Tradimento
È dai tempi di Trotsky che si pone il
grande tema del tradimento della rivoluzione, al punto che sarebbe
meglio parlare dei tradimenti delle rivoluzioni o, se si preferisce,
del tradimento ‘permanente’ della rivoluzione, giusto per restare
sempre in ambito trotskista. Il povero Bronstein, vero nome di
Trotsky utilizzato da Gramsci in carcere, ha subito molte critiche
nonostante il massacro staliniano perpetrato tanto nei suoi
confronti quanto dell’Unione sovietica, ma un merito non glielo si
può negare: l’avere posto il problema, non certo la soluzione, del
perché le cose in Unione sovietica, e poi nel mondo, non siano
andate proprio come ci si sarebbe aspettati. Bronstein era un
politico marxista, ma pur sempre un politico, perciò le risposte le
cercava nell’ambito della politica, dove, come si vedrà, non
potevano essere trovate, almeno non definitivamente. Nella
Rivoluzione tradita Trotsky analizza l’esperienza sovietica
indicando nello stalinismo il motivo della sua degenerazione, cosa
certamente vera storicamente ma che non può, proprio per la
specificità degli avvenimenti trattati, spiegare se il tradimento
possa invece, in altre forme e in diverse condizioni, manifestarsi
come conseguenza necessaria di tutte le rivoluzioni. Il problema
dell’analisi trotskysta è che spiegando nel dettaglio la
degenerazione della Rivoluzione d’ottobre storicizza necessariamente
il fenomeno de-politicizzandolo e con questo sembra suggerire che al
di fuori di quelle determinate condizioni non possa più darsi il
tradimento delle intenzioni primigenie di una rivoluzione. Se questo
atteggiamento poteva essere comprensibile ai tempi di Trosky di
certo non può esserlo ancora oggi. In sostanza il tradimento è una
vera e propria categoria della politica piuttosto che un evento
storico particolare. Infatti accade che studiando le rivoluzioni
successive, ma anche fenomeni solo in potenza rivoluzionari, si
incontrano sempre le medesime costanti e vale a dire l’emergere e
l’affermarsi, all’interno dello schieramento “rivoluzionario”, di
spinte in contraddizione con la rivoluzione stessa e infine capaci
di ristabilire una forma sempre nuova di un dominio di parte affatto
vecchio. Ma già Gramsci analizzava il problema del trasformismo in
politica, anche nella normale dialettica della rappresentanza
parlamentare, quale applicazione del tradimento perpetrato quasi
necessariamente dai rappresentati nei confronti dei rappresentati.
Tornando all’ambito particolare dei processi rivoluzionari, la
storia sembra assumere una ciclicità inesorabilmente reazionaria, ma
analizzando la questione solo dall’angolo visuale delle dinamiche
politiche, intese come dialettica tra opposti schieramenti in campo,
non se ne esce, dal momento che il problema non è di natura
strettamente politica, anche se ha ricadute soprattutto politiche.
Lo stalinismo stesso, come emblema del tradimento, non può neanche
essere letto in semplici termini di classe, dal momento che esso non
era il prodotto politico di una classe diversa da quella al potere
(seppure questa classe era al potere solo in termini indiretti e, in
ultima analisi, di rappresentanza), ma qualcosa di molto più
complicato, proprio perché generato nel seno stesso dalla classe
operaia nella non semplice ricerca delle forme per
istituzionalizzarsi. È invece importante insistere sull’accezione
“psichica” piuttosto che “organizzativa” del “fattore soggettivo”
dei processi rivoluzionari, dal momento che anche la lucidissima
analisi dell’organizzazione di classe e dei suoi limiti, condotta da
Lukacs nel 1922[1] non risponde al problema del
come evitare ogni volta il risorgere della reazione pur nelle
organizzazioni, e poi nelle istituzioni, della rivoluzione.
