RUBARE L'ANIMA
Crisi della presenza e
post fordismo alla meridionale
Giulio Trapanese
(Intervento al Convegno del 17 – 18
Giugno Nord Est e Mezzogiorno, tra politica e territorio organizzato da
Istituto Italiano Studi Filosofici, Scuola critica, Società studi
politici, tenutosi presso l’Istituto Italiano Studi Filosofici)
La questione meridionale è un tema
ampio, e complesso. Riguarda la storia d’Italia, riguarda la storia
delle trasformazioni economiche, la natura e il destino delle
organizzazioni mafiose, il tema della coscienza e, storicamente, quello
della religione, delle forme di organizzazione comunitarie. Un ambito
molto grande, entro cui io vorrei entrare e introdurvi a poco a poco,
pur nel breve tempo che abbiamo, per tracciare appena delle strade
possibili attraverso cui avvicinare questa questione, mettere a fuoco la
genesi storica e la sua fioritura attuale, come dice il titolo di questa
relazione, in qualche modo, la storia e le prospettive. Antonio, poi,
successivamente fonderà su basi storiche e politiche alcuni degli spunti
che io proverò ad offrire.
La mia parte di questa relazione l’ho
intitolata Crisi della presenza e post fordismo alla meridionale; e ho
voluto con questo segnare una connessione possibile del passato del
meridione con il presente più generale, e del presente più generale, a
sua volta, con il nuovo presente, ancora poco chiaro, fumoso, ancora
troppo vicino alle macerie da cui fuoriesce, della condizione
meridionale oggi.
La crisi della presenza è una categoria
che Ernesto De Martino, il noto antropologo italiano, prende in
considerazione in testi come Sud e Magia del 1959, ed è ad alcune parti
di questo testo che proverò a riferirmi. In esso la spiegazione della
permanenza di atteggiamenti e pratiche magiche nel meridione viene
svolta attraverso la connessione alla sua storia sociale e politica, di
modo che la genesi del
comportamento magico non sia né casuale, né frutto d’una diversità e
magari arretratezza costitutiva, ma discenda dal tipo di relazioni
sociali che si sono andate sviluppando negli ultimi secoli in quelle
terre, e che, nel momento in cui De Martino scrive, persistono ancora,
perché ancora legate a quella realtà sociale.
«Se
ci chiediamo quali sono le ragioni che fanno ancora sopravvivere una
ideologia così arcaica nella Lucania di oggi, la risposta più immediata
è che tuttora in Lucania un regime arcaico di esistenza impegna ancora
larghi strati sociali, malgrado la civiltà moderna. E certamente la
precarietà dei beni elementari della vita, l’incertezza delle
prospettive concernenti il futuro, la pressione esercitata sugli
individui da parte di forze naturali e sociali non controllabili, la
carenza di forme di assistenza sociale, l’asprezza della fatica nel
quadro di un’economia agricola arretrata, l’angustia memoria di
comportamenti razionali efficaci con cui fronteggiare realisticamente i
momenti critici dell’esistenza costituiscono altrettante condizioni che
favoriscono il mantenersi delle pratiche magiche»
Entro questo quadro noi abbiamo quindi
la possibilità di dare una ragione all’uso popolare della superstizione
e dei curatori magici, delle angosce e dei comportamenti messi in atto
in risposta ad esse. Per De Martino il punto è guardare alla società e
alla storia di quella società. Alla vita di quegli individui come attori
sociali, parti di una storia più ampia, di cui inconsapevolmente, per lo
più, sono testimoni. In questa storia che è la storia di decine di
secoli di civiltà prevalentemente contadine, e storia di dominazioni
straniere del meridione italiano, le energie degli individui sono state
continuamente e progressivamente depresse, frustrate, erose nella fatica
del lavoro dei campi, e nell’insicurezza della condizione di vita, e
così - più in generale - nella percezione assoluta di mancanza di
controllo sul proprio destino. La vita non appartiene più a chi vive.
