CONTRO L'URBANISTICA - Una recensione del libro di Franco La Cecla
Alessandro D'Aloia
«Serve una nuova scienza del capire e fare città
che parta dall’urbano come esperienza vissuta dei suoi abitanti». In
questa affermazione di Franco La Cecla[1],
prevale forse il suo lato da antropologo rispetto a quello da
architetto. Non che essa non sia condivisibile, però avrebbe senso anche
in questa versione: Serve una nuova scienza del capire e fare città che
parta dall’urbano come esperienza spaziale dei suoi abitanti. In
questo modo l’enfasi sarebbe sulla spazialità come contesto
dell’esperienza più che sul vissuto delle persone, inteso in generale.
Si tratterebbe di una critica all’urbanistica ancora più mirata, dal
momento che quello che sembra mancare, ormai del tutto, in questa
disciplina ‘parametrizzata’ è la preoccupazione degli effetti spaziali
delle scelte o, se si preferisce, delle non-scelte che essa talvolta
opera. È in questa chiave che leggendo l’epigrafe in copertina si coglie
meglio il senso del breve e provocatorio libricino intitolato Contro
l’urbanistica[2],
ormai in circolazione già dal 2015. In effetti sembra che
dell’urbanistica, per come è diventata, se ne abbia davvero poco
bisogno. Ma è meglio capire perché secondo La Cecla.
«L’urbanistica è incapace di conoscere quello che
avviene nelle città perché è chiusa dentro parametri numerici e “liste”»[3].
«Il problema vero dell’urbanistica è di non essere riuscita a costruirsi
come una disciplina di osservazione, di ascolto e di interpretazione
delle realtà urbane»[4].
«A differenza delle altre discipline che hanno a che fare con il
sociale, essa si ostina a rimanere in un ambito che è preda degli
esperti di proiezioni statistiche»[5].
È possibile capire da queste affermazioni come
l’autore del libro critichi il settorialismo dell’urbanistica quale
disciplina arroccata in un proprio linguaggio asettico, incomprensibile
ai più e per questo meglio funzionale ai meccanismi che stanno dietro il
conformarsi della città concreta. La Cecla prende di mira la
‘parametrizzazione’ della disciplina, la sua chiusura ‘burocratica’, la
sua sottrazione al mandato sociale che invece dovrebbe informarla. In
sostanza a pensarci bene questi tre aspetti negativi sono forse
riconducibili tutti al primo, a quello che si potrebbe cioè definire il
problema dell’ingegnerizzazione dell’urbanistica. È infatti
chiaro da un po’ di tempo come i piani urbanistici siano del tutto privi
di risvolti ‘spaziali’ dei loro contenuti tutti ricompresi in indici,
zone, norme, fasce di rispetto e così via, che pur essendo, a loro modo,
strumenti ‘conformativi’ non provengono certo dal medesimo alfabeto
dell’architettura, fatto di tipologie edilizie, di regole di
aggregazione codificate nei secoli, di materiali, di combinazioni
specifiche e singolari (situate) di questi elementi. Non può valere qui
l’osservazione che riconduca questi elementi all’attinenza ad un’altra
disciplina, che è per l’appunto l’architettura. Questa osservazione
sarebbe fuorviante, dal momento che l’urbanistica altro non è che il
modo in cui le architetture stanno insieme. Non si parla dunque di cose
differenti. La materia è sempre la stessa e se lo specifico
dell’architettura è lo spazio, questo non può non essere ugualmente lo
specifico dell’urbanistica, che semmai si concentra sulla dimensione
pubblica dello spazio piuttosto che sullo spazio in generale,
condizionando quello privato[6].