Epifania della reazione
È stato solo dalla nascita della
psicanalisi, e dalla critica rivoluzionaria che marxisti come
Wilhelm Reich hanno condotto nei confronti del freudismo, che si è
cominciata a volgere l’attenzione agli aspetti soggettivi del
fenomeno, intendendo però con questo termine non genericamente il
“fattore soggettivo” del processo rivoluzionario, in genere inteso
come l’aspetto organizzativo della massa di soggetti che entrano in
gioco in un tale processo, ma proprio la “natura”, se così si può
dire, degli stessi individui che formano il fattore soggettivo: i
soggetti in quanto materia prima del processo rivoluzionario e della
sua intima dialettica. In Psicologia di massa del fascismo
Reich si chiede come sia possibile il fascismo e ammette che il suo
trionfo, seppure temporaneo, non è il risultato di processi che
avvengono alle spalle e sulla pelle delle persone, ma al contrario
qualcosa che accade con il consenso delle persone, con il consenso
anche e soprattutto di quelli che nulla hanno da guadagnarci. Questo
il paradosso con il quale bisogna cominciare a saper fare i conti.
Il fascismo se è visceralmente odiato ed osteggiato da una parte
della società, è desiderato e magari altrettanto visceralmente amato
da un’altra parte della società. Per Reich l’amore della gente per
il nazi-fascismo non era una maschera sociale necessaria ad evitare
la repressione implicita destinata ai non allineati, ma, nella
normalità dei casi, una condivisione di fondo per un modello di
potere autoritario e violento che esprimeva abbastanza esattamente
ciò che la gente si aspettava, e peggio ancora “desiderava”, a quel
punto della storia. In altre parole il movente sociale del fascismo
non era rappresentato dalla paura razionale della repressione
(questa passava in secondo piano agli occhi di chi non si riteneva,
a vario titolo, destinatario delle violenze di stato), ma dalla
paura irrazionale dell’altro da sé, il quale invece perversamente si
desiderava divenisse oggetto della repressione statale. Il problema
individuato da Reich è che alla gente il totalitarismo in fondo può
piacere e probabilmente più della democrazia, non in assoluto ma in
determinate condizioni di produzione dei soggetti. Chiaramente non è
così per tutti, ma è così per una parte consistente della
popolazione che al momento giusto, nelle adeguate condizioni, riesce
a diventare maggioranza sociale. Questa parte della popolazione,
fatta da gente normalissima, rappresenta una base sociale sulla
quale il fascismo si innesta sfruttando i momenti ad esso più
propizi, ma non è il fascismo a creare la sua base sociale, quella
già esiste. Bisogna allora chiedersi perché questa esista e dove si
produca. In questi tempi neri che siamo costretti a vivere ognuno di
noi avrà fatto l’esperienza diretta di scoprire venature reazionarie
più o meno definite e coscienti in persone a noi vicine,
insospettabili a prima vista, che non aspettavano altro per potersi
manifestare, uscendo finalmente allo scoperto. Questo manifestarsi è
uno sgorgare piuttosto improvviso di un sentimento fascista che era,
fino a quel momento, latente.
La produzione della reazione
È proprio da questo nucleo di riflessioni
che muovono gli autori dell’Anti-Edipo (dato alle stampe nel 1972)
nella loro analisi del perché accade che «Si vedono i più sfavoriti,
investire con passione il sistema che li opprime»[2].
