COVID - L'ALTRO RACCONTO
Massimo Ammendola,
Alberto
Francesco Sanci
Il vero oggetto della
propaganda non è né convincere né persuadere, ma produrre un
modello uniforme di espressione pubblica in cui la prima traccia
del pensiero non ortodosso si rivela immediatamente come una
dissonanza stridente.
(Alan Bullock, storico)
Questa inchiesta è
un tentativo di sintesi che propone una narrazione
diversa, basata su fatti, studi scientifici, dati ed articoli
internazionali che non
vogliono negare la malattia e i morti o offendere i familiari
delle vittime del virus Sars-CoV-2, che provoca la malattia Covid-19,
ma mostrare qualcosa di diverso da ciò che abbiamo ormai
interiorizzato.
L’inchiesta è molto ricca di meta-links che rimandano a
contenuti e fonti esterne.
Da quanto raccolto, ci si rende conto che la narrazione
politica e mediatica si discosta dalla narrazione sanitaria. L’arrivo
della seconda ondata, dopo un’estate quasi rilassata, ampiamente
prevista ed annunciata dai decisori politici e dai tecnici
governativi, ha visto pochi progressi nell’organizzazione contro la
malattia, se non quello di un aumento
esponenziale del numero dei tamponi eseguiti. Una larga
percentuale dei nuovi positivi
risulta asintomatica, e nonostante ciò il Sistema Sanitario
Nazionale è già in affanno, o come tale ci viene descritto. L’utilizzo
dei numeri, per comunicare una situazione più o meno grave, riflette
la volontà di tenere la tensione alta, privando di alcuni
approfondimenti e distinguo che riteniamo fondamentali. Solo di
recente, ad esempio, la regione Campania ha iniziato a comunicare il
numero degli asintomatici. Le stesse istituzioni si sono trovate a generare
caos sui numeri confondendo di recente l’incremento dei
positivi, con il totale dei nuovi positivi. Risolutivo invece potrà
essere un test che misuri precisamente la carica virale, su cui hanno
investito massicciamente gli USA.
Una pandemia globale di malattie respiratorie può
effettivamente estendersi su diverse
stagioni, ma molti studi che pronosticano una “seconda
ondata” si basano su ipotesi
molto irrealistiche, poiché nella pratica non c’è un rischio
costante di malattia e di morte per tutte le fasce d’età. Basta
esaminare un qualsiasi grafico ufficiale che indichi il numero dei
positivi nel mondo da febbraio ad oggi, per capire che a livello
globale si parla di un’unica ondata, seppur con una mortalità
decisamente minore rispetto a quella di marzo. E si inizia ormai a
parlare del virus come stagionale.
La Covid-19 è
emersa come una malattia prevalentemente geriatrica, poiché colpisce in maniera letale una percentuale
decisamente superiore alle altre di persone sopra
gli 80 anni e che, molto spesso, hanno già gravi malattie pregresse.
Questo non significa dare minor valore alle morti cui ci
riferiamo, bensì pensare a protezioni maggiori mirate per i soggetti a
rischio. È fondamentale proteggere gli anziani, in particolare quelli
con più patologie, e le persone ad alto rischio, come gli
immunodepressi e i malati gravi di qualsiasi età. O ancora i soggetti
ad alta esposizione, come gli operatori sanitari. Ed iniziare le cure
a casa, con la collaborazione dei medici territoriali di base: da
quanto emerso si è rivelato importantissimo un trattamento
precoce,
essenziale per prevenire la progressione della malattia, con mezzi
semplici ed efficaci, come sottolineato da molti importanti
esperti di tutto il mondo. Isolare i malati a casa, in attesa di
una telefonata di controllo, e magari con cure assenti o
approssimative, fino a quando questi non riescono più a respirare, si
è rivelato un approccio quantomeno rivedibile. Sfortunatamente, nella
maggior parte dei paesi occidentali, è ancora quello più comune.
Riguardo la letalità del
Covid-19, ricordiamo che secondo i dati ufficiali il
4% circa dei deceduti
non aveva patologie pregresse: una malattia che per questo dato
si rivela statisticamente paragonabile ad un'influenza media/grave,
con una mortalità che va tra
lo 0,1% e lo 0,5%, dato vicino a quello delle pandemie
influenzali del 1957 e del 1968. Rispetto alle pandemie influenzali,
che possono uccidere persone di ogni età, il profilo di mortalità del Sars-CoV-2 è essenzialmente
zero per bambini e giovani adulti, e
vicino allo zero sotto i 50 anni di età. Il dato purtroppo
inizia a salire lentamente col crescere dell’età di riferimento, e poi
molto rapidamente sopra i 70 e soprattutto sopra gli 80 anni, raggiungendo
livelli estremi nelle case di cura. L’aumento di rischio di
morte dei soggetti coinvolti è quindi proporzionale al rischio
di morte preesistente della rispettiva età e gruppo di rischio.
Con questo profilo di mortalità associato alla Covid-19,
c’è chi sostiene che i test PCR di massa e il tracciamento generale
dei contatti nella popolazione abbiano
poco senso e possano creare un'ulteriore “casedemia”
− cioé un’epidemia di casi, inclusi quelli sani, a causa di una
“chimica del caso”, per il maggior numero di test − che affianca la
pandemia, che si associa immaginativamente ai soli malati e ai
deceduti, in netto calo dall’estate.
Nulla si è detto della possibile immunità
di fondo − o immunità crociata − di parte della popolazione mondiale,
dovuta al contatto coi precedenti coronavirus (es. Sars-CoV-1 e
coronavirus dei raffreddori), fattore che ha sicuramente aumentato
l’effetto “sorpresa terrorizzante”, soprattutto in Occidente dove la
SARS e la MERS non sono mai arrivate.
Nonostante
l’OMS stessa sia arrivata ad affermare che i contagiati sono
stati molti di più di quelli stimati (760 milioni) e quindi la
mortalità sia bassa, attorno allo 0,13%; esponenti della stessa
organizzazione e rappresentanti istituzionali di quasi ogni nazione e
apparato sovrastatale continuano nella propria narrazione di una
malattia estremamente pericolosa.
Che crediamo si sia rivelata tale per i decenni di
tagli al sistema sanitario nazionale e che sta tornando a far paura
per i pochissimi provvedimenti presi in questi mesi per rinforzarlo
direttamente, spingendo invece sulle responsabilità del singolo
nell’eventuale contagio.
Nella scorsa estate si era
arrivati al punto in cui, ad agosto, il dottor Vaia, direttore dello
Spallanzani, annunciò
che
a fine di quel mese il vaccino non si sarebbe sperimentato in Italia,
ma in America latina, dove il virus era in quel momento in crescita,
poiché − parole sue − «al di là di quello
che si dice in questa fase (a fine agosto, NdA) in Italia non c’è
questa catastrofe, non abbiamo tutti questi pazienti, tutti questi
malati!».
La narrazione ufficiale ha però dimenticato di
evidenziare alcune contraddizioni: ad esempio, il
Senato comprava 10.000 mascherine tra le più performanti già il 27
gennaio a prezzi stracciati, per poi “ridurre” le decisioni
politiche ad un embargo ai voli provenienti direttamente dalla Cina,
oppure l’assunzione di responsabilità, contro il volere dei suoi
superiori, dell’infermiera di Codogno che ha scoperto il “paziente 1”;
o ancora l’invito
all’aperitivo di fine febbraio in zone poi estremamente colpite.
Il pericolo è stato minimizzato per oltre un mese, dalla firma dello
stato di emergenza del 31 gennaio (ma polmoniti
atipiche si sono registrate al Nord già da novembre; il
virus è risultato presente nelle acque reflue di Torino e Milano già
a Dicembre; mentre per l’Università di Barcellona era presente
già da Marzo 2019), fino all’inizio del lockdown totale dell’11
marzo, e con le riaperture a singhiozzo da maggio in poi, tra
mascherine e distanziamento sociale. Si è dato spazio agli scienziati
allineati, con i contraltari che oggi stanno finendo sullo scranno dei
negazionisti e dei minimizzatori, dopo che per mesi si sono
ridicolizzate pubblicamente anche obiezioni rigorose e nel merito;
dopo aver presentato modelli probabilistici come se fossero scienza e
verità incontrovertibili; e, soprattutto, mantenendo il solito
silenzio riguardo i diktat imposti come al solito dal potere
finanziario, in nome del dio denaro, specie nelle zone più martoriate
dal virus.
Dalle numerose testimonianze raccolte, sia dai media che
dalle persone ammalate, i medici di base sono stati semplicemente
tagliati fuori, se non in alcuni casi addirittura isolati. Nonostante
abbiano “portato risultati” anche eccellenti, una volta raccolto il
necessario coraggio per svolgere la propria professione, anche
rimettendoci di tasca propria nell’acquisto dei DPI, come accaduto al
dottor
Munda in Val Seriana che non ha registrato decessi tra i suoi
malati. Avremmo avuto ben altri scenari, quindi, se ai medici di
famiglia a febbraio e marzo fosse stato consentito di fare il
proprio lavoro in sicurezza. Ed ancora oggi ed in futuro
potremmo davvero avere altri scenari se venisse ripristinata una
medicina del territorio puntuale e rapida.
Invece si prosegue con tamponi a raffica e
un’ospedalizzazione pressoché totale della gestione della malattia, anche
di soggetti asintomatici, che in aggiunta alle normali influenze
e polmoniti stagionali rischiano di fare collassare gli ospedali. Fino
ad inizio ottobre più
medici e politici
hanno smentito le notizie di terapie
intensive piene a causa di malati di Covid-19, con presenza
massiccia di asintomatici in quarantena: perché anziani soli, o perché
soggetti che in isolamento domiciliare rischierebbero di contagiare. Nel
monitoraggio settimanale del ministero della Salute-Iss,
relativo al periodo 5-11 ottobre, si legge che l’allerta per la tenuta
delle terapie intensive riguarda soprattutto 10 Regioni, nelle quali
c’è una probabilità da alta a massima di superare la
soglia del 30% delle terapie intensive occupate da pazienti
Covid-19 nel prossimo mese. Inoltre, l’unico parametro attendibile per
valutare la gravità sanitaria dell’epidemia pare essere la
correlazione tra accesso alla terapia intensiva e decessi, come
affermato in una ricerca
in corso di pubblicazione su Nature Scientific Report.
Il governo – che da marzo afferma di avere fatto tutto
bene, al punto che l’Italia è l’esempio per tutto il mondo – nega
preventivamente che potrebbe avere qualche responsabilità, e quindi la
scarica sui cittadini. Il presidente del Consiglio Conte, ha
affermato: «Non potete pensare che ci sia il governo che risolva
il problema; lockdown? Molto dipenderà dai comportamenti dei
cittadini». Già in questa frase, magari sfuggita al Presidente del
Consiglio, si può intuire come il futuro eventuale lockdown non è
legato istintivamente alla situazione epidemiologica in sé, come si
sforzavano di ricordare ad ogni DPCM tra marzo ed aprile, bensì al
“comportamento dei cittadini” evidentemente stanchi ed esasperati da
una situazione di tensione che dura da mesi.
Cosa è stato fatto da marzo ad
oggi per potenziare la medicina del territorio, per darle
protocolli? Cosa è stato fatto per le strutture sanitarie e per i
trasporti? Dove sono i protocolli di sicurezza nelle RSA?
Perché si continua a proporre ai guariti che necessitano di isolamento
domiciliare la
possibilità di svolgerlo nelle RSA? Qui sono state vietate solo
le visite ai parenti, cosa che può solo peggiorare la condizione
psicosomatica di una persona anziana e a rischio. E perché non si
parla di come rinforzare il sistema immunitario, di come colmare le
carenze vitaminiche, dell’importanza di alimentazione e stili di
vita sani? Perché con una malattia respiratoria ad altissima
contagiosità nessuno parla di divieto di fumo? Perchè non si agisce
sul fattore ambientale, sul traffico, sulle fonti di inquinamento?
Si emanano norme che scaricano molta responsabilità del
contagio sui cittadini, e che a nostro giudizio stanno suscitando
paura, insicurezza, sospetto ed odio sociale. Ad aggiungere
perplessità arrivano in questo periodo i sempre più frequenti
distinguo dei componenti del CTS che, dopo aver visto diverse proprie
indicazioni non essere seguite dal governo da febbraio in poi, oggi
cominciano ad evidenziare apertamente la “assoluta assenza di evidenze
scientifiche” su alcuni provvedimenti del governo stesso, rendendo
pubbliche le proprie posizioni con
comunicati stampa. Se i verbali dei primi mesi sono stati prima
secretati – o per dirlo con parole di Conte, erano “riservati” – e poi
pubblicati gradualmente con determinati omissis, rendendo evidente che
il governo ha preso diverse scelte percorrendo strade differenti
rispetto al pensiero del CTS.
Addirittura
il capo della Polizia Gabrielli ha dovuto ricordare l’inviolabilità
della sfera privata anche in stato d’emergenza. La preoccupazione per
la limitazione di numerose libertà personali è circolata fin da subito
− con meno intensità a marzo proprio in virtù della “novità” − e sta
riprendendo spazio e rilevanza oggi che in molte zone d’Europa si
decide e si annuncia il coprifuoco come misura di contenimento.
La paura sta in
modo evidente coprendo alcune illogiche
assurdità in atto, generando da un lato esasperazione,
dall’altro un’eccessiva polarizzazione delle posizioni, per cui il
dibattito su ogni questione legata alla Covid-19 sta degenerano in
attacchi, spesso privi di senso logico e critico, verso chiunque la
pensi diversamente, e nonostante studi internazionali e numeri
sembrino parlare chiaro.
Le
incongruenze nella gestione della Covid-19 sono, sempre a nostro
giudizio, incredibili e clamorose. Basti ad esempio il continuo
mancato uso delle mascherine in situazioni pubbliche da parte degli
esponenti politici e del mondo sanitario che hanno avuto maggiore
visibilità negli scorsi mesi. Mentre il mantra per le masse è
"mascherine, distanziamento e
lavaggio delle mani", con la responsabilità dell’eventuale contagio
scaricata sui singoli, e la ricerca continua del capro espiatorio,
dall’uomo che corre alla donna col cane, poi quelli che sono andati
all’estero in vacanza, fino alla movida e agli studenti, invece di
interrogarsi seriamente sullo smantellamento del Sistema Sanitario
Nazionale. Salvo poi ricordare a tutti che dovranno rinunciare ad
ulteriori libertà per un bene comune e uno Stato che si è dimenticato
per decenni della Sanità e dei suoi aspetti di base.
Una serie di decisioni politiche stanno rivoluzionando
la nostra vita e soprattutto quella dei bambini,
che si stanno abituando loro malgrado a mascherine, distanziamento e
paura e sfiducia nel prossimo. Ancor di più in Italia, dove per una
motivazione che sfugge ad evidenze scientifiche, vengono prese le
scelte più estreme. Come il protocollo scolastico anticontagio, una
strutturazione costruita non guardando alcun dato prodotto all’estero
nei mesi precedenti attestante il fatto che bambini ed adolescenti si
ammalano molto di meno e sono molto meno contagiosi.
Le nostre scuole sono state aperte con studenti alternati in
presenza, con costosi banchi singoli acquistati ed arrivati solo in
alcuni istituti, con una sala Covid dove trasferire il bambino se è
raffreddato o ha la febbre, sotto la supervisione di un “responsabile
Covid” che non è una figura di formazione sanitaria, e con le
mascherine per bambini e adolescenti in caso di spostamenti e mancato
rispetto del distanziamento. Tutte queste preoccupazioni sono
state giudicate inutili anche da alcuni medici. La
Francia ed altri paesi europei, tranne Italia, Spagna e Grecia
hanno deciso di non far indossare le mascherine nelle scuole per
evitare “danni psicologici”; e molti stati europei come Olanda,
Svezia, Danimarca, Malta, Albania, hanno deciso di sconsigliare
l’uso delle mascherine all’aperto, poiché inutili
e spesso controproducenti,
poiché l’uso è spesso totalmente errato, come vedremo.
Come lasciare a questo punto fuori dall’analisi
sull’obbligo dell’utilizzo delle mascherine anche all’aperto la
considerazione sulla riconversione di alcuni stabilimenti FCA
destinati alla produzione
di 27 milioni di mascherine al giorno (di dubbia qualità), che
poi pare siano passate a
100 milioni. Come ignorare che solo pochi mesi fa lo stesso
gruppo, o per meglio dire la stessa famiglia, ha assunto il controllo
del gruppo editoriale GEDI, che controlla giornali come La Repubblica
e La Stampa.
Anche Luxottica
e Fameccanica (gruppo Angelini) hanno ultimamente riconvertito
la produzione.
Siamo sicuri che le mascherine saranno irrinunciabili
per molti mesi, al di là dei dati della situazione epidemiologica che
possono consigliarne o meno l’uso. E anche in questo caso un membro
del CTS, Alberto Villani, presidente della Società Italiana di
Pediatria, ha detto la sua: «L’obbligo di indossare la mascherina
all’aperto è un richiamo. Non importa se scientificamente ha senso
oppure no».
Siamo fermamente convinti che il tipo di narrazione
prescelto sia stato uno dei tanti errori,
insieme a quelli politici e sanitari che si sono susseguiti e che
hanno probabilmente provocato molte delle morti. La narrazione
catastrofista sta continuando e genera scenari preoccupanti al di là
di quelli già cupi portati dalla risalita dei contagi e dei ricoveri.
Governo e media mainstream hanno scelto di insistere col panico e la
drammatizzazione, anche quando sostanzialmente, il
dato della mortalità era rientrato nella normalità, così come
pare esserlo ancora oggi che c’è una nuova impennata di positivi, con
però un numero record di tamponi eseguiti. Che si sia fatta questa
scelta per nascondere quanto non sia stato fatto per garantire un
autunno sereno, è ovviamente solo un’illazione giornalistica.
Ma non è un problema solo
italiano: nella percezione comune, paesi come il Brasile stanno
subendo un’ecatombe infinita, mentre la
situazione è apparsa diversa dalle testimonianze; stesso
discorso per gli Stati Uniti, che hanno avuto una situazione
simile a quella italiana, con alcuni casi limite (New York),
proprio come in Italia (Lombardia). Ciò nonostante, anche in questi
luoghi e per questi luoghi, la narrazione ufficiale continua ad essere
allarmistica.
E così la pandemia, che già di per sé comporta degli
stress psico-fisici notevoli soprattutto per chi “ci lavora dentro”,
continua a proporre attraverso i decisori politici norme sulle
restrizioni (molto, anzi troppo, varie) destinate ai cittadini comuni
che appaiono complesse da accettare per coerenza e funzionalità, e che
stanno mettendo in ginocchio dal punto di vista economico diversi
settori. A questo si aggiunge una comunicazione che, nei massimi
esponenti del governo, mostra il volto di una volontà che spinge verso
la sfiducia del prossimo, invitando alle segnalazioni di comportamenti
che i DPCM definiscono inidonei. Una spinta che sembra mirare alla
definitiva rottura del tessuto sociale e dell’equilibrio psichico
delle persone, già messi a dura prova durante il lockdown.
Abbiamo visto in quel periodo
vigili che rincorrevano bagnanti, oppure ritrovatisi a fermare bambole
gonfiabili in spiaggia, seguiti poi dai militari armati di mitra.
Abbiamo osservato foto taroccate per aumentare “i rischi della
movida”, o ascoltato sindaci decretare l'astinenza sessuale e portare
le spiagge libere ad essere a numero chiuso, col divieto per i bagnini
ad effettuare salvataggi con la respirazione bocca a bocca. Abbiamo
visto chiudere stadi, teatri e cinema, e finanche archivi
e biblioteche serrate perché bloccate da insulse regole di
quarantena dei libri e dei documenti.
La revisione delle misure che hanno bloccato le persone
è stata lentissima, e soltanto pochi giorni fa si è arrivati
quantomeno alla riduzione della quarantena da 14 a 10 giorni. Di
contro, nonostante gli annunci allarmistici sulle riaperture di maggio
scorso - rivelatisi fortunatamente infondati - nemmeno un mese dopo si
sono riaperte le porte al turismo dall’estero, un fenomeno che in Cina
è il primo “identificato” come possibile causa del ritorno della
pandemia, attualmente assente o quasi. Da noi si è preferito
sanzionare amministrativamente chi non ha rispettato DPCM ed ordinanze
regionali, basate principalmente sui divieti di assembramento, mentre
lo stesso Stato organizzava 21 manifestazioni, una per regione, tra il
25 maggio e il 2 giugno, per guardare le Frecce Tricolori passare in
cielo in onore delle vittime del Covid.
