L’ITALIA DALLE FOGNE
Giulia Inverardi
Sabato sera, a Rovato,
provincia bresciana, c'era
Ci sono andata perché,
superficialmente in un sabato mattina fra caffè e «bresciaonline», hanno
attirato la mia attenzione i nomi dei «relatori» del dibattito: Giuliano
Giuliani, Lino Aldrovandi, Rita e Giovanni Cucchi.
Questi nomi mi hanno
messo a disagio: benché non avessi un’idea definita delle tre vicende,
alla lettura di questi nomi subito qualcosa, di umido e forzato, mi ha
impugnata. Qualcosa pronto a tirarmi giù, fra flash facili, pronti:
«erano dei drogati», «se lo sono meritata/cercata», «se erano in quella
situazione, vuol dire che qualcosa di male facevano», «in certi casi, le
forze armate sono obbligate a reagire».
Non è che pensassi
questo, no; è chiaro. Non avendo però fatti e informazioni su cui basare
la mia idea, nella confusione umida e pesante, queste frasi continuavano
a funzionare: un muro, morbido discreto, per mesi mesi, anni e anni.
Il senso di umido e
concordato, alla lettura di quei nomi, mi ha fatto ribrezzo, come mi
sentissi sulla pelle una mano viscida. Mi sono sentita accontentata.
E infondo allora, che
differenza c’è, fra il non pensarli pienamente, no, questi assurdi
luoghi comuni sulle morti di Stefano Cucchi, Federico Aldrovandi, Carlo
Giuliani, e il non pensarci affatto?
Carlo Giuliani è morto,
è stato ucciso, il 20 luglio 2001. Quasi dieci anni fa. E per dieci
anni, che ho fatto? Cosa ho pensato, cosa non ho pensato di questa
storia? Cosa non ho pensato per DIECI ANNI della mia vita, della sua
vita mancata?
E voi?
Ma torno a sabato.
Il dibattito, mentre
all’esterno piove e la festa è allegra, ma moderata, si tiene in un
piccolo capannone, poco segnalato; infatti, quando mi siedo, hanno già
iniziato a parlare, e io ho perso tempo a vagare fra bei libri a due
euro.
È il papà di Stefano
Cucchi, che legge già. Chiede scusa, appunto per quel foglio che lo
aiuta. Legge, con un sensibile accento romano, ma è come se stesse
parlando di questo figlio, a chiunque e a ciascuno in particolare; è
come se fosse ad un tavolo di osteria, solo con me, a confidarmi di suo
figlio.
Non sembra imbarazzato.
Non nasconde e non celebra: dice che era un ragazzo sensibile e un po’
chiuso, Stefano, che sorrideva sempre, che alla morte del nonno cui era
legatissimo ha addirittura cambiato squadra di calcio (dalla Roma, alla
Lazio: inconcepibile!, e il padre di Stefano sorride). Non cela i
problemi del figlio con la droga, ma sembra orgoglioso, quando ricorda
come fu lui stesso a prendere la decisione di disintossicarsi in
comunità. Parla di piccole cose, dell’automobile ordinata e mai arrivata
(sarà consegnata il giorno dopo la sua morte), del cane, della casa in
cui viveva da solo, del fatto che era «amico di tutti», e sin da bambino
era gentile con quelli più piccoli.
Così, in un padiglione
sterile, dopo pochi minuti, questo fatto di cui non avevo pensiero, «La
morte di Stefano Cucchi», non è più una parola sventrata di senso: non è
più il titolone sensazionalistico da telegiornale per cena; non è più la
strumentalizzazione dei politici della Chiesa di
«chiunquevogliaparlaredi»; non è più il suo lento scomparire dalle
nostre cene di occhi unti sui morti che scorrono, sventrati, svuotati;
non è più un unidimensionale solletico, che non prova neanche a entrarci
in testa; non è più ciò che è successo a chissà chi altro, chissà dove,
quando, forse, mai. Scompaiono tutti i «se» e i «ma».