Deleuze e Guattari partono da Reich e dal ribaltamento del
pregiudizio che vede il fascismo come un fenomeno violento
sostanzialmente imposto alla società mediante la coercizione. Questo
pregiudizio spiega alcune cose ma non tutto e già Gramsci, in
effetti, parlava di possibilità combinatorie tra coercizione e
consenso nella dialettica del potere. Nell’anti-Edipo la scena è
dominata dal ruolo dell’inconscio, ruolo che non necessariamente è
in sintonia con quello svolto dalla coscienza, con la conseguenza,
tutt’altro che piacevole, di una possibile e, in fondo, sempre
agente contraddizione tra il cosciente e il pre-cosciente
all’interno del medesimo soggetto. Lo svolgersi di questa
contraddizione quasi mai è patente con l’effetto che il soggetto può
benissimo credersi un gran rivoluzionario pur avendo comportamenti e
paranoie tipiche di un reazionario. E chiunque abbia frequentato
ambienti politici di sinistra può ben rappresentarsi tutto un
inventario di tipi umani sedicenti rivoluzionari o meno ma
stranamente in disaccordo su qualsiasi argomento non rispondente
all’autorità di una forma riconosciuta ed accettata di ideologia
(qui intesa come autorità indiscutibile) o di capo. Anche la storia,
soprattutto post-sessantottina, offre una serie mirabile di
soggetti, gli esempi si sprecano, che dalla primitiva schizofrenia
tra un inconscio reazionario e una coscienza volenterosamente
rivoluzionaria, risolta temporaneamente a favore della seconda in un
contesto politico che imponeva una sorta di morale anti-reazionaria,
hanno alla fine abdicato al proprio istinto mettendosi finalmente in
armonia, al primo cambio di clima politico, con la reazione che
albergava in loro. Il tradimento non è arrivato successivamente, per
un qualche motivo, ma è sempre stato lì pronto a venire fuori al
momento giusto. Anche perché il tradimento non è il cedimento ad un
interesse del momento, un rivoluzionario è incapace di tradire se
non è prima un traditore. Il problema del tradimento delle
rivoluzioni può essere sintetizzato così: si vuole far compiere la
rivoluzione a dei reazionari (che non sanno di esserlo). Gli autori
dell’anti-Edipo analizzano le dinamiche di gruppo, ma c’è tutto un
gruppo già solo all’interno di un solo individuo, per cui essi
individuano come due poli dell’inconscio ai quali il soggetto tende
anche più o meno stabilmente. Di questi due poli uno è quello
paranoico, l’altro quello “schizo”. «Tra lo schizo e il
rivoluzionario c’è esattamente la differenza che passa tra chi fugge
e colui che sa far fuggire ciò ch’egli fugge»[3],
nulla assicura che lo schizo produca un rivoluzionario «Lo schizo
non è rivoluzionario, ma il processo schizofrenico (di cui lo schizo
non è che l’interruzione, o la continuazione nel vuoto) è il
potenziale della rivoluzione», allo stesso modo la paranoia a monte
del carattere fascista non implica per forza un camerata attivo e
consapevole. I caratteri pre-consci possono mischiarsi secondo tutta
una teoria di sfumature con investimenti di tipo conscio più o meno
efficaci nel mascherare le impostazioni di base, se così si può
dire. Ora, sono gli stessi autori a dirlo, accade che molti tra
coloro che hanno o dovrebbero avere un interesse oggettivo
rivoluzionario mantengono un investimento preconscio di tipo
reazionario e, più di rado, che certuni, il cui interesse è
oggettivamente reazionario, operino un investimento preconscio
rivoluzionario[4] (citato non letteralmente).
Sostanzialmente accade più facilmente, anche solo per una questione
numerica, che si possa scorgere un reazionario tra chi non dovrebbe
esserlo e non, viceversa, un rivoluzionario tra chi non dovrebbe
esserlo, da un punto di vista ovviamente degli interessi di classe.
In un modo o nell’altro il bilancio finisce sempre per essere
sfavorevole alla rivoluzione e favorevole alla conservazione delle
condizioni date. L’anti-Edipo è un testo fondamentale per la teoria
politica pur non essendo, apparentemente, un testo di teoria
politica. Il suo principale obiettivo è capire perché ogni volta
riaccade la sconfitta della rivoluzione, tanto da diventare,
lentamente, una sconfitta scontata. Questo testo getta una luce
nuova su tutto l’enorme problema del tradimento, ma nella risposta
che dà alla domanda: come evitare che accada sempre daccapo?