Un ringraziamento particolare per la stesura di questa
inchiesta, e per il clima maggiormente sereno che hanno provato a
creare nei propri lettori, va al gruppo di ricerca svizzero Swiss
Policy Research (SPR), autore dei “Facts
about
Covid 19”, fondamentale contenitore di fonti; a Giap,
il blog di Wu Ming, continuo promotore di pensiero critico; alla
pagina Facebook Pillole
di Ottimismo creata dal dottor Guido Silvestri con la
collaborazione dei dottori Paolo Spada e Sara Gandini, che si sforza
quotidianamente di dare una lettura semplice ma non per questo meno
approfondita sia dei numeri della pandemia che di tutto quanto si
muova nel mondo per le cure e l’approccio alla Covid-19; infine, anche
a tutti i partecipanti del gruppo Facebook “L’uomo
che
corre. Osservatorio civile sul Coronavirus” che hanno
contribuito a raccogliere notizie e studi durante la quarantena. Il
nostro sostegno è idealmente rivolto ai familiari delle vittime della
Covid 19 che si sno riuniti nel Comitato Noi
denunceremo: il supporto a loro è totale, e l'auspicio è quello
che possano ottenere verità e giustizia.
Covid: l’altro racconto
Bassa mortalità, con o senza
lockdown
La
mortalità complessiva da
Covid-19, malattia che ha avuto una forte rapidità di diffusione, è
molto bassa: secondo gli
ultimi studi immunologici, la mortalità complessiva (IFR) nella
popolazione generale varia tra lo 0,1%
e lo 0,5% nella maggior parte dei paesi, il che è paragonabile alle
pandemie influenzali del 1957 e del 1968, come per gli Stati Uniti.
Stessa percentuale di una forte influenza stagionale, come accertato in
paesi come Gran Bretagna (che ha fatto il
lockdown) ed anche Svezia (senza lockdown, così come ha fatto il Giappone, la Corea del Sud e
la Bielorussia dove non si sono registrati eventi più negativi di altri
paesi). La stessa OMS è tornata indietro sui suoi passi, affermando che il lockdown non è
l’unica soluzione, e non serve ad evitare i casi, ma
solo a rimandarli, a prescindere dalle misure prese, i decessi saranno più
o meno simili ovunque, mentre economicamente è una catastrofe. L’Università di Edimburgo ha
condotto uno studio previsionale, condotto ex post sulla base dei dati reali, che ci dice
che il lockdown, il distanziamento sociale e la chiusura delle
scuole alla lunga possono comportare un numero maggiore, e non
minore, di morti. Senza una seria protezione delle categorie a
rischio e una mitigazione degli effetti dell’epidemia sulla
popolazione, sulla società e sul sistema sanitario, significa
restare per molto tempo in questa trappola “lockdown/riaperture”.
La mortalità è più alta negli Stati Uniti (paragonabile al
1957/1968), ma più bassa in paesi come la Germania e la Svizzera,
dove la mortalità complessiva è nello stesso range di una lieve
influenza stagionale. I sempre più numerosi e recenti
studi,
sulle nazioni che non hanno avuto un tracollo del sistema sanitario
e dell’assistenza agli anziani, tra cui l’ultimo dell’OMS, oltre a quelli
effettuati sull’intero globo, su 12 nazioni, in Germania, Iran, USA, Danimarca e ancora negli Stati Uniti, a Miami e Los Angeles, in Indiana ed altri, in Brasile a Maranhao e Manaus, in Svizzera a Ginevra e Zurigo, in India, in Kenya, in Malawi, in Austria, in Svezia, confermano le prime ipotesi degli studi effettuati in Slovenia, in USA a Santa Clara, Miami, Los Angeles, in Danimarca, in Corea del Sud, Islanda
e Germania, sulle percentuali emerse nel caso della nave da crociera Diamond Princess e in Giappone, quest’ultimo con i numeri migliori, con lo 0,01% sotto i 70 anni; percentuale più
alta è lo 0,36 tedesco.
Luoghi che
invece hanno avuto un collasso parziale o totale del sistema
sanitario e dell’assistenza degli anziani, come negli studi
effettuati in Spagna, Nord Italia, New York 1 e 2, Inghilterra 1 e 2, e Belgio, hanno numeri più alti, ma in particolare desta interesse
il caso della Lombardia: lo studio italiano di Poletti ha preso in
considerazione i contatti di casi confermati per determinare il loro
rischio di morte e le loro comorbilità. Ha scoperto che la
situazione era diversa da quella descritta e meno grave già dopo il
16 marzo: l'IFR complessivo era inferiore del 62% nella seconda fase
della pandemia (dopo il 16 marzo) rispetto alla prima fase
cataclismica (fino al 15 marzo). Ciò era particolarmente evidente
nelle persone sopra gli 80 anni, dove l'IFR è sceso dal 30% nella
fase iniziale all'8% nella fase successiva (4% per le donne, 16% per
gli uomini). Sotto i 50 anni, gli IFR erano vicini allo 0%; sotto i
70 anni, gli IFR erano dello 0,43%. Oltre l'80% dei decessi si è
verificato in pazienti con malattie cardiovascolari, che sono note
per essere un importante fattore di rischio.
Inoltre, uno studio immunologico svizzero di giugno, ci
mostra che molte più persone potrebbero aver avuto contatti con il
coronavirus di quanto si pensasse in precedenza, il che significa che il virus è
probabilmente molto meno letale: si sapeva già che chiunque venisse infettato dal virus,
formava degli anticorpi che possono essere rilevati con un esame del
sangue. Ma gli immunologi dell'Università di Zurigo hanno scoperto
che le persone con un decorso grave della malattia hanno anticorpi
rilevabili nel sangue, mentre i casi lievi raramente li hanno. Ma
oltre l'80% dei casi di Covid-19 è lieve. Cosa significa questa
nuova scoperta per i test degli anticorpi su vasta scala nella
popolazione? Che con i test attuali per gli anticorpi nel sangue non
possiamo rilevare tutte le infezioni sopravvissute, ma probabilmente
solo un quinto del totale.
Il
tasso complessivo di mortalità per Covid-19 è quindi circa venti volte inferiore a
quanto inizialmente ipotizzato dall’OMS. A inizio ottobre si parlava di circa
1 milione di morti nel mondo, ma i dati, nella migliore delle
ipotesi, sono altamente incompleti. Purtroppo per la veridicità del
conto finale, in numerosi casi possono risultare sovrastimati – lì
dove ad esempio, come in Italia, vengono considerati morti per
Covid-19 anche infartuati risultati positivi post-mortem – e in
alcuni altri, come in Cile e Ungheria, sottostimati.
Un confronto tra il numero di morti per Coronavirus previsto
dall'influente modello dell'Imperial College di Londra (prendendo
nessuna misura o una misura moderata) e il numero effettivo di morti in
Svezia,
mostra
che il modello ha fortemente sovrastimato l'impatto dell'epidemia.
Nello stesso periodo
AIDS,
tubercolosi e malaria hanno fatto molti più morti e causato
moltissimi più anni di vita persi. Si stima, invece, che un terzo della
popolazione mondiale fu colpito dall’infezione durante la
pandemia
di Spagnola del 1918-1919, con circa 50 milioni di decessi su 500
milioni di infettati.
Alcuni
ipotizzano per la Spagnola fino a 100 milioni di morti, su meno di 2
miliardi della popolazione mondiale. Contrariamente al Covid,
quasi il 50% dei decessi per questa malattia colpiva persone di età
compresa tra 20 e 40 anni e quindi tendenzialmente sani. Perché allora
paragonare la Covid-19 alla Spagnola?
Alta età media dei deceduti e
patologie pregresse
La
percentuale di deceduti in
età scolare e in età lavorativa (under 65) per Covid-19 è
invece bassissima ovunque,
tra lo 0 e lo 0.30%, come dichiarato dagli studi effettuati negli USA, in Grecia, sulla nave da crociera Diamond Princess, sui donatori di sangue di Boston, sui senzatetto di Boston, sugli operatori sanitari in Italia, nelle prigioni del Tennessee, sulle portaerei USS Theodore Roosevelt e Charles de Gaulle e, ancora, negli Stati Uniti. In sostanza, per persone in età lavorativa e scolastica,
il rischio di morte è generalmente assimilabile a quello di un viaggio giornaliero in auto per andare al
lavoro. Si può desumere oggi che il
rischio sia stato inizialmente sovrastimato perché molte
persone con sintomi lievi o
nessun sintomo non sono state prese in considerazione.
L’età media dei morti per
Covid-19 è superiore
agli 80 anni, come accertato in Austria, Australia, Brasile, Canada, Inghilterra, Francia, Germania, Italia, Spagna, Svezia (il picco, con 84 anni), Svizzera, USA. Circa l’80% dei decessi colpisce anziani in
ospedali e case di cura, nella maggior parte dei paesi, tra il 30% e il 60% dei decessi degli
anziani sono avvenuti nelle case di cura (in Svezia il 75%), che non hanno avuto alcun beneficio dal lockdown. In
molti di questi casi poi non è chiaro se queste persone siano realmente morte per Covid-19 o
per settimane di estremo stress e isolamento. A tal proposito
evidenziamo che il trattamento degli infarti e degli ictus è diminuito fino al 40%, perché molti pazienti hanno scelto di non
andare in ospedale nonostante il pericolo di vita. E nessuno
attualmente ha osato stimare un calcolo sulle morti che nel 2020
possono essere state causate dalla mancanza o dalla riduzione
dell’attività fisica.
Sono dunque gli anziani i più deboli da proteggere, come
durante tutti gli inverni, anche se oggi appare in modo molto più
evidente rispetto al passato.
Meno
del 4% dei deceduti non aveva patologie pregresse. A differenza delle pandemie
influenzali, l'età e il
profilo di rischio dei decessi corrispondono quindi essenzialmente
alla normale
mortalità.
In Inghilterra hanno
rilevato
che il 73% dei pazienti ricoverati in Terapia Intensiva per Covid è
sovrappeso o obeso. Un dato, quello dell’alto rischio in caso di
obesità, confermato dalla notizia che sono state colpite anche persone più giovani
che erano obese, e con altre malattie collegate all’obesità. Anche in Italia la maggioranza dei
deceduti ha 2 o più patologie: nell’80% dei casi. La grave coagulazione intravascolare indotta
dall’incontro tra il virus e un terreno fertile ha portato
rapidamente alla morte individui fragili: verosimilmente la Covid-19 ha agito sia anticipando il decesso in
individui affetti da gravi patologie, sia incrementando la mortalità
con i suoi effetti diretti e indiretti.
L’incidenza
delle patologie pregresse è stata studiata, approfondita e
certificata da numerosi ospedali italiani coinvolti nella lotta al
Sars-CoV-2: Niguarda di Milano, San Raffaele di
Milano, San Martino di Genova.
Gli effetti
cardiovascolari e immunologici del virus spiegano l'elevato tasso di
mortalità nelle case di cura (fino al 70% dei decessi), nelle
persone sopra i 70 anni (circa il 90%) e nei paesi occidentali in
generale. Al contrario, i tassi di mortalità per Covid in Africa,
previsti da molti come alti, sono stati molto bassi. Questo virus ha
quindi un profilo di mortalità molto diverso e più naturale di altre
pandemie: se il Sars-CoV-2 ci avesse colpito negli anni '50, con una
popolazione molto più giovane, poche case di cura, e una presenza
decisamente inferiore di malattie cardiovascolari, avrebbe causato
molti meno morti.
Alcuni studi
sostengono poi che fino al 60% delle persone può avere già una certa immunità
parziale di fondo, sviluppata grazie ai linfociti T e derivata dal contatto coi precedenti Coronavirus tra i
quali anche alcuni comuni virus del raffreddore. Inoltre, fino al 60% dei bambini e circa il 6% degli
adulti possono già avere anticorpi cross-reattivi.
Diversi
resoconti dei media mainstream su persone giovani e sane, che
sarebbero decedute a causa del Sars-CoV-2, si sono rivelati falsi:
molti di questi giovani non sono morti a causa di Covid, ma erano già gravemente malati (ad es. leucemia
non diagnosticata), oppure avevano 109 anni invece dei 9 inizialmente
riportati. L’annunciato incremento della sindrome di Kawasaki nei
bambini a causa del Covid si è rivelato falso.
Perché, dopo l’iniziale sopravvalutazione del
rischio, si continua a terrorizzare le persone quando gli studi
scientifici raccontano un’altra malattia?
Morti “per” o morti “con” Covid-19?
Impossibile avere numeri in tempo reale
È ormai risaputo che in Italia,
nel conteggio dei morti, sono
stati considerati sia i morti per Covid-19 che quelli con Covid-19.
Ad un’analisi numerica e di confronto con altri paesi, sembra si
possa affermare che anche per questo ci sono state differenze eclatanti dei numeri. Si tratta di un punto estremamente delicato perché tocca
da vicino l’emotività legata alla possibile morte di un caro o di
una persona vicina che, senza l’esistenza della Covid-19, avrebbe
potuto - evitando anche altre forme virali come l’influenza -
continuare a vivere serenamente. Il computo numerico, però, ha anche
necessità di essere valutato al di là del giusto trasporto emotivo
rispetto ad eventi di questa portata.
Oggi sappiamo che un test positivo al Sars-Cov-2
non significa necessariamente che questo virus sia sempre il
principale responsabile della morte di un paziente, ancor di
più da quando è stato reso noto che la quantità di virus presente
sul tampone influisce nel determinare la malattia e la sua gravità.
Come vedremo più avanti, ci sono
enormi dubbi anche sulla validità dei test, che in alcuni casi
possono produrre risultati falsi positivi e falsi negativi,
reagire a frammenti di virus non infettivi, ad una precedente
infezione o reagire ad altri coronavirus comuni con una sequenza
genica parzialmente simile.
Nei “decessi da
Covid-19” spesso non è chiaro se i decessi siano causati dalla malattia o
dall’aggravarsi di malattie sottostanti e patologie pregresse, che
abbiamo già riconosciuto come “decisive”. Comunque, le cifre
ufficiali di solito non riflettono questa distinzione, e in Italia il numero giornaliero
comunicato dalla Protezione Civile sarebbe stato ovviamente minore
se si fosse presa un’altra strada anche dal semplice punto di vista
comunicativo. Qualcosa che a nostro giudizio non avrebbe creato
tutto il panico provocato
dal rito dei numeri delle ore 18, esempio di falsificazione
statistica saggiamente – o pretestuosamente? – abbandonato nel
momento del calo dei contagi. Solo per fare alcuni esempi,
negli Stati Uniti dal 16
aprile scorso sono stati inclusi nel conteggio anche i decessi
soltanto sospetti di Coronavirus. La Catalogna,
invece, ha addirittura cambiato metodo di conteggio in corso
d’opera: accanto ai morti negli ospedali sono stati aggiunti i dati
sui centri per anziani e nelle abitazioni.
La
scelta italiana di non effettuare a priori la distinzione è stata
data dal capo della protezione civile Borrelli durante una
delle prime conferenze stampa/bollettino andate in diretta
televisiva. Da quel momento è
stato di fatto deciso che, qualsiasi deceduto, qualora risulti
positivo al tampone o anche solo sospetto positivo, sarebbe stato
considerato nel conto delle vittime del coronavirus.
Questa decisione si può spiegare anche attraverso il fatto che
l’Istituto Superiore di Sanità e l’ISTAT impiegano normalmente, per
l’influenza stagionale, circa due
anni per completare l’analisi delle cartelle cliniche e dei
certificati di morte per definire le cause del decesso. Stante
l’aumento statistico del numero di deceduti durante la pandemia, non
è impossibile ipotizzare che i tempi si allunghino ulteriormente.
Ciò rende minore il peso – innegabile dal punto di vista emotivo –
del conto quotidiano delle morti in tempo reale, perché persino i dati dei decessi per influenza,
malattia stagionale e “consueta”, non sono disponibili mai in tempo
reale.
L’ISTAT aveva
iniziato a metà marzo l’esame delle cartelle cliniche, constatando solo 12 morti per Covid su 355 cartelle
analizzate sulle 2.003 pervenute. Al 21 luglio, la stessa verifica
era arrivata a circa 3000 cartelle, e i morti per solo Covid erano
148, col 95% di morti con concomitanza di altre patologie. Al 4
ottobre, le cartelle analizzate sono
arrivate a 4190, con il numero di 158 morti all’interno di questo
campione con nessuna altra patologia pregressa, e di questi 14 al di
sotto dei 50 anni di età.
Gli unici numeri certi li abbiamo sempre avuti per i tamponi
effettivamente risultati positivi, con la distinzione tra sintomatici ed
asintomatici arrivata con molti mesi di ritardo, malati gravi ricoverati
negli ospedali, nei reparti ed in terapia intensiva; poiché in questo
caso scatta un diverso sistema di sorveglianza basato sul sistema
regionale.
Pareri contrari al conteggio dei
decessi effettuato
Alessandro Buonsignore,
presidente dell'Ordine Medici della Liguria, il 27 Aprile ha dichiarato che: «Una
problematica che riguarda tutto il nostro Paese è collegata al
fatto che in Italia si sia deciso di inserire
nel numero di decessi da Coronavirus, tutti i casi di coloro che
sono stati scoperti positivi al Covid-19, durante la propria
vita o addirittura nel post-mortem. Quindi praticamente stiamo azzerando quella che
è la mortalità per qualsiasi patologia naturale che sarebbe
occorsa anche in assenza del virus. Lo dico con cognizione di
causa, lavorando nell'Istituto di Medicina Legale dell'Università
di Genova, dove abbiamo contezza che all'obitorio comunale di
Genova, i decessi per
patologie non-Covid-19 sono praticamente scomparsi».
L’infettivologo
Matteo Bassetti ha evidenziato: «Chiunque
sia morto con la positività del tampone è automaticamente morto di
COVID-19. Non è così che
si dovrebbe stabilire la causa di morte, basta leggere un
qualunque modello ISTAT usato per certificare il decesso. Inoltre
la letalità riportata oggi
(ad aprile) è evidentemente
sovrastimata anche perché (e dovrebbe farlo)
non tiene conto di tutti i casi di COVID-19, includendo gli
asintomatici e quelli che si curano a casa. Un articolo
scientifico pubblicato su Lancet Infectious Diseases da Volmerre e
Bommer dice che in Italia abbiamo diagnosticato solo il 6,9% di
tutti i casi reali di COVID-19».
Come
ha
ammesso Walter Ricciardi, consigliere del ministro della Salute,
che
si dichiarava indebitamente membro dell’Oms, l’Italia ha
registrato i morti con coronavirus «senza quella maniacale attenzione
alla definizione dei casi di morte che hanno per esempio i francesi e i
tedeschi, i quali prima di attribuire una morte al coronavirus eseguono
una serie di accertamenti e di valutazioni che addirittura in certi casi
ha portato a depennare dei morti dall’elenco. Di fatto capita che
accertino che alcune persone siano morte per altre cause pur essendo
infette da coronavirus».
Rapporto ISTAT-ISS sull’aumento dei
decessi
Polemiche
ha creato anche il
rapporto ISTAT-ISS sull'aumento di decessi, da alcuni
ritenuto non attendibile poiché, come affermato nella nota
metodologica dello studio, la base dati che si è utilizzata per
calcolare la mortalità del primo trimestre 2020 è diversa da quella
che si è usata per calcolare la mortalità media degli ultimi 5 anni.
Per quest’ultima si tiene conto, infatti, del totale dei comuni,
mentre per quella del primo
trimestre 2020 si tiene conto di circa 6800 comuni su 8000, con
circa 1200 comuni esclusi dal conto.