Continuando nella lettura di Contro
l’urbanistica, viene fuori come anche per il suo autore in
definitiva l’urbanistica sia una disciplina moderna, nata cioè
recentemente. Questa posizione, data generalmente per scontata, va
indagata meglio. La domanda che sorge subito dopo questa constatazione
è: se l’urbanistica è nata sostanzialmente con l’industrializzazione,
quale disciplina era quella praticata dai greci, dai romani, nel
medioevo e così via, che ha conformato, molto meglio che
successivamente, la città? Si trattava o meno di una disciplina autonoma
rispetto all’architettura? A ben pensarci, il termine urbanistica è
ambiguo. È come se ci fossero due urbanistiche, quella antica della
‘forma della città’, e quella attuale della ‘norma della città’ che però
non ne contempla la forma. In effetti quando all’università si segue il
corso di ‘storia dell’urbanistica’ che forse andrebbe chiamato
diversamente, ci si rende conto di essere in un ambito del tutto
separato da quello dei corsi di urbanistica, che in genere stanno a metà
tra i due estremi della storia delle forme della città e il diritto
urbanistico, ovvero la storia delle norme che formano l’attuale quadro
della legislazione ‘urbanistica’. Secondo Manfredo Tafuri, (Progetto
e utopia. Architettura e sviluppo capitalistico) la scissione tra
architettura ed urbanistica, si è avuta quando negli Stati Uniti, si
sono cominciate a pianificare le città secondo rigide griglie che da un
lato assicuravano un controllo sullo sviluppo urbano, dall’altro
lasciavano piena libertà di conformazione degli elementi architettonici
che costituivano gli isolati, libertà piena che era ovviamente
apparente, dal momento che non riguardava più la forma della città ma
solo l’architettura degli isolati. In questo modo la libertà ‘piena’
dell’architettura era però condizionata dalla regola urbanistica della
griglia, il che si risolveva in un generale ‘ingrigliamento’
dell’architettura come disciplina, condizione che ovviamente permea i
modi di fare attuali, ormai in tutto il mondo, sancendo per altro una
‘americanizzazione’[7]
strutturale delle pratiche conformative dello spazio urbano, se non
ovviamente sul piano dell’affermazione di una regola urbana di
riferimento almeno sul piano della totale, e spesso vuota, anarchia
delle forme architettoniche. Secondo Tafuri è dunque condivisibile la
tesi della separazione recente tra architettura ed urbanistica, come
prodotto della settorializzazione generale che lo sviluppo capitalistico
ha comportato nelle attività umane, mentre prima la scala, pur urbana,
degli interventi non era considerata cosa diversa dall’architettura e
tantomeno ritenuta competenza diversa da quella degli architetti. Per
restare al problema è forse necessario ricordare come ci si sarebbe
aspettato una sorta di rientro dell’urbanistica nell’alveo
dell’architettura a seguito dell’uscita de L’architettura della città
di Aldo Rossi, il quale tentava proprio di ricondurre nei termini
dell’alfabeto architettonico il dibattito urbano, ormai completamente
sfuggito dal proprio ambito. Nella stessa direzione andavano i coevi
studi sulla semiotica architettonica, i quali analizzando la disciplina
con i criteri che si applicano di norma ai linguaggi non facevano altro
che porre la necessità di considerare il fenomeno spaziale ed urbano con
le categorie proprie del suo manifestarsi piuttosto che con strumenti
estranei mutuati soprattutto dalle discipline deterministiche, basate
cioè sull’esattezza della ‘quantificazione’ in opposizione alla
fuggevolezza della ‘qualificazione’. Purtroppo si deve constatare che
l’auspicato ritorno alla dimensione qualitativa degli interventi non è
avvenuto e che anzi l’urbanistica ha continuato la propria parabola di
astrazione, con questo allontanandosi sempre più dall’intenzione di
tradursi in forma. Il risultato, assolutamente paradossale, è che la
città quale espressione somma del linguaggio architettonico, non è più
nel suo insieme oggetto dell’architettura, ma di un’urbanistica
sterilizzata e rarefatta sul piano della conformazione spaziale. La
Cecla sintetizza tutto questo nel modo seguente citando il filosofo che
di più di tutti ha dedicato alla città la sua riflessione: «Cosa è
potuto accadere da far dire a Henri Lefebvre nel suo Il diritto alla
città (1967) che il problema è che l’urbanistica ha ucciso
l’urbanità»[8].