probabilmente non risponde, nonostante l’apparenza. Sin dal titolo
il testo individua chiaramente il problema. Ma è Edipo[5]
stesso che esistendo non permette la propria negazione. Infatti
accade che se il complesso edipico trova nella famiglia il proprio
luogo privilegiato di azione non è possibile liberarsene in quanto
ciò richiederebbe una rivoluzione sociale capace di superare la
famiglia quale nucleo elementare della struttura sociale, ma questa
rivoluzione è resa impossibile dal complesso edipico stesso, il
quale crea il traditore della rivoluzione prima che questa possa in
qualche modo essere concepita. In sostanza l’eliminazione delle
condizioni sociali di edipizzazione dei soggetti diventa condizione
necessaria, non sufficiente, per poter concepire una rivoluzione e
allora si sta dicendo che bisogna intervenire sulle condizioni di
produzione dei soggetti prima di poter chiamare questi soggetti a
cambiare il modo di produzione del capitale, che poi è modo di
produzione non solo di merci ma di soggetti stessi. Ma si tornerà
più avanti sulla questione se possano esistere, in questo modo di
produzione, delle condizioni di produzione dei soggetti diverse da
quelle edipiche. L’anti-Edipo conduce una battaglia serratissima nei
confronti del freudismo, in parte continuando quando iniziato da
Reich, ma così facendo finisce per spostare il fuoco della critica
sulla psicanalisi piuttosto che sulla struttura sociale che ha
permesso alla psicanalisi di prosperare, che invece è la vera
questione. Infatti la domanda che gli autori dell’anti-Edipo alla
fine non si pongono è: dato che i soggetti tendenzialmente
paranoici, come quelli tendenzialmente schizo, sono numericamente
determinati in un certo momento cosa li avrà preventivamente
prodotti? Si dirà che è ovvio: la famiglia in prima istanza,
l’intera società in seconda. Questo è naturalmente scontato, ma se
la famiglia e la società sono condizioni standard, almeno in un
determinato contesto storico, cosa produce un potenziale fascista o,
viceversa, un potenziale rivoluzionario dal momento che la loro
massa non è comunque predeterminata? E in definitiva esisterà un
modo per evitare la produzione di soggetti paranoidi potenzialmente
fascisti?
Abortire Edipo
Gli autori dell’anti-Edipo conoscevano
bene Wilhelm Reich, ma nella loro opera, al contrario, non compare
mai il nome di quella figura che per certi versi, anche se su un
fronte non specificamente psicoanalitico (e non specificamente
marxista), rappresenta una sorta di Reich nostrana. Ma sono
giustificati per questo, essendo francesi. Si tratta, e qualcuno
potrà restarne sbalordito, di Maria Montessori. Il discorso partito
dalla sua radice politica, dopo aver deviato in un binario
psicoanalitico approda alla pedagogia per, infine, ritornare alla
politica con i suoi effetti. La focalizzazione sulla pedagogia è, se
si pensa, la ovvia conseguenza dell’anti-Edipo, anche se le vie più
banali, a volte restano inesplorate. È rara infatti, per non dire
inesistente, l’attenzione politica alla pedagogia: questa perfetta
sconosciuta. Per trovare un politico che trattava, tra le altre
cose, anche di pedagogia bisogna probabilmente tornare a Gramsci, al
quale certo non sfuggiva l’importanza dei modelli educativi che una
scuola di Stato propone. Se le condizioni in cui il bambino si viene
a trovare sono costituite dalla famiglia in prima istanza e dalla
società in seconda, quest’ultima si manifesta al bambino
originariamente attraverso la scuola dell’infanzia e primaria. Il
ruolo svolto dalla scuola non può in nessun modo essere considerato
secondario o addirittura ininfluente. Al contrario c’è un perfetto
disinteresse politico rispetto alla scuola. Va detto chiaramente:
ciò che succede nella scuola, come questa funzioni e in base a quali
teorie pedagogiche si formino generazioni e generazioni di soggetti
è un problema completamente trascurato dalla politica a dispetto
dell’ossessività con la quale, soprattutto in Italia, essa
interviene nella riformare permanentemente l’istituzione scolastica.