Le obiezioni mosse affermano che
sarebbe stato più corretto mostrare un andamento annuale, invece che
confrontare un dato puntuale con un dato medio; oppure prendere un
intervallo di tempo più lungo, facendo la media mobile su intervalli
di 5 anni. Ma si è scelto deliberatamente di confrontare un dato
puntuale con uno medio. Se si fosse applicato un metodo valido al
punto da essere non obiettabile, si sarebbe probabilmente visto come
la mortalità abbia avuto forti oscillazioni negli anni, e che se si
vanno a prendere i dati puntuali di singole aree, queste oscillazioni
diventano ancora più forti.
Non è impossibile escludere, a questo punto, che lo studio ISTAT sia
stato pubblicato frettolosamente per dare una conferma statistica
ufficiale dell’aumento delle morti. Peccato però che questa fretta
abbia generato un rapporto attaccabile dal punto di vista della
scienza statistica in quanto tale, e che sarà necessario attendere
ancora molto per conoscere la vera incidenza della Covid-19 sulla
mortalità generale in Italia.
Nello stesso studio infatti si fa presente che i dati sono provvisori
e viene ovviamente mantenuta l’associazione tra decessi di Covid e con
Covid, tralasciando gli approfondimenti sulla causa di morte.
Alleghiamo qui a tal proposito la lettera che Giorgio
Alleva e Alberto Zuliani, ex presidenti dell’ISTAT, pubblicata il 17
Ottobre sul Corriere della Sera, intitolata L’importanza della
Statistica. La lotta al virus ha bisogno dei dati.
«Caro direttore,
sulla valutazione della dimensione e dell’evoluzione della pandemia
c’è un grosso problema statistico. In questa fase di preoccupazione e
di discussione sui provvedimenti da assumere non possiamo rimanere
privi di uno strumento rigoroso di conoscenza dei veri numeri della
pandemia in corso.
In tanti mesi non
abbiamo investito in un sistema di raccolta di dati che consenta un
monitoraggio accurato su probabilità di contagio, dimensioni delle
componenti sintomatiche e asintomatiche, collegamento con i rischi
successivi, ricoveri e terapie sub-intensive e intensive, letalità.
L’assenza di un quadro affidabile e condiviso favorisce una
comunicazione non univoca. Da una parte i media sono pronti a
trasformare i numeri quotidiani da allarmi ad allarmismi; dall’altra
gli esperti si lanciano in interpretazioni eterogenee. Non è citando
insieme, giorno per giorno, il numero di casi positivi e di tamponi
effettuati che possiamo capire cosa stia accadendo realmente. I casi
positivi riguardano tamponi di uno o più giorni precedenti; le
tipologie di tamponi impiegate hanno sensibilità differenti; il
raffronto del tasso di contagio è condizionato dalle differenti regole
sulla somministrazione dei tamponi, a marzo soltanto sui sintomatici,
ora essenzialmente su persone che hanno avuto contatti con casi
positivi; in ogni caso con l’impossibilità di riferirlo alla
popolazione generale. La statistica è stata incapace di convincere le
autorità della necessità di un sistema di monitoraggio che integrasse
stabilmente dati campionari con quelli del sistema sanitario. Lo
avevamo raccomandato già a marzo proprio dalle pagine del Corriere.
Qualcosa è accaduto con l’indagine Ministero della salute-Istat, ma
l’esperienza, oltre che tardiva, è stata condotta con modalità che non
hanno consentito di centrare l’obiettivo dei 150.000 esami
sierologici, fermandosi a 64.660 unità. Un’occasione perduta, anche di
dialogo tra comunità scientifiche.
L’urgenza di leggere
correttamente la realtà si è rafforzata. La statistica ufficiale è in
grado di impiantare il campionamento idoneo a seguire l’evoluzione
dell’epidemia e può dare un contributo realmente informativo
attraverso l’integrazione con i dati raccolti dagli altri soggetti. Il
protocollo sanitario sul tracciamento dei contatti in caso di esito
positivo del tampone consentirebbe la lettura delle conseguenze sulla
salute delle persone e una previsione migliore del possibile impatto
sul sistema sanitario. Il monitoraggio potrebbe essere realizzato
utilmente anche a livello regionale e delle grandi città.
Rispetto agli attuali 150.000 tamponi giornalieri effettuati su quanti
mostrano sintomi o hanno avuto contatti con persone contagiate, un
campione probabilistico quindicinale anche di poche migliaia di unità,
eventualmente con accertamenti più semplici ma con la forza dell’obbligo
di risposta in virtù della rilevanza sanitaria, potrebbe dare grande
forza ai numeri e al dibattito corrente, fornire fondamento migliore
alle decisioni delle istituzioni preposte e impegnare a un rispetto più
convinto i destinatari, cittadini e imprese».
I decessi negli anni passati: in
Italia si muore di più che nel resto del mondo
Come si apprende dallo studio
pubblicato sull’International Journal of Infectious Deseases e
dedicato a L’impatto dell’influenza sull’eccesso di mortalità in
Italia su tutte le età negli anni tra il 2013 e il 2017, nella
sola stagione invernale
2014/2015 sono stati registrati oltre
375.000 morti in termini assoluti. Un numero che elaborato in
paragone all’anno precedente corrisponde alla cifra di circa
54.000 morti in eccesso (+ 9,1%) rispetto al 2014.
Un dato che rappresenta il più
alto tasso di mortalità riportato dalla seconda guerra mondiale in
Italia.
L’andamento della mortalità giornaliera del periodo ottobre
2019 – aprile 2020 è analoga alla mortalità del medesimo periodo
a cavallo tra il 2016 e il 2017. Tra
dicembre 2016 e febbraio 2017 ci sono stati 20.000 ultra 65enni
morti in più rispetto alle attese (cioè la media del periodo dei
5 anni precedenti), con incremento del 42% dei decessi solo a gennaio,
come affermava l’allora presidente dell’ISS, Ricciardi.
Anche uno studio
dello statunitense National Institute of Health che racconta
l'andamento della mortalità in tutto il territorio italiano dal 1969
al 2001, mostra come il picco di mortalità, sempre collocato nei primi
mesi dell'anno, sia molto variabile.
Negli anni più miti raggiunge i 20.000 morti, in altri anni il picco
supera i 54.000 morti. Inoltre, l’Italia ha sempre registrato alti
tassi di mortalità, mediamente tre volte più alti di quelli degli
Stati Uniti, e una volta più alti di quelli degli altri paesi europei.
In molti paesi,
poi, il numero dei decessi per Covid-19 è rimasto al di sotto
dei livelli delle forti stagioni influenzali che, però, negli
anni passati non hanno meritato poi tanti servizi di apertura dei
telegiornali e ancor meno titoli da prima pagina dei quotidiani.
La sola influenza generalmente
provoca nel mondo circa 3-5 milioni di casi ogni anno, e una stima
di decessi che si aggira tra le 250.000 e le 500.000 unità.
Negli Stati Uniti, la
normale mortalità complessiva giornaliera è di circa 8000
persone, di circa 2600 in Germania
e di circa 1800 in Italia.
Il numero dei decessi a causa dell’influenza è arrivato ad 80.000
negli Stati Uniti e a 25.000
in Germania e Italia,
con diversi milioni di malati, infatti
ogni anno l’influenza determina un
eccesso di mortalità,
come dichiara l’ISS. Tornando
al già citato studio
dell’IJID, il numero delle morti per influenza in Italia nei 4
anni di studio effettuati dovrebbe essere di circa 68.808, utilizzando
l’indice Goldstein. Le ipotesi ritenute plausibilmente determinanti
per le morti attribuibili all’influenza sono i fattori meteorologici,
i ceppi virali circolanti sul territorio dell’influenza stagionale, e
l’ampiezza della popolazione a rischio: un fattore, quest’ultimo,
estremamente rilevante nell’impatto della Covid-19 nel nostro paese.
La Fondazione Veronesi dichiarava: «Come nel caso del Coronavirus, gli
effetti più gravi dell’influenza si rilevano tra gli over 65. In
Italia, in quattro anni (dal 2013), oltre 68mila decessi per influenza
(in gran parte) evitabili». Però in quegli anni non ci sono stati
lockdown, scuole chiuse, mascherine e mesi di restrizioni.
Il 31 Marzo 2020 Gian Carlo Blangiardo, presidente dell’Istat,
ha
affermato che «Nel
marzo 2019 (le persone decedute per
malattie respiratorie) sono state
15.189 e l’anno prima erano
state
16.220. Incidentalmente si rileva che sono
più del
corrispondente numero di decessi per Covid (12.352) dichiarati nel
marzo 2020». I dati sulla mortalità, in uno dei momenti di picco della
pandemia da Covid-19, erano migliori di quelli accumulati nello stesso
periodo di riferimento nel 2018 e 2019. Ma a marzo 2020
al
Nord i decessi sono più che raddoppiati rispetto alla media
2015-19, e vedremo perché più avanti.
Risulta invece decisivo, per creare una percezione maggiore di
pericolo, il quotidiano e sensazionalistico annuncio di morti nei
media.
Ricordiamo qui che in Italia muoiono circa
49.000
pazienti per infezioni contratte negli ospedali ogni anno, e che
solo in Europa muoiono circa
400.000
persone all’anno a causa delle polveri sottili.
Il
fumo
uccide in italia ogni anno almeno 70.000 persone, nel mondo
7.000.000. Ma non fanno notizia, evidentemente.
Perché tanti morti al Nord Italia?
In alcune aree, forti
aumenti della mortalità possono verificarsi di fronte a un collasso dell’assistenza agli anziani e ai malati a causa di infezioni, panico di massa e solitudine e possono essere influenzati da ulteriori fattori di
rischio come alti livelli di
inquinamento atmosferico e contaminazione
microbica, che sono forti nella Pianura Padana. L’applicazione di ordinanze speciali nella gestione dei defunti hanno talvolta
comportato ulteriori congestionamenti nello svolgimento dei servizi
funebri e di cremazione.
In paesi come
l’Italia e la Spagna, ed in una certa misura nel Regno Unito e negli
Stati Uniti, i sovraccarichi ospedalieri dovuti a forti ondate
influenzali non sono insoliti. Inoltre, fino
al 15% dei medici e degli operatori sanitari sono
stati messi in quarantena, pur in assenza
di sintomi.
Nella maggior
parte dei paesi occidentali,
quasi i due terzi di tutti i decessi si sono verificati in case
di cura per anziani, che non hanno
beneficiato del lockdown, anzi. Inoltre, in molti casi non è chiaro se queste persone siano davvero morte a causa del
Sars-CoV-2 o dello stress
estremo, della paura e della solitudine.
In alcuni Stati degli USA, quelli nelle case di cura rappresentano
fino all'80% di tutti i decessi.
Gli
altri decessi per larga parte si sono verificati negli ospedali, anche
perché esistono diverse testimonianze di abbandono di malati nelle
case, e per questi non si vede come si possa essere diagnosticata la
Covid-19 se non si sono fatti fare il tampone dall’ASL o da una
struttura ospedaliera.
La magistratura sta ora indagando sui gravi
errori commessi in alcune regioni nella gestione
delle residenze per anziani, veri e propri focolai d’infezione
che, purtroppo, hanno registrato un
numero elevatissimo di decessi, nonostante la fragilità e la
polimorbilità degli ospiti. Ad
aprile più del 40%
dei decessi in Italia erano di degenti in RSA. Un dato
sconvolgente che ha contribuito all’incremento importante dei
decessi in alcune province. Uno degli
elementi scatenanti dell’epidemia al Nord Italia è stata
sicuramente la Delibera
della Giunta Regionale della Lombardia dell’8 Marzo 2020 che ha imposto di trasferire i
malati convalescenti di Covid nelle RSA, innescando un ciclo
di contagi in persone a rischio: gli anziani con pluripatologie.
Un peso ha anche
il fatto che tutti
i morti in un ospedale Covid vengono aggiunti alla conta dei morti
Covid, come già detto. Come già spiegato, il tasso di mortalità
in Italia potrebbe anche essere più alto a causa del modo in cui
sono stati registrati i decessi, in stragrande maggioranza di
soggetti a rischio.
Ma entra anche in
gioco il fattore demografico e quello del substrato favorevole alla
Covid-19, legato all’alta età
della popolazione italiana; alla forte diffusione di patologie
che aumentano il rischio di morte come l’ipertensione arteriosa e il
diabete mellito; oltre all’alta
densità abitativa: dove tante persone vivono vicine, un virus può circolare
molto di più e i contagi crescono, indipendentemente dallo smog. L’Italia è poi capofila in
Europa per morti a causa della resistenza agli antibiotici. Si
aggiunga anche una mobilità
elevatissima in tutte le regioni del nord, che vede molte
migliaia di persone muoversi tutto il giorno, soprattutto per motivi
lavorativi e di studio.
Inoltre, la
partita di Champions League, Atalanta-Valencia, disputata a Milano
il 19 febbraio, è stata considerata in sé un potenziale evento di “super diffusione”.
Da non
sottovalutare, per quanto emerso, il
peso della campagna vaccinale di massa per influenza, pneumococco,
meningite e tetravalente, nelle province di Bergamo
e Brescia, iniziata
nell’ottobre 2019. A gennaio 2020 risultavano vaccinate 34.000 persone contro la meningite e 185.000 erano le dosi totali ordinate di antinfluenzale. Uno studio militare americano afferma che
«ricevere il vaccino antinfluenzale può aumentare il rischio di
contrarre altri virus respiratori». Sulla base di questo studio
l’associazione dei veterani disabili statunitensi ha elaborato
l’informazione che il
personale militare che ha ricevuto il vaccino antinfluenzale ha
visto aumentare del 36% il rischio di contrarre il coronavirus.
A causa dell’interferenza del vaccino
antinfluenzale, che provoca un effetto debilitante al sistema
immunitario, potrebbe quindi esserci un rischio maggiore di
contrarre virus respiratori, con una risposta immunitaria meno
efficace.
A tal proposito, il
premier inglese Boris Johnson, nonché Jonathan Van-Tam, deputy
chief medical officer inglese, hanno affermato nella scorsa
primavera che chi
si era sottoposto al vaccino antinfluenzale sarebbe stato ad alto
rischio ed avrebbe dovuto autoisolarsi, rimanendo a
casa tre mesi. Un medico italiano che
ha parlato dello studio americano, preoccupato delle conseguenze sui
suoi pazienti, è stato segnalato dai colleghi
all’Ordine dei Medici: un pessimo segnale in un momento di grande
preoccupazione per tutti, al quale è seguita anche la denuncia dei NAS per procurato
allarme.
C’è poi la questione delle
frontiere chiuse con la Cina: si è
scoperto, grazie alla
testimonianza
di vari autisti NCC di Bergamo, che
molti imprenditori
utilizzavano percorsi alternativi (dalla Svizzera, a Zurigo o a
Lugano, e dalla Francia, a Nizza)
per recarsi in Cina e tornare
senza poi sottoporsi alla necessaria quarantena al rientro. Chiudere le
frontiere, senza poi effettuare i controlli sulle rotte alternative,
delegando all’autocertificazione per motivi di lavoro il monitoraggio
degli spostamenti, ha sicuramente creato ulteriori disfunzioni, non
potendo avere il reale controllo sugli arrivi effettivi in Italia.
Il trasferimento delle salme di
Bergamo
A metà marzo le foto
dei carri dell’esercito che portano via da Bergamo le salme dei
morti della città e della provincia hanno fatto il giro del
mondo. Cos’è successo? I dati Istat parlano di un aumento
superiore al 500% nella provincia bergamasca. Un numero
spaventoso che spiega la portata della tragedia in quelle zone. Sulle
motivazioni della necessità della misura del trasferimento in altre
città da parte dell’esercito è però necessario un surplus informativo
che vada oltre lo shock causato dalle immagini.
L’emergenza Covid-19 ha portato all’introduzione di misure
eccezionali per la sepoltura dei defunti, che includono
l’obbligo di smaltimento della salma entro 72 ore dalla morte, il
tutto senza la possibilità di svolgere funerali fino allo scorso 4
maggio, e senza poter avvicinare la salma da parte dei familiari. In
questo scenario, come ha
confermato il sindaco di Bergamo, la stragrande maggioranza dei
familiari ha scelto la cremazione come formula, nonostante questa non
fosse obbligatoria. Secondo i dati aggiornati ci sono poco
più di 80 forni crematori in tutta Italia su circa 8mila comuni
(rapporto di 1 a 100) e ovviamente quello di Bergamo è l’unico della
provincia. Si pensi che in una grande città come Napoli il forno è
attivo solo dal 2019: fino a pochi mesi fa chi voleva cremare una
salma era costretto ad arrivare a Castel Volturno – con i mezzi delle
imprese funebri, non dell’Esercito. Il costo per la costruzione di un
forno di media grandezza è di circa
2.5 milioni di Euro e, considerato che fino
al 2016 la Chiesa Cattolica non accettava la pratica, la
cremazione non ha praticamente mai avuto richiesta commerciale tale da
giustificare investimenti così importanti da parte di tanti comuni.
E ci sono da considerare i tempi di smaltimento delle
salme: se da un lato il sindaco Gori afferma che il forno crematorio
di Bergamo può smaltire 25 salme al giorno lavorando h24, dall’altro
il potenziamento di quello di Reggio Emilia avvenuto nello
scorso aprile ha portato da sole 6 a 10 salme quotidiane la capacità
del forno locale. Va da sé quindi che per completare entro le 72 ore
le cremazioni richieste, si sia reso indispensabile il trasferimento
delle salme da Bergamo ai forni di altre province e regioni. Ed è
stato il comune a dover farsene carico, attraverso la propria società
«Bergamo Onoranze Funebri» e con l’aiuto dell’Esercito, vista la
contemporanea chiusura di diverse agenzie funebri, per malattia dei
dipendenti.
Ma perché nelle altre province con deciso incremento dei morti [Cremona
(391%), Lodi (371%), Brescia (291%), Piacenza (264%), Parma (208%),
Lecco (174%), Pavia (133%), Mantova (122%), Pesaro e Urbino (120%)] non
sono arrivati i camion dell’Esercito a portar via le bare? La risposta è
semplice: c’è stata minore richiesta di cremazioni, i cimiteri hanno
potuto smaltire le salme con l’inumazione, e nelle agenzie funebri
c’erano meno persone assenti per causa di malattia, e purtroppo, di
morte.
L’Italia e le scelte sui tamponi
Come abbiamo detto per la Protezione civile è
morto per coronavirus chi ha un tampone positivo e quindi una
diagnosi di Covid-19, certa o sospetta che sia. Dal 26 febbraio
scorso, dopo una circolare
del Ministero della Salute, si
è stabilito che i test
andassero fatti solo ai
soggetti sintomatici (per esempio con febbre e problemi
respiratori), mentre prima venivano testati anche gli asintomatici. In
un primo momento è parso evidente che ci fosse poca disponibilità di
tamponi, scarsità di reagenti, e nessuna disponibilità da parte di
alcuni sistemi regionali (Lombardia) di recarsi sul territorio ad
effettuare tamponi su casi “sospetti”. La diversa strategia di
tracciamento attraverso i tamponi utilizzata in Veneto, fa propendere
a posteriori che la scelta di fare più tamponi sarebbe stata più utile
per il contenimento dei contagi. Poi all’improvviso, dopo l’estate, il
numero dei tamponi è incrementato in maniera costante, fino ad
arrivare al record di 165.000 al giorno.
Afferma a luglio il
Prof.
Bassetti: «Non riesce a passare l’idea che i contagiati non devono
essere considerati come malati. Noi non possiamo dire cosa succedeva a
febbraio, marzo e aprile perché in quel periodo c’era un errore di
fondo: non avevamo la capacità di fare tamponi come la abbiamo oggi.
Chissà quante migliaia o milioni di persone erano contagiate a quei
tempi».
Come denunciato
da
Le Monde, stesso discorso anche in Francia. Fare confronti
giornalieri sull’incremento dei contagi basato sui meri numeri privi di
percentuali calcolate sui tamponi effettuati non ha senso, se non per
mantenere
alta la tensione attraverso il “rito” quotidiano dei dati,
e produrre titoli ad effetto sull’esplosione di nuovi contagi. Pochi
tamponi fanno percepire un’alta mortalità; molti tamponi invece spostano
l’attenzione sull’aumento dei positivi.
Tamponi e test sierologici
inaffidabili
II kit per
testare i virus utilizzati a livello
internazionale non sono del
tutto attendibili
e soggetti a errori
e possono produrre risultati di falsi positivi e falsi negativi.