Viene data e può essere tolta in modo del tutto casuale, immediato,
violento e insensato al tempo stesso. Il disordine di una vita sociale
non basata sulla fiducia nel senso del proprio agire apre la strada a
forme di compensazione e protezione. La radice profonda della magia così
- secondo De Martino – è quindi la sofferenza degli individui e cioè che
la vita nella sua complessità, nel suo «corteo
di traumi, scacchi, frustrazioni, e la correlativa angustia e fragilità
di quel positivo per eccellenza che è l’azione realisticamente orientata»
ha bisogno continuamente d’essere elaborata perché possa svolgersi, e
non può trascinarsi come un macigno sempre identica se stessa, ha
bisogno di rinnovare il suo senso a seconda dei suoi passaggi tipici e
di rafforzarsi per non lasciarsi andare all’indietro.
Per tutto questo c’è bisogno d’una forza soggettiva, una presenza
a se stessi d’una certa stabilità, senza la quale la ragione perde
terreno rispetto alla superstizione e alla magia. C’è bisogno d’una
fiducia di base, e di fiducia in quanto sentimento sociale. Vediamo così
tracciarsi l’orizzonte della crisi della presenza meridionale come
quello della perdita di fiducia in sé e negli altri, a fronte del
collasso della possibilità di sentirsi i veri protagonisti della propria
storia. Possiamo domandarci, infatti, quale sia il sentimento comune
sotteso alle esperienze come la fascinazione, la possessione, la fattura
e l’esorcismo. Cosa ce le lascia accomunare. La risposta è l’esperienza
interna riportata dai soggetti interessati, i quali si sentono
espropriati della possibilità di scegliere, decidere, contare per sé,
sulle proprie forze, affrontare il tempo della propria vita in modo
dinamico e attivo. «I sentimenti
di vuoto, così diligentemente analizzati da Janet, consistono nella
perdita di autenticità di sé e del mondo, onde il fluire della vita
psichica è accompagnato da un senso di estraneità, di artificialità, di
irrealtà e di lontananza, che colpisce sia il corso dei propri pensieri,
sentimenti e azioni, sia la esperienza della realtà oggettiva (persone,
eventi, cose situazioni)».
L’io e il mondo si svuotano, perdono
consistenza e concretezza, la relazione sociale non dà più senso alla
vita individuale, il progetto di vita è schiacciato sul mero presente,
quando, appunto, il presente non sia già di suo completamente assorbito
da esperienze del passato, sempre le stesse, fissate, in una dimensione
della mente statica, senza apertura al rinnovamento. Questa condizione è
la possibilità – e al tempo stesso l’effetto – della dominazione e
dell’influenza di un altro e si lega alla debolezza dell’estraneazione
da sé, del sentirsi diretto e controllato da forze oscure, da
possessioni indistinte, da parole di altri. Diciamo pure, è la
rappresentazione nel campo della follia, del sentimento quotidiano delle
masse del Sud rispetto all’oppressione esercitata su di loro
storicamente e che, fuori dal piano della storia, viene percepita,
invece, come dominio della natura sulle possibilità dell’uomo, dominio
del sovrannaturale sul naturale, dominio – in definitiva – dell’Altro
indistinto, in quanto tale, su di sé. Debolezza, impotenza, resa
incondizionata, paura estesa ad ogni aspetto della vita, possono essere
– a seconda – condizioni elaborate sufficientemente a un livello
ordinario della vita individuale o, invece, espressioni di un disagio
psichico che trasborda i confini del controllo della coscienza, e che
diventa un atto senza parole e senza controllo. De Martino tra alcuni
casi citati dallo psichiatra Janet di fine del diciannovesimo secolo e
che ha affrontato questo tema della spersonalizzazione, riporta quello
di una donna che afferma: «Tutto
in me è lettera morta, io non sono più una donna che abbia un cuore, mi
si presta l’anima di un altro, non sono che una povera marionetta tirata
dai fili da tutte le parti, mi si ruba l’anima, ad ogni istante muto di
proprietario, c’è dietro la muraglia qualcuno cui appartengo, e che
dispone delle mie azioni e dei miei pensieri», e aggiunge come
proprio questa espressioni, «rubare l’anima» sia proprio quelle tipiche
delle cosiddette civiltà contadine rispetto al rischio grave
dell’affatturamento, da cui poi discenderebbe il compito dello stregone
di ricatturarla e, quindi, restituirla al derubato. Rubare l’anima: come
si può non pensare alla sottrazione storica della possibilità della
vita, del suo rendersi autonomo dalle decisioni degli altri sugli
elementi più basilari della propria – la scelta di chi sposare, se avere
o non avere figli, se continuare o meno il lavoro del padre, poter
liberamente scegliere di cambiare luogo, di andare via, scegliere idee e
posizioni diverse da quelle costituite. L’anima rubata è un’anima che
non scompare, pochi di coloro che hanno allucinazioni e che ricorrono a
pratiche magiche, pensano che la propria anima semplicemente non ci sia
più, sia finita, scomparsa per sempre. Ciò che viene tolto da un lato,
dall’altro viene conservato, meccanismo di omeostasi di forze quasi
paragonabile a quello interpretato da Marx come sottrazione di plus
valore in campo economico.