La gente qua accanto ha
subito negli occhi la com-passione, e già la rabbia. Perché dopo il
primo passo, dopo che si è sgombrato il campo dal clamore e dalla
confusione programmata, Stefano è in tutti gli occhi quello che era, un
ragazzo, solo un ragazzo.
Allora, tutti qui cominciano già a capire che qualcosa in questa storia
è andato storto, che qualcosa di ingiusto e grave è successo, e la
gravità è al cubo, perché poi si è cercato di confondere tutto nel
clamore, e per farlo si è infierito sulla persona di Stefano Cucchi,
ancora.
Da subito, è un padre
con un figlio ammazzato che parla, un padre quasi prototipico, nei suoi
gesti, nel suo aspetto. E lui, il figlio, non è più estromesso alla
nostra vicinanza dalla parola «drogato»: è un ragazzo che sicuramente
era tormentato, lo posso sapere io che pensava?, da cosa era tormentato?
si sentiva una merda, come ci sentiamo, quasi quotidianamente noi tutti,
under 30, o voi under 20, ma under 100 forse, chiunque anche solo
socchiuda, ogni tanto, gli occhi?
L’umanità di questo
«sbandato», anoressico, che ha detenuto un’arma e ha forzato un posto di
blocco, è uno schiaffo, e il fatto che potesse essere tutto ciò insieme,
sbandato anoressico drogato, tutto ciò e magari di più, fa a tutti, nel
padiglione stregato nel silenzio sgranato, solo una tremenda
com-passione, fa sentire più male, perché era di più il suo male. Perché
sentisse male, ci si chiede, e ci si sente stupidi, perché è tutto
uguale il nostro sentire male. Eppure, per dare nobiltà al nostro
dolore, dobbiamo espellere proprio chi soffre di più dalla nobiltà del
dolore, dobbiamo elevare il nostro dolore a discapito di quello altrui,
infierendo su quello altrui.
Tutti qua, per un
attimo, perdiamo la cognizione del tempo, del luogo, e persino delle
parole; non si sentono più le frasi, ma solo un fluire di dolore, tra
chi ha vissuto qualcosa di assurdamente ingiusto, e chi è qua seduto
composto dietro i muri. E cominciano a creparsi, quei muri, quei flash,
quella tranquillità compita. Cominciamo tutti a non riuscirci più a
stare, qua dietro, sudiamo, scricchiolano le nostre sedie sotto la
nostra irrequietezza, ora non ci sono mani viscide a trattenerci, e con
foga aumentata ora vogliamo sapere, sapere tutto, altro e oltre che «era
solo un drogato» e «la polizia fa sempre del suo meglio, sempre il
nostro bene».
Vogliamo sapere ciò che
sta oltre l’ideale e l’imposto, il generico generalistico: vogliamo
sapere il reale, il particolare. Vogliamo sapere di quel ragazzo, di
quelle persone, di quel processo. Vogliamo sapere il reale.
La voce del padre di
Stefano quasi piange, fa fatica ad andare avanti. Conclude, e mi
dispiace non aver sentito bene cos’abbia detto alla fine. Lascia la
parola alla moglie.
La signora Rita si
concentra sulla descrizione dei fatti. È essenziale.
Racconta di come quella
sera (il 15 ottobre 2009), Stefano avesse cenato con loro, e fosse poi
uscito, con il cane. Quando suonano al citofono, la madre è già in
ansia, perché sa che il figlio ha le chiavi e non avrebbe motivo di
suonare. Infatti, Stefano sale seguito da tre carabinieri in borghese, e
due in divisa. Perquisiscono camera di Stefano e, ottenuta dai genitori
la piena collaborazione, procedono a perquisire il resto della casa,
tutta l’abitazione, e persino lo studio dove il ragazzo lavora, con il
padre, come geometra. I militari sono rassicuranti, con la famiglia:
dicono che Stefano aveva della droga, non molta, ma superiore alla
quantità consentita per uso personale, e quindi devono fermarlo…ma
sicuramente, già il giorno dopo sarà fuori.
Invece, è l’ultima
volta che Stefano vede la madre, e la madre Stefano.