Il
cosiddetto test PCR è sconsigliato per effettuare diagnosi,
trattandosi di una tecnica per “amplificare” frammenti di DNA in modo
da poter disporre di maggiori quantità degli stessi, una sorta di
“fotocopiatrice”. Il DNA viene sottoposto a più
cicli di riscaldamento e raffreddamento durante i quali la
catena si “apre”, e le due parti si ricombinano per riformare due
elementi della stessa sequenza di DNA. Una fotocopia, una duplicazione
di un frammento iniziale. Il risultato finale dipenderà
dal
numero di volte in cui questa operazione è stata effettuata: se
il numero di cicli supera i 30, anche una sostanza che si trovasse
all’interno del campione in parti inferiori al miliardesimo, si
potrebbe ritrovare nel risultato finale. E siccome il numero di cicli
non è un parametro univoco, ma anzi varia da laboratorio a laboratorio
e da nazione a nazione, quale significato può avere un test che
rintraccia la presenza di sostanze dopo una amplificazione che porta
ad un aumento di 1000 miliardi di volte un campione iniziale?
L’aumento del numero di amplificazioni (>30) necessarie per
eseguire il test altera il risultato, aumentando il numero dei falsi
positivi. La necessità di amplificare sopra il valore di 24 indica che
la carica virale è bassa. In Italia i tamponi attuali richiedono
generalmente valori superiori a 30.
Una
ricerca
condotta dal primario di Microbiologia di Treviso in
collaborazione con i colleghi di Mestre e Verona, che ha interessato
60.000 tamponi con l'individuazione di 210 positivi, ci ha detto che
«Su 60mila tamponi fatti dal 1° giugno in Veneto, solo 3 hanno
registrato una quantità di virus importante». Ma anche quelle 3
persone infettate dal Covid-19 hanno sviluppato solo sintomi leggeri e
nessuno è finito in pneumologia o in rianimazione.
Il test ufficiale
del virus non è
mai stato approvato
clinicamente a causa della mancanza di tempo e, inoltre,
talvolta può risultare positivo ad altri coronavirus, ma non al Covid.
Il presidente della Tanzania, Magufuli, ha
denunciato che l’aumento di risultati positivi al coronavirus è
dovuto a test difettosi: i laboratori per le analisi hanno effettuato
il
test su una capra, una papaya e una pecora che sono risultati
positivi. In vari paesi, tra cui l’Inghilterra, sono
stati scoperti tamponi nuovi ma già contaminati da Coronavirus.
Numerosi media hanno riferito di presunte
“re-infezioni” di persone già guarite in Corea del Sud.
Tuttavia, i ricercatori sono
giunti alla conclusione che tutti i 290 casi sospetti erano
risultati di test falsi positivi causati da “frammenti di virus
non infettivi”. Il risultato evidenzia ancora una volta la ben
nota
inaffidabilità dei test PCR.
La questione della reinfezione
continua ad essere particolarmente dibattuta: al 16 ottobre i casi
ufficiali di reinfezione, monitorati dal sito «bnonews.com», erano 23.
Secondo Massimiliano Galli, infettivologo dell’Ospedale Sacco di
Milano, i casi provati invece sono solo due e con infezione lieve o
asintomatica, con un ceppo virale talmente diverso dal precedente da
rendere sicura l’assenza di collegamenti con la prima infezione. Due
casi – o ventitré, si scelga di seguire chi si ritiene più attendibile
– su 39 milioni e 700mila (al 18 ottobre).
Tutto questo mentre gli Stati Uniti d’America hanno
investito la somma di 1,5 miliardi di dollari per invitare gli
scienziati a produrre un test per il Covid-19 che definisca la
malattia così come fa quello per l’Epatite, e cioè individuazione
contemporanea di anticorpi, acido nucleico e carica virale; e mentre
in Gran Bretagna sono pronti
test rapidi capaci di individuare la Covid-19 e l’influenza in 60-90
minuti.
Secondo uno
studio dell’Università di Zurigo, i
test sierologici effettuati sul sangue non riescono ad individuare
gli anticorpi nelle persone positive con sintomi blandi o
asintomatiche, e solo facendo analisi delle mucose di bocca,
naso e orecchie si riesce a stabilire se la persona è stata davvero
infetta: ciò significa che
i positivi sono almeno cinque volte di più di quelli rilevati nei test
sugli anticorpi. Quindi, il
Covid è almeno cinque volte più diffuso e meno letale di quanto si
pensi.
Dal Settore documenti pubblici della Banca Mondiale, è
scaricabile
il documento informativo sui pandemic bonds: a pag. 87 si parla anche
della fallacia dei test per il Sars-CoV: «Il rischio di risultati falsi
positivi dai test SARS-CoV sarà elevato nel periodo interepidemico, dati
i limiti dei test di laboratorio attualmente disponibili e senza alcuna
prova che il virus stia circolando nelle popolazioni umane».
Asintomatici: da untori a poco
contagiosi, poi ancora untori
La Covid-19 è una malattia con cui circa l'80% delle
persone sviluppa solo sintomi lievi o nessun sintomo. Anche tra i
70-79 anni, circa il 60% sviluppa solo sintomi lievi. Circa il 95% di
tutte le persone sviluppa sintomi al massimo moderati e non necessita
di ricovero. Intorno agli asintomatici si è creata di certo la maggior
confusione di tutta la pandemia. Prima
ritenuti potenziali untori inconsapevoli, poi destinati
all’isolamento domiciliare in attesa di una negativizzazione da
verificare attraverso tamponi che spesso non arrivavano, infine
derubricati a potenzialmente non contagiosi in seguito agli
studi
effettuati più di recente in tutto il mondo, ma alla fine sono
ancora tornati ad essere considerati untori.
Uno degli studi arriva però alla conclusione che
«l'infettività di alcuni portatori di SARS-CoV-2 asintomatici potrebbe
essere debole. Misure efficaci di prevenzione e controllo sono utili
per prevenire la diffusione di COVID-19 di portatori asintomatici. Il
risultato di questo studio può alleviare parte delle preoccupazioni
pubbliche per le persone infette asintomatiche».
Ripensare a posteriori
all’effetto di paura creato dalla narrazione intorno al pericolo della
diffusione del virus attraverso gli asintomatici crea più di qualche
perplessità.
Tuttavia, non considerare gli asintomatici all’interno
delle statistiche comporta un evidente scompenso di queste nel tasso
di letalità.
L’impossibilità di tracciare del
tutto e con esaustività gli asintomatici, specialmente durante la
prima ondata della pandemia, e quindi di verificare la reale
diffusione del virus, e quanto lo sviluppo della malattia si verifichi
tra i contagiati, in Italia ha generato nei primi mesi percentuali di
letalità molto superiori rispetto ad altre nazioni.
Considerata l’alta contagiosità del Sars-CoV-2, e le difficoltà di
tracciamento degli asintomatici nella prima fase, c’è chi considera
possibile che una maggioranza della popolazione potrebbe già avere
incontrato il virus senza saperlo – stime
della Oxford University parlavano di 11 milioni di potenziali
positivi in Italia già ad aprile – e se questo dato fosse
verificato, la letalità sarebbe da considerare minima, pur prendendo
per veri i dati di mortalità. Fare
pochi tamponi o poche analisi sierologiche, solo
sui malati gravi, ha creato inizialmente una falsa
percezione di letalità molto alta. Il rischio
è stato inizialmente sopravvalutato
perché molte persone con sintomi
lievi o assenti non sono state prese in considerazione, mentre
invece sono la maggioranza, ed il Sars-CoV-2 si è
molto più diffuso di quanto si pensasse. A chi può aver giovato
questa alterazione dei dati? A cosa serve?
Un serio studio
epidemiologico su scala nazionale potrebbe svelare che il virus
si sia già diffuso molto più di quanto si pensasse, e ridimensionare
le suddette, percentuali. Purtroppo, però, nessuna decisione politica
è stata presa in tal senso. Se non quella di effettuare uno studio a
campione su 150.000 persone, condotto dall’ISTAT, che ha per altro
subito gravi rallentamenti per la ritrosia delle persone a sottoporsi
ai test. Tale ritrosia è derivata dalla possibilità della “condanna”
alla quarantena, senza certezza di effettuare il tampone, qualora
fossero state riscontrate come positive, ancorché asintomatiche. Una
decisione, quella di sottoporre gli asintomatici alla quarantena lunga
due settimane che è stata rivista solo di recente, con il
ridimensionamento della lunghezza della quarantena a 10 giorni senza
sintomi, e con la necessità di un tampone positivo in uscita anziché
due, come in precedenza. E tutto questo
nonostante l’OMS abbia rivisto da tempo le linee guida, rimodulando
la necessità dei due tamponi negativi e legando lo sviluppo
dell’infezione all’insorgenza dei sintomi.
Anche per chi sceglie di
utilizzare l’app Immuni
vige la stessa regola
dell’autoquarantena di 15 giorni nel momento in cui si entra in
contatto con un positivo.
A concludere quanto detto, c’è da sottolineare che la
stessa OMS ha evidenziato posizioni contrastanti sul ruolo degli
asintomatici nella diffusione della Covid-19, quello che si intuisce e
che ci siano varie tipologie degli stessi, in base alla carica virale,
che si spera sia al più presto oggetto di analisi di massa.
Il capo del team tecnico anti Covid-19 dell’OMS, Maria Van Kerkhove,
dichiarò nello scorso giugno che
il contagio di una persona asintomatica fosse molto raro. La
stessa però poche ore dopo si espose di nuovo per un
chiarimento,
dicendo che l’affermazione fosse un errore di comunicazione e non
esprimesse una posizione dell’OMS, ma personale e basata su dati
limitati.
Ciò che è stato verificato, invece, è la pericolosità per il contagio
dell’asintomatico che non ha ancora sviluppato i sintomi, e cioè del
presintomatico: in quel momento la carica virale è al suo massimo e la
persona infetta è estremamente contagiosa.
Sul tema, come su tutti gli altri, la narrazione si è andata ad
appiattire sulla polarizzazione delle posizioni, ma il
dibattito
è stato ed è tuttora particolarmente ampio e ricco di studi
contrastanti tra essi. La richiesta, arrivata da diversi
medici
italiani, di
stabilire
una carica virale al di sotto della quale non si viene considerati
contagiosi, al momento non ha trovato risposta. Esistono studi, già del
maggio scorso, in cui però la soglia viene già considerata come un
potenziale elemento di definizione della contagiosità, anche se lo
studio riguarda la risoluzione della malattia nei sintomatici.
Lo
studio
dell’Università di Oxford To Interpret the SARS-CoV-2 Test,
Consider the Cycle Threshold Value e cioè
Interpretare il test
del Sars-CoV-2, considerando il valore di soglia, condotto dai
dottori Michael R. Tom e Michael J. Mina, propone che la soglia possa
essere fissata intorno al valore di Ct >34 per considerare i positivi
sintomatici privi di malattie significative o comunque trasmissibili, e
per questo senza la necessità di ulteriori test, da destinare così agli
screening.
Un
altro
studio,
elaborato dal dipartimento di epidemiologia della scuola di salute
pubblica dell’Università di Guangzhou con la collaborazione di personale
di uno degli ospedali della città, e pubblicato sull’International
Journal of Infectious Deseases nello scorso luglio, identifica il valore
di soglia di un gruppo di presintomatici in media a 34,5, mentre di un
gruppo di asintomatici a 39; pur ripetendo che le evidenze dello studio
dimostrano che sebbene gli asintomatici abbiano una inferiore carica
virale, posseggano un certo periodo di “spargimento” che suggerisce la
possibilità di trasmissione durante la loro asintomaticità.
L’arrivo della malattia in Italia
Il Covid-19, malattia generata dall’infezione del virus
Sars-CoV-2, emerge in Italia la sera del 20 Febbraio 2020 all’ospedale
di Codogno. Lo “scopre”, nel senso più genuino del termine, una
dottoressa del nosocomio che, venendo
meno alle direttive nazionali e dirigenziali rispetto ai
protocolli per il Coronavirus, si assume tutta la responsabilità di
sottoporre al tampone Mattia, il 38enne dirigente dell’Unilever che è
tornato in ospedale più di una volta per il persistere e l’aggravarsi
dei sintomi respiratori.
Questa
contravvenzione alle regole è solo la prima di una lunga serie cui
saranno obbligati i medici italiani nella lotta al Covid-19.
Poche ore dopo si scopre un altro focolaio nella
cittadina veneta di Vo’ Euganeo, dove i primi malati non sembrano
avere avuto alcun contatto con gli abitanti di Codogno. Pochi giorni
prima, invece, due turisti cinesi vengono ricoverati allo Spallanzani
di Roma con sintomi avanzati di Covid-19. Per diverso tempo questi 4
malati sono gli unici portatori del Coronavirus in Italia. La
risposta del governo è la creazione di una zona rossa intorno a
Codogno e a Vo’. Da quel momento, però, le
strade dell’epidemia in Lombardia e in Veneto prendono due percorsi
completamente diversi, col Veneto che punta a tamponi di massa,
cosa che non fa la Lombardia.
L’Italia nel giro di pochi giorni diventa il secondo
paese al mondo per contagi, dopo la Cina. Si cerca per diversi giorni
il “paziente 0”, senza risultato. Si capirà, molto dopo, che i
contatti avuti dal nord Italia con la Cina e con diversi portatori
sani (o per meglio dire asintomatici) del virus provenienti da altri
paesi europei avrà diffuso il virus molto più di quanto si riuscisse a
percepire in un primo momento. La regola dei 15 giorni, infatti,
quella che dice che quanto si vede oggi nell’epidemia di coronavirus è
quanto successo due settimane prima, fa capire ben presto che il virus
circola nel nostro paese almeno da inizio febbraio.
L’intera regione Lombardia diventa zona rossa l’8 marzo 2020,
ma l’esodo favorito dall’anticipazione – a mezzo social da parte della
Lega – del provvedimento restrittivo, convince il Governo che l’intera
Italia dovrà diventare Zona Rossa. Un provvedimento che non avrà pari in
Europa, superato solo dalle misure destinate in Cina a Wuhan, regione
del paese asiatico dove sembra abbia avuto origine la pandemia. Da quel
momento l’Italia piomba nel silenzio e in una tragedia sanitaria e
civile di proporzioni immani. Le prime restrizioni vengono allentate il
4 maggio, mentre il 18 maggio si torna ad una quasi-normalità, col solo
divieto di spostamento tra regioni, e con molte Regioni che trasformano
il consiglio di portare la mascherina in un obbligo, anche all’aperto.
Prevenzione, cura, diagnosi e...
autopsie
Nell’affrontare l’aspetto sanitario, la prima cosa da
considerare è che la Covid-19 si è presentata come una malattia nuova,
dallo sviluppo e dagli esiti sconosciuti. In un primo momento, anche seguendo le indicazioni
provenienti dalla Cina e dall’OMS, la diagnosi prevalentemente
associata alla malattia era una polmonite interstiziale bilaterale.
Un problema respiratorio per cui si è ritenuto dover potenziare
fortemente le terapie intensive e la ventilazione. Il timore di una
carenza di ventilatori è stato poi ritenuto da alcuni ingiustificato.
Secondo alcuni specialisti polmonari, la ventilazione invasiva, ovvero
l’intubazione dei pazienti, fatta in parte per paura di diffondere il
virus, è
infatti spesso controproducente e dannosa per i polmoni.
Eppure la ricerca
di ventilatori polmonari e l’apertura di nuovi posti di terapia
intensiva – reparti distrutti dai 37 miliardi di tagli alla sanità in
10 anni – hanno caratterizzato la prima fase dell’epidemia in Italia.
Nella quale si è anche spinto alla “salvaguardia”
dei DPI, principalmente le mascherine, per la protezione degli
operatori sanitari, da subito apparsi esposti più di ogni altra
categoria al pericolo dei contagi.
Qualcosa però non funzionava. Mentre in tanti ospedali
si lanciavano protocolli di sperimentazione off-label per la ricerca
di medicinali che fossero efficaci nella lotta alla malattia, il
numero di morti sempre crescente e un tasso di decessi particolarmente
alto sembrava rendere più cupo ogni scenario futuro.
Soltanto a metà
di marzo alcuni medici, contravvenendo almeno in parte alle
linee guida del ministero della Salute
che sconsigliava fortemente l’esecuzione di autopsie sui morti da
Covid-19, hanno iniziato ad eseguire esami autoptici.
All’interno del documento ministeriale è possibile leggere: «Per
l’intero periodo della fase emergenziale non si dovrebbe procedere
all’esecuzione di autopsie o riscontri diagnostici nei casi
conclamati di Covid-19, sia se deceduti in corso di ricovero presso
un reparto ospedaliero sia se deceduti presso il proprio domicilio». Invece, sembra che dalle
autopsie sia arrivato un contributo fondamentale per capire che
alcune delle cure adottate inizialmente erano sbagliate, inutili o
peggio ancora controproducenti.
Per quanto la Covid-19 si sia
dimostrata una malattia diversa dall’influenza, è impossibile
affermare che quest’ultima non causi a propria volta trombosi venosa
ed embolia polmonare nei soggetti a rischio: è
noto da 50 anni che l'influenza grave aumenta
notevolmente anche il rischio di trombosi ed embolia. A molti
medici è stato impedito di diffondere le scoperte fatte, attraverso la
minaccia o l’applicazione di provvedimenti disciplinari denunciati
dalle associazioni di categoria. Quante morti sono
responsabilità di queste scelte sbagliate?
Attraverso le autopsie e anche grazie alle TAC e alle
AngioTAC sugli altri pazienti, si è scoperto che la malattia finiva
col creare anche una CID, e cioè una coagulopatia intravasale
disseminata, con la formazione di trombi all’interno degli alveoli
polmonari. La malattia si
sviluppava come malattia endoteliale, e quindi come una
infiammazione molto acuta del sistema vasculo-arterioso. La
maggior parte dei sintomi della Covid-19 sono gli stessi causati da
una grave influenza (incluse polmonite, trombosi
e perdita temporanea del senso
del
gusto e dell'olfatto), ma con la Covid-19 grave questi sintomi
sono davvero molto più frequenti e più pronunciati. Questo può causare
problemi clinici anche molto diversi dalla polmonite bilaterale
interstiziale, arrivando anche all’infiammazione
cardiaca e a danni consistenti al cuore: altra informazione
emersa dalle autopsie. Queste consapevolezze hanno finito per far
ritenere l’intubazione, almeno in alcuni casi, come potenzialmente
dannosa. Circa il 10%
delle persone sintomatiche sviluppano il cosiddetto Covid post-acuto
(“lungo”) e riferiscono sintomi che durano diverse
settimane
o mesi.
Le complicazioni, insieme alla consapevolezza che andava
diffondendosi negli ospedali che l’arrivo tardivo dei pazienti, ormai
in fase critica, significava poter fare ben poco per salvarli, hanno
portato un gruppo di medici alla stesura di uno schema di intervento
per la cura della Covid-19, che nelle prime fasi, doveva portare le
cure a casa dell’ammalato. Cure che avrebbero dovuto essere di
competenza della “medicina del territorio”, altro assente gravissimo
di questa epidemia e che altrove, ad esempio in
Portogallo, ha portato alla revoca
dello stato di emergenza in anticipo, almeno nella prima ondata,
rispetto alle previsioni. Per completezza di informazione, alcune
misure di contenimento a Lisbona sono
state ripristinate in un secondo momento e pochi giorni fa è
stato dichiarato
lo stato di calamità.
Gli studi, le evidenze emerse e l’esperienza fatta purtroppo sulle
vittime, ha portato da parte del SISMED alla definizione della malattia
in
tre fasi (immagine sottostante):
una fase virale, una fase
polmonare, una fase respiratoria anche detta della tempesta citochinica.