Da qualche parte, quindi, per loro
l’anima rimane, in particolare c’è qualcuno che, avendogliela sottratta,
la controlla. Altre volte, invece, l’anima non abbandona il corpo del
soggetto derubato, ma semplicemente perde il contatto con esso, rimane
lì dentro, ma agisce secondo altri comandi e impulsi, è eterodiretta,
come nel caso citato, che esprime la condizione più inquietante ma più
realistica, quella della marionetta, in cui si agisce secondo fili più o
meno visibili, a comando, come burattini, senza autonomia, forza,
resistenza
A volte, poi, nei casi di possessione,
il margine di autonomia quasi scompare – e sono i casi più gravi, quelli
considerati come stati di possessione. Un’altra anima, una personalità
aberrante e perversa raggiunge il soggetto, lo invade in uno stato di
coscienza diverso, e si sostituisce alla personalità ordinaria. La
crisi, improvvisa e apparentemente inspiegata, è seguita poi dal ritorno
della coscienza ordinaria e dalla completa amnesia di ciò che è
accaduto.
Questa è la crisi della presenza secondo
De Martino. È la crisi della vita del soggetto in quanto individuato. La
crisi delle sue forze e della sua capacità di essere nella relazione con
gli altri, sganciandosi da un spossessante e devastante relazione di
potere quasi ubiquitaria. La manifestazione soggettiva dell’impasse
sociale d’un intera comunità.
Questa, in breve, la traccia di De
Martino per il nostro discorso sulla questione meridionale. Sud
geografico e sudditanza morale, dipendenza economica e dipendenza
psicologica dalle forme tradizionali di religione, superstizione, magia.
Minorità civile come minorità esistenziale, espropriazione della
cittadinanza come presupposto dell’espropriazione di sé, e, viceversa,
l’espropriazione della propria interiorità come strumento di
mantenimento delle relazioni di potere esistenti, dell’ingiustizia
feudale, prima, dell’oppressione capitalistica, poi. Quella di cui ci
parla De Martino è, tuttavia, ancora una civiltà fortemente contadina, è
un tempo che, come egli stesso ha modo di spiegarci, sopravvive in un
altro tempo e in un’epoca in cui l’industrialismo e la nascente civiltà
dei consumi conferisce già da almeno un secolo un nuovo carattere
antropologico alla società italiana. La questione meridionale era ormai
già la questione di come risolvere la compresenza di tempi nella storia
italiana, divisa geograficamente dalla linea che la travagliata storia
d’Italia degli ultimi secoli ha posto fra il Nord e il Sud. Gramsci
articolava in quel suo breve scritto del 26, «Alcuni temi della
quistione meridionale», la possibilità dello sbocco progressista e
socialista della contingenza storica italiana come l’unione cosciente
fra il proletariato industriale del Nord aggregatosi secondo la misura
fordistica in grandi centri operai e la stragrande maggioranza delle
masse al Sud, ancora legate al mondo agricolo, al sistema di relazioni
sociali ereditate in qualche modo dal feudalesimo della terra, ad una
divisione più rigida fra il centro della città e la periferia della
campagna. Unione necessaria per il superamento della spaccatura
oggettiva della società italiana entro un quadro che per Gramsci deve
rimanere unitario dal punto di vista politico, ma che deve essere
rifondato radicalmente, posto su un rinnovamento sociale, su un nuovo
legame fra le classi subalterne. Questa la tesi classica di Gramsci, che
allora fu riconosciuta dal Partito comunista in esilio, e che venne
ripresa e considerata anche poi alla fine della guerra. Tuttavia, quello
che però oggi siamo chiamati a discutere è come affrontare questa
questione, quale rapporto stabilire con la tesi di Gramsci, in modo da
riuscire a pensare concretamente il presente, agire in esso. La società
italiana è cambiata radicalmente, nel giro di sole quattro generazioni