Il riformatore compulsivo sembra non conoscere lontanamente
l’oggetto del proprio intervento, attribuendo agli aspetti
organizzativo-economici, per non dire contabili, la totalità della
propria attenzione e trascurando completamente l’aspetto pedagogico,
curiosamente immune da qualsivoglia tentativo di riforma. Non molto
diversamente si può dire del personale scolastico, il quale almeno
percepisce l’esistenza di un problema che tenta di risolvere a suo
modo, senza che per altro possa trovare guide di sorta in grado di
illuminargli il percorso, al di fuori di sentieri di ricerca e
comprensione battuti per lo più personalmente e in splendido
isolamento. Ma è il caso di capire in che modo Montessori entra a
pieno titolo in questo discorso. In Montessori, al di là del suo
metodo didattico, esiste una critica profonda e probabilmente senza
appello, al modo di produzione del soggetto nella società
contemporanea. Il suo metodo è concepito in modo da negare le
condizioni che, normalmente, a loro volta negano le possibilità che
la psiche del bambino possa svilupparsi secondo un piano naturale,
dove per “naturale” deve intendersi qualcosa di completamente
sconosciuto perché sostanzialmente annientato dalla cultura
educativa dominante, la quale, al netto della medicalizzazione della
società, persiste praticamente immutata dall’alba della
civilizzazione. Quindi la critica alla cultura educativa
contemporanea è allo stesso tempo la critica alla cultura educativa
tout court. Su questo stesso tema è stato pubblicato anche
un recentissimo lavoro dell’antropologo Matteo Meschiari intitolato
Bambini. Un manifesto politico, che ugualmente ai francesi
dell’Anti-Edipo, però pare ignorare la nostra Reich. Meschiari
afferma, dal suo punto di vista, che il capitalismo è nato almeno
diecimila anni fa, con l’accumulazione originaria. Sappiamo che così
non è, ma sappiamo anche che il capitalismo non butta a mare ciò che
gli può tornare utile, come ad esempio un modello di riproduzione
sociale basato sulla repressione dell’autonomia di giudizio del
soggetto e sulla speculare necessità della sua etero direzione.
Tutto questo apparato di riproduzione sociale era certamente già in
essere ben prima dello sviluppo capitalistico dell’economia ed il
capitalismo non ha dovuto che incorporare e, al limite, perfezionare
e sistematizzare quanto ereditato. Da questo punto di vista è
perfettamente normale che la pedagogia in generale e montessoriana
in particolare, resti quasi del tutto sconosciuta alle istituzioni
educative operanti nel capitalismo e cioè la famiglia e la scuola,
dal momento che queste si pongono quali istituzioni conservative per
eccellenza. Ovviamente ciò che qui interessa non è il metodo
montessoriano inteso come tecnica didattica ma gli obiettivi che il
modello pedagogico si prefigge insieme alla critica implicita dei
metodi educativi dominanti, i quali costituiscono chiaramente
l’insieme delle tecniche di riproduzione dei soggetti nel modo di
produzione capitalista.
Da Trotsky a Montessori il filo rosso del
pensiero antiedipico
«Desiderare di trasformare gli uomini
adulti è vano»[6]. Quest’unica frase, che
andrebbe presa alla lettera, demolisce l’intero presupposto su cui
si basa la politica intesa nel senso nobile di chi milita nella
speranza che un giorno le idee giuste avranno la meglio su quelle
sbagliate. In politica la ragione ha poca responsabilità purtroppo e
questo è noto almeno dai tempi della decostruzione della morale
operata da Nietzsche. È ben altro ciò che agisce sulle scelte
politiche delle persone. Per Montessori molto prima che per
Meschiari, il bambino è l’unico strumento possibile per il progresso
politico e sociale dell’umanità. Vale la pena di riportare il
seguente stralcio: «L’infanzia è un periodo veramente importante
poiché quando si voglia infondere nuove idee, modificare o
migliorare abitudini e costumi del paese, accentuare più
vigorosamente le caratteristiche di un popolo, dobbiamo prendere
come strumento il bambino poiché assai poco si ottiene agendo sugli
adulti. Se si aspira realmente a condizioni migliori, a una maggiore
luce di civiltà nel popolo, bisogna pensare al bambino per ottenere
i risultati a cui si mira. […] Per esercitare un’influenza sulla
società è necessario orientarsi verso l’infanzia»[7].