Questa suddivisione in fasi della malattia ed alcuni
protocolli di intervento sono stati resi pubblici – almeno per i
medici e i professionisti – sul sito
del Sismed, e l’appello alla gestione
domiciliare dei pazienti e alla maggiore presenza sul territorio
è stato condiviso da un
gruppo di 100mila medici. Sembra particolarmente importante a
questo punto sottolineare come le mancanze della medicina del
territorio, già lasciata da sola nella prima ondata, stiano
riemergendo in modo clamoroso durante il recente riacutizzarsi della
curva epidemica. Lasciati senza DPI nella prima fase, i MMG oggi si
ritrovano a dover praticamente visitare i pazienti al telefono per
segnalarli all’ASL in caso di sintomi sospetti e compatibili con la
Covid-19. Eppure esistono testimonianze
che la medicina di base, inclusa la visita domiciliare, è
basilare per la cura tempestiva della malattia. Queste le parole del
dottor Riccardo Munda: «Se i
medici di base avessero visitato i pazienti e attivato per tempo
l’assistenza domiciliare integrata, con l’ossigenoterapia e un
infermiere per la reidratazione, le persone si sarebbero salvate.
Così ho fatto io, che non sono certo un luminare».
Le USCA, unità speciali di continuità assistenziale, considerati
nell’organizzazione uno dei pilastri della lotta alla Covid-19,
risultavano soltanto pochi giorni fa “non attivabili” sul territorio
di Milano in una testimonianza
raccolta da Panorama. Per quanto ne sappiamo, anche in Campania e a
Napoli non ne risulta l’attivazione.
Al momento della
prima riapertura dalle restrizioni, il 18 maggio scorso, era diffusa
la sensazione che per ogni fase della malattia esistessero cure
potenzialmente efficaci, la cui conoscenza pareva diffusa tra i
medici. Nessuna o pochissima pubblicità è
stata data però ai protocolli di cura: dopo il tam-tam dei nomi dei
medicinali sperimentati off-label nelle prime settimane, un lungo
silenzio è caduto sulla cura della Covid-19, salvo sporadiche
polemiche sulla disponibilità di questo o quel farmaco, nonché
sull’utilizzo dell’idrossiclorochina, che merita un paragrafo a parte.
Ovviamente le cure sono da mettere sempre in relazione allo stato di
salute di base del paziente, ad eventuali patologie pregresse, e alle
risposte dell’organismo, nonché alla tempestività della diagnosi e
alla precocità dell’applicazione delle cure idonee.
È comprensibile che un virus nuovo possa spiazzare anche
i migliori medici per qualche tempo. Ma via via che le informazioni si
sono accumulate, insieme a queste aumentavano le richieste da parte
dei medici e dei clinici sul campo ad essere ascoltati.
Proprio a causa dei “tempi delle verità scientifiche” molte
cure rivelatesi efficaci sono state ridicolizzate pubblicamente.
È successo per l’eparina,
per le cure col plasma dei guariti.
Per la prima, nel mese di Aprile, a distanza di pochi giorni si è
parlato sia di “cura
sperimentale” che di “farmaco
usato fin dal primo giorno”, cosa che ha destato non poche
perplessità. Per quanto riguarda il plasma dei guariti, al centro di
enormi polemiche tra l’aprile e il maggio scorso, oggi esistono
risultati incoraggianti sulle guarigioni, ma anche casi di reazioni
avverse importanti. Ci sono però testimonianze recenti, come quella di
Maurizio Acerbo, segretario nazionale di Rifondazione Comunista, che
ha pubblicato sul suo profilo Facebook la notizia della richiesta
del centro trasfusionale dell’Ospedale di Pescara per
l’elaborazione del suo plasma.
A proposito di Maurizio Acerbo,
che è una delle persone note ammalatesi di Covid-19, sappiamo dai suoi
racconti postati su Facebook che è stato trattato con Ossigeno,
Tocilizumab,
Eparina
e che ha chiesto della possibilità di trattamento col
Remdesivir, per il quale l’ospedale ha riferito esserci difficoltà
di approvvigionamento.
Il Remdesivir, farmaco particolarmente
costoso, ha avuto a giugno il via libera dell’agenzia europea
dei farmaci per la cura della Covid-19, salvo poi essere giudicato sostanzialmente
inutile dall’OMS dopo gli esperimenti di solidarietà
terapeutica. Nello stesso comunicato l’OMS ha indicato come «idrossiclorochina,
la combinazione lopinavir/ritonavir e i regimi a base di interferone
sembrano avere un piccolo o inesistente effetto sulla mortalità a 28
giorni o sul decorso ospedaliero del Covid-19 tra i pazienti
ricoverati».
In questo momento gli unici farmaci che hanno effetto
certo a livello ospedaliero sono il Desametasone, un cortisone, e le
eparine a basso peso molecolare. Non è un dettaglio che a mesi di
distanza dallo scoppio della pandemia gli unici medicinali “certi”
siano fuori brevetto delle case farmaceutiche. Ma il punto che i
medici sembrano da tempo voler far emergere è proprio questo: non
bisognerebbe arrivare a condizioni da ricovero con la Covid-19; da un
lato perché la malattia in fase iniziale è decisamente più curabile
che in fase avanzata, dall’altro lato perché i farmaci che hanno
effetto potrebbero non essere più sufficienti a curare gli effetti
della Covid-19, e lasciare pesanti strascichi. Arrivare in ospedale
con la Covid-19 potrebbe quindi essere – lo diciamo
consapevoli di una certa approssimazione, e certi degli sforzi enormi
delle strutture ospedaliere in tutto il mondo – troppo tardi.
Lo stato di
salute generale delle persone influisce
chiaramente sulle possibilità che il Covid-19 si riveli letale. I
numeri pubblicati dall’Istituto Superiore di Sanità sull’incidenza
di patologie pregresse nei morti per e con il Covid-19 sono
inequivocabili. I dati confermano il rischio altissimo per persone con
ipertensione arteriosa, cardiopatie o malattie coronariche, diabete
mellito, insufficienza renale, obesità e demenza.
Le iniziative di diffusione delle informazioni sulla
cura alla malattia non passano attraverso canali “tradizionali”. A
Genova, ad esempio, la direzione delle malattie infettive del San
Martino, ad esempio, ha creato un numero
di telefono dedicato ai medici di base e alle RSA per far loro
avere informazioni dirette su cosa somministrare ai pazienti. L’altro
motivo dietro l’oscurità è che la “verità scientifica” delle cure ha
bisogno di tempo, di un certo numero di casi, e di verifiche. Insomma,
non si può dire pubblicamente che “funziona” se non ci sono i numeri e
le verifiche scientifiche a dirlo.
Proprio per questo è necessario spingere, ora, ancora e
sempre di più sulla necessità di chiarezza ed applicazione dei
protocolli di cura a livello domestico. Antonio Marfella, esponente
storico della medicina territoriale del nostro territorio, ha
affermato pochi
giorni fa che «i
medici del territorio di tutto il mondo avevano già dimostrato che
cortisone ed eparine erano utili ed efficaci, così come la
idrossiclorochina, immunosoppressore sicuro meno potente del
cortisone ma utilizzabile ad esempio nei pazienti diabetici che non
possono ricevere cortisone».
D’altra parte nulla, né dal punto di vista degli
investimenti né della diffusione di informazioni, è stato fatto per
sensibilizzare le persone dal punto di vista della prevenzione
della Covid-19, delle malattie infettive in generale, e del
rafforzamento del sistema immunitario. Una preventiva integrazione di
alcune sostanze come Zinco, Quercitina,
Bromexina e Vitamina C può aiutare a prevenire la malattia. Altri dati
emersi riguardo la prevenzione riguardano
l’importanza di
un buon dato di Vitamina D nel sangue, oltre a
Vitamina A
e Vitamina C, fondamentali per le corrette risposte
del sistema immunitario.
Un ottimo lavoro, aggiornato, sul
protocollo
di
trattamento della Covid-19 è stato svolto dalle redazione di
«Swiss Policy Research», all’interno del reportage
Facts on Covid.
Cure: la guerra
dell’idrossiclorochina
Caso a parte è quello dell’idrossiclorichina: l’OMS, dopo
continui tira e molla, aveva ordinato lo stop all’utilizzo in
seguito alla pubblicazione di uno studio
su Lancet, che si è rivelato basato su dati non riscontrabili
– o più semplicemente falsi – e poi
ritirato. A Maggio uno studio dell’«International Journal of Infectious Diseases» ha
certificato che il trattamento con la sola idrossiclorichina, purché
presa prima dello sviluppo di alcune gravi reazioni immunitarie, ha
ridotto del 66% il rapporto di rischio di mortalità (p <0,001).
Anche Guido Bertolaso, ex capo della Protezione Civile e risultato
positivo al Coronavirus, ha ammesso di esser stato
«trattato con clorochina» da subito, che per lui è – o era, al tempo – «da usare
immediatamente e che si è dimostrata efficace, assieme a un cocktail
di antivirali».
Con la discesa della curva epidemica durante l’estate, anche la
discussione sull’idrossiclorochina è sparita. Ma adesso, a ottobre, sta
tornando di estrema attualità. Perché la
sospensione
dell’AIFA, arrivata nello scorso maggio e ancora in vigore, lascia ai
medici di base pochissime armi terapeutiche contro la malattia in
ambiente domestico. Proprio nella prima metà di ottobre una inchiesta di
Panorama ha rilanciato il tema, facendo riemergere anche dal punto di
vista giornalistico uno scostamento tra le
testimonianze
di guarigione dalla Covid-19 curata in ambito domiciliare con
l’idrossiclorochina, e le evidenze scientifiche rispetto all’i
nutilità
del farmaco in ambito ospedaliero.
Errori di gestione
Sono stati molti gli errori di
gestione rilevati e denunciati nel corso dell’emergenza.
Si va,
purtroppo, dalla gestione
dei malati alla scelta di investire ingenti somme di denaro
pubblico per strutture che poi si sono rivelate inutili.
Al centro di tutto
questo, però, l’aver lasciato
privi
di dispositivi di protezione individuale i medici di medicina
generale, che sarebbero stati fondamentali per la diagnosi
precoce della malattia, se non fossero stati “condannati” alla
telemedicina; nonché l’aver messo
nella stessa difficoltà medici, infermieri e operatori
socio-sanitari dei presidi ospedalieri sui
quali si è scaricata l’intera responsabilità della gestione
dell’emergenza sanitaria.
Gli infermieri
statunitensi hanno descritto una gestione
medica spesso fatale dei pazienti a causa di incentivi finanziari discutibili e
protocolli medici inappropriati. Tuttavia, in molti luoghi la
letalità per Covid è diminuita significativamente a causa delle
migliori opzioni di trattamento.
Numerose le testimonianze di attese
lunghissime, e spesso fatali dei
tamponi. Sono state abbandonate persone con chiari
sintomi, e trattate con semplice ed inutile tachipirina; spesso assente
anche un banale controllo di ossigeno nel sangue tramite
saturimetro. Un fallimento quasi totale, anche se molto diverso tra
le varie realtà colpite, che si sarebbe potuto limitare senza l’aver
ignorato gli appelli di migliaia di medici
sulle cure da adottare e sulla necessità delle più sicure cure
domestiche,
e senza avere ignorato anche i suggerimenti sui protocolli da
seguire dei medici cinesi venuti in Italia a inizio marzo.
Tutto quanto
enunciato è al centro dell’attenzione del gruppo
“Noi Denunceremo”, comitato che riunisce familiari delle
vittime e che chiede verità e giustizia per i morti da Covid-19, sul
cui sito sono presenti
terribili esperienze testimonianze del fallimento sanitario, che
sono poi diventate vere e proprie denunce: si parla di 550 denunce
presentate.
«È mancata l’informazione veritiera – dice l’avvocato Consuelo Locati,
del comitato –. Ci è stato detto
che si trattava di un’influenza, e ci siamo contagiati. Non abbiamo
paura a dire che non è stata una pandemia, ma un enorme scandalo
sanitario. Lo proveremo in tutte le sedi». Ad
agosto sono arrivati gli avvisi di garanzia al premier Conte e a sei ministri, che chiamano in causa gli articoli del codice penale
sulla pena in concorso (articolo 110), epidemia (articolo 438),
delitti colposi contro la salute pubblica (articolo 452) e omicidio
colposo (articolo 589), abuso d'ufficio (articolo 323), attentato
contro la costituzione dello Stato (articolo 283), attentati contro
i diritti politici del cittadino (articolo 294).
Buona parte delle scelte del Governo vengono dal
Comitato
Tecnico-Scientifico (CTS), che doveva essere un semplice comitato
di consulenza, il 22 aprile 2020 ha pubblicato la
Valutazione di
politiche di riapertura utilizzando contatti sociali e rischio di
esposizione professionale, documento su cui si fonda la politica
sanitaria dei mesi successivi, con pesantissimi risvolti sociali ed
economici. Stiamo parlando di un rapporto non firmato, incompleto,
“riservato”, mai depositato su un pubblico archivio scientifico, né
sottoposto ad alcuna rivista scientifica, di epidemiologia a libero
accesso o con
peer review tradizionale o aperta. Un
report
che – a detta di diversi esperti, matematici, epidemiologi e ricercatori
– presentava non poche criticità: per esempio, presume come sole
variabili rilevanti da tenere in conto per la risalita della curva
epidemiologica quelle legate all'età, ai luoghi d'incontro e le
occupazioni, ma non le condizioni delle diverse regioni e degli
andamenti stagionali, né considerava un'anomalia internazionale e
nazionale come la Lombardia.
Conseguenze su altre malattie e danni
psichici, estensione del TSO
Numerose operazioni e terapie sono state
annullate o rinviate, tra cui alcuni trapianti di organi e
screening del cancro. Il rischio di un ulteriore blocco delle
prestazioni ospedaliere non Covid-19 è al centro della polemica tra
istituzioni e numerosi medici e operatori sanitari in relazione alla
risalita della curva dei contagi.
Il numero di persone che hanno sofferto di
disoccupazione,
problemi
psicologici e violenze domestiche, a seguito delle misure di
confinamento, è
andato
alle stelle in tutto il mondo. Inoltre, sono stati
lesi alcuni
diritti costituzionali (così
come accertato dalla Corte Costituzionale austriaca) e si
profila all’orizzonte la perdita del
diritto alla scelta di cura,
oltre agli incalcolabili
danni sociali a causa della crisi economica
e a quelli psicologici dovuti al lockdown, specie
sulle
categorie più deboli, come
denunciato
dai 735 medici dell’Ampas. In Inghilterra
si parla di 200.000 vittime del lockdown, causato principalmente
dal peggioramento dell’assistenza sanitaria. Diversi esperti ritengono
che le misure possano causare
un
maggior numero di decessi rispetto al virus stesso. Secondo l’ONU
milioni
di persone in tutto il mondo potrebbero cadere in assoluta povertà
e carestia,
1,6
miliardi di persone possono perdere l’accesso a fonti di
sostentamento. Già è
triplicato
il numero dei suicidi durante il lockdown. Solo lo Stato italiano
ha fatturato
150
milioni di euro per le multe durante la quarantena.
Molte perplessità sta destando
l’invocazione all’utilizzo del TSO
per le persone positive – magari asintomatiche – che rifiutano
alcune prescrizioni, come la quarantena in luoghi diversi dalla propria
abitazione. Ricordiamo che il TSO è un provvedimento molto grave, che si
utilizza in specifici casi di squilibrio psichico con pericolo per
l’incolumità del paziente e/o altrui. Il governatore del Veneto
Zaia
è arrivato invece a richiedere ufficialmente un provvedimento
legislativo nazionale, che preveda il TSO per chi rifiuta le cure – già
attuato e a rischio impugnazione in Veneto – oltre ad invocare che nei
casi più gravi si possa arrivare anche al carcere.
Da ricordare ed evidenziare, però, che
durante il lockdown si sono
già registrati casi di TSO non necessari, adottati per motivi
repressivi su soggetti che non ne avevano evidente bisogno medico
e psichiatrico:
il
ragazzo siciliano che “non credeva” alla pandemia, e
il
parroco bresciano che ha pranzato in piazza durante il lockdown.
I bambini
Il report delle Nazioni Unite
recita testualmente che «I
bambini non sono i più colpiti da questa pandemia, ma rischiano di
essere le sue più grandi vittime».
I bambini sono stati tra i più colpiti dagli effetti
secondari del lockdown.
Uno studio del Gaslini di Genova sostiene che sette
bambini su dieci siano
“regrediti”, accusando disturbi del sonno, paura del buio,
pipì a letto e ansia da separazione. Inutile spiegare che l’assenza
delle abitudini, dalla scuola alla possibilità di gioco, hanno
creato danni alla socializzazione e allo sviluppo mentale dei più
piccoli.
Da quanto emerso in questi mesi, possiamo addirittura affermare che
non ci sia mai stato un motivo
medico per la chiusura delle scuole,
e che il CTS si era addirittura pronunciato negativamente sulla misura, presa
evidentemente in autonomia dal governo
nonostante il rischio di malattie e trasmissione nei bambini sia
estremamente basso, si ammalano di
meno, trasmettono di meno, e la
riapertura degli altri paesi non è associata ad un significativo
incremento della diffusione del virus.
Non c’è mai
stata una ragione medica per la chiusura
delle scuole elementari, poiché il rischio di malattie e di
trasmissione nei bambini è estremamente basso. Non c’è nemmeno
una ragione medica per piccole classi, le maschere o le regole di
“distanziamento sociale” nelle scuole elementari.
Stanti gli studi
scientifici e le evidenze dagli altri paesi ad oggi disponibili sul
ruolo dei bambini nella trasmissione del virus, l’apertura delle
scuole non dovrebbe creare paure perché i dati sono rassicuranti: i bambini e i ragazzi si
ammalano meno e hanno meno probabilità di trasmettere il virus
alle persone con cui entrano in contatto. Mentre è noto che i
bambini siano veicolo di infezione per malattie come l’influenza
stagionale, gli studi finora condotti mostrano che ciò non sia vero nel caso
della Covid-19.
Oltre ai danni
certi allo sviluppo educativo di studentesse e studenti, la nuova
chiusura delle scuole eseguita dal governatore della Campania De
Luca rischia concretamente di aumentare la diffusione della
malattia. I problemi nascono ad esempio dagli assembramenti sui
mezzi di trasporto, non certo nella scuola che è un luogo
sostanzialmente ipersicuro per giovani e docenti.
La chiusura
delle scuole ha generato una sofferenza che è stata comunicata in
modi diversi, spesso con segnali di iperattività e irrequietezza,
oppure, al contrario, con la comparsa di abulia, stanchezza,
disturbi del sonno. Il confinamento domestico e la chiusura delle
scuole hanno avuto conseguenze negative gravi e di lunga durata
sulla salute fisica e psicologica dei bambini. Gli effetti sulla
salute fisica sono legati soprattutto ad una
alimentazione meno sana, una diminuita
attività fisica e all’aumento dell’uso di dispositivi elettronici:
televisione, cellulare e video-giochi, come ha descritto uno studio pubblicato di
recente. Chi ha subito misure di confinamento accusa uno stress
post-traumatico quattro volte superiore a chi non le ha vissute.
Un lungo post della pagina «Pillole
di Ottimismo», curata dal prof. Guido Silvestri, spiega
molto esaustivamente la questione.
Le scuole di
Germania,
Danimarca
e
Francia
ed altri paesi europei hanno
regolarmente ripreso le attività già a
Maggio. Non esiste, inoltre,
alcun
motivo medico per le classi ridotte, le mascherine o le regole di
"distanziamento sociale" nelle scuole delle quali si sta parlando in
vista del prossimo anno.
La questione scolastica, poi, sembra essere quella maggiormente
problematica nell’organizzazione del ritorno alle attività, con
possibili tragiche conseguenze sia sulle lezioni, che sulla gestione
familiare, nonché sui rischi di aumentare ancora il divario tra le
classi sociali. Ha già suscitato enormi polemiche la bozza di decreto
diffusa a luglio per l’anno scolastico 2020/21, per il quale
i
presidi si sono già definiti “abbandonati”
al proprio destino, denunciando il rischio che molti alunni restino
senza classi e lezioni, e senza aver ricevuto alcuna linea guida
operativa se non quella di prendere i provvedimenti necessari ad evitare
i contagi.