la nostra vita non può essere più considerata la stessa da nessun punto
di vista. Il sistema d’economia, il piano politico, lo sviluppo
dell’elemento del consumo in una società che appena pochi decenni prima
viveva in larghe fasce il problema della denutrizione e dell’esposizione
alla morte per malattie oggi assolutamente innocue, un livello di
alfabetizzazione scolastica molto più alta. Il treno della storia è
stato veloce, come non mai, e non solo per l’Italia – ovviamente. Dalla
tradizionale civiltà contadina siamo passati alla spinta per
l’industrialismo di parte del Novecento, e da quest’ultimo nel giro d’un
paio di decenni nel quadro d’una trasformazione mondiale dei parametri
economici, alla fase del post industrialismo, in cui il sistema di
produzione post fordista ha oramai trasformato la natura del lavoro
d’industria espellendo parte di lavoro fuori dalla produzione nel
settore del consumo e della pubblicità, del conferimento indiretto di
valore alla merce sulla base della sua apparenza, e infine aumentato la
disoccupazione e l’immigrazione su scala mondiale. Tutto questo pone,
quindi, anche la questione meridionale su un terreno differente da
quello tradizionale di cui ci parla Gramsci. Lo stesso storico
Barbagallo in un articolo sulla Rivista storica italiana del’87, a
proposito della questione meridionale in Gramsci, conclude il suo
articolo precisando che «la
ricerca storica sul Mezzogiorno moderno e contemporaneo ha proceduto
negli ultimi anni ad innovative aperture tematiche e interpretative che
hanno contribuito ad arricchirne la conoscenza, presentando una realtà
sociale e politica rilevata efficacemente nella sua articolazione. Il
quadro della società meridionale, specialmente fra Ottocento e
Novecento, ne è uscito vivificato e approfondito, oltre i limiti
precedenti sia di ambito tematico che di spessore problematico. In
connessione con una certa insofferenza per i consolidati modelli
interpretativi fondati su dicotomie come arretratezza e sviluppo,
ritardo e progresso si è diffusa, negli ultimi anni, una tendenza ad
attenuare le specificità della evoluzione storica della società
meridionale per integrarla in un più ampio orizzonte continentale e
mondiale, come aspetto periferico omologabile ad altre, consimili
esperienze». E in questo solco noi possiamo effettivamente
riconoscere una traccia importante della discussione attuale.
Riconoscere il Sud dell’Italia come parte di un Sud più ampio, il suo
destino come parte di quello di altre zone poste al confine tra il
dentro e il fuori dello sviluppo complessivo dei centri dell’economia
mondiale. Nell’orizzonte della polarizzazione mondiale l’economia del
Sud assumerebbe, quindi, questo nuovo carattere. Con il dominio dei
grandi poteri finanziari e lo squilibrio, nel campo della produzione,
nella ripartizione del lavoro e di investimenti fra le diverse regioni
mondiali, nel Meridione d’Italia assistiamo negli ultimi decenni ad una
situazione di sviluppo, se così si può chiamare – sui generis. Come
tutte le altre, con lo sviluppo dell’economia capitalistica su scala
mondiale, anche questa questione si fa globale, si internazionalizza, si
lega alla trama dello sviluppo più generale delle cose, si posiziona a
modo suo in questo scenario, assumendo un ruolo particolare. Nella
stessa provincia lucana, ad esempio, dell’indagine di De Martino c’è
oggi molto di più il respiro della situazione del mondo, gli spazi
diminuiscono, la cultura locale non si esaurisce ma perde il suo
carattere isolato, si tempera in una dimensione più generale, la
televisione, le comunicazioni, i modelli di comportamento, l’industria
della cultura, le immagini dell’onnipotenza della tecnica perforano la
soggettività labile tipica della psicologia magica e la fanno esplodere.