Da questo punto del
racconto in poi, di nuovo, non sono parole, ma un incubo concreto:
talmente inimmaginabile da parere inventato, che può solo essere vero.
Da quella sera, i genitori cercheranno inutilmente di vedere il figlio
(avete in mente qualcosa di più ingiusto?): lo vedranno, comunque
dovendo lottare, morto.
In verità a vedere
Stefano vivo, ci riesce, per poco, il padre: lo vede in tribunale,
quando viene convalidato il fermo, a causa dei precedenti di Stefano. Il
ragazzo ha il volto gonfio, ha lividi evidenti, ma è attorniato da
carabinieri e quando si trova di fronte il padre, gli dice solo:
«Fatti abbracciare».
È assurdo tutto, già da
quella mattina: la richiesta di Stefano di essere difeso dal legale
della famiglia, non si sa come, non ha riscontro, tanto che gli viene
assegnato un avvocato d’ufficio; il giudice, di fronte alle precarie
condizioni fisiche del ragazzo, dispone già da quest’udienza una visita
medica, che però non verrà mai effettuata. Da Tor Sapienza, però,
Stefano è trasferito al Regina Coeli, e vi arriva con un certificato
medico: il referto, però, non richiede ricovero. Stefano continua a
stare male, ma inspiegabilmente rifiuta sia il ricovero, sia di
mangiare. Solo il giorno successivo, sarà portato al pronto soccorso, al
padiglione detenuti del Sandro Pertini.
Da questo momento, è il
buio, più ancora che per le ore precedenti. Stefano è inghiottito, non
si sa in che mani, non si sa perché; soprattutto, non si sa come stia,
cosa pensi, cosa voglia.
La madre racconta di
come instancabilmente, senza sosta, lei stessa e il marito abbiano
cercato di vedere il figlio. Il personale del carcere e dell’ospedale, a
cui si rivolgono, dà loro indicazioni nebulose: non sottolineano che
devono recarsi nel padiglione
detenuti dell’ospedale (ciò fa perdere molto tempo nella ricerca);
la sera del ricovero, il personale non dà loro alcuna notizia sullo
stato di salute del figlio, affermando che
«questo è un carcere, non un
ospedale», e intimando di tornare il giorno successivo; addirittura,
il giorno successivo, la sovraintendente afferma che non possono vedere
né Stefano né i medici, perché bisogna attendere il permesso del Gip…ma
non li informa che sta a loro chiedere tale permesso; viene comunicato
solo che «Stefano è tranquillo».
Quando il permesso
arriva, la madre è a casa. Ricorda che era con una nipotina, che un
carabiniere ha suonato, è entrato,
«Signora, deve rispondere ad alcune domande»,
«va bene», s’è seduto, ha
letto una serie di dati, lei ha solo annuito, non erano vere domande,
«suo figlio è morto».
Senza indugio, la
signora Rita racconta; racconta di come pure per vederlo morto, hanno
dovuto chiedere un permesso. E quello che hanno visto è stato un orrore:
il figlio, già magro, ridotto a 37 kg, un occhio quasi fuori sede, la
mandibola spaccata, il viso come bruciato. Il corpo, lo vedranno solo
dopo.
All’obitorio, intanto,
altre beffe piovono sui genitori: chiedono come è morto, Stefano, e la
dottoressa presente, quasi disgustata, domanda:
«Ma non potevate chiederlo prima
ai medici?!», come se non fossero sei giorni che non fanno che
quello; ancora, gli si dice che non si sa bene perché sia morto, che
«si è spento», che non sanno,
perché «aveva sempre un lenzuolo
sulla faccia…».
La voce della mamma di
Stefano non trema nemmeno, mentre qua nel padiglione trema anche la
terra sotto i piedi e nelle orecchie di tutti, e non è proprio questione
di lacrime agli occhi, ma qualcosa di molto più giù, che non potrà
trovare sfogo facile nelle lacrime, né nelle parole.
Quella donna, lì,
davanti a me, non trema e ha una lucidità accecante, quando dice:
«Mio figlio non si è spento, silenziosamente, per la droga, in un parco.