Nuovi focolai, indici RT, seconda
ondata, stato di emergenza prolungato
Tra fine giugno ed inizio luglio
in Italia è apparso lo
spettro dei “nuovi focolai”. Parliamo di agglomerati di casi
positivi che si generano o in condizioni di estremo disagio
(comunità bulgara di braccianti abitanti a Mondragone,
circa 90 persone tutte
asintomatiche), o per l’evidente mancanza di prudenza di singoli (imprenditore veneto rientrato
dalla Serbia), o ancora per le condizioni lavorative carenti dal punto
di vista della sicurezza (Bartolini Bologna, 107 persone). Non
è emersa una criticità di gestione sanitaria di questi nuovi focolai
italiani, proprio perché la dimensione è apparsa ristretta, e
i numeri dei sintomatici e dei malati generati da questi focolai è
apparso irrisorio. I festeggiamenti per la vittoria della
Coppa Italia a Napoli, il 17 giugno, così come quelli per varie
promozioni calcistiche in serie superiori, hanno dimostrato che la
forza del virus è decisamente calata, poiché migliaia di persone si
sono accalcate nelle città per varie ore, a stretto contatto e
spesso senza mascherine, e non ci sono stati contagi nei successivi
15 giorni.
Nonostante
questo, Veneto e Toscana
– dove sono emersi cluster familiari – hanno
emesso ordinanze restrittive in ragione dell’innalzamento
del rischio derivato dal calcolo dell’indice RT che ha fatto
da “ago della bilancia” in più di una fase della pandemia.
Ma
l’indice “R”, invocato dai politici e dai decisori come
fattore decisivo per l’imposizione di misure restrittive, è
in realtà un indice proporzionale, come spiegato in modo
accurato da Nature. Via via che
l'epidemia si attenua, la curva si appiattisce mentre il numero di
persone infette tende gradualmente a zero. In quella zona, R è
vicino a 1, quindi basta una
piccola oscillazione locale per farlo diventare maggiore di 1. Al che, il politico di turno
potrebbe urlare «L'epidemia
sta ritornando! Ora vi richiudo tutti in casa!». Ma non è
così. Su numeri piccoli si entra nel rumore di fondo della misura.
Nonostante le
voci discordanti siano in aumento, il
Governo ha deciso di prolungare lo stato di emergenza fino al 31
gennaio 2021, unico paese europeo a farlo. Emergenza che tra
le varie cose ha permesso di liberare centinaia di detenuti, tra cui
molti mafiosi, camorristi e ’ndranghetisti, oltre ad alcuni boss.
Non si capisce,
comunque perché continuare ad agire in un regime emergenziale, dato
che non lo si sfrutta per potenziare tempestivamente la sanità
pubblica in ginocchio, e che invece permette di agire in zone
d’ombra, come già accaduto in passato, come nel post terremoto. Dopo
la speculazione prolungata su mascherine, gel igienizzanti,
plexiglass, banchi singoli, da settembre c’è la preoccupante sospensione del codice degli
appalti:
non c’è più bisogno di gare, di Valutazioni di
Impatto Ambientale, etc., c’è l’affidamento diretto. Diventa così
facile credere alle affermazioni del Prof.
Bassetti: «Purtroppo
in casa nostra c’è un gruppo di persone forte che ha l’interesse
che si mantenga questo stato di emergenza. È evidente che c’è una
fazione molto grande a cui fa piacere mantenere lo stato
d’emergenza».
Le critiche piovono a raffica, anche se vengono
rispedite al mittente, accusando chiunque di negazionismo e di
mancanza di rispetto per i morti: eppure
il Presidente della Consulta Marta Cartabia afferma: «Nella
Carta costituzionale non si rinvengono clausole di sospensione dei
diritti fondamentali da attivarsi nei tempi eccezionali, né
previsioni che, in tempi di crisi, consentano alterazioni
nell'assetto dei poteri». Parole simili dall'Alto
commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani, Michelle
Bachelet, che ha ammonito: «Danneggiare
i
diritti […] può causare danni incalcolabili […]. Tuttavia, se lo
Stato di diritto non è rispettato, l'emergenza sanitaria può
diventare una catastrofe per i diritti umani, i cui effetti
dannosi supereranno alla lunga la pandemia stessa. I Governi non
dovrebbero usare i poteri di emergenza come arma per mettere a
tacere l'opposizione, controllare la popolazione o rimanere al
potere».
Il comitato popolare di difesa dei beni pubblici e
comuni Stefano Rodotà dichiara: «La proroga dello stato di
emergenza rappresenta una rottura costituzionale, incidendo sulla
forma di governo e sul sistema delle fonti». Il comitato
Osservatorio per la legalità costituzionale del comitato Rodotà ha
inoltre presentato un esposto al Segretario generale
del Consiglio d’Europa, relativo alle violazioni non dichiarate del governo
italiano durante il lockdown, per non aver fatto quello che avrebbe
dovuto fare secondo i suoi obblighi ai sensi della CEDU (Convenzione
europea per i diritti dell’uomo), come ha spiegato in video il giurista Ugo Mattei: «abbiamo ricevuto risposta da
parte del Consiglio d’Europa, il quale ha riconosciuto che il
governo, al momento del lockdown, era in difetto per la mancata
dichiarazione di sospensione dei diritti fondamentali previsti ai
sensi della CEDU. Questo vuol dire che la Convenzione europea per i
diritti dell’uomo, non essendo stata sospesa, resta vigente anche
durante l’emergenza, dando la possibilità agli italiani di chiederne
l’applicazione e quindi di ricorrere contro la sua violazione da
parte del governo italiano».
Il professor
Sabino Cassese dice al Governo: «protrarre lo
stato di emergenza costituisce una forzatura sia illegittima sia
inopportuna. Illegittima, perché dichiarare lo stato d'emergenza
quando l'emergenza non c'è vuol dire adottare un atto
amministrativo carente nel suo presupposto e inopportuno;
inopportuno perché produce tensioni invece di invitare alla
normalità, con gravi conseguenze per l'economia. Inoltre è
sproporzionata, perché per acquistare banchi monoposto e
mascherine per le scuole, vi sono procedure urgenti previste dalle
norme esistenti. Qualora veramente si presentasse una situazione
di emergenza che richieda interventi rapidi, in non più di un'ora
si potrebbe riunire il Consiglio dei ministri».
A chi fa quindi piacere mantenere lo stato di emergenza? Errare è umano,
perseverare è diabolico.
Pandemia come pretesto securitario e
Fake News
Una parte del clamore legato alle
mascherine, nonché ad altre misure di contenimento dei contagi
ritenute controverse come l’app Immuni,
ha dato vita ad un vivace dibattito – non nuovo nella storia
recente, in relazione a quanto accaduto dopo l’11 Settembre 2001 –
sull’utilizzo della pandemia
come acceleratore dell’introduzione di misure, mezzi e dinamiche
di controllo che, se non basate sulla paura della morte, non
sarebbero state ugualmente accettate.
Non è un caso che proprio durante la pandemia si sia ulteriormente
inasprita la lotta alle Fake News. Il principale virologo
britannico, il professor John Oxford, ha parlato di una "epidemia dei media" e anche in Italia
da qualche tempo si inizia a parlare di “infodemia”.
Questi termini sono legati in maniera scevra di qualsiasi accezione
alla consapevolezza che troppe notizie sono girate in questi mesi,
aumentando confusione e panico nella gente. Diversi media sono stati
sorpresi nel tentativo di drammatizzare la situazione negli
ospedali, a volte anche con immagini e video manipolatori. In
generale, le notizie non-professionali di molti
media hanno massimizzato la paura ed il panico nella popolazione.
Di conseguenza,
secondo i sondaggi internazionali, la maggior parte delle persone sopravvaluta drammaticamente la letalità e la
mortalità della Covid-19.
Pochi giornali
hanno avuto il coraggio di andare controcorrente e confrontare i
dati della mortalità degli anni passati; tra i pochi va citato il Washington Times, che ha titolato: Il
coronavirus promuove la più grande bufala politica della storia e
il Covid-19 si rivela la più
grande bufala politica perpetrata dai media. Il quotidiano
riporta anche i risultati dello studio elaborato dalla «Stanford
University» secondo il quale il tasso di mortalità del
virus viaggia dallo 0,1 allo 0,2 per cento.
È però
altrettanto evidente che l’inasprimento della lotta alle Fake News
abbia causato delle “disfunzioni” nell’informazione
indipendente, messa
sotto attacco sistematico per qualsiasi interpretazione dei dati e
delle certezze scientifiche che non si allineasse alle
decisioni politiche, e accusata di negazionismo, così come tutti i
medici non schierati.
Il famoso virologo
Pablo Goldschmidt ha parlato di "terrore mediatico globale" e di
"misure totalitarie". Edward Snowden, ex collaboratore della CIA e della NSA
costretto all’esilio dopo le sue rivelazioni sul tracciamento
illegale delle attività informatiche in tutto il mondo, ha avvertito
che la "crisi del Coronavirus" sarà utilizzata per l'espansione
permanente della sorveglianza globale.
Più di 600 scienziati
hanno
lanciato l’allarme di una «
sorveglianza senza precedenti della
società», già serrata a causa di smartphone e di internet, anche
attraverso invadenti app per il tracciamento dei contatti, oltre
all’utilizzo di droni per il controllo delle persone. Uno studio
dell'OMS del 2019 sulle misure di sanità pubblica contro l'influenza
pandemica ha evidenziato che, dal punto di vista medico,
il
tracciamento dei contatti non è "raccomandato
in nessuna circostanza". Tuttavia, le app di tracciamento
dei contatti sono già diventate parzialmente obbligatorie in diversi
paesi ed esiste già una nutrita percentuale di utenti che guardano con
sospetto a coloro che non le utilizzano.
Fake news istituzionali per
accrescere la paura
Le
curve esponenziali spesso mostrate di casi Coronavirus sono
fuorvianti, poiché anche i test effettuati sono aumentati in modo
esponenziale. Nella maggior parte dei paesi, il rapporto tra test
risultati positivi e test complessivi (cioè il tasso di positività)
è rimasto costante tra il 5% e il 25%, o è aumentato solo leggermente. In molti paesi, come
anche l’Italia, il
picco della diffusione dell’epidemia era già stato raggiunto ben prima
del blocco. Fino al 50% di tutti i decessi potrebbe quindi essere
stato causato non da Covid-19, ma dagli effetti del blocco, del panico e della paura. Quanti
morti ha fatto la paura per il Covid? Alcuni ipotizzano il rischio che in determinate province la
paura del Covid possa avere fatto più morti del Covid stesso, altri
hanno parlato di “effetto nocebo”, di certo sono triplicati i morti di infarto, ma il trattamento
di infarti e ictus è diminuito dal 40% al 60% poiché le persone non sono andate in
ospedale a curarsi, di certo non aiutate dal terrorismo psicologico
perpetrato dai media e dal governo.
I numeri sono stati tristemente
manipolati. Ma che senso ha
gonfiare i numeri di un martirio? Ne è un esempio l’annuncio
fatto sul numero dei medici morti, che sono stati
senza motivo raddoppiati.
Ma passiamo ad
un altro scandalo del giornalismo italiano: già da marzo, come già
visto, ma specialmente ad agosto, per rinforzare l’idea della
seconda ondata, si sono susseguiti molti resoconti di persone
giovani e sane che muoiono di Covid-19, rivelatisi tutti falsi, tra
cui quello forse più eclatante della bambina di 5 anni intubata a
causa del Sars-CoV-2 a Padova. Ecco i titoli di giornali ed agenzie:
«Corriere della Sera»: Covid, bimba di 5 anni intubata a Padova.
Grave sindrome a sangue e reni; «ANSA»: Covid: bimba 5
anni grave a Padova, è intubata; «Repubblica»: Coronovavirus,
bambina
di 5 anni ricoverata a Padova: è intubata; Locatelli (sul
«Corriere»): I giovani possono infettarsi e non sono al riparo
da manifestazioni gravi come dimostra la storia della bambina di 5
anni ricoverata a Padova.
Poi arrivò il governatore del Veneto Zaia, che in conferenza stampa
chiarì l’increscioso equivoco: «La bimba è positiva al Covid, ma la
diagnosi differenziale è stata fatta, e non è in questa situazione per
il Coronavirus. La patologia che l’ha portata in terapia intensiva è di
tutt’altra origine». Ma le false notizie erano ormai circolate, il danno
era fatto, il dolore della famiglia della bambina calpestato, il fondo
toccato.
Lockdown e distanziamento, la
soluzione preferita dai media
Premettiamo che
stare all’aria aperta fa bene al sistema immunitario, i raggi ultravioletti del sole
inibiscono il virus in pochi secondi, l’esposizione solare fornisce la
Vitamina D fondamentale contro l’infiammazione causata dal virus, il
mare e lo
iodio lo diluiscono e quindi il virus non può resistere.
Mentre invece ha avuto vita facile in ospedali e case di cura, luoghi
sovraffollati e chiusi, senza ricambio
d’aria. Nel 2019 uno
studio dell’OMS ha trovato una
«scarsa o nessuna evidenza scientifica» dell’efficacia di misure
come il "distanziamento sociale", le restrizioni di viaggio e il
confinamento. Inoltre, «le misure di
allontanamento sociale possono essere altamente distruttive e il
costo di tali misure deve essere valutato rispetto al loro
potenziale impatto». Inoltre, l’espressione ”distanziamento sociale” non è
neutra. Perché infatti non parlare di
“distanza fisica”? A parte la mancanza di evidenza
scientifica, sembra quasi un esperimento di ampliamento della
distanza sociale, sollecitando sentimenti affettivi avversi,
sviluppando odio fra le persone. In verità,
i paesi senza misure di confinamento e divieti di contatto come il Giappone, la Corea
del Sud o la Svezia, non
hanno registrato andamenti
peggiori degli altri paesi. Anche in
paesi senza lockdown, l'epidemia ha raggiunto il suo apice in poche
settimane dallo scoppio, ed è quindi ormai più che plausibile
l’ipotesi israeliana che il virus duri uno o più cicli di
70 giorni per poi scomparire. Il lockdown è stato inutile: il suo impatto è stato nullo in Svizzera, dove il tasso di
riproduzione del virus era già in calo prima dell’inizio della
quarantena, anche grazie ad efficaci comunicazioni igieniche che in
dieci giorni hanno avuto efficacia; poi, nonostante la quarantena,
la curva non ha subìto le variazioni sperate, basti osservare il confronto della curva con la
Svezia.
Il capo della sanità della Norvegia dichiara che il lockdown non è servito a niente
e
che «i paesi nordici avrebbero potuto sconfiggere il Covid senza il
lockdown». In Spagna si sono ammalati di più i
lavoratori restati a casa che quelli che hanno continuato a lavorare regolarmente.
Mentre ha funzionato meglio in Grecia poiché è iniziato molto
prima dei primi contagi, ed è finito in tempi brevi. Così come in Vietnam, Australia e Nuova Zelanda
dove è durato poco più di un mese. Taiwan
non
ha seguito le direttive dell’OMS e ha
gestito brillantemente l’epidemia. In Italia le
curve nazionali dei casi diagnosticati e dei decessi hanno iniziato a decrescere dopo
la metà di marzo. Tra i paesi che hanno gestito meglio il contagio c’è il
Venezuela, che ha puntato su
un immediato screening di massa. In Portogallo e in Germania
il fondamentale pilastro del successo è stato
l’esclusione degli ospedali dal trattamento dell’epidemia con il
concentramento degli sforzi nella medicina del territorio, coi
pazienti visitati e curati a casa, cosa che è stata vietata in
Lombardia e, in generale, in Italia dove i medici di base sono stati
messi da parte. A questo scopo, invece, la Germania ha fornito i suoi medici
generalisti di tutta la strumentazione protettiva acquisita e
stoccata in precedenza. Da
noi l’ammalato è stato lasciato a casa e veniva ricoverato quando
non era più in grado di respirare, quando era ormai troppo tardi.
I medici tedeschi hanno da subito cominciato a scambiarsi
informazioni su come trattare i pazienti e hanno cominciato ad
ipotizzare terapie che si sono dimostrate efficaci. Da
noi il medico ha
dovuto attendere istruzioni (errate) provenienti da strutture
amministrative.
L’ospedalizzazione dei malati
si presumeva che potesse arrivare ad un tasso elevato, circa il 20%,
secondo le stime iniziali basate sui dati della Cina, il che ha
portato alla strategia di
"appiattire la curva", ovvero rallentare i contagi attraverso
il lockdown e altre opere di mitigazione, per evitare gli ospedali
sovraccarichi. Tuttavia, i
succitati studi sugli anticorpi hanno dimostrato che i tassi di
ospedalizzazione effettivi sono vicini all'1%, che rientra
nell'intervallo dei tassi di ospedalizzazione per influenza
(dall'1 al 2%). Nella città di New York City, il tasso complessivo
di ospedalizzazione è di circa il 2,5% (19,9%, ovvero 1,7 milioni di
persone con anticorpi e 43.000 ricoveri entro il 2 maggio), un po'
al di sopra di una forte ondata di influenza.
Il tasso di ospedalizzazione molto più basso del previsto potrebbe
spiegare perché la maggior parte degli "
ospedali da campo" anche
in paesi colpiti duramente come gli Stati Uniti, il Regno Unito e la
Cina siano rimasti in gran parte
vuoti. Molte cliniche in Europa
e negli Stati Uniti sono rimaste
fortemente
sottoutilizzate o quasi vuote durante il picco di Covid-19 e in
alcuni casi hanno dovuto
mandare
a casa il personale. Milioni di interventi chirurgici e terapie
sono stati
cancellati,
tra cui molti screening per il cancro e trapianti di organi.
Il caso svedese e quello bielorusso
In
Italia i media hanno perso ogni pudore sulla questione svedese: la Svezia, spesso additata come pietra dello scandalo,
ha avuto una mortalità per 100.000 abitanti
inferiore a quella del tanto elogiato Veneto; è stata persino elogiata dall’OMS e la sua popolazione beneficia ora di una
maggiore immunità rispetto ai paesi con i blocchi, nonché di minori
danni causati dalla crisi economica, con il 75% dei decessi avvenuti
nelle case di cura per anziani, perché non sono stati protetti
abbastanza velocemente. Tuttavia,
molti media hanno mostrato decessi cumulativi, ovvero sommando
i morti giornalieri al totale generale del giorno precedente,
anziché mostrare i decessi giornalieri, implicando erroneamente una
situazione sempre crescente, quando invece la curva è in discesa da
metà aprile. Le campagne
fatte da Repubblica e Corriere sono state imbarazzanti,
poiché hanno annunciato più volte il collasso sanitario svedese ed
il cambio di rotta verso un lockdown totale che non c’è stato e
provocando risposte piccate da parte dei diretti interessati. In verità, la gestione svedese è
stata molto simile a quella di Norvegia e Finlandia, dove si è
continuato a lavorare. In Svezia è stata assente
la retorica bellica della guerra contro il virus che ci ha
bombardato in Italia (che ha fatto poco o nulla per vincere questa
guerra: niente tamponi, niente test, niente sistemi di tracciamento,
né informatici né telefonici né di altro tipo; nessuna idea di
separazione fisica dei malati dai sani), anzi,
ogni notizia incoraggiante è stata messa in risalto. A fine
maggio il Corriere annunciava che stavano aumentando i decessi, ma ciò era vero
solo nell’ultima settimana (6,5 decessi al giorno per “milione” di
persone). In realtà il tasso di letalità in Svezia era di 0,37 ogni
1000 abitanti, quindi ancora sensibilmente inferiore per esempio a
Italia (0,55), UK, Spagna e Francia – ammesso che si possa fare un
paragone tra Paesi e tra dati comunque sempre parziali e non
omogenei.
Incredibile poi
il caso di un’intervista
televisiva del premier Stefan Löfven, stravolta ad arte, vero
esempio di fake news: Ansa ha affermato «Per la prima volta dall’inizio della
pandemia di coronavirus il premier svedese ha ammesso di non aver
fatto abbastanza. La Svezia ancora è uno dei Paesi con meno
restrizioni, non c’è lockdown, bar e ristoranti sono aperti così
come la maggior parte delle attività», riferendo quindi al lockdown
assente la sua autocritica. Invece il premier aveva affrontato il
tema della gestione delle emergenze e della prevenzione del contagio
tra gli anziani, facendo mea culpa su questi temi, affermando che il
governo «non ha fatto abbastanza». L’affermazione
è stata totalmente modificata, al fine di denigrare le scelte
svedesi.