I nuovi potenti non sono più i santi, i santoni, le figure
dell’irrazionalità superstiziosa, ma un mondo all’apparenza più vicino,
evidente, che funziona in modo logico, ma in verità anche meno umano,
perché tecnico, reificato, come quello di prima altamente eteroregolato,
ma, a differenza di quello, in modo meno esplicito e riconoscibile,
senza più intermediari veri o presunti. L’incanto della magia già
assediato dalla regolazione del lavoro di fabbrica, si viene oggi sempre
più trasformando, da un lato esaurendo, lasciando, così, spazio ad
altro, a nuove forme di compensazione per la mancanza di forza per
l’individuazione, per l’assottigliamento della speranza nel futuro, per
la crisi della fiducia di poter contare nelle relazioni sociali con gli
altri, di essere in qualche modo garantiti dalla comunità, in piccolo,
e, in grande, dallo Stato. Vorrei provare, così, adesso, sulla base di
questo, a tracciare tre brevi descrizioni simbolo di questa condizione
contemporanea.
La prima di questa è di stretta
attualità, per quanto non legata semplicemente a questa attualità. Si
tratta della vicenda della ristrutturazione del tipo di contratto e di
lavoro alla Fiat di Pomigliano. Se non si vuole che la produzione della
Fiat Panda e con essa tutto lo stabilimento si sposti in Polonia bisogna
accettare il diktat di nuove condizioni proposte dall’amministratore
delegato del gruppo Marchionne. Questa è la nuova politica industriale
della Fiat e queste sono le condizioni che l’industria italiana più
rappresentativa si sente di poter porre: o è così o si va via. Il quadro
dell’accordo già firmato da una parte delle organizzazioni sindacali è
reperibile su internet e può essere visionato da chiunque. Vorrei
riferirmi in quest’accenno all’analisi e agli elementi messi in luce da
L. Gallino su un articolo su Repubblica del 14 Giugno, che credo mettano
in luce il carattere delle nuove forme di lavoro e come quando si parli
di post fordismo non significa parlare di fine del lavoro, ma di
ridistribuzione del lavoro, in un quadro diverso, in cui una parte del
lavoro ancora impegnato nella produzione è costretta a lavorare a
livelli che sono disumani, sempre più cioè in una metrica reificata in
parametri computerizzati e cronometrati. Cito da Gallino: «Allo
scopo di utilizzare gli impianti per 24 ore al giorno e 6 giorni alla
settimana, sabato compreso , nello stabilimento di Pomigliano rinnovato
per produrre
Il lavoro deumanizzato e il sogno
imprenditoriale delle fabbriche che lavorano da sole, a luci spente,
senza il contributo umano, che si muovono ininterrottamente per stare al
passo della competizione produttiva; le macchine che producono e quelle
che regolano i tempi di chi aziona le prime, i ritmi completamente
oggettivati, catalogati, stabiliti e slegati dalla consapevolezza
produttiva dell’operaio. La rigidità dell’atto produttivo, e la
flessibilità della presenza nella produzione, meccanizzazione del tempo
della propria vita e annientamento del controllo su di questa, sul
margine di gestione del proprio tempo di lavoro, e su quello fuori dal
lavoro. Et voilà: uno degli aspetti della globalizzazione nel Meridione
d’Italia. Ecco in che modo -
e un modo completamente diverso – la crisi della presenza continua oggi
al Sud d’Italia. Continua nell’oppressione del lavoro, nel suo
abbassamento a mero ricatto di sopravvivenza, a cui si è obbligati per
non finire per strada, senza prospettive di vita. La crisi della
presenza, come quella di chi lavora per sopravvivere, ma non sa neanche
più perché sopravvivere – come le macchine in fondo che sono sempre e
solo per altro, che nascono e muoiono per un fine umano e che non si
fanno domande, per le quali lavoro è fine e non un mezzo. Ma oggi pare
che chi vuole rimanere nel sistema della produzione deve essere disposto
a questo tipo di sacrifici – ed è quello che la stessa maggioranza degli
operai si trova oggi costretta a pensare.