Come non riconoscere in questa posizione un vero e proprio manifesto
politico, tra l’altro scritto nel 1952 e quindi con una tempestività
perfetta per la Repubblica italiana nata da pochi anni? Ma in
generale il pensiero montessoriano è rimasto per lo più relegato al
mondo della scuola considerato, quest’ultimo, come non comunicante
con quello reale e perciò abbastanza ignorato dalla politica.
Infatti i risultati sono sotto gli occhi di tutti. La società
continua a produrre, come prima e più di prima, soggetti paranoidi a
settant’anni dalla fine del fascismo politico e dalla nascita delle
istituzioni repubblicane, tra le quali anche la scuola pubblica
contemporanea. Ma se il messaggio politico montessoriano è chiaro
bisogna capire quali sono i suoi presupposti scientifici. Per
Montessori l’infanzia rappresenta un’esclusività umana rispetto alle
altre specie animali, dal momento che per l’uomo non esistono
movimenti coordinati innati, né fini e che questi deve costruirseli
da solo[8]. Ne consegue che per l’uomo si danno
due momenti formativi, il primo pre-natale e funzionale alla
formazione embrionale degli organi, si può dire fisico, il secondo
post-natale e funzionale alla formazione della mente, cioè psichico.
Ma il secondo periodo formativo, contrariamente a quello che si
tende a credere, ha anch’esso una durata molto limitata: l’infanzia
appunto ed avrà conseguenza su tutto il resto dell’esistenza del
soggetto. Ciò che accade durante la formazione post-natale è
determinante, nel bene e nel male, per il comportamento sociale del
soggetto, vale a dire per il suo carattere individuale e per il
personale modo di porsi nei confronti dell’altro da sé. In questa
fase fondamentale della formazione del soggetto, la società attuale
non pone attenzioni superiori o diverse da quanto non abbia fatto in
passato, con la conseguenza che l’infanzia si svolge oggi come in
passato, a meno, ovviamente dei progressi medici, nel senso che si è
ridotta senz’altro la mortalità infantile senza però che questo
abbia influito più di tanto sulle condizioni in cui il bambino forma
la sua psiche. È cioè proprio l’aspetto formativo essenziale
dell’uomo ad avere ricevuto meno attenzioni scientifiche ed in
questo senso è proprio Montessori a rompere questa regola, ponendo
per prima, e in splendida solitudine, l’accento sull’importanza
dell’infanzia. Basandosi sulle ricerche degli psicologi «benché le
loro interpretazioni siano illustrate solo secondo concetti
freudiani»[9], Montessori si sofferma sulle
cause che provocano l’emersione dei cosiddetti “caratteri
regressivi” nei bambini, cioè quelle manifestazioni di una «specie
di decisione inconscia dell’essere neonato: andare indietro, cioè
regredire, anziché progredire nello sviluppo», una sorta di reazione
all’inospitalità del mondo adulto che spinge il neonato a tornare da
dove è venuto. Montessori parla di una serie di caratteri regressivi
e porta l’esempio del sonno troppo lungo quale rifugio del neonato
nel regno della subcoscienza. Un bambino preda di caratteri
regressivi manifesta una sorta di sgomento verso il mondo,
condizione che se resa persistente farà del bambino un adulto che
«avrà sempre repulsione per il mondo, paura d’incontrarsi con altre
persone e sarà sempre timido»[10]. Il ritratto
perfetto del paranoide delineato da Deleuze e Guattari
nell’Anti-Edipo. «La nostra trascuranza non fomenta ribelli, come
sarebbe fra gli adulti, ma forma individui che sono più deboli di
quello che dovrebbero essere; forma caratteri che diverranno un
ostacolo alla vita dell’individuo e individui che saranno di
ostacolo al progresso della civiltà»[11].
Poteva dirlo in modo più chiaro?
La funzione educativa della scuola
La “trascuranza” verso i bambini è il
tratto caratterizzante della pedagogia tradizionale ed è la
condizione che i bambini, in generale, vivono venendo al mondo.