Nel silenzio più totale anche la notizia che
il Fondo monetario Internazionale ha “offerto” al presidente della
Bielorussia Alexander Lukashenko 940 milioni di euro, rifiutati,
in caso di imposizione del lockdown anti-Covid, così come accaduto in
Italia. La notizia è stata confermata dal
video
del Consiglio dei ministri della Bielorussia, non ha avuto alcuna eco
tra i media
mainstream,
né alcuna smentita. Lo stesso Lukashenko, reo di non aver concesso il
lockdown, ha subìto ripetute accuse dalla stampa: nonostante una
situazione Covid migliore di quella di molte altre nazioni, la
Bielorussia veniva descritta come un cimitero, soprattutto perché non
sono state annullate commemorazioni e lo stesso campionato di calcio,
che è proseguito regolarmente. Contemporaneamente, è partita una forte
campagna denigratoria verso Lukashenko, complici anche i presunti brogli
elettorali.
Il documento choc di un funzionario
del Ministero dell’Interno tedesco, poi licenziato
A maggio è iniziato a circolare
un documento pdf di 187 pagine in carta intestata, prodotta da un
funzionario del Ministero dell’Interno tedesco, che afferma che il Covid-19 sarebbe un «falso
allarme globale», che il pericolo non sarebbe «maggiore di
quello di molti altri virus», e che lo Stato sia «uno dei maggiori
produttori di notizie false»:
«I
deficit e i fallimenti nella gestione delle crisi hanno
conseguentemente portato alla comunicazione di informazioni errate
e provocato così la disinformazione della popolazione».
Accuse anche a stampa e televisione: «I
principali media e soprattutto il servizio pubblico sembrano
vedersi prevalentemente come trasmettitori delle posizioni di base
della direzione politica dominante».
Il nuovo virus
presumibilmente non ha mai rappresentato un rischio per la
popolazione, uccidendo le
persone che muoiono statisticamente nell’anno corrente perché
hanno raggiunto la fine della loro vita e i loro corpi indeboliti
non possono più far fronte a uno stress quotidiano, come ad esempio
uno dei 150 virus attualmente circolanti.
«La
pericolosità di Covid-19 è stata sopravvalutata (non più di
250.000 decessi con Covid-19 in tutto il mondo in un quarto di
anno, rispetto a 1,5 milioni di decessi durante l'ondata di
influenza 2017/18). Il pericolo ovviamente non è maggiore di
quello di molti altri virus».
«Il fatto che il presunto falso allarme sia rimasto
inosservato per settimane è essenzialmente dovuto al fatto che il
quadro d'azione applicabile da parte della squadra di crisi e la
gestione della crisi in una pandemia non contiene strumenti di
rilevazione idonei che possano innescare automaticamente un allarme
e avviare l'immediata risoluzione delle misure».
Molti i morti a causa degli interventi chirurgici e
delle cure oncologiche rinviate, si
parla da 5.000 a 125.000 pazienti che sono morti o moriranno a causa
del ritardo delle cure e degli interventi. Tra i danni collaterali
della sopravvalutazione della pandemia, ci sarebbe l'aumento dei
suicidi (in precedenza una media di 9.000 all’anno), come reazione
alla distruzione economica dei mezzi di sussistenza. Si critica poi
l'ingerenza dello stato sulle libertà civili e i danni collaterali
all’economia: «Il danno collaterale
(completamente inutile) causato dalla crisi del coronavirus è ora
diventato gigantesco. Gran parte di questo danno si manifesterà
solo nel prossimo e lontano futuro. Questo non può più essere
prevenuto, ma solo limitato».
Si tratta di un documento interessante, che ha dimostrato equilibrio su
vari punti trattati, anche se è stato minimizzato dalla stampa tedesca,
e additato come
fake.
Una definizione complicata da dare ad un documento tanto completo che ha
inoltre causato il licenziamento del funzionario autore dello stesso.
Mascherine: la protezione vale i
rischi di indossarla?
All’inizio dell’emergenza le
mascherine sono state sconsigliate da tutti: OMS ed esperti nostrani e membri del Comitato
Tecnico-Scientifico, che ne denunciavano il basso livello di
protezione, e anche da membri del governo, che le hanno
definite una stupidaggine inutile, e non furono imposte. Anche
perché non ce n’erano a sufficienza. Eppure Beppe Grillo ne indossava una già
il 19 dicembre, ed in seguito si è scoperto che il virus allora era già presente in Italia, e il Senato già il 27 gennaio
comprava 10.000 mascherine, delle più efficaci: il modello raccomandato per gli
operatori sanitari.
Con la dichiarazione
di pandemia si propose di permettere
l’uso di mascherine realizzate in casa, ma secondo le autorità
le mascherine dovevano assolutamente avere il marchio CE. Questo ha
portato poi ad alcuni sequestri dei NAS dei Carabinieri negli
aeroporti d’Italia per l’importazione attraverso canali privati di
materiale non conforme. Tra febbraio e marzo è partita così la
ricerca di mascherine in giro per tutto il mondo da parte
dell’Italia, con il mandato al Commissario Arcuri per la fornitura,
affidata poi ad aziende di ex parlamentari e società escluse
precedentemente dalle gare Consip, con fondi dirottati alle Cayman,
e buona parte delle mascherine mai consegnate a causa della mancanza di verifiche fatte sulle aziende:
un grande affare per alcuni, e un grave danno ecologico, quello
dello smaltimento, per i posteri.
Da quando le mascherine si sono iniziate a vendere – con relativa
polemica sui prezzi al pubblico e sulle percentuali di guadagno da
parte dei rivenditori – l’Istituto superiore della Sanità ha di fatto permesso
l’uso di quelle realizzate in casa. A quel punto, però, molti
enti locali hanno imposto l’obbligo delle mascherine, anche
all’aperto, per tutti i cittadini, senza distinzioni.
Non
esistono però prove scientifiche dell'efficacia
delle mascherine per il viso in soggetti sani o asintomatici.
Anzi, all’aperto è decisamente sconsigliato l’uso, per vari
motivi.
Finora, la
maggior parte degli studi ha trovato poche o nessuna prova
dell'efficacia delle mascherine in tessuto, né come equipaggiamento
protettivo personale né per proteggere gli altri, come ben sintetizzato
dagli svizzeri del Swprs, che hanno raccolti una folta lista di studi:
- Un meta-studio del maggio 2020 sull'influenza pandemica pubblicato
dal CDC USA ha rilevato che le maschere per il viso non hanno
avuto alcun effetto.
- Una pubblicazione del luglio 2020
dell'«Oxford Centre for Evidence-Based Medicine» ha rilevato che
non ci sono prove dell'efficacia delle maschere di stoffa contro
l'infezione o la trasmissione di virus.
- Uno studio su più paesi sulla Covid-19 compiuto dall’Università
dell'East Anglia ha rilevato che il requisito della maschera non
era di alcun beneficio e poteva persino aumentare il rischio di
infezione.
- Una pubblicazione dell'aprile
2020 di due professori statunitensi in «Malattie Respiratorie e
Infettive dell'Università dell'Illinois» ha concluso che le
mascherine per il viso non hanno alcun effetto nella vita di
tutti i giorni.
- Un articolo del «New
England Journal of Medicine» del maggio 2020 è giunto alla
conclusione che le mascherine in tessuto offrono poca o nessuna
protezione nella vita di tutti i giorni.
- Una pubblicazione «Cochrane
(preprint)» dell'aprile 2020 ha rilevato che le maschere per il
viso non hanno ridotto i casi di malattia simil-influenzale
(ILI), né nella popolazione né negli operatori sanitari.
- Una pubblicazione dell'aprile
2020 della «Norwich School of Medicine (preprint)» ha rilevato
che «le prove non sono sufficientemente solide per supportare
l'uso diffuso di mascherine», ma supporta l'uso di mascherine da
parte di «individui particolarmente vulnerabili quando si
trovano in situazioni transitorie a rischio elevato».
- Uno studio del luglio 2020
condotto da ricercatori giapponesi ha scoperto che le mascherine
di stoffa «offrono una protezione zero contro il Coronavirus» a
causa delle loro grandi dimensioni dei pori e generalmente della
scarsa vestibilità.
- Uno studio del 2015 nel
British Medical Journal BMJ Open ha rilevato che le mascherine
di tessuto sono state penetrate dal 97% delle particelle e
possono aumentare il rischio di infezione trattenendo l'umidità
o con un uso ripetuto.
- Una pubblicazione dell'agosto
2020 di un professore tedesco di Virologia, Epidemiologia e
Igiene ha rilevato che non ci sono prove dell'efficacia delle
mascherine facciali in tessuto e che l'uso quotidiano improprio
può infatti portare ad un aumento delle infezioni.
Inoltre, il
prof. Donzelli, Medico, specialista in Igiene e Medicina Preventiva,
già Direttore «Servizio Educazione Appropriatezza ed EBM ex ASL
Milano» – Consiglio Direttivo e «Comitato Scientifico Fondazione
Allineare Sanità e Salute», ha parlato di un trial di 5 giorni
effettuato dal prof. Al Felali a La Mecca sulle mascherine
all’aperto, affermando che all’aperto non hanno alcuna
efficacia nel contenimento delle virosi respiratorie, ma
anzi c’è stato un peggioramento di altre virosi. Pur
schermando goccioline e una parte dell’aerosol, c’è un aumento del
30% delle malattie respiratorie causate dalle mascherine, che sono
un compromesso per la salute che si può usare finché i danni non
superano i benefici. C’è stato un altro test, provato da un gruppo
di cardiologi tedeschi capitanati dal dott. Fikenzer, sul suo
personale sanitario: persone in ottima salute, a cui ha chiesto di
indossare mascherine chirurgiche o con filtri, o di non indossarle,
provandole in diverse circostanze, per vedere come reagivano i loro
cuori e polmoni, a riposo, con blanda attività fisica e forte
attività fisica. I soggetti
hanno avuto peggioramento indiscutibile della performance
cardiopolmonare, maggiormente con le mascherine filtranti, ma
anche con le chirurgiche: meno aria espirata al secondo,
diminuzione della ventilazione, più consumo di ossigeno, riduzione
della funzionalità respiratoria che per soggetti non sani,
cardiopatici o scompensati, tutte conseguenze che possono essere
molto pericolose. Il cuore ha dovuto sopperire al minor lavoro
polmonare con una maggior attività, con un aumento della pressione
transmurale, in soggetti
anziani (per cui è fondamentale camminare all’aria aperta),
cardiopatici ed obesi. Ciò è pericoloso, ed è rischioso esser
convinti che le mascherine siano così importanti, come ammesso anche dal virologo Perno
sul Corriere. Inoltre va considerato che all’aperto, con tanti metri
cubi di aria disponibile, è decisamente difficile che si raggiunga
la carica infettante. Si aggiunga un altro ragionamento del prof.
Donzelli: una persona malata, portando la mascherina, protegge con
una buona percentuale le altre persone, ma dove finiscono le
goccioline e gli aerosol prodotti? In parte restano sulla mascherina
dello stesso che, inumidendosi, diventerà territorio di coltura per
virus e batteri, ma in parte ritorna nei polmoni, fungendo così da
“moltiplicatore virale”, poiché li spinge in profondità nei polmoni
e negli alveoli dove non dovrebbero arrivare, poiché non ci sono le
difese innate delle vie respiratorie esterne. Quindi è giusto anche
tenerla al chiuso, ma per tempi molto brevi, se sei sintomatico o
presintomatico, cioè nei due giorni prima di mostrare sintomi, ma
questo ti potrà pure provocare un’infiammazione maggiore quando gli
anticorpi arriveranno a “scontrarsi” con le proprie difese nelle
profondità polmonari piene di virus, dopo 10/15 giorni. In pratica,
un asintomatico o un paucisintomatico, respirando la sua stessa aria
e quindi i suoi virus più volte, può diventare un sintomatico e
vedere un peggioramento grave dell’infezione. La tosse è un
meccanismo salvavita, che serve a liberarci di germi e muchi, perché
andare a bloccare il meccanismo, o anzi perché addirittura
invertirlo?
Poche le voci fuori dal coro in Italia sulla reale
utilità nel contenimento della diffusione del virus da parte di
questi DPI, come quelle di Bassetti e Tarro, tra gli altri. Le mascherine danno solo una falsa
sicurezza psicologica e, contrariamente alle ipotesi originali, per cui si
pensava che vari studi non davano ancora sufficienti prove che il virus si
diffondesse attraverso gli aerosol, ora sempre più studi spingono verso l’ipotesi che invece gli aerosol lo
diffondano.
Tuttavia, a
causa delle ampie dimensioni dei pori e della scarsa vestibilità, le
maschere in tessuto non possono filtrare gli aerosol: oltre il 90%
degli aerosol penetra o aggira la maschera e riempie una stanza di medie dimensioni in
pochi minuti, poiché un Coronavirus è grande soltanto 120 nm.
La possibilità
di contagio attraverso il contatto con superfici infette (oggetti, maniglie
delle porte, etc...) è invece molto più complicata, ed è stata molto
ridimensionata rispetto all’inizio.
Anche in questo
caso, come tutto ciò accaduto intorno al Covid-19, di
fronte alla malattia sconosciuta, e alla mancanza di certezze
scientifiche, si è preferita
la via precauzionale connotata da un'evidente spinta alla paura e
alla sfiducia.
Le mascherine
andrebbero sicuramente fatte indossare a chi è infetto per evitare
che il virus si sparga, e al personale sanitario per garantire a
questo protezione, ma è giusto dire che le
mascherine
possono soltanto bloccare i droplets, le goccioline di saliva, ma
solo in parte. Poi i droplets evaporano in pochi
minuti, quindi il virus eventualmente presente resta e penetra
comunque la mascherina. Ma nei manuali di microbiologia si afferma
che non avviene nessun tipo di contagio, in genere per le malattie
infettive, qualora due persone dialoghino normalmente per brevi
periodi, ad una distanza di circa 20 cm: quindi almeno all’aperto,
basta evitare di scontrarsi con le persone.
A sfavore
dell’utilizzo massiccio e continuato delle mascherine, gli esperti
avvertono che interferiscono con la normale respirazione e, portate
troppo a lungo, danno ipercapnia: si ha cioè un eccesso di anidride
carbonica, perché non c'è una respirazione efficiente; le mascherine
possono inoltre diventare "portatrici di germi", per utilizzo
scorretto, eccessivamente prolungato, a contatto con altre superfici
o con liquidi. Il corpo rischia di andare in acidosi, perché
l’organismo diventa più acido del dovuto: il ph si abbassa ed è più
facile ospitare malattie. Una ragazzina di 13 anni è andata in coma, essendo asmatica, a causa
dell’utilizzo prolungato della mascherina. In Cina nel maggio scorso
sono state registrate due morti sospette per l’uso della
mascherina durante un esame di educazione fisica: non è stata
disposta l’autopsia e non si sono potute avere conferme.
Diversi medici hanno
definito ciò che è successo intorno alle mascherine come mero
"clamore mediatico", definendole persino "ridicole". Ancora peggio sono i guanti, vietati dall’OMS, poiché continuo
ricettacolo di germi. Altro discorso che non viene minimamente
approfondito, è quello dei gel igienizzanti: non solo non
ucciderebbe il virus, secondo il dottor Andrew Kamp, capo del
comitato scientifico del British Institute of Cleaning Science, che
ha affermato che un impiego eccessivo di gel igienizzante consente
ai batteri e superbatteri di imparare a sopravvivere.
Pubblichiamo di seguito la griglia di rischio di trasmissione del
Sars-Cov-2 utilizzata dall’informazione ufficiale e considerando solo
gli individui asintomatici per evidenziare due concetti di base:
all’aperto in luogo ben ventilato e non affollato, in silenzio o
parlando, avendo contatti per lungo o per breve tempo con altri, il
rischio è contenuto, in alcuni casi minimo, sia con la mascherina
indosso che senza.
Al contrario in luogo chiuso, poco ventilato e
affollato, che si stia zitti o si parli, con mascherina indosso o
senza, il rischio è alto lo stesso. Insomma: la sanità dei luoghi
conta più dell’uso della mascherina.
Quanto è costato il Covid alla sanità
italiana?
Diverse infermiere, ad esempio a
New York, hanno descritto una cattiva e fatale gestione medica dei pazienti Covid
a causa di discutibili incentivi finanziari o protocolli medici
inappropriati.
Quanto è costato curare i
contagiati dal coronavirus in ospedale? Il conto per l'Italia dopo i primi 100
giorni è di 1,7
miliardi di euro, di cui 242 milioni al Nordest, contro i 599
della sola Lombardia, secondo uno studio dell'Università Cattolica
di Milano, circa 1,2 miliardi per i guariti (in media 8.476
euro a ricoverato), 225 milioni per i morti
(9.796 euro per ciascuno) e 251 milioni per gli intubati. Una
stima si è focalizzata sul conto delle giornate in Terapia
Intensiva ad un costo giornaliero medio di 1.425 euro.
Una fonte medica
afferma che in Campania gli ospedali che sono diventati centri Covid
avrebbero ricevuto 12.000 euro per ogni infetto e 18.000 euro per
ogni deceduto. Questo probabilmente aiuta a comprendere perché tanta
insistenza a etichettare come Covid anche i deceduti per altri
motivi o sospetti Covid.
Di seguito invece uno schema dell’Autorità
Nazionale Anticorruzione, che indica la spesa per contagiato e quella
complessiva, regione per regione, al 30 aprile, per avere solo un’idea
del peso che sta avendo quest’epidemia. Se pensiamo alle migliaia di
tamponi giornalieri che si effettuano pubblicamente e privatamente,
oltre alle forniture di mascherine e gel disinfettanti, le cifre
potrebbero essere più che sorprendenti.
L’OMS e il conflitto d’interesse
Chi
ha investito sui pandemic bond, ha
ricevuto lauti guadagni prima della dichiarazione della pandemia
da parte dell’OMS; anche se i modelli e le previsioni
epidemiologiche sono sovrastimate rispetto ai valori reali basati
sugli studi sierologici sugli anticorpi. Più di 100 paesi hanno chiesto
un’inchiesta indipendente sul Covid-19 che non sia portata avanti dall’OMS, che è
stata colpevole di gravi ritardi, e che ha cambiato
idea mille volte su molteplici temi connessi al Covid. Nel 2017, la
stessa Organizzazione Mondiale della Sanità veniva già criticata fortemente per la figura
ingombrante di Bill Gates e delle sue fondazioni, che sono tra i principali
finanziatori dell’OMS, e si ipotizzava quindi il rischio di
influenzare le attività: «Ormai
l'OMS è costretta a tenere conto di quello che Gates ritiene
prioritario, come nel caso della polio», obiettava il
professor Flahault. Interi dipartimenti dell'organizzazione sono
finanziati, per intero, dalla fondazione Bill & Melinda Gates.
«Questo ha, inevitabilmente, un impatto.
Non tanto su quello che l'OMS dice ma, piuttosto, su quello che
omette di dire», ha dichiarato, alla TV pubblica elvetica,
Nicoletta Dentico, direttrice della ONG di Ginevra, «Health
innovation in practice».
Prima ancora,
nel 2010, su RSI LA1, canale televisivo in lingua italiana
dell'azienda radiotelevisiva pubblica svizzera SRG SSR, andava in
onda un servizio ll fantasma della pandemia, di Serena Tinari, all’interno
del programma «Falò». in cui si afferma che prima con la Sars, poi con la
Mucca pazza e l’aviaria, infine con la suina, l’OMS abbia creato
delle pandemie che si sono rivelate essere fasulle. Le
catastrofistiche previsioni non si sono realizzate: per l’aviaria si
parlava di 17 milioni di morti, invece morirono 286 persone a
stretto contatto con pollame infetto, ma nel frattempo «la Roche»
guadagnò 4 miliardi di franchi per il suo farmaco Tamiflu;
nel 2009, per la suina, fu dichiarata la pandemia nonostante l’OMS
fosse più ottimista, poiché la stragrande maggioranza dei pazienti
era paucisintomatica e guariva presto. Ma fu proclamata comunque la
pandemia di livello 6.