Per Lefebvre cioè urbanità ed urbanistica non sono più vicendevolmente
implicate. L’urbanità diviene allora un valore a sé, un obiettivo da
perseguire piuttosto che una qualità intrinseca delle città. Se allora
non è detto che un agglomerato urbano abbia per forza una qualità
‘urbana’, bisogna ammettere che accanto a ciò che definiamo ‘città’
debba esistere qualcosa che città non è. Ed in effetti, a ben
rifletterci, se la non-città è in molti casi quella non
pianificata, in troppe occasioni essa è anche quella pianificata. La
domanda è allora: come è potuto accadere che la città viene meno, cessa
di manifestarsi e di conformarsi come luogo dell’urbanità, proprio
quando comincia la sua pianificazione urbanistica? Come è potuto
accadere che l’approvazione dei piani regolatori abbia finito per non
comportare assolutamente eventi “attuativi”, tanto da risultare, in
definitiva, indifferente alla cittadinanza la loro approvazione? Al
punto al quale si è ormai giunti basterebbe inoltre opporsi alla
separazione-sottrazione dell’urbanistica dal campo dell’architettura? E
come si esce, se si esce, da questa situazione? La Cecla pone il
problema del rapporto tra l’architetto-urbanista e la propria
committenza. Problema cruciale già in passato evidenziato da Giancarlo
De Carlo, quando diceva:
Benché la società contemporanea sia più
pluralistica di quanto non sia stata in passato, accade che la gente
comune venga sempre più esclusa dalle grandi decisioni. Nel campo
dell’organizzare e formare lo spazio fisico, dove un tempo ogni essere
umano era protagonista, nessuno può decidere non solo come sarà la sua
abitazione, ma neppure dove potrà abitare. Tutto è già stato
prestabilito da chi controlla i suoli, indirizza l’espansione della
città, apre autostrade, distrugge foreste, inquina […]. Il problema è
nella sua sostanza politico ma riguarda anche l’architettura che a
questo punto deve decidere se il suo cliente è l’anonimo potere
economico o burocratico, oppure gli esseri umani che la esperiscono come
un’essenziale componente della loro scena ambientale[9].
Per De Carlo la soluzione al problema
dell’isolamento teorico e sociale dell’urbanistica e dell’architetto è
nell’obiettivo che: «l’utente diventa lui stesso committente»[10].
La Cecla suggerisce di replicare nell’urbanistica quanto accaduto
nell’architettura.
In architettura nel frattempo c’è stato un
rinnovamento. Qualcuno ha cominciato a mettere in crisi la figura
dell’architetto e il suo ruolo nella società. E ha cercato nuove strade.
Tra le prime: la ridefinizione del rapporto con il cliente e con
l’opera. Se l’architetto deve trasformare il senso e la destinazione del
suo lavoro, è essenziale che sia lui a scegliersi la committenza,
privilegiando la committenza sociale, quella che ha più bisogno delle
sue competenze: dagli abitanti delle favelas ai soggetti
comunitari, dalle popolazioni indigene alle situazioni di emergenza,
terremoti, inondazioni, disastri umani e naturali. Dagli anni novanta in
poi in varie parti del mondo è nata l’idea che gli studi professionali
dovrebbero mutarsi in vere e proprie Ong che lavorino intorno a
“questioni sociali”. Per fare questo alcuni gruppi di professionisti si
sono consorziati utilizzando gli strumenti che la rete oggi offre e
hanno costituito degli studi che da un lato individuano il “dove
operare” e in rapporto a quali comunità, e dall’altro cercano fondi e
sponsor per il proprio lavoro. […] il gruppo più organizzato e
agguerrito è costituito oggi da Architecture for Humanity,
fondato una decina di anni fa da un giovane architetto inglese
trasferitosi in California, Cameron Sinclair. […] Il limite di Afh è che
opera in maniera molto “architettonica”, cioè su singoli edifici o
gruppi di residenze, servizi, ricostruzione di infrastrutture a volte,
ma non opera con una chiave più ampia rispetto alla città. Dico un
limite, ma è anche il suo merito, quello di contenersi in un ambito
architettonico. Ovviamente nel campo dell’urbanistica una cosa simile
deve ancora avvenire[11].
