di lotta,
sarà chiamato a svolgere il discorso sulla crisi in modo molto concreto,
tesaurizzando dal punto di vista proletario le ferite che, nel corpo
sociale, il capitalismo della crisi, e del superamento (capitalistico)
della crisi, incessantemente producono.
Se l’andamento del capitale è nella
direzione della precarietà, non solo del lavoro ma proprio dell’esistere
degli esseri umani, il principale fronte di resistenza cui dovremmo
contribuire concerne esattamente il “valore del vivere” delle persone.
Non il valore metafisico e morale, ma propriamente il “valore” espresso
in termini capitalistici. Penso, in una parola, che occorrerebbe
concentrare la spinta al conflitto sociale esattamente sull’obiettivo
del “salario reale”, e cioè sulla richiesta che vengano comunque
garantiti, a tutte e a tutti, i principali diritti umani: al nutrimento,
alla casa, alla mobilità, all’istruzione, alla salute. Si tratta di una
richiesta di principio e rivendicativa ad un tempo, da tradurre in una
pluralità di forme, indipendentemente dal fatto che ci sia o non ci sia
la possibilità di farla valere nelle condizioni di un posto di lavoro
effettivo. Io ritengo che proprio la “difesa delle persone”, entro la
quale va ricompresa la stessa tutela del lavoro e dei lavoratori nelle
singole situazioni di contrasto ai licenziamenti, rappresenti oggi una
chiave di volta straordinariamente feconda, sia per collegare le molte
soggettività sociali disperse e frantumate, e sia per unire le tante
associazioni impegnate in forma plurime e parziali - politiche,
sindacali e di volontariato - sul versante complessivo dei diritti.
In secondo luogo, se la prospettiva del
capitalismo, crisi o non crisi, va verso il decadimento delle
infrastrutture e dei servizi, un decisivo terreno di scontro è già
obiettivamente alimentato dall’insieme delle pratiche ambientaliste, di
salvaguardia del territorio e di recupero delle condizioni sociali di
vivibilità umana. Si tratta di rivendicazioni che dovremmo sapere
dislocare sull’obiettivo unitario dei “presidi di civiltà”: una scuola,
una ferrovia locale, una pista ciclabile, nel parco naturale, una
estetica dell’arredo urbano che rompa con la pratica della
cartellonistica volgare e della cementificazione selvaggia, tutto ciò
non solo si coniuga naturalmente con la finalità di promuovere una
“nuova cittadinanza umana” delle persone, ma contende col capitalismo le
modalità di ridefinizione degli assetti sociali, sia nella crisi che
oltre la crisi. Sono, beninteso, obiettivi validi a tutte le latitudini.
Nel Sud, però, essi si pongono con urgenze immediate, in quanto chiamano
in causa direttamente il vivere quotidiano delle persone e le loro
residue chance di futuro.
Un aspetto importante, per certi versi
l’aspetto politicamente più importante ai fini dell’alternativa, è che
la pratica di lotta sulla “cittadinanza umana” e i “presidi di civiltà”
chiamerà in causa certamente la trasformazione di ciò che sta intorno a
noi, ma anche la nostra medesima trasformazione, sfidandoci ad essere
soggetti sociali portatori di una visione non particolaristica, bensì
generale, che riguarda l’intera società. Siamo distanti, perciò, le
proverbiali mille miglia dalla logica della richiesta di più
stanziamenti allo Stato centrale. Si tratta piuttosto di costruire
dinamiche di partecipazione che rivendichino percorsi diversi proprio a
partire dalle risorse umane e materiali che già esistono nel Sud. E che,
per far questo, chiamano il proletariato, in tutta la varietà della sua
composizione, a parlare in termini complessivi, facendo valere un
orizzonte non di interessi settoriali, ma propriamente di liberazione di
tutte e tutti.
Peraltro, la partecipazione ampia ai
processi complessivi di cambiamento, in direzione di una vera e propria
mobilitazione generale per una alternativa di società, potrebbe
strappare non solo risultati parziali, ma anche incidere più in
profondità sugli stessi assetti di potere. Le classi dominanti sono
certamente forti; e però sono oggi anche particolarmente “esposte”, alle
prese con decisioni molto delicate. Ne cito solo una tra le tante
possibili (l’assetto costituzionale degli Stati, l’innovazione di
prodotto in direzione della robotica applicata, la ridefinizione dei
mercati internazionali, eccetera) perché mi pare foriera di molteplici
confusioni anche sul nostro versante. Mi riferisco al discorso sulla
tenuta della moneta unica europea.