Ma cos’è una
pandemia? Fino a pochi mesi prima il sito dell’OMS parlava di «una
malattia che si diffonde molto velocemente e che provoca un enorme
numero di malati gravi e di morti». Invece nella nuova definizione
la dizione «enorme numero di morti e malati» scomparve proprio
quando spuntò fuori la Suina.
Non si capisce più,
quindi, la differenza tra influenza pandemica e influenza
stagionale. Ogni volta che scatta la “macchina” pandemica tornano
disinfettanti, mascherine, preoccupazioni, paragoni con la letale
Spagnola. Ma soprattutto, scattano gli accordi economici dei
contratti che obbligano gli Stati a stanziare i fondi per i vaccini,
anche se ancora non esistono e forse non esisteranno mai.
La Suina fu
invece una comune influenza, che finì nel febbraio 2010, con 16.000
morti rispetto ai 250.000/300.000 l’anno che muoiono a causa
dell’influenza stagionale, e ai decisamente tanti morti di
tubercolosi di quell’anno, ovvero circa 1.350.000. Gli Stati hanno
però acquistato su indicazione dell’OMS milioni di dosi di un
inutile vaccino, rimasto per lo più inutilizzato. L’OMS venne
accusata dalla Commissione Sanità del Consiglio d’Europa di avere
creato una falsa pandemia, che ha trasformato una comune influenza
in un business miliardario, diffondendo paura nella popolazione e
nei governi di tutto il mondo che, per prepararsi e difendersi da
quella che sembrava una imminente emergenza sanitaria, hanno speso
un patrimonio. Solo per quelli europei si parla di 5 miliardi di
euro, a livello mondiale di 18 miliardi di euro. Grazie alla
pandemia, «Novartis» guadagnò 1 miliardo di franchi svizzeri,
«Glaxo» 1,7, «Roche» oltre 3 miliardi. Eppure la quasi totalità
della popolazione non si vaccinò.
Il rischio fu
valutato da chi aveva interesse nella vendita dei vaccini?
Il Consiglio
d'Europa interrogò l’OMS sulla mozione Le false pandemie, una
minaccia per la salute, per sapere se l'OMS si fece
condizionare dall'industria farmaceutica, che grazie alla pandemia
aveva registrato incassi record. Un anno di pandemia in Svizzera,
tra disinfettanti, mascherine e undici milioni di dosi di vaccino
(il doppio di quello necessario poiché l’OMS aveva prescritto di
farne due dosi a cittadino), il tutto rimasto inutilizzato, è
costato 70 milioni di franchi. Molti paesi tentarono la svendita dei
vaccini in scadenza a paesi più poveri, come fece la Svizzera
all’Iran. Alcuni governi tentarono di rinegoziare gli accordi
economici con le multinazionali del vaccino, ma Novartis, tramite
Daniel Vasella, tuonò: «La prossima volta che ci sarà una pandemia,
e ci sarà una pandemia, i governi che si sono dimostrati partner
affidabili saranno trattati in modo preferenziale». Solo la Polonia
si rifiutò di comprare il vaccino, ed ebbe qualche caso in meno di
altri stati che invece fecero (poche) vaccinazioni, ritenendo fosse
una banale influenza, e poiché i legali del Ministero della Salute
polacco trovarono 20 punti discutibili nei contratti, tra cui
l’impossibilità di rivalersi contro l’industria in caso di danni;
oltre alla preoccupazione di un vaccino fatto in emergenza,
contenente adiuvanti, sostanze che potrebbero essere pericolose, su
cui si hanno pochi dati.
Il dott.
Wolfgang Wodarg disse: «Nei contratti fatti con l’industria per la
fornitura di un vaccino pandemico era previsto che gli accordi
sarebbero entrati nel vivo quando l’Oms avesse proclamato una
pandemia. L’OMS doveva solo premere un bottone. Grazie al
cambiamento della definizione, una volgare influenza è stata
presentata come una pandemia. E sono cominciati gli affari». L’OMS
negò la pressione dell’industria farmaceutica, tutto fu trasparente,
si stava banalizzando la morte di migliaia di persone.
La Commissione
allora interrogò l’OMS su diversi casi di medici e scienziati che
lavoravano per l’organizzazione, ma con imbarazzanti incarichi per
case farmaceutiche produttrici di vaccini e fondazioni private,
finanziate da produttori di vaccini. I conflitti di interesse
andrebbero dichiarati, ma quasi nessuno ha menzionato però i soldi
ricevuti dai privati. Lo stesso controllore riceve soldi da un
colosso dei vaccini. Dai primi anni 2000, l’OMS ha introdotto il
PPP, partenariato pubblico privato, dato che gli Stati non davano i
fondi, li ha dovuti cercare dai privati, e ciò ha creato lo strano
intreccio con le case farmaceutiche e Gates.
Molti miliardari, come
Jeff
Bezos di Amazon,
si sono arricchiti enormemente durante il
lockdown,
facendo compravendite milionarie poco
prima, mentre il potente
fondo d’investimento Blackrock
aveva scommesso lo scorso novembre (si è poi scoperto che il virus era
in circolazione già da ottobre),
sul
crollo delle borse mondiali nel marzo 2020, ricavandone
grandissimi profitti.
Vaccino:
tante incertezze e un obbligo impossibile
Diversi esperti medici hanno descritto i vaccini contro i coronavirus come inutili o addirittura pericolosi. In effetti, il vaccino contro la cosiddetta influenza suina del 2009, ad
esempio, ha portato a milioni di danni neurologici a
volte gravi e a cause legali. Anche nei test sui nuovi vaccini contro
il coronavirus si sono già verificate gravi complicazioni e fallimenti, e le stesse sperimentazioni in atto sono state più volte
bloccate per gravi effetti collaterali. Lo stesso Anthony Fauci ha
affermato al congresso americano che il vaccino non è detto che sarà efficace. Molti dubbi ci
sono già sull’effettiva validità di un vaccino, quello
antinfluenzale, che viene sviluppato sulla base delle proiezioni
teoriche sui virus in circolo l’anno precedente, e dunque è una
“scommessa” (è esperienza comune che molte persone vaccinate si
ammalino comunque). Inoltre, non è da sottovalutare la
continua e forte variabilità di un virus a RNA come il
Coronavirus, di cui pare esistano già diverse varianti: si parla di
198 mutazioni verificate del virus a inizio maggio su 7500
infetti.
Molti medici,
tra cui il dott. Bassetti, ritengono che
l'OMS sbaglia quando afferma senza alcun elemento scientifico che
avere gli anticorpi non sarebbe in grado di evitare una nuova
infezione da SARS-CoV2. Pare, invece, che chi
ha avuto l'infezione e ha sviluppato le IgG non
si sia nuovamente infettato, come affermato da un recente studio. Se così fosse, con tanti asintomatici (secondo
lo studio svizzero parliamo di almeno cinque volte in più dei
positivi) a chi serve il
vaccino?
Nonostante ciò,
il Governo ha affermato di voler stanziare 140 milioni di euro in favore delle
Fondazioni di Bill Gates per il vaccino, mentre sono stati in netto
ritardo i sussidi per i lavoratori e la cassa integrazione,
contributi ridicoli rispetto a quanto stanziato da altri governi
europei e non. E molte regioni spingono sull’obbligatorietà del
vaccino antinfluenzale, nonostante l’interferenza col Covid. Una
delle multinazionali che lo sta ricercando e che dovrebbe rifornire
l’Italia, AstraZeneca, non ha una fedina penale pulita.
Molte voci
dissentono sull’obbligatorietà di un vaccino che
prevede iter accelerati e prove di sicurezza minimali:
il Sindacato
dei Militari e il Sindacato autonomo di Polizia si sono opposti
già ad aprile ad un eventuale vaccino, dopo che il governo
ha annunciato che potrà essere somministrato in “modalità d'uso
compassionevole”, definizione riferita a un farmaco in fase di
sperimentazione non ancora approvato dalle autorità sanitarie: «Dagli
atti delle numerose Commissioni parlamentari di inchiesta sull’uranio
impoverito che hanno rivolto la loro attenzione anche
sulla
questione della somministrazione dei vaccini ai militari è emerso,
nei molti casi esaminati, che
il mancato rispetto dei protocolli
vaccinali sia stata la possibile
causa, o concausa, dello
sviluppo di patologie gravemente invalidanti o addirittura mortali».
Anche
medici
e infermieri si ribellano ai vaccini obbligatori per i lavoratori
della sanità. E il
Tar
del Lazio ha di recente bocciato l’obbligo vaccinale antinfluenzale
per gli Over 65 e per tutto il personale sanitario che il presidente
della Regione Zingaretti aveva deciso.
La
dichiarazione di Great Barrington
Numerosi esperti di fama internazionale nel campo della virologia, dell’immunologia e
dell’epidemiologia, su iniziativa delle più autorevoli università
del mondo (Harvard, Oxford, Stanford), il 4 ottobre hanno lanciato
una petizione chiamata Great Barrington Declaration, in cui
considerano le misure adottate controproducenti e raccomandano una rapida immunizzazione naturale della popolazione in generale e la protezione dei gruppi
a rischio.
Denunciano che
le attuali politiche di blocco stanno producendo effetti devastanti
sulla salute pubblica, a breve e lungo periodo, come il
peggioramento degli esiti delle malattie cardiovascolari, meno
screening per il cancro e deterioramento della salute mentale – con
la conseguenza che questo porterà negli anni a venire a un aumento
della mortalità, con la classe operaia e i membri più giovani della
società che ne soffriranno il peso maggiore. Anche tenere gli
studenti fuori dalle scuole è una grave ingiustizia. L’obiettivo
dovrebbe quindi essere quello di ridurre al minimo la mortalità e i
danni sociali fino a raggiungere l’immunità di gregge, tramite un
approccio più umano, che bilanci i rischi e i benefici, permettendo
a coloro che sono a minimo rischio di morte di vivere normalmente la
loro vita per costruire l’immunità al virus attraverso l’infezione
naturale, proteggendo al meglio coloro che sono a più alto rischio:
chiamano questa strategia “Protezione Focalizzata”.
Ma dopo pochi
giorni, Tedros Adhanom Ghebreyesus, direttore generale dell'OMS ha
definito la strategia per il raggiungimento dell’immunità di gregge come “immorale
e pericolosa": «è un
concetto usato per i vaccini», vale per «una popolazione che possa
essere protetta da un certo virus, se viene raggiunto un tasso di
vaccinazione» e ha sottolineato che «mai nella storia della sanità
pubblica l'immunità di gregge è stata usata come una strategia per
rispondere ad un'epidemia, meno che mai ad una pandemia. È
scientificamente ed eticamente problematico». A supporto,
una lettera pubblicata nei giorni precedenti su The Lancet a firma
di 80 scienziati. Questo fa capire come la scienza sia totalmente
divisa sulla gestione pandemica, e gli interessi economici di certo
non aiutano a capire quali siano le migliori strategie. Di certo
sembra sensato un atteggiamento di protezione di lungo periodo delle
categorie a rischio.
In questo
dibattito acceso, si vanno a inserire anche i medici, infermieri e
scienziati della neonata Alleanza Mondiale
dei Medici, ispirato dal Comitato ACU2020, che ha creato un
gruppo indipendente professionisti sanitari e ricercatori che hanno
come unico scopo quello di dire la verità sulla pandemia. Hanno
lanciato una Lettera aperta in cui spiegano le ragioni per le quali
reputano questa pandemia ormai finita. «Abbiamo centinaia di
migliaia di cosiddetti “casi”, “infezioni” e “test positivi”, ma
quasi nessun malato. Quattro quinti (80%) delle “infezioni” sono asintomatiche».
Nei mesi di
giugno, luglio, agosto e settembre i reparti Covid sono stati
generalmente vuoti: «È chiaro che la “pandemia” è praticamente
finita e lo è da giugno. La cosa più importante è che le morti per
Covid sono ai minimi storici». Inoltre hanno aggiunto: «Questi
“casi” in realtà non sono “casi”, ma piuttosto sono persone normali
e sane». Ritengono che l’immunità sia ormai stata raggiunta in molte
zone del mondo.
Denunciano che il confinamento non è mai stato applicato fino a oggi per
un virus respiratorio e a persone sane; che sono stati associati dei
decessi alla Covid anche se la morte era dovuta a patologie pregresse; e
che i tamponi, di cui non si può verificare l’accuratezza, sono soggetti
a falsi positivi. Hanno concluso la conferenza di presentazione lo
scorso 10 ottobre, con le parole del professor Mark Woolhouse,
epidemiologo e specialista in malattie infettive, membro dell’Università
di Edimburgo: «Il blocco è stata una misura dettata dal panico ma credo
che la storia dirà che cercare di controllare la Covid-19 attraverso il
blocco sia stato un errore monumentale su scala globale. La cura è stata
peggiore della malattia».
Postfazione
Se dici una menzogna enorme e continui a ripeterla,
prima o poi il popolo ci crederà
(Joseph Goebbels)
Perché quest’inchiesta?
La percezione è realtà: dal
modo in cui si racconta qualcosa, da come la si fa percepire alle
persone, si può creare una versione diversa della stessa. Raccontare
qualcosa, spingendo sulle emozioni delle persone, o ancor peggio sulla paura, crea
un’altra realtà. Specie se si preme sulla paura più grande, quella
di morire. Non si parla
più alla testa, ma si stringe una morsa al cuore e alla pancia, e
chiunque può cadere in potere di chi sta tessendo la narrazione. La paura fa accettare tutto,
il panico crea obbedienza.
Il mondo è
bloccato dal Covid-19, un Coronavirus, da vari mesi.
La narrazione
ufficiale, guidata da alcuni scienziati, dai governi e dai media
mainstream, ci racconta quotidianamente un’ecatombe mai vista prima,
a causa di un virus dall’origine ancora incerta, e che ha provocato
un numero incredibile di morti. Una tragedia per cui gli Stati sono
stati costretti a chiudere in quarantena i propri cittadini,
bloccando, prima o poi, le attività “non necessarie”, e iniziando ad
entrare nel giudizio su quali lo siano o meno.
Chi non lo ha fatto
pare abbia subito conseguenze sanitarie disastrose. Chi non ha
rispettato il lockdown è stato multato, denunciato e in alcune
nazioni arrestato, oltre ad essere oggetto di odio sociale, in
quanto “untore”, anche se passeggiava in luoghi isolati, da solo.
Molti paesi hanno reso obbligatorio l’utilizzo di mascherine. Il
distanziamento sociale pare continuerà ancora per molto: un futuro
fatto di un metro di distanza l’uno dall’altro, di acquisti online,
di lunghe file, di spiagge libere a numero chiuso, di pannelli di
plexiglass che divideranno qualsiasi luogo o situazione. Viene
raccontato come impossibile un ritorno alla normalità, anzi è stato
più volte detto che la nuova normalità ci accompagnerà per sempre.
Non si riesce a decifrare il tempo che ci separa da una soluzione – anche se alcune novità
sui vaccini e gli anticorpi monoclonali si rincorrono da mesi.
Prospettive sulle quali comunque non si fa informazione, preferendo
raccontare quanto siamo nel buio e quanto ancora la luce sia
tremendamente lontana.
Le conseguenze economiche già sono gravi, con i governi che hanno
stanziato miliardi per aiutare la popolazione, e che almeno in
Italia però fanno una tremenda fatica ad arrivare nelle tasche della
popolazione.
Non sembra
essere andato tutto bene, per niente.
Quella che
abbiamo ricostruito è una vera e propria narrazione della paura, che
ha visto alternarsi elementi di terrorismo psicologico, utilizzo
strumentale dei dati, degli studi e delle informazioni –
sicuramente sia dal lato della costruzione di questa narrazione, sia
dal lato di chi la nega del tutto.
Una narrazione che è
stata portata avanti come un mantra dall’OMS, organismo
sovranazionale sul quale nel recente passato sono stati alzati dubbi
e perplessità da Stati e Governi rispettabilissimi, e sicuramente
influenzato da fondi privati con ingenti interessi economici nelle
questioni legate alla salute.
Narrazione sposata quasi sempre acriticamente dai media, che al
lavoro giornalistico d’inchiesta, salvo rare eccezioni, preferiscono
la ripetizione delle notizie governative –
come neanche in guerra accadeva, con gli inviati –
e il chiacchiericcio dei salotti nei quali, dopo le “parole degli
esperti”, arrivano quelle degli esponenti dello spettacolo, in un
miscuglio che di sicuro alimenta l’opinionismo delle quali ormai
siamo vittime inermi.
Una narrazione che, ci spiace dirlo, ha conquistato la maggioranza
delle persone che stanno finendo per invocare le restrizioni, e per
accettare molto di quanto avrebbero ritenuto inaccettabile fino a
poco tempo fa per tornare a vivere le proprie vite in una normalità
che in realtà non si sa se tornerà. Gli annunci del Presidente del
Consiglio Conte, anzi, non prevedono questa prospettiva.
Forse neanche dopo l’arrivo del vaccino che, per la pubblicità che
sta ricevendo, potrebbe essere rifiutato da una ampissima fetta
della popolazione, preoccupata delle tempistiche delle
sperimentazioni, dalle interruzioni per gli effetti collaterali,
dell’accelerata innaturale che si sta dando al processo di
verifiche, sicuramente per salvare l’umanità, ma anche e forse
soprattutto per salvare il sistema economico che regge l’attuale
stato delle cose. Un sistema economico, quello dei too
big to fail, che per le dinamiche di questi mesi ha
guadagnato centinaia di miliardi ingigantendo ancora di più il gap
di separazione con il resto del pianeta, sempre più povero ed
emarginato. Una dinamica da shock economy magari indesiderata, ma
cavalcata con feroce determinazione.
Non riteniamo corretto escludere a priori dal dibattito, con accuse
di negazionismo, alla luce di quanto raccontato e visto in questi
mesi, chi nel panorama internazionale parla di pandemia mediatica,
di possibile distorsione della realtà senza precedenti, della
creazione di una minaccia psicologica –
evidente – che sta
soffocando l’economia mondiale.
Una pandemia,
quella mediatica - e non quella di Covid-19 –
che sta distruggendo gli ultimi scampoli di libertà personale. In
particolar modo in ambito sanitario, dove inizia a percepirsi una
limitazione delle possibilità di scelte nel trattamento che arriva a
chiudere un decennio di degrado e destrutturazione di un Sistema
Sanitario Nazionale considerato un tempo d’eccellenza e che oggi si
basa su esternalizzazioni, contrattualizzazioni provvisorie e
prestazioni intra-moenia. Una situazione denunciata già a Giugno da
Medicina Democratica nel suo Manifesto: La Salute non
è una merce, la Sanità non è un’azienda, proprio alla luce
delle storture emerse nella prima fase di gestione della pandemia. E
nonostante la Costituzione salvaguardi esplicitamente la salute e la
libertà terapeutica.
Una pandemia che
soprattutto sta fungendo da acceleratore di processi di cambiamento,
nel bene e nel male, accettati sulla base della paura della morte.
Anche alcune delle persone di spirito critico illuminato si sono
dovute rinchiudere in casa, magari dismettendo o tralasciando per
tempi migliori ogni forma di pensiero critico, e accettando un po’
passivamente il nuovo status quo, in nome della paura.
Qualsiasi critica o dubbio è distrutta sul nascere, relegata al
negazionismo o alla fake news anche quando queste sono definizioni
che non si adattano al contesto e al merito dei discorsi. Chi cerca
di analizzare, documentarsi, fare ipotesi, alimentare dubbi,
lavorando semplicemente su dati e notizie, trova spesso un vuoto di
confronto nel vedersi di fronte una risposta acritica, magari
emotivamente comprensibile, ma poi difficilmente sondabile oltre
quel livello. È stata esclusa la razionalità dal discorso pubblico
generando una risposta emotiva di massa.
Questo lavoro, che sulla base della nostra formazione prova ad essere
quantomeno critico, ha provato almeno a mettere un po’ di ordine nel
mare di notizie, studi, ipotesi che ci sono passati davanti agli occhi
in otto mesi. Un tentativo estremo di sintesi che possa aiutare, coi
suoi rimandi, ad aprire una finestra, a lanciare uno sguardo fuori da
quanto viene quotidianamente ripetuto. Perché l’autunno del 2020 non sia
anche un autunno della ragione.
21 ottobre
2020