Mio figlio è entrato in carcere in buone condizioni fisiche, e me
l’hanno restituito morto, massacrato di botte; senza permettermi mai di
vederlo, di sapere, di parlargli, senza permettere a lui…; io l’ho
lasciato ai carabinieri, nelle mani dei carabinieri…mio figlio non si è
spento in un parco, ma è stato massacrato, tra quattro mura dello
Stato».
Quando finisce di
parlare, tutti applaudono, è un battere di mani caldo, che fa salire,
insieme alla vicinanza umana a questo uomo e questa donna e questo
ragazzo morto, quel senso di rabbia stretta ad angosciare, e che
graffia. La gente accanto a me è allucinata, si guarda con aria stupida,
innocente e colpevole insieme.
Il padre di Federico
Aldrovandi inizia però, quasi subito, a leggere. Anche lui ha un foglio
tra le mani, e si scusa anche lui: dice che non vuole parlare di suo
figlio, che chiunque può leggere di lui su internet; dice che vuole solo
raccontare i fatti, e che il foglio gli serve proprio per attenersi a
quelli, perché se dovesse andare a ruota libera, non smetterebbe di
raccontare mai.
Il signor Aldrovandi è
più sintetico dei genitori di Cucchi, e la vicenda stessa è più
immediata, meno tortuosa. Non per questo, meno assurda: l’assurdità
deflagra e raggiunge le estremità dell’immaginabile, tutto in quei
minuti in cui Federico sta rientrando a casa.
Federico «sbatteva
dappertutto», come riferisce la donna che chiama il 113, la notte del 25
settembre 2005? Non è certo, perché l’ombra del depistaggio offusca da
subito le perentorie dichiarazioni dei quattro imputati. Sui tabulati,
gli orari sono stati vistosamente manomessi, e l’«intervento» degli
imputati sarebbe non la conseguenza, ma la causa delle telefonate al
113. Telefonate che arrivano a raffica, in quella via prossima
all’Ippodromo di Ferrara, benché fosse una notte tranquilla.
In quei minuti,
comunque, Federico muore. Muore solo, faccia a terra, in una pozza di
sangue, il viso tempestato da lividi e incrostazioni di sangue,
ammanettato, con lo scroto schiacciato; due manganelli vengono spezzati
sul suo corpo; il suo corpo è segnato, alla fine dell’«incontro», da 54
lesioni; muore perché le persone che lo «fermano» volevano
«fargli sentire la loro presenza
con una mano sulla schiena» (così riferiranno), e gliel’anno fatta
sentire tanto forte, da levargli l’aria e da fargli fermare il cuore.
Era drogato? Sì,
diranno poi le analisi. Era anche ubriaco. Inizialmente, si dice, è
morto proprio per questo: era un tossico, un alcolizzato, un «povero
drogato», si dirà, un po’ in tutte le sedi. Come per Stefano Cucchi.
Poi però risulterà che
la quantità di stupefacenti che aveva in corpo era minima, ben lontana
dalla dose letale, e che il tipo di stupefacenti assunti avrebbe dato
l’effetto contrario a quello descritto (esagitazione, mancato controllo
del corpo, e addirittura arresto cardio-respiratorio); il tasso
alcolico, addirittura, era inferiore al limite del Codice della Strada.
Cioè, una birra.
Dunque, alcool e
stupefacenti non hanno ucciso Federico. La madre dirà che ne prendeva
solo ogni tanto, di pasticche, solo qualche sabato, che era un ragazzo
sano, sportivo; sapeva che le pasticche facevano male, ma limitava tutto
allo «sballo del sabato sera».
In ogni caso, perché
non si parla d’altro? Perché Federico sembra l’imputato, e non vittima,
del suo stesso assassinio? Soprattutto, perché tutto svia, scivola dalla
domanda essenziale? Chi l’ha ucciso? Perché?
Federico Aldrovandi è
stato ucciso da quattro agenti di polizia, tra cui una donna. Perché?