Sembra una bestemmia, eppure Montessori non si riferisce alle cure
fisiche che il neonato riceve, per quanto conduca una critica
serrata anche di quelle, ma all’ignoranza dell’adulto nei confronti
della psiche dei bambini, oggetto sconosciuto e mai indagato
profondamente, ignoranza paragonabile a quella nei confronti della
psiche umana prima di Freud. Questa ignoranza diffusa in tutte le
culture assume tratti di vera e propria teoria di pratiche
addirittura dannose per la crescita psichica dei bambini. La
disamina delle pratiche educative diffuse e delle conseguenze di
queste sui comportamenti dei bambini la si può trovare in un’altra
opera di Montessori[12], scritta nel 1950.
Qui, tanto per fare degli esempi, l’autrice mette in relazione tra
loro le pratiche educative errate e i comportamenti “regressivi” dei
bambini come: attaccamento, possesso, potere, complesso di
inferiorità, paure, bugie e così via. Un esempio per tutti è quello
che riguarda l’importanza dell’utilizzo delle mani per lo sviluppo
mentale stesso del bambino. Montessori sostiene che la manualità è
fondamentale nelle prime fasi dell’esistenza umana non tanto per lo
sviluppo della manualità stessa ma per lo sviluppo corretto
dell’intera personalità. Se questa è una necessità vitale, e nessuno
si sentirebbe di negarlo, accade anche correntemente di accettare
come giusta la continua inibizione della curiosità tattile dei
bambini con un classico della tradizione educativa ovvero il “non si
tocca”. Sulla negazione e l’inibizione della curiosità infantile è
basata gran parte della pedagogia tradizionale. Non è questa
l’occasione per commentare nello specifico le analisi di Montessori,
ma risulta più importante stabilire il luogo principale della
deviazione dello sviluppo psichico o mentale del bambino dal
percorso che potrebbe seguire in assenza dell’intervento repressivo
dell’adulto: la famiglia. Montessori non individua esplicitamente
nella famiglia il problema, pur criticando l’impreparazione
(pedagogica) dei genitori, che possono perfettamente non avere
nessuna cognizione circa il proprio ruolo pur trovandosi,
naturalmente, a svolgerlo. Senza negare la funzione dell’istinto
genitoriale si può facilmente comprendere come questo possa avere un
ruolo fondamentale per quanto concerne i bisogni fisiologici del
bambino, ma come non possa, per sua natura, incidere sui bisogni
della mente, che Montessori chiama “spirituali”, i quali chiamano in
causa direttamente l’educazione e quindi la teoria, o se si vuole,
l’ideologia che la informa. Per questo motivo per Montessori la
scuola assume il ruolo fondamentale di luogo in cui compensare
quanto la famiglia scompensa. Essa diventa quindi il luogo
strategico della società che dovrebbe costruirsi sulla negazione
delle condizioni che normalmente negano la corretta crescita mentale
dei bambini. L’edipizzazione del soggetto viene qui affrontata alla
radice. L’esperienza delle case dei bambini lascia ben sperare, in
quanto sembra che attraverso un approccio pedagogico corretto sia
possibile recuperare dai tre ai sei anni, quanto dovesse essere,
anche involontariamente, represso in contesto familiare da zero a
tre anni. Il problema è che purtroppo la scuola, in generale, non
avendo una chiara impostazione pedagogica non garantisce in nessun
modo la compensazione necessaria, mentre finisce per avvallare e
addirittura accentuare le deviazioni della crescita verso i
caratteri regressivi dei bambini. La scuola infatti si configura
piuttosto come il luogo in cui le pratiche educative della
tradizione si fanno teoria e si applicano intensivamente. Da questo
punto di vista la scuola, anziché prendere la direzione auspicata da
Montessori, permane nell’impostazione ottocentesca che Foucault
descriveva come “disciplinare” (anche se in relazione soprattutto
alle istituzioni dello Stato più specificamente funzionali a questo
ruolo). Ma in fondo la scuola è stata e rimane una delle poche
istituzioni statali basate sulla concentrazione e l’applicazione a
grande scala di dispositivi di repressione della personalità umana.