Ad un certo punto del suo articolo lo
stesso Gallino si domanda quanto durerebbero coloro che criticano la
refrattarietà degli operai e li invitano ad essere responsabili, a
lavorare con questi nuovi ritmi, e a queste nuove condizioni. Spostando
la domanda, ci si può chiedere, fino a che punto gli operai stessi
saranno in grado di reggere la loro nuova condizione. Per avvicinarci,
così, alla seconda delle tracce che vorrei presentarvi, vorrei riportare
alcuni punti che emersero in un’inchiesta del 2008 pubblicata dal
Manifesto a cura di Loris Campetti. L’inchiesta ha come titolo «Quanto
tira la classe operaia» ed è sull’uso di droghe diffuso in fabbrica e in
genere sui posti di lavoro. La prima parte di questa inchiesta riguarda
Dall’articolo di L. Campetti troviamo
questa descrizione: «Nel 2008 ci sono realtà industriali importanti in cui addirittura il 50%
dei lavoratori si fa di cocaina e, in misura minore, di eroina e di ogni
sostanza capace di rendere più tollerabile una vita di merda, o meglio,
di far sognare un’improbabile fuga da essa. Di merda è il lavoro così
come la normalità delle relazioni in paesi privi di vita sociale, che
concedono ben poco alle speranze di futuro e di cambiamento, ci
raccontano le tute blu. Ci si fa per lavorare, per sballare, per fare
l’amore. Ci si fa alla catena di montaggio, in discoteca con gli amici,
a letto con la moglie per migliorare le prestazioni sessuali; poi arriva
la dipendenza e con essa lo spaccio per pagarsi la dose. Operai e
operaie, capi e sorveglianti, adescati in fabbrica da altri operai: una
pista nei cessi della fabbrica tanto per provare, l’esaltazione e il
cuore che batte a mille, l’adrenalina che all’inizio fa aumentare
addirittura la produzione, infine la consuetudine. Si lavora di notte
per guadagnare trecento euro in più, 1.400 invece di 1.100 euro buoni
per affrontare l’astinenza e la crisi della quarta settimana. La
notte[d’altra parte]ci sono meno controlli». I teorici della
biopolitica avrebbero qui materiale prezioso per le loro tesi: lavoro e
assenza di relazioni sociali, droga e produttività, droga e sessualità,
produzione e assenza di senso. É la fabbrica, ma non è solo la fabbrica.
É la comunità, il tempo della vita sociale che non scorre. Alla domanda
diretta finale di Campetti «Perché vi fate?», Giulietta, operaia della
Sevel, risponde «Prova tu a
viverci in questi paesi, poi lo capisci, e ti fai anche tu». Gli
operai hanno difficoltà a mettersi insieme nell’organizzazione d’una
vertenza, nella discussione preparatoria ad uno sciopero, mentre quello
che ancora riesce a volte ad unirli è il discorso del pallone, la
discoteca, la cocaina, come ultime possibilità di socialità in un
contesto vissuto come estraniante da tutti i punti di vista. Questa mia
seconda traccia, tuttavia, vuole essere centrata sulla droga, ma ancor
più che sulla droga come consumo, sulla droga e la cocaina, in
particolare, come produzione, come fonte indispensabile dell’economia
del Sud, sviluppata su basi criminali in particolare dalla camorra
campana. Nella stessa inchiesta di Campetti gli operai abruzzesi
dichiarano che per lo più la droga arriva da Napoli, attraverso i camion
che portano in fabbrica componenti e materiale necessario alla
produzione dei furgoni, da lì poi smerciate all’interno e all’esterno
della fabbrica – fabbrica che gli stessi operai dichiarano a volte che
per questo sembra più un supermercato che una fabbrica. La droga arriva
da Napoli, appunto. In un articolo del Marzo 2007, Saviano ha descritto
in modo preciso l’impero della cocaina gestito dalla camorra campana. «L’Italia
è il paese dove i grandi interessi del traffico di cocaina si
organizzano e si strutturano in macro – strutture che ne fanno uno snodo
centrale per il traffico internazionale e per la gestione dei capitali
d’investimento. L’azienda coca è senza dubbio alcuno il business più
redditizio d’Italia. La prima impresa italiana, l’azienda con maggiori
rapporti internazionali. Può contare su un aumento del 20% di
consumatori, incrementi impensabili per qualsiasi altro prodotto. Solo
con la coca i clan fatturano 60 volte quanto
La droga produce denaro. La droga
produce soggettività. Altera il corso illegale dell’economia ed altera
il livello di coscienza e di presenza della persona che ne fa uso. É
l’elemento sostitutivo che prende il sopravvento su ciò che sostituisce.