Perché, se davvero
Federico era esagitato per le pasticche, non è stata chiamata subito
un’ambulanza? Perché un ragazzo disarmato è stato violentemente
atterrato e picchiato a sangue, da quattro poliziotti? Perché il suo
corpo è rimasto sulla strada dalle 6 del mattino, alle 11, e i familiari
sono stati avvisati solo a quell’ora, e non hanno potuto vederlo che a
quell’ora? Perché non è stata tentata alcuna rianimazione?
Il padre di Federico è
vigile urbano. Tiene a sottolineare che nelle forze dell’ordine italiane
ci sono migliaia di bravi ragazzi, che si spendono generosamente per
fare «del bene», per proteggere. Eppure, si chiede perché gli è stato
massacrato un figlio a manganellate, un figlio di 18 anni, che tornava a
casa a piedi, e che non stava commettendo alcun reato; era solo; era
anche incensurato. E si chiede perché si è cercato di depistare questo
pestaggio, tanto che è stato istituito un processo apposito, denominato
«Adrovandi bis».
Pone all’aria queste
domande in modo ancora pacato, lucido; incespica qualche volta nelle
parole, in quelle che pronuncia più forti, e qualche volta anche la sua
di voce trema, è quasi una supplica: una debolezza disarmante, stretta
però a una determinazione inconcepibile. Inconcepibile, perché cosa
fareste voi? Non vi annientereste da soli?
Ma Lino Aldrovandi si
arrabbia, quando evoca le menzogne dei quattro poliziotti, l’inganno, e
non solo, anche qui, anche la beffa: sua moglie è stata citata per
calunnia proprio da tre dei poliziotti, e dopo la richiesta di
archiviazione del Giudice, essi addirittura si sono avvalsi del rito
dell’opposizione, rinnovando la denuncia; egualmente, 21 persone che sul
blog della famiglia Aldrovandi hanno mostrato solidarietà, vengono
citate per diffamazione. La mamma di Federico, in particolare, è
querelata per aver parlato dei poliziotti in questione come di
«delinquenti». E il papà di Federico allora diventa una valanga, mentre
legge (riporto le sue parole dal blog, perché sono molto vicine a quelle
che ha pronunciato in quel sabato sera):
Come dovrei definirla sig. Pontani Enzo per quello che ha fatto quella
mattina a mio figlio, per non incorrere in una querela? Come dovrei
definirla sig. Pollastri Luca per quello che ha fatto quella mattina a
mio figlio, per non incorrere in una querela? Come dovrei definirla
sig.ra Segatto Monica per quello che ha fatto quella mattina a mio
figlio, per non incorrere in una querela? Come dovrei definirla sig.
Forlani Paolo per quello che ha fatto quella mattina a mio figlio, per
non incorrere in una querela? Nessun problema, ci ha già pensato un
Giudice al di sopra delle parti a descrivere perfettamente chi siete e
non abbiamo bisogno insieme a chi ci è vicino (30 querelati), per il
momento, di dire altro. Purtroppo, per il momento, sono costretto a
pagarvi anche lo stipendio e di conseguenza le vostre querele di fronte
alla morte, ma non sarà all’infinito, anche se cautelativamente vi avrei
visto a casa dal lavoro alla luce di orrori ed errori emersi
palesemente. […] Orbene, io Lino Aldrovandi mi chiedo cosa devo pensare
e che terminologie utilizzare nei confronti di questi 4 individui,
quando un Giudice in uno dei […] passaggi nella sentenza del 6 luglio
2009, arriva ad affermare che «l’aspetto che colpisce nella deposizione
del dr. Marino (condannato anche questo signore, della polizia di
indagine…) […] è come lo stesso non abbia rivolto agli stessi nessuna
domanda, non abbia rilevato
contraddizioni, incongruenze, omissioni, assurdità
che invece si colgono a piene mani nel racconto degli agenti». Qui
un altro passaggio del Giudice tanto per intenderci nel concetto della
morte violenta (cap. 4) «MORTE
VIOLENTA ascrivibile a
più forte ragione all’azione violenta, improvvida ed illegale degli
agenti, lasciandosi peraltro aperti dubbi e ipotesi su una diversa,
inquietante, realtà fattuale».