A questo punto diventa chiaro come il fuoco di tutto il discorso sul
tradimento della rivoluzione, cominciato con Trotsky, finisca per
girare attorno al destino della scuola. Messa così sembra
addirittura banale eppure mai si è pensato alla politica come
stretta conseguenza della pedagogia di stato. In sostanza la
politica come sistema di potere e come lotta ideologica per lo
stesso si dà nella forma conosciuta di perversione/tradimento di
qualsiasi suo proponimento originario, nel lasso di tempo necessario
alla sua realizzazione, esattamente in ragione del modello
tradizionale di produzione del soggetto, che a differenza di tante
altre istituzioni non è stato mai messo seriamente in discussione,
pur permanendo in linea di massima invariato da periodi storici
precedenti a quelli in cui si è sviluppato ed affermato il
capitalismo. Il capitalismo attraverso la sua istituzione educativa
per eccellenza: la scuola; non ha cambiato il modo di formare
soggetti, e perciò il proprio approccio verso l’infanzia, rispetto
ai periodi precedenti. Ha invece universalizzato un modello
pedagogico basato sulla repressione dell’autonomia del soggetto e
mirato a configurarsi quale “fabbrica di ubbidienza”[13].
Esiste uno scritto di Montessori intitolato Educare alla libertà.
È evidente che l’opera montessoriana si pone come il vero antidoto
all’edipizzazione altrimenti pressoché meccanica del soggetto nel
contesto educativo culturalmente dominante. Per questo motivo
salvare il concetto di rivoluzione dalla perversione del tradimento
di se stessa implica la rivoluzione della pedagogia che da modello
basato sul fondamento della necessità dell’etero-direzione del
soggetto viri finalmente verso la valorizzazione del concetto di
autonomia del soggetto, che non può darsi al di fuori dell’autonomia
psichica del bambino. Il lavoro va impostato all’asilo se non si
vuole ricominciare sempre d’accapo e la speranza è quella di poter
approfittare del generalizzato disinteresse della politica in tale
senso. Si tratta ovviamente di un’indicazione programmatica utile
anche e soprattutto per la ricostruzione di una sinistra politica
finalmente immune dal tradimento e meno disattenta ai processi di
crescita e formazione dell’umanità.
LUGLIO 2019
[1] G. Lukàcs,
Considerazioni
metodologiche sulla questione dell'organizzazione in
Storia
e Coscienza di classe, Sugar Editore, Milano 1967.
[2] G. Deleuze, F. Guattari,
L’anti-Edipo. Capitalismo e schizofrenia. Einaudi, 2002, pag.
397.
[3] Ibidem, p. 391
[4] Ibidem, p.395.
[5] Per comprendere, ove non fosse chiaro,
il senso di questa affermazione, si consiglia la lettura del testo
dei filosofi francesi, i quali individuano nel freudiano “complesso
edipico” il luogo psichico in cui alla società capitalistica riesce
la sostanziale tipizzazione del soggetto secondo le proprie
compatibilità sociali, attraverso l’inibizione dei caratteri più
irriducibili del desiderio considerato quale reale motore
dell’inconscio. Cfr. anche A. D’Aloia,
Storia e (in)coscienza di
classe in «Città Future n. 02 – Ottobre 2010», link:
http://www.cittafuture.org/02/01-Storia-e-(in)coscienza-di-classe.html.
[6] M. Montessori,
La mente del bambino,
Garzanti, Milano 2017, pp.66-67.
[7] Ibidem.
[8] Ibidem, p. 74.
[9] Ibidem, p. 76.
[10] Ibidem, p. 78.
[11] Ibidem, p. 79.
[12] M. Montessori,
Il segreto
dell’infanzia, Garzanti Milano, 1999.
[13] E. Rea,
La fabbrica
dell’obbedienza. Il lato oscuro e complice degli italiani,
Feltrinelli, Milano 2011.