L’economia campana senza l’impero della cocaina non avrebbe il livello
esistente di capitali d’investimento in altri settori, il cocainomane,
dalla sua, l’elemento di stimolo al ritmo della sua giornata, del suo
lavoro o del suo non lavoro. La difficoltà dell’economia e quella dello
sviluppo della soggettività procedono insieme legate dallo stesso filo
di un destino di subalternità alle economie, alle regioni, ai modelli,
alla schiavitù d’una vita sociale che non si sviluppa realmente. La
cocaina, infatti, è il mercato sicuro di una società insicura, che
nell’assenza d’uno slancio naturale, ricorre al suo effetto nella corsa
al fare di più, al non sentire il dolore, ad essere sempre pronti alla
chiamata, alla richiesta sociale del lavoro o del consenso sociale degli
altri individui. La cocaina, infatti, comincia a diffondersi di più
dagli anni ottanta, dal riflusso dei movimenti di contestazione e del
declino della partecipazione alla politica. L’evoluzione dei tipi di
droga consumati è la stessa del sentire comune della possibilità d’agire
e trasformare l’ordine di cose esistenti, la stessa dei modi di stare
insieme nella comunità, quella della percezione della propria vita. Per
quanto anch’essa possa essere utilizzata comunitariamente, la cocaina
scardina il rapporto sociale. Scardina l’idea della droga come riduzione
della tensione, apertura di spazi di creatività, distanziamento dalla
consuetudine sociale. La cocaina – a differenza della marijuana – non è
più la droga del miraggio dell’evasione; piuttosto è la droga dello
stare dentro ma da alienati, la droga della corsa in auto, dello
spettacolo, del lavoro notturno, della discoteca di provincia, e che
paradossalmente avvicina nell’attuale società di massa, gli uomini della
televisione agli stessi operai della Sevel. La cocaina è una droga della
crisi post fordista della presenza, la droga dell’essere sempre pronti,
mai pronti. Dell’essere sempre in attività sovraeccitata, non educando
mai il proprio corpo e la propria mente al ritmo di lavoro – riposo,
attività – riflessione sull’attività, dilazione del piacere –
gratificazione. La droga che rompe il tempo naturale, la droga d’una
prestazione, nel tempo della crisi della produzione, la cocaina è, in
qualche modo, una droga produttiva. Una continuità e produttività
perversa, che dalla mattina al lavoro continua la sera nello svago,
continuità nell’assenza, continuità nella mancanza di realizzazione
dentro e fuori il lavoro, alienazione senza più conflitto.
L’ultima traccia che vorrei presentarvi
molto brevemente, parte proprio da questo: il riflesso della società
dello spettacolo nell’economia e nella vita degli individui del Sud
Italia. Nel
Prendendo un po’ di distanza dal caso
singolo, quello che rimane è il dato economico e culturale. Gli
investimenti realmente produttivi mancano per via della competizione su
scala internazionale, quelli destinati alla cultura vengono tagliati
perché considerati inutili e improduttivi, oltre che poco attraenti per
i flussi di denaro attuali, il bilancio pubblico già disastrato in
particolare per le spese di sanità e amministrazione si lancia in
improbabili finanziamenti a formazione in lavori dell’ultima generazione
da società dello spettacolo, soubrette, veline, presentatori,
giornalisti sportivi, curatori d’immagini. Le poche risorse disponibili
vengono messe alla mercé della marginalità sociale trasformata in
vetrina da avanspettacolo mediatico, in quella stessa speranza del
successo dei numerosissimi concorrenti provenienti dal Sud per il Grande
Fratello, nell’illusione di salvarsi attraverso il proprio corpo,
naturale o riplasmato che sia. Ogni giorno basta accendere la
televisione e seguire uno dei vari talk show che popolano le reti
pubbliche e private da metà degli anni novanta.