In sostanza l’autore di Contro l’urbanistica,
pone, come De Carlo, la questione dell’auto-committenza necessaria in
urbanistica. Solo immaginando un approccio alla Afh, applicato
finalmente alla scala urbana, potrebbe recuperarsi un senso
all’urbanistica, ma perché ciò possa avvenire sarebbe necessario che il
dottore possa intervenire direttamente sul malato senza dover chiedere
il permesso ad una politica, che in definitiva non glielo accorderà mai
dal momento che la politica considera l’urbanistica un ambito del
proprio potere. Il problema è quindi certamente posto nelle sue diverse
implicazioni, con esso anche la necessità di una nuova generazione di
architetti-urbanisti che sappia trovare il modo concreto di mettere ‘le
mani sulla città’ per poter, in fondo, fare il proprio lavoro. Il punto,
in effetti, è questo: il lavoro sulla città deve essere sottratto alla
politica per essere ricondotto nell’ambito delle competenze adeguate, le
quali devono operare in base alle necessità da loro stesse individuate
se non si vuole continuare a cercare soluzioni a problemi sbagliati. Il
paradosso di quest’epoca è, infatti, che quand’anche l’urbanista,
cioè l’esperto della città, riesca ad operare, lo farà solo su
indicazioni del politico-committente che però è esperto d’altro, nel
migliore dei casi. Dal momento che sulla città, sottratta ai suoi
studiosi, tutti si esprimono in libertà, accade che il tema di
discussione diventi veicolo di ideologie deliranti come quella che La
Cecla individua nella cosiddetta Bigness.
Oggi prevale una ideologia della
bigness che vede nell’ingrandirsi delle città la promessa di un
mondo di città globali che donerebbero al resto della società un effetto
di “prosperità”. Se si leggono i report di Un-Habitat sulle città
africane, asiatiche o dell’America Latina, o anche i report generali
sulla condizione urbana, la parola prosperity è quella che si
rintraccia più spesso. Ma a leggerli più in profondità si capisce che è
una pia illusione. Nulla dimostra che in effetti all’ingigantimento
della città corrisponda un miglioramento della condizione dei loro
abitanti. Quello che invece è chiaro è che la povertà mondiale si sta
concentrando nelle città. E non è detto che i poveri di città stiano
meglio di quelli di campagna. […]. Non si capisce perché i “trend”
osservati da Un-Habitat non debbano portare a politiche di correzione
invece che ad auspicare un mondo tutto urbano[12].
In sostanza il capitalismo trova sempre un modo
per magnificare i suoi effetti più devastanti. Questo si traduce, sul
piano ideologico, in una vera e propria allucinazione collettiva, quando
schiere di esperti cercano, con argomentazioni contortamente raffinate,
di dimostrare come la crescita smisurata e soprattutto incontrollata
delle megalopoli sia un bene per l’umanità e addirittura un viatico per
la prosperità.
Già la copertina del report Un-Habitat
sullo “Stato delle città del mondo 2013-2014” denuncia un partito preso.
Una ruota a cinque bracci porta sulla sua circonferenza environmental
sustainability, “sostenibilità ambientale, equityand social
inclusion, “uguaglianza e integrazione sociale”, quality of
life, “qualità di vita”, infrastructure, “servizi,
infrastrutture”, e productivity, “produttività”. Al centro di
queste virtù cardinali c’è l’effetto proposto, prosperity. Per
capire che c’è dietro occorre tornare al dibattito sulle città globali
lanciato in qualche modo da Saskia Sassen negli anni novanta. La Sassen,
analizzando tre grandi città mondiali, Tokyo, New York e Londra,
lanciava l’idea di città globale […], città che sostituiscono come poli
economici e politici le nazioni e che costituiscono una rete
interconnessa di interessi. La sua idea, che ebbe un immediato successo,
è che il futuro del mondo è legato al destino e alla crescita di queste
città globali. […]. Perfino la Comunità europea, in un continente in cui
le città si stanno contraendo e non espandendo, ha deciso di finanziare
solo i progetti di aree metropolitane in espansione. […]. Già dieci anni
dopo la Sassen si corregge e ammette che la devolution delle
nazioni è ancora lontana e che forse un mondo fatto di città globali è
da venire[13].