Come definire chi afferma, riguardo al proprio figlio:
«Lo abbiamo picchiato di brutto
per mezzora…» (conversazione registrata), portandolo alla morte,
anche quando, come riportano i testimoni, chiedeva «Aiuto»? Come essere
soddisfatti della condanna a 3 anni e 6 mesi di reclusione ciascuno,
quando, in occasione del G8 di Genova, un solo manifestante è stato
condannato a 15 anni di reclusione per danni alle cose?
Anche Lino Aldovrandi termina, con una pacatezza mista
a forza che continua a parere sovrumana. Dice solo:
«La morte non è di destra né di sinistra: è di tutti».
Quanti vincoli esistono oggi in Italia alla libertà?
Quanto poco «di tutti» è la vita, la morte, lo studio, il lavoro oggi in
Italia? Quanto siamo imbrigliati, altrove incanalati, rispetto agli
esseri umani che ci muoiono accanto, su un’impalcatura, in una fabbrica,
uccisi da un mafioso o da un poliziotto, o per vie traverse da un
politico? Quanto serenamente camminiamo in mezzo ai morti che ci piovono
ai lati, e fanno cumuli accanto al nostro sentiero, fiorito di notizie e
sorrisi da vetrina, appesi ad alberi di morti? Quanto pianamente le
nostre teste sono prese da mani che scendono dall’alto, e volte alla
vetrina, e indirizzate ad uno sguardo fisso, da morti? Quanto è forte la
volontà di togliere all’uomo la com-passione, alienandola in una
solidarietà da barzelletta nazionale?
Così come siamo, senza queste parole genitoriali piene
di sovrumana determinazione, siamo davvero morti che camminano, con
sguardo di già morti, fra cumuli di morti, ingiustamente e nell’oblio.
Io penso tutto questo e un po’ di altro. Ma non ho
tempo, ora.
Giuliano Giuliani trasmette dalla prima parola una
splendida rabbia civile. Non vuole parlare di come fosse suo figlio, di
quante qualità avesse, e nemmeno di quali difetti avesse: nessuno, in
nessun caso, merita mai nessun uso eccessivo della forza, nessuna
prevaricante aggressione.
Giuliano Giuliani parla solo di ciò che accomuna i tre
ragazzi morti per mano di militari, di poliziotti o carabinieri dello
Stato Italiano: ciò che li accomuna, è il
perché stesso della loro
violenta morte.
È la parola che non si riesce a dire, in questo sabato,
in questo padiglione sempre più pieno, sempre più rumoroso: sempre più
gente entra da fuori, portandosi le sedie di plastica, sbattendo con
subitaneo orrore la porta, per sbaglio. Ad ogni ingresso, quelli che già
sono dentro d’istinto guardano male chi potrebbe distrarre da questa
verità sospesa fra gli occhi e il silenzio, ancora non detta tutta; poi
sono contenti che qualcun altro ascolti. Chiunque altro voglia entrare è
un filo che gira attorno agli altri, e rinforza la corda: la corda è
attaccata sotto la verità ancora sospesa, e prova a tirarla giù.
Il perché è
la parola che non si riesce a dire, comunque. È il pensiero che non si
riesce a formulare. È la ragione che arretra, non trovando scampo al
reale, intravedendo e non volendo vedere. Perché Stefano Cucchi viene
picchiato e ignorato, sotto un lenzuolo, con un occhio di fuori, fino
alla morte? Perché Federico Aldrovandi viene picchiato e ignorato,
sull’asfalto fino a tarda mattinata, quasi con più lividi che pelle
sana, fino alla morte?
Perché Carlo Giuliani viene preso di mira, ucciso con
un proiettile, schiacciato per due volte da un defender, sfigurato da
una pietra in faccia, trascinato, in una piazza italiana? Perché il
fotografo presente è messo corpo a corpo e sfregato contro il ragazzo
morto, fino a imbrattarsi del suo sangue?
Perché?