C’è una maggioranza incredibile di
partecipanti e spettatori provenienti dal Sud. Donne, in particolare, ma
non solo. I meridionali, e in particolare i napoletani, trovano uno
spazio immenso nei programmi alla Maria De Filippi. Contratti
d’assunzione temporanei ma invitanti economicamente, e poi l’immagine,
essere nel mondo in cui tutti ti vedono, divenire riconosciuto per le
strade dei propri quartieri che la desolazione quotidiana ha reso
invivibili, dopo una comparsa a Milano negli studi, essere passato, in
qualche modo, attraverso lo schermo, dall’altra parte. Speranza di
lavoro, speranza di vita. Pubblico e privato, apparenza e essenza,
immagine e verità: tutto questo è superato dal dominio della televisione
e della società dello spettacolo. Guadagnare e insieme anche poter
essere qualcuno, qualcosa, consistere, avere una posizione in una
società sempre più disgregata, senza riconoscimenti di capacità per la
maggior parte degli individui. Illusione di uscire dalla quotidianità
attraverso una trasgressione, emergere da quella che DeRita
nell’inchiesta del Censis del
Vorrei citare un piccolo aneddoto, per
arrivare a concludere. Una volta una mia parente partecipò ad una
trasmissione di questo tipo, «Al posto tuo», su una rete pubblica, il
cui titolo è già una bella presentazione a proposito di ruoli sociali. I
partecipanti a quelle trasmissioni – come tutti sanno – fingono una
parte, fingono conoscenze con altri che in realtà non ci sono, fingono
tutta una loro storia relazionale. Però il nome lo mantengono, così come
alcune caratteristiche di vita, tipo titolo di studio, lavoro, forse in
modo da mantenere una sorta di credibilità per chi le conosca nella
realtà, o forse per metterle davvero al posto loro, in modo da fingere
completamente una vita, sentendosi però ugualmente se stessi. Una nostra
zia in comune di tutta un’altra generazione era davanti alla televisione
insieme con me che, invece, ero abbastanza più piccolo; mentre io ero
stranito, lei era arrabbiata, arrabbiata di come sua nipote si facesse
trattare dagli altri in quella trasmissione, da come gli altri le
rivolgessero la parola, a lei che era figlia di due medici d’un certo
livello. Per lei quella era realtà, non poteva che essere solo la
realtà. Se certe cose venivano dette, fatte, e per di più rappresentate
in televisione non potevano che essere vere. Il piano della finzione
istituzionalizzato a naturalezza dalla società dello spettacolo non le
apparteneva. Veniva comunque assorbito da quello della realtà, più
forte, immodificabile. Era nata troppo presto, in un luogo e in uno
spazio della provincia di Caserta appena industrializzata, e la
televisione l’aveva conosciuta quando aveva già una certa età. Per lei
la realtà non veniva azzerata da una telecamera. Per sua nipote, invece,
come per chiunque altro partecipi a questo tipo di cose, il piano della
realtà, all’inverso, poteva benissimo essere assorbito da quello della
finzione. Mettersi al posto proprio e dichiararlo pubblicamente
attraverso uno strumento di massa, dicendo e spacciando di sé cose false
non era un problema. Era una fonte di guadagno, una sfida, un mettersi
in gioco, addirittura. Dove sarebbe, d’altra parte, il problema? Le
cose, insomma, sono andate cambiando velocemente nella società italiana,
nell’economia e nel tipo più generale di relazioni sociali.
Quest’ultima breve e senz’altro
superficiale traccia ci può portare, infatti, lontano, se approfondita,
rivolta verso il nostro futuro. Il futuro già presente della società
dell’improduttività della merce, e della produttività della
mercificazione di ciò che originariamente – e in qualche modo –
costitutivamente, non era e non può essere merce. Il corpo nudo, la
propria individualità privata, la propria personalità, il proprio
carattere, la propria sensibilità. Così, in conclusione, possiamo dire
che il sogno del Sud come luogo del turismo del sole e del mare, degli
uomini e delle donne della televisione, dell’arte di arrangiarsi
declinata in tempi di spettacolarizzazione di massa, fa il paio con
quello, ben più strutturale, radicato e preoccupante, di cui anche credo
Antonio ci parlerà e come in parte all’inizio ho provato a fare anche
io, della trasformazione del Meridione in una terra d’appoggio,
un’appendice improduttiva e culturalmente atterrata, una semplice base
logistica per il Mediterraneo, una terra di passaggio – come in fondo la
geografia sembrerebbe destinarla – passaggio però non più per movimenti
e scambi culturali, ma per quello delle multinazionali europee che hanno
dislocato la loro produzione, delle basi logistiche della Nato e degli
Stati Uniti addestrate al controllo geopolitico internazionale, e per
quello autoctono dei traffici illegali dei mostri delle economie
mafiose.
GIUGNO 2010