In realtà il dibattito degli anni novanta sulle
‘città globali’ altro non è che una riedizione del dibattito sulle
megalopoli avvenuto negli anni sessanta in seguito alla pubblicazione
nel 1961 di Megalopolis, da parte di Jean Gottman[14]
a cui già in passato fu opposto il paradigma della piccola dimensione
della città italiana come antidoto al vaneggiamento delle cosiddette
‘nebulose urbane’. Ma ogni venti o trent’anni qualche, non meglio
definito, esperto ricomincia a vagheggiare di città immense senza
rendersi conto di militare a favore di vere e proprie distopie, fornendo
copertura ideologica ad un capitalismo selvaggio in cerca costante di
teorie, anche prestigiose, che giustifichino la sua natura anti-urbana.
Infine in opposizione all’ideologia della bigness, La Cecla
sembra indicare in un approccio orientato all’attenzione per il piccolo
ed il singolare la via per guardare con occhi nuovi alla città, quando
citando la strategia elaborata da uno studio californiano per la Cina,
sembra voler indicare una contro-tendenza in atto:
Lo studio Calthorpe di San Francisco ha
elaborato per la Cina un piano di otto punti […]. Ecco gli otto principi
su cui si basa:
1.
Sviluppare quartieri che promuovono il camminare
a piedi.
2.
Dare la priorità alla rete di trasporto con la
bicicletta.
3.
Creare una trama densa di strade e sentieri.
4.
Sostenere il trasporto ad elevata efficienza
energetica.
5. Prevedere zone multiuso per i quartieri.
6. Accoppiare l’alta densità alle capacità di mobilità.
7.
Creare regioni compatte con transiti brevi.
8.
Aumentare e rendere efficiente la mobilità
regolando parcheggi e uso strada[15].
Il giro è un po’ lungo e contorto, addirittura
l’analisi di uno studio americano per delle città cinesi, che alla fine
non dice nulla di nuovo o di diverso da quanto già sostenuto negli anni
settanta da chi opponeva il modello della città storica italiana a
quello delle ‘nebulose urbane’, modello urbano, quello della città
storica italiana, dove in effetti si cammina a piedi, e si può andare in
bicicletta, in una trama densa di vicoli che percorrono quartieri
multifunzionali, con una elevata densità abitativa ed una certa
compattezza architettonica che permette di fare tragitti brevi ed
efficienti. Questo modello, è bello pensare, è quello che secondo La
Cecla si deve opporre alla periferia. Un modello che non è solo
architettonico, ma che rappresenta anche l’unica possibilità di
restituire a tutti il ‘diritto alla città’.
Quel che è sicuro è che dalle densità non
si può più prescindere. […]. Le periferie sono il pensiero sbagliato di
un’urbanistica che ha mitizzato la condizione operaia e le ha negato
però il centro delle città. […]. Il loro carattere sbagliato non è
formale, non c’entra nulla la dimensione del disegno o la qualità degli
edifici. C’entra l’errore concettuale del pensare che possa esistere una
cosa come la periferia[16].
La densità, in opposizione al mantra del
decongestionamento tanto in voga negli anni ‘60 e ’70 e che alla fine ha
prodotto le periferie (particolare forma di non-città). ‘Densificazione’
dunque quale valore da riconsiderare opportunamente in un’epoca in cui
in varie parti d’Europa le città medie e piccole decrescono, senza
volerlo. Bisogna tornare a guardare vicino e intervenire sulla città
pensando soprattutto a chi la abita.
Interpretando il suo pensiero [di Valerio
Paolo Mosco], credo che l’idea che l’urbanità sia un fatto di decoro e
non di slogan urlati riporti la questione che per i cittadini la
priorità non è che la loro città diventi un successo mondiale, ma che
sia un luogo dove la vita quotidiana favorisca coloro che “stanno”, come
direbbe Benjamin, [...] [17].