Perché (e qui mi servo della ricostruzione di Giuliano
Giuliani, in una lettera al sito Destra Libertaria Regione Veneto,
perché è chiara e sintetica): «[…]
un reparto speciale di carabinieri compie una manovra insensata e
contraria ad ogni regola di ordine pubblico, cioè attacca anche di
fianco, in una via laterale, un corteo autorizzato sottoposto da più di
due ore a cariche ingiustificate e violente»? Perché «l’attacco
[…] si conclude con una fuga precipitosa verso il centro della
piazza [,] una vera e propria trappola»? Perché «Due
camionette si ostacolano a vicenda incomprensibilmente, facilitando
l’avvicinamento dei manifestanti, mentre ottanta carabinieri (a non più
di venti metri) e un centinaio di poliziotti con blindati (a meno di
settanta metri) assistono senza intervenire a difesa (i manifestanti
sono in tutto una cinquantina e nel raggio di dieci metri intorno alle
jeep sono quasi più numerosi i fotografi […])»? Perché
«sull’altra [camionetta] uno degli occupanti impugna una Beretta,
mette il colpo in canna e minaccia di sparare per uccidere»?.
Perché insomma quel giorno gli ordini ai militari sono
incomprensibili e incompresi, tanto che sfiorano il tragicomico? Perché,
solo per fare un esempio, è intimato di lasciar perdere i black block,
che stanno sfasciando supermercati e banche, ignorando le richieste
d’aiuto telefoniche, allucinate, di molti genovesi, che nel finimondo
non intravedono nemmeno un poliziotto a difesa dell’«ordine pubblico»?
Perché il vicequestore Lauro, dopo aver negato che un suo uomo
lancerebbe mai sassi ai manifestanti, è obbligato ad ammettere, a
processo, che quello che lancia una pietra nelle immagini «sono
io»?! Perché i due defender si posizionano dietro i carabinieri a
piedi, quando per ammissione dello stesso vicequestore «non dovrebbero
assolutamente stare lì», e devono procedere in retromarcia, nel momento
della disordinata ritirata? Perché Mario Placanica, giovane carabiniere,
non viene portato via, sull’ambulanza presente in soccorso ad un
manifestante, prima dello scontro, visto che per ammissione del suo
superiore non è idoneo a continuare, insomma ha una crisi di nervi?
Perché la pallottola ritrovata non corrisponde a quelle in dotazione a
Placanica, essendo non camiciata, come quelle che possono essere in
dotazione agli ufficiali? Perché il defender, che i carabinieri dicono
«bloccato» dall’altro, si libera con facilità subito dopo i due colpi di
pistola? Perché con una pietra si fracassa il viso di Carlo?
Perché, in definitiva, tutto sembra organizzato non per
mantenere l’ordine pubblico, ma per esacerbare e «legittimare» uno
scontro violento?
Giuliano Giuliani risponde a questi perché, con un
unico perché: quello militare,
è il settore della nostra società che meno di tutti ha intrapreso un
serio processo di defascistizzazione.
Le prove sono allucinanti e scandalose, tanto quanto la
non reazione, dello stato e dell’opinione pubblica, a questo fascismo
mai interrotto.
Una prova sono gli alti vertici
militari che a Genova, su una terrazza, cantano «Faccetta nera», come
riferiranno i testimoni.
Una prova sono i pestaggi, di
gravità inaudita, commessi dalle forze dell’ordine alla scuola Diaz e
alla caserma di Bolzaneto, sempre sulla colonna sonora di «Faccetta
nera», «motivati» dalla presenza di due molotov (considerate armi da
guerra, il cui possesso configura il reato di terrorismo): esistono
testimonianze e foto che provano che alcuni carabinieri hanno introdotto
tali armi nella Diaz, a blitz concluso.
Una prova è un’affermazione di un
carabiniere coinvolto nei fatti di Genova, che sostiene che
«tra azioni di guerra e di ordine pubblico non c’è alcuna differenza».
Una prova è la bandiera italiana nel
quartier generale dei nostri carabinieri, fotografata in seguito alla
strage di Nassiriya, con al centro l’aquila fascista; fatto gravissimo,
senza alcuna conseguenza, sottolinea Giuliani.
Una prova è il surreale clima che si
respira su quel defender, quello da cui è partita la pallottola che ha
ucciso Giuliani, coi colleghi di Placanica (è lui stesso a riferirlo)
che cantano canzoni, e sono allegri, e gli dicono:
«Benvenuto fra gli assassini»,
«Morte sua vita mia»; coi superiori che creano una terrorizzante
pressione sugli uomini, paventando attacchi terroristici e lancio di
sangue infetto, tanto che, dirà sempre Placanica:
«La sensazione era come se dovessimo andare in guerra».
Una prova è una voce di donna,
anch’essa carabiniere, che in una conversazione telefonica intercettata,
in risposta a un collega (che definisce i manifestanti «‘sti balordi,
‘ste zecche del cazzo»), in occasione della tragica giornata del G8,
dice: «Speriamo che muoiano tutti», «[ridendo] Smettila, simpatica…», «E uno
già è andato…vabbè…speriamo…uno a zero per noi eh!!!».
Una prova è che Giuliani padre goda
ora di una strana immunità a denuncie:
«Perché se mi denunciassero,
sarebbero costretti a riaprire le indagini sulla morte di mio figlio».
Una prova è che il processo per
l’assassinio di Carlo è stato archiviato: si è ritenuto che Placanica
agì per legittima difesa, accogliendo la versione secondo cui non sparò
direttamente a Giuliani, ma in aria, e il proiettile fu deviato da una
pietra lanciata dai manifestanti; si è ritenuto che Carlo fosse vicino
al defender, mentre alzava l’estintore, e non, come presumono gli
avvocati della famiglia, in base alle fotografie, a più di 6 metri dal
mezzo; in ogni caso, si è ritenuto che non fosse Carlo ad agire per
legittima difesa, tentando di disarmare quella mano, che da molti minuti
puntava i manifestanti, come in un folle tiro al bersaglio. Prova ancora
maggiore, è il fatto che il processo non sia stato riaperto, in seguito
all’acquisizione di nuovi importanti elementi (ad esempio, la non
camiciatura del proiettile, o le dichiarazioni dello stesso Placanica,
che ha ritrattato e affermato di non aver sparato lui a Carlo).
La proiezione del video «Quale verità per piazza
Alimonda» segue l’intervento di Giuliano Giuliani. Le immagini sono
vertiginose: lo sparo, il defender che passa per due volte sul corpo di
Carlo, il suo corpo che viene trascinato per alcuni metri dai
carabinieri, e poi il volto rotto da una pietra, e due fotogrammi, il
fotografo che ha scattato qualche istantanea spinto su quel corpo, e il
medesimo fotografo, scioccato, imbrattato del sangue di Carlo.
Mi sento quel fotografo. Mi hanno sbattuta su quel
sangue per farmi stare zitta, mi hanno raccontato che quel sangue era
quello di un tossico, di uno sbandato, di un black block, di un relitto
della società, mi hanno detto che la polizia e i carabinieri, tutti,
sono eroi e mi amano e mi proteggono e sanno cosa è il mio bene e il mio
bene è che stia zitta.
Mi sento quel fotografo e mi sento Carlo, Stefano,
Federico e gli altri, troppi altri: come recitava un manifesto esposto a
Roma, con le foto di alcuni di loro, «Il prossimo potresti essere tu».
Con gli stessi occhi sbarrati del fotografo, cerco la mano del sig.
Giuliani: «Volevo solo
ringraziarla. Grazie».
Grazie più di tutto per le parole con cui aveva
concluso: «Quelli che vi ho raccontato sono fatti gravissimi: in un
altro paese ci sarebbe già stata la presa della Bastiglia, la
defenestrazione di Praga…Ma siccome noi siamo pacifisti, mi auguro che
di fronte a questo troviamo almeno la forza per una rabbiosa
incazzatura, che ci permetta di tirare fuori il nostro paese dalle fogne
in cui questi signori l’hanno cacciato!».
Almeno la forza per una rabbiosa incazzatura, almeno.
OTTOBRE 2010