L’idea che la borghesia della finanza e
dell’industria sia omogeneamente interessata al mantenimento dell’euro,
e che di converso le classi popolari dovrebbero guardare con una qualche
simpatia alla rottura della moneta unica, mi sembra priva di effettiva
sostanza. La questione decisiva è che esistono, all’interno delle classi
dominanti europee, almeno due linee, e forse di più, a proposito
dell’euro. E ciò per la buona ragione che l’euro è stato finora
senz’altro “gli euri”, e cioè una moneta a valori diversi nei diversi
sistemi-paese che l’hanno adottata. L’euro, infatti, come tutte le
monete nazionali, vive in molti luoghi. Vive certamente nel portafoglio
di ciascuno di noi, nella forma di biglietti e spiccioli. Ma vive anche,
e soprattutto, in altri particolari contesti: nei tassi di interesse sui
depositi e sulle obbligazioni, nelle percentuali dei dividendi azionari,
nei differenziali (lo spread) sui titoli di Stato dei diversi paesi
dell’Unione europea. Con la costituzione della rappresentazione formale
unica, cioè l’euro cartamoneta, i governi europei fecero nel 2001 una
consapevole forzatura: davano agli “euri” l’unica veste formale di
“euro”. L’obiettivo era, appunto, di “forzare”, in direzione della
costituzione di un vero e proprio Stato europeo.
Oggi, per le dinamiche innescate dalla
crisi, i governi, e le classi dominanti d’Europa sono chiamati
bruscamente a una verifica di quella scelta. C’è chi suggerisce di
insistere ancora nella forzatura, c’è chi propone una doppia velocità
interna all’euro, c’è chi prospetta, anche esplicitamente, un ritorno
alle monete nazionali o la costituzione di monete di area. Tra queste
possibili soluzioni, c’è n’è forse una più favorevole al proletariato e
all’alternativa di società? Io non credo. Sono tutte contemporaneamente
favorevoli e sfavorevoli al proletariato. Per come la vedo io, dovremmo
evitare di impegolarci in una questione di tal tipo, e far valere fino
in fondo la nostra peculiare idea di moneta: non come una delle forme,
il denaro, che, accanto alla merce, ai macchinari e al lavoro, esprime
il capitale come “cosa”; ma esattamente in quanto puro intermediario per
ciò che davvero ci sta a cuore, ovvero il valore (capitalistico)
dell’esistenza di tutti e di ciascuno.
In altre parole, noi agiamo certamente
nel tempo del capitalismo, ma dovremmo essere anche costantemente
proiettati oltre il capitalismo e il suo modo di essere e di fare.
L’azione politica non può significare, per noi, inseguire il dibattito
delle classi dominanti sulle modalità di organizzazione del loro
dominio, bensì rivendicare la visione “altra” e autonoma delle classi
popolari, individuando il terreno di contesa anche come logiche
alternative, lessici alternativi, impianti di ragionamento alternativi.
La credibilità di una proposta politica non risiede nella capacità di
dare una risposta “più intelligente” alle domande che si pone la cultura
dominante; consiste invece esattamente nel rovesciare quelle domande,
facendo valere l’urgenza dei corpi, degli effetti, della cultura, e
della natura, come la nostra esclusiva realtà di riferimento, come
l’universo negato che entro il rapporto di capitale non trova alcuna
libera e vitale collocazione.
So bene che il discorso è molto più
complesso di come ho potuto qui sintetizzarlo. Ma è appunto
nell’attività che si sciolgono i nodi della complessità. E a tal fine
ritengo che davvero possa essere d’aiuto un movimento dichiaratamente
anti-capitalista e libertario; che però si caratterizzi ovunque per
l’agire diretto, e per un porsi come struttura agile al servizio di una
pratica sociale, tutta da ricostruire, di critica e di lotta.
MAGGIO 2013