[1]
Antropologo culturale e architetto
italiano (n. Palermo 1950). Già docente di Antropologia
culturale presso la facoltà di Architettura di Venezia e alle
università di Verona e Palermo, oltreché in università straniere
quali la «École des hautes études en sciences sociales» di
Parigi e la «UC Berkeley», attualmente insegna Antropologia
culturale all'Università «Vita-Salute San Raffaele» di Milano e
al «Politecnico di Barcellona». Consulente del «Renzo Piano
Building Workshop» e di «Barcelona Regional», muovendosi da una
minuziosa osservazione del quotidiano e delle evidenze materiali
che lo compongono (Mente locale. Per un’antropologia
dell’abitare, 1993; con L. Vitone, Non è cosa. Non siamo
mai soli, 1998; Saperci fare. Corpi e autenticità,
1999; con M. Minnella, La lapa e l’antropologia del
quotidiano, 2005) ha approfondito il tema dell’impatto
sociale dell’architettura, indagando i modelli di organizzazione
dello spazio e le dinamiche interattive che essi generano e
sottoponendo la pratica dell'architettura contemporanea a una
critica radicale, compiutamente esposta nel controverso saggio
Contro l’architettura (2008) in cui ha accusato le
archistar della modernità di aver decostruito il tessuto
urbano e concentrato gli edifici residenziali in grandi aree
marginali, di fatto erodendo progressivamente forme primarie di
aggregazione sociale quali le relazioni di vicinato.
http://www.treccani.it/enciclopedia/franco-la-cecla/
[2]
Franco La Cecla, Contro l’urbanistica, Einaudi, Torino
2015.
[3]
Ibidem,
p. 13.
[4]
Ibidem,
p. 34.
[5]
Ibidem,
p. 35.
[6]
Renato De Fusco, Semiologia architettonica in nuce:
«L'indagine semiotica dell'urbanistica non può prescindere da
quella architettonica che, viceversa, può svolgersi con una
certa autonomia; donde il motivo per cui finora ci siamo
occupati della sola architettura ed abbiamo anteposto l’analisi
del segno architettonico a quella del segno urbanistico.
Tuttavia, la complementarità dei due sistemi non consente
ulteriori rinvii, imponendo un'accurata analisi di quest'ultimo.
Beninteso, parliamo di urbanistica – disciplina notoriamente
multiforme ed inclusiva dei più vari interessi – non nell'ottica
della pianificazione, ma nel senso dell'architettura della
città, ossia dal punto di vista morfologico, quello cioè più
pertinente all'attività dell’architetto, cercando di individuare
le stesse o le analoghe componenti segniche, le stesse dicotomie
forniteci dal modello linguistico e soprattutto le stesse
indicazioni delle teorie visibiliste utilizzate nella
definizione del segno architettonico.
Ne discende una considerazione cui già eravamo pervenuti per
altra via e cioè che, mentre l'architettura può essere
indipendente dall'urbanistica perché i suoi segni si organizzano
in un autonomo sistema, viceversa l'urbanistica non può
prescindere dall'architettura in quanto la componente
“significante” di ciascun suo segno si realizza solo in un
sistema di segni architettonici».
[7]
Americanizzazione è una grossa
e sottovalutata categoria gramsciana.
[8] La
Cecla, cit., p. 41.
[9]
Giancarlo De Carlo. Gli spiriti dell’architettura.
Editori riuniti, Roma 1992, p. XVI. Per approfondimenti Cfr:
Alessandro D’Aloia,
Spazio ed espressione. Partecipazione urbanistica, esperienza
chiusa o possibilità aperta?
in «Città Future» n. 07 – maggio 2012, ma anche:
Fabio Mangone,
Architettura e qualità nell’età dei concorsi, in
«Op.cit» n. 158.
[10] De
Carlo, cit., pag. 244.
[11] La
Cecla, cit., pp. 43-44.
[12]
Ibidem,
pp. 52-53.
[13]
Ibidem,
pp. 56-57.
[14] Cfr.
Alessandro D’Aloia,
Spiriti urbani. Cinque punti per un’architettura della città,
su Archigraphos.
[15] La
Cecla, cit., pp. 71-72.
[16]
Ibidem,
p. 72.
[17]
Ibidem, pp.